H2O
Daniela Chieffo
Alle belle voci
di chi mi ha accolto
di chi ho cercato
di chi ho atteso
di chi mi ha ascoltato


Portiamo avanti con la storia raccontata da Daniela Chieffo la sezione dedicata alla migliore delle storie cliniche preparate per l’esame di fine training dagli allievi del Centro Studi. Un gruppo di didatti ha verificato, in un lavoro precedente pubblicato su “Ecologia della mente”, la validità terapeutica di questi interventi.



With the history by Daniela Chieffo we continue the section devoted to the best clinical case prepared for the final examination by the studente of the Centre. A group of teachers has verified, in a previous work published in “Ecologia della mente”, the validity of these interventions.



En esta sección dedicada a la mejor de las historias clínicas estudiadas para el examen de final de training de los alumnos del Centro Estudios, presentamos la historia escrita por Daniela Chieffo. Un grupo de autodidactas evalúan la eficacia y validez de estas acciones terapéuticas ya publicadas anteriormente en “Ecologia della mente”.


Riassunto. Il “modello familiare psicosomatico” fu il primo a includere sistematicamente il livello familiare e a considerare i fattori psico-biologici delle malattie infantili. Le famiglie psicosomatiche mostrano spesso i caratteristici schemi di interazione, invischiamento, iperprotezione, rigidità, mancata risoluzione dei conflitti o evitamento degli stessi. La riflessione sulle dinamiche materno-filiali rimanda spesso ai concetti di fusione e di separazione/differenziazione; è infatti nella dialettica tra questi due poli oppositivi e nella loro coesistenza che si struttura il processo di autonomizzazione e crescita, poiché esiste una sorta di continuità tra l’infanzia e la vita adulta rispetto al permanere o meno in uno stato di dipendenza o di falsa individuazione. All’interno di una psicoterapia familiare con una madre e una figlia, si delineano doppi percorsi di crescita e cambiamento e la narrazione di una storia clinica, non è mai solo narrazione dell’altro, ma diviene anche un’altra narrazione, così come narrazione del proprio percorso formativo. Una storia che si scioglie in immagini, una pellicola di frasi evocate, sognate e ritrovate altrove, magari anche un romanzo.

Parole chiave: sintomo, individuazione, differenziazione, ri-narrazione, fusione polarizzata, lealtà.


Summary. The “psychosomatic familiar model” has been the first model that has sistematically included the familiar level and that has considered psychobiological factors as possible causes of paediatric diseases. Psychosomatic families often show typical schemes of interaction, tangling up, hyper protection, rigidness, lack of resolution of interrelation conflicts or avoidance of them. Reflections about the interrelation among mother and children send back to the concepts of fusion and those of differentiation/separation; it is indeed in the dialectic among these opposite poles and in their coexistence that the process of self taking care and growth gets its structure, remembering the sort of continuity that joins infancy to adult life determining a state of dependence or of false self characterization. Inside a familiar psychotherapy, conducted with a mother and a daughter, there is an interchanging and double way of growth, and telling the own clinical history is never only telling the history of the other person, but also a report of the own way to get there. A history that loosen in images, a movie of evoked expressions, dreamed up and found in a different place, even a novel.

Key words: symptom, individuation, differentiation, renarration, polarized fusion, loyalty.

Resumen. El “modelo familiar psicosomático” fue el primero a incluir sistemáticamente el nivel familiar y en considerar los factores psico-biologícos de las enfermedades infantil. Las familias psicosomáticas mostran a menudo los característico esquema de interacción, involucración, hiper protección, rigidez, frustrada resolucción de los conflictos o de evitar estos últimos. La riflexión sobre las dinámicas materna-filiales vuelven frecuentemente a los conceptos de fusión y de separacción/diferenciación; es de hecho en la dialéctica entre estos dos polos oponentes y en sus coexistencia que se estructura el proceso de autonomizacción y crecimiento ya que existe una continuidad entre la infancia y la vida adulta rispecto a el permanecer o menos en un estado de dipendencia o de no verdadera individuación. En la psicoterapia familiar con una madre y una hija, se delinean dobles recorridos de crecimiento y transformación y la narración de una historia clínica, no es nunca sólo una narración de el otro, también llega a ser una otra narración, así como narración de su proprio recurrido formativo. Una historia que se desata che en imagenes, una película de frases evocadas, sonadas y halladas,a lo mejor en un poema caballeresco.
PREMESSA
H2O, una molecola di due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno, necessaria alla vita e al corpo, che supera ogni peso all’interno di un metabolismo, eppure riscoprirsi come eccessive e soffocanti, come una molecola satura.
H2O, una valenza per indicare la capacità degli atomi di combinarsi tra loro, di creare nuovi legami, un numero di elettroni che un atomo guadagna, perde o mette in comune quando forma legami con altri atomi, la circolarità di una dipendenza.
H2O rappresenta l’appassionante percorso nella rivisitazione del rapporto madre-figlia/figlia-madre.
All’interno di questa narrazione si cerca una ridefinizione dell’identità di genere femminile ed un processo di individuazione del sé in funzione di un reciproco scambio all’interno di un ciclo di vita.
Non c’è dubbio che la relazione madre-figlia/figlia-madre sia una relazione che fa i conti, in profondità, con l’origine della vita: “la genitrice fonda la sua nuova identità riunendo in questo passaggio il passato, il presente, il futuro. La figlia diventa così l’ideale della madre, in un rapporto di fusione e confusione che nella fase preedipica trova la sua acme”.
La figlia è per la madre se stessa e l’altra.
Una madre, figlia di una madre che, sempre potenzialmente, è anche in rapporto con una molteplicità: la relazione madre-figlia, un uno che si “fonde e confonde” con l’altra, le altre.
H2O: basta una valenza per raccontare queste pagine, nate da quasi due anni di lavoro psicoterapeutico, all’interno di una supervisione indiretta orchestrata dal prof. Cancrini, il quale con creatività e maestria mi ha condotta all’interno di questa narrazione. Un incontro con una madre ed una figlia, una bambina tappo che si esprime attraverso un sintomo, un rapporto fusionale che blocca la crescita e il processo d’individuazione del sé, un conflitto che genera una disregolazione degli impulsi, ma sopra ogni cosa il posto vuoto di un Padre. 
La riflessione sulle dinamiche materno-filiali mi ha rimandato spesso ai concetti di fusione e di separazione/differenziazione: è infatti nella dialettica tra questi due poli oppositivi e nella loro coesistenza che si struttura il processo di autonomizzazione e crescita, poiché esiste una sorta di continuità tra l’infanzia e la vita adulta rispetto al permanere o meno in uno stato di dipendenza o di falsa individuazione.
Nella mia storia personale ho riconosciuto quanto sia argine e garante la qualità della separazione che diviene poi separatezza interiore.
Questo percorso psicoterapeutico è durato da dicembre del 2008 a giugno del 2010, con sedute quindicinali e, durante alcuni passaggi, con incontri settimanali. È stato il frutto di una supervisione indiretta del prof. Cancrini che, con grande sapienza e sensibilità, ha diretto questa orchestra di emozioni.
Il motivo per cui riporto in particolare questa terapia si riconduce a percorsi che spesso mi ritrovo ad intraprendere.
Sono una consulente nel servizio di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico “A. Gemelli”, all’interno di questo mi occupo principalmente di bambini oncologici o affetti da alterazioni del sistema nervoso centrale (SNC). In questo ambito, il lavoro di psicologo è spesso messo di fronte a diadi madre-figlio/a in cui il processo di separazione e individuazione viene minacciato da una resistenza e da un’eccessiva “sintonizzazione affettiva” e da un “fermo immagine” sulle disabilità; per tale ragione, questo lavoro, con l’aiuto del prof. Cancrini e del gruppo, mi ha concesso le opportune “lenti d’ingrandimento”. 
Ho interiorizzato che se la madre rifiuta se stessa disconferma anche la figlia, parziale specchio di sé.
Se la figlia ricusa la figura materna, allontanerà se stessa e la possibilità di trovare senso e statuto alla propria identità.
In un tratto di psicoterapia, la bambina mi dice che a scuola la maestra le chiede: cosa è contenuto nella parola madre. Lei risponde: «Madre come tutto, contenitore di tante fantasie, di tanti colori, di dolore, amore, agitazione e restituzione».
Da qui desidero che voi entriate in questo percorso di una bambina, all’interno della quale esistono molte madri, e di una madre, luogo in cui si combatte una lotta interna tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, scenario di una guerra insoluta tra elementi interni.
“IL CORPO CAVO”: LA STORIA DEL SINTHOMO

Il sinthomo svolge la funzione specifica di mantenere insieme, annodandoli, i tre registri del reale, del simbolico e dell’immaginario.
In un’ottica sistemica, il sinthomo rappresenta un significante e un rappresentante di una famiglia, di una coppia familiare.
Il sintomo del bambino è il rappresentante di una verità, è un significante del sintomo genitoriale. Secondo tale orientamento, la manifestazione psicosomatica del bambino si può considerare come un segnale.
Un bambino dà corpo alla verità materna e aliena in sé ogni accesso possibile della madre alla sua propria verità.
In molte storie cliniche si rintraccia tra le figure materne di questi pazienti che si tratta spesso di madri avvertite come profondamente bisognose del proprio bambino, “in quanto complemento sessuale o estensione di sé stessa”.
Nelle vite di questi bambini l’image paterna sembra sommersa, il bambino così assegna un ruolo marginale a questo padre nella vita della propria madre. Il corpo del bambino si fa supporto di una fusionalità tra corpo del bambino e corpo della madre, tanto da impedire una rappresentazione del proprio corpo come separato da quello materno.
Il «modello familiare psicosomatico» [1] fu il primo a includere sistematicamente il livello familiare nel considerare i fattori psico-biologici delle malattie infantili. Le famiglie psicosomatiche mostrano spesso i caratteristici schemi di interazione, invischiamento, iperprotezione, rigidità, mancata risoluzione dei conflitti o evitamento degli stessi.
La teoria psicoanalitica definisce somatizzazione parte della struttura caratteriale di un paziente, una difesa contro dolorose esperienze emotive. Ma la terapia individuale può non essere utile per questi bambini. I terapeuti familiari hanno il compito di ampliare il fulcro della loro indagine ai sintomi psicosomatici se presentano la dovuta attenzione alle metafore del dolore emotivo. Il sinthomo è una forma di comunicazione. Il ruolo del terapeuta non consiste nel ridurre i sintomi psicosomatici a spiegazioni psicologiche, ma nell’aiutare le famiglie a comprendere e gestire gli interscambi emotivi che lo colpiscono [1].
Pertanto, la chiave per un’efficace terapia con le famiglie psicosomatiche è tentare di trasformare il carattere di un sintomo psicosomatico in un’aperta lotta interpersonale.
L’inviante è una pediatra di base con cui collaboro da alcuni anni. Dopo alcuni accertamenti che escludevano motivazioni organiche che giustificassero il sintomo, si è rivolta al servizio di Neuropsichiatria Infantile presso cui svolgo servizio.
Tutto ha inizio quando una signora che chiamerò Cerere mi contatta chiedendomi un colloquio per la figlia, Proserpina, che da due mesi presenta episodi di encopresi.
Si presentano la madre, Cerere, e la figlia Proserpina; la prima è una donna di 52 anni, di media altezza, bionda, con occhi verdi, con un modo di relazionarsi rigido e teso; la figlia Proserpina, di 8 anni, con capelli biondi e occhi azzurri, sorridente e assorta.
Quando chiedo loro il motivo di questo incontro, è la bambina che mi risponderà: «Mi faccio addosso», e la madre aggiunge: «Da un po’ di mesi mi fa preoccupare perché si fa addosso ovunque anche a scuola, ed io ho paura».
Inizia da questo momento il racconto del sinthomo, la ridefinizione del suo spazio e del suo tempo.
È iniziato due mesi fa, quando i nonni di Proserpina si sono separati perché Cerere ha scoperto che il padre aveva una relazione extraconiugale con un’altra donna; i nonni rappresentavano per Proserpina quel rapporto coniugale che a lei era tanto mancato.
Cerere aggiunge l’importanza di sapere che Proserpina è nata da una procreazione assistita. Nella loro storia non esiste un papà, vivono insieme e le uniche figure di riferimento maschili sono il nonno e lo zio.
Proserpina è una bambina che ha difficoltà nel lavarsi da sola, nel dormire nel suo letto, nel rispettare le regole e nel gestire le sue emozioni. È una bambina ben voluta dagli altri, ha molti amici, va bene a scuola nonostante la sua agitazione.
Cerere è una madre che lavora tanto come avvocato, è sola nel gestire la casa e gli affari di famiglia, ha poche amicizie, trascorre il suo tempo tra il lavoro e sua figlia.
Nel loro raccontarsi, sono sedute davanti a me, come se fossero ad un colloquio di lavoro, non si voltano mai l’una verso l’altra, appaiono due binari, due treni ad alta velocità.
Due atomi che si inseguono.
Sentivo in quella stanza un equilibrio che non bastava più ad entrambe.
Il corpo di Proserpina era un’opposizione tra lo svuotare e lo scavare, nello scavare c’era il lasciare le tracce, incidere, marcare, segnare, nello svuotare c’era l’evacuare.
“Donne non si nasce, lo si diventa”, lo si diventa in un movimento complesso che parte dalla madre per tornare, dopo circonvolute fluttuazioni alla madre medesima, in un processo di filiazione.
Nei loro occhi c’erano dei segreti che una madre ed una figlia condividono e che fanno emergere l’immagine di una donna che la madre porta con sé e che si esprime nel progetto educativo che farà di una figlia la donna di domani.
Ci troviamo di fronte ad un conflitto (continuità contro discontinuità; fusione contro differenziazione) a volte ad un paradosso nelle situazioni in cui la negazione del primo postulato viene vissuto come insopportabile minaccia del proprio sé.
Un rapporto madre-figlia, come una ghirlanda, di eterni ritorni, nella ricerca di un sostegno, di un quid trasformativo, di un’appartenenza che deve esistere per poter essere altro e che torna poi violenta a ripresentarsi quando il destino sessuale della figlia o la sua crescita svelano trame sopite.
L’oblatività coatta di queste due identità diviene un paravento dietro cui nascondere la propria rabbia e la propria protesta, in un processo che partendo dalla denegazione della propria indipendenza, crea dipendenza e l’illusione di una protezione.
Il messaggio che correva dall’una all’altra sembrava essere: “Percorro il tuo cammino perché ho bisogno di identificarmi in te, ho bisogno del tuo amore e so che tu me lo darai solo se mi adatterò allo stesso ruolo al quale hai dovuto adattarti tu”.
Nelle prime sedute si assisteva ad un’identità emotiva conglomerata, che esisteva ad ogni livello di intensità. Il rapporto fusionale e simbiotico tra Cerere e Proserpina era una modalità di relazione molto intensa. La vicinanza emotiva era così intensa che i due componenti di questa relazione conoscevano o immaginavano i pensieri e le fantasia dell’altro.
Come descrive Bowen [2], c’è una fase di intimità calma e piacevole, che può trasformarsi in un eccesso di vicinanza che provoca ansia e disagio con l’incorporamento del sé dell’uno nell’altro.
La mia funzione come terapeuta è stata quella di accogliere nel sistema terapeutico questa coppia contribuendo a creare quel tessuto emotivo, promotore di processi evolutivi di differenziazione. Il tentativo era quello di creare un luogo in cui fosse possibile per entrambe comprendere cosa stesse avvenendo in riferimento al disagio della bambina, come paziente designato; la stanza di terapia diventava così uno spazio in cui era possibile per Cerere e Proserpina esprimere, ma anche depositare, le angosce, i sospetti, i dubbi e la loro storia.



«L’acqua è insegnata dalla sete,
la terra dagli oceani traversati,
la gioia dal dolore,
la pace dai racconti di battaglia,
l’amore da un’impronta di memoria,
gli uccelli dalla neve»
Emily Dickson
LA SOLITUDINE DI CERERE E IL SIGNORE DEI GIOCHI
Durante questo percorso è stato sin dall’inizio necessaria una ri-narrazione dei due atomi di questa molecola, di questa valenza H2O.
Invito entrambe ma ho bisogno di ascoltarle separandole, ho bisogno di sentire la loro storia. Inizio con Cerere.
Ricorda di aver avuto un’infanzia priva di attenzioni da parte dei genitori, la madre è sempre stata molto distaccata, lei richiedeva spesso le attenzioni del padre, ma l’unico momento in cui si ricorda di aver avuto uno scambio con lui è stato quando era molto piccola. Al contrario, ricorda con tanto fastidio un episodio in cui recandosi nella stanza dei suoi genitori trovò il padre che l’accarezzò.
I ricordi sono molto confusi, la madre spesso le dava dei pizzicotti e le tirava i capelli, si sentivano spesso delle urla, i genitori litigavano perché il padre tradiva da sempre la madre; la storia che lei ricorda con tanto disprezzo è quella con la zia, con cui lo vide durante la festa in una campagna. Di questo ricordo parla soffermandosi sui dettagli. Si sentiva gelosa soprattutto del fatto che questa zia avesse dei figli maschi e il padre passava tanto tempo con loro piuttosto che con lei. Così a volte da piccola desiderava di essere maschio.
Durante la crescita si ricorda di non aver mai avuto tante amicizie, si sofferma dicendo che piangeva tanto… era una ragazza infelice e sola. Solo quando si trasferisce a Teramo per studiare conosce un ragazzo di cui si innamora, ma dopo dieci anni scopre che quest’uomo era omosessuale. Da qui una perpetua difficoltà nell’incontrare una persona a cui legarsi. Nel contempo il padre continua a tradire la madre, fino ad arrivare ad una storia con una ragazza di 18 anni che lui avrebbe mantenuto all’università, comportandogli un grave dispendio economico.
Un litigio, uno scontro espresso con un solo gesto: “sputare”.
All’improvviso comincia a piangere, con un fare composto e poco affettuoso, quasi come se facesse finta.
Mi chiede aiuto, aiuto soprattutto perché ha paura per la figlia.
Mi chiede se è pericoloso… e poi aggiunge che lei è stata da uno psichiatra tanti anni fa ma le davano solo tanti farmaci.
Il contesto in cui è vissuta è questa casa albergo di anziani che ora è costretta a mandare avanti perché il padre si è sentito male.
Oltre a questo, è stanca ma anche soddisfatta per aver controllato il cellulare del padre e aver visto che questi non sta chiamando la sua giovane amante.
Le chiedo di descrivermi il padre e la madre: il primo è grasso e basso, mi dice che il suo fascino sta nel maneggiare tanti soldi. Il padre è il “signore del gioco”, padrone dello spazio del desiderio, i ricordi legati a questo rapporto sono inerenti alle regole e ai soldi. Ancora una volta scopre l’altro volto di sé: quello di un’inquietante fanciulla dal corpo ferino. In questo corpo un doppio: dolcezza e terribilità del femminile.
Dall’altro c’è la madre, da una parte nutrice e da un’altra terribile. È molto duro per lei viverne la doppia presenza. Accanto alla dolcezza il furore, nell’urlo il sorriso. La madre è una donna, niente di che, bionda con gli occhi azzurri. «Nella grande cucina della casa mi ero ricavata un angolo di studio e di lì guardavo con pena e tormento lavare rabbiosa i piatti con un vecchio grembiule stracciato, e mi chiedevo il perché non si amasse abbastanza da rendersi più gradevole. Ero molto arrabbiata con lei, perché non capiva che mio padre non l’amava, non la sopportavo così inerte».
Cerere accompagna per anni la madre tra il buio e la luce, lotta con lei per impedirle di arrendersi, tutto questo con rabbia, con una nostalgia avvolgente.
«Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me, non dico che fosse come la mia ombra mi stava accanto anche nel buio, non dico che fosse come le mie mani e i miei piedi quando si dorme si perdono le mani e i piedi e io non perdevo la nostalgia neanche durante il sonno» (Nazim Hikmet).
Cerere continuava a descrivere: «la stanza di mia madre si faceva sempre più buia e chiusa, eravamo costretti ad un’oscurità angosciante, non c’era modo di aprire quelle finestre». Non mi dimostrava mai affetto, era concentrata su mio padre, anche se lui le faceva del male, mia madre continuava ad assecondarlo e a condividere con lei la loro camera da letto.
Continua il suo racconto partendo dal momento in cui ha lasciato il suo ragazzo omosessuale, si guarda indietro e si vede come una persona disperata. Avrebbe voluto tanti figli. Da allora non ha mai più sentito il desiderio di stare con un uomo.
Poi si interrompe e mi dice di un sogno che ha fatto su Proserpina: mi sono svegliata con un incubo, la bambina aveva sviluppato (parla del sangue).
Verso i 43 anni parte, va in America, dove può comprare il “seme” e poter essere fecondata. Sceglie un uomo dai caratteri nordici, occhi blu, capelli biondi, alto. Aggiunge che se avesse potuto scegliere il sesso lo avrebbe fatto e avrebbe scelto un maschio.
La gravidanza è stata sofferta dal punto di vista emotivo: nell’ultima fase comincia ad avere delle allucinazioni, sente che è la vergine e che deve partorire in una chiesa monumentale, sceglie Milano, il Duomo. Prende il treno, parte ma nel viaggio si sente male, e viene ricoverata in una clinica a Bologna dove le danno dei farmaci di cui dopo un breve periodo non ha più bisogno.
L’angoscia, il panico, l’agorafobia: la paura di una libertà, il tentativo di fuggirla.
I suoi deliri prendevano forme in accuse che, diceva, le venivano fatte. La sua aggressività diventò cieca. Aveva 32 anni quando la prima volta visse un delirio, in lei non esistevano più i sogni e la libertà della giovinezza, ma un passaggio alla disperazione.
I suoi deliri erano sempre più a fondo sessuale e riguardanti la sua identità sessuale. Sentiva voci che l’accusavano di desiderare donne di colore. Aveva paura e non riusciva a capire e ad avere una linea di confine.
La ritualità della prigionia in cui si era rinchiusa non era più fatta di misurazioni di anime cadute, ma di strane visioni, di immagini che la visitavano, di ombre che la seguivano.
Cerere dà spazio dentro di sé alla domanda inquietante sul femminile, ponendo le linee di confine, la paura del desiderio. Il pericolo di confondersi con il magma, quindi un ritrovamento delle tracce del filo segreto del femminile che si riannoda subito prima, filo d’Arianna che consente l’uscita dal labirinto, per inventare la strada della propria individualità.
Partorisce ma continuerà a raccontare di questa continua ricerca del padre, delle sue amanti…
La sua vita lavorativa continua senza problemi, diviene un avvocato affermato, tanto da sostenere anche le eccessive spese del padre; dal punto di vista sociale riferisce di uscire e di avere buoni rapporti con le persone, tanto da passare la sera tante ore al telefono. Ma quando le chiedo della sua vita affettiva lei mi dice che non ne sente la necessità perché lei ha Proserpina.
Cerere, quindi, è una donna di 53 anni ed ha una figlia. I ricordi della sua infanzia sono legati a sensazioni di solitudine e abbandono, non solo e non tanto per un’assenza fisica dei genitori, quanto per la mancanza affettiva nei rapporti.
Lei esprime il suo bisogno soffocato di relazione attraverso questi pensieri e la rabbia, una donna che ha cercato, per tutta la vita, di proteggersi dai suoi bisogni di relazione, di comunicazione, di riconoscimento.
I suoi rapporti adulti con l’altro sesso sono stati ambivalenti, limitati, per lei un’assenza. La scontentezza che provava era vissuta come una negatività sua da superare, se ne vergognava.
PROSERPINA: IL NODO DI UNA CATENA
«Senza un vero riconoscimento del ruolo della madre,
rimarrà una vaga paura della dipendenza.
Questa paura prenderà qualche volta la forma di paura
della donna, o di paura di una donna, e altre volte prenderà forme
non facilmente riconoscibili,
che includono sempre
la paura di essere sopraffatti»
 Donald Winnicott. Dal luogo delle origini

Da bambina aspettavo sempre mia madre dietro la porta, uno dei ricordi più brutti è quando mi lasciò sola, avevo 5 anni, mentre dormivo lei uscì senza avvisarmi, andò a prendere il caffè, ma io quando aprì gli occhi non la trovai, ebbi la sensazione di averla persa, avevo paura fosse morta.
Per un periodo l’ho odiata per questo! Poi però eravamo unite, avevamo un patto segreto che ci univa strettamente. A volte, di colpo lei cambiava, la sua faccia diventava severa, fissava su di me due occhi assenti e duri, puntava il dito dove dovevo camminare, a fianco a lei. Avevo paura.
Per questo sono sempre agitata!
Come dice Benjamin [3]: «L’unità perfetta, in forma di unione o di autosufficienza, è un ideale, un’esperienza simbolica del nostro desiderio che proiettiamo nel passato. Questo ideale si ingrandisce per reazione al vissuto della debolezza, di fronte alle circostanze».
La figlia che non obbedisce all’ingiunzione materna si troverà preda di un ricatto affettivo, perché grande sarà la paura di perdere l’amore e la stima della madre.
Proserpina continuava nel raccontarsi, dicendomi che la madre ripeteva spesso: «Lo faccio per te», così che se la figlia non era preoccupata, può darsi che si preoccupava e così la madre aveva scaricato la sua ansia su di lei.
Quindi in queste tre parole, tra l’io, soggetto, e il te, oggetto, non passava nessuna azione; l’azione rimbalzava sull’io, lo raddoppiava, ne aumentava lo spessore. Non esiste un movimento, la circolarità è solo apparente, quella vera è bloccata anche qui da un ingorgo, da un nodo, da una valenza: H2O.
«Non gioca mai con me»: il bisogno di Proserpina di fare insieme, i compiti ad esempio, il bagno, le “ninne”, non viene riconosciuto dalla madre.
Dalle parole della bambina e dal suo comportamento emergeva uno stile di attaccamento insicuro-ansioso. C’era un elastico che univa le due entità, si avvicinavano e si allontanavano in modo repentino.
Proserpina aveva bisogno di cure, le chiedeva comportandosi come una farfalla, delicata e sfuggente. Aveva passato lunghi anni prima di comunicare qualcosa con il suo corpicino.
Nella sua sfera affettiva esisteva anche un grande punto di riferimento, il nonno.
Quel padre inaffidabile e privo di affetto, era divenuto un nonno attento e generoso.
Nella sfera emotiva della bambina, erano presenti diversi punti di forza che avrebbero potuto costituire nella sua crescita una spinta evolutiva, ma è anche vero che quelle stesse persone, i nonni, erano coloro che avevano negato a Cerere di proseguire nel suo cammino.
Nel racconto della bambina, esisteva in fondo un desiderio latente: riconoscere il padre. Proserpina, che rappresentava la paziente designata, era posta nell’impossibilità di identificare le cause del malessere delle figure di attaccamento, non si riusciva a difendere, subendone un danno. I traumi, i vistosi abbandoni erano identificabili dalla sua mente come ingiusti negativi. La bambina si sentiva contaminata.
UNA PIRAMIDE DI TRE DONNE
Nello schiudere nuove prospettive sul disturbo, dopo una prima fase orientata verso la sfida della definizione del sinthomo, Proserpina inizia dicendomi che l’origine non è nello stomaco, non nella testa, nella difficoltà di assistere ad alcuni scontri tra la madre e la nonna.
Cerere lo attribuirà alla sua eccessiva preoccupazione per le sofferenze della nonna, che da quando si è separata dal nonno è diventata silenziosa e piange sempre. Aggiunge che Proserpina ha un ruolo di solutore di problemi e di scudo al dolore.
Come terapeuta non nego il dolore ma piuttosto sposto il fulcro dell’esplorazione dal corpo del paziente al contesto delle sue relazioni.
Cerere: «Mia madre non mi vuole bene, mi accusa di non essere una brava madre, non è mai stata affettuosa con me» (non piange ma si agita, si irrigidisce, Proserpina si butta addosso a lei per confortarla e abbracciarla e le escono le lacrime).
Terapeuta: «A Proserpina dicevi che il dolore era nel pancino, ma ora vedo che soffri con il cuore»
Proserpina: «Ma che dici???».
Terapeuta: «Il vostro legame è bello, ma c’è anche dell’altro, qualcosa di molto interessante: ho visto il tuo corpo collegato a quello di tua madre, il vostro legame, l’intensità di quest’empatia per tua madre». «Si sente aiutata? Pensa che sua figlia la stia aiutando?».
Ho visto nel rispecchiamento di Proserpina e Cerere una manifestazione del loro invischiamento, e non voglio che l’evento resti straordinario e trascurabile. La mia risposta automatica è consistita nell’incrementare l’intensità dell’esperienza, nel sottolineare il fenomeno e nel suggerire un nuovo modo di osservare e sperimentare.
Tuttavia, la fissità stessa può rendere i due membri icariamente dipendenti dalla funzione dell’altro, in modo tale che nessuno dei due affronta il proprio mondo relazionale quale persona intera. Avevo davanti una “fusione polarizzata”. All’interno di questo sistema a due, è stato utile il concetto di lealtà come importante per la comprensione dei rapporti familiari. Più rigidamente la bambina in via di sviluppo era legata alla madre da invisibili impegni di lealtà [4].
Per la madre era una possibilità unica di riparare per il senso di colpa avvertito interiormente riguardo ad una presunta slealtà.
In questa diade esisteva una terza donna, madre. Il funzionamento di questa famiglia non poteva non ascoltare questa madre, nonna. Il cambiamento inteso come processo di individualismo necessitava di un cambiamento, di una convivenza insita o nelle vicinanze di tre generazioni. La nonna in questo rapporto fusionale rappresentava un pace-maker del sistema familiare nucleare.
Così, allora, convocare i sistemi familiari di origine è necessario non solo per ricostruire una realtà condivisa, come pezzi di un puzzle, che dia senso alla storia comune e che contribuisca ad una migliore prevenzione primaria, ma anche per rinvigorire vincoli di solidarietà con alto potere emozionale, che canalizzi terapeuticamente.
In sostanza, il lavoro terapeutico con i sistemi familiari di origine contiene un elemento altamente paradossale: “ritornare per partire meglio”.
Per meglio capire l’armonia intergenerazionale, avevo convocato la madre, la figlia e la nonna.
Avevo davanti a me tre donne, con grandi occhi azzurri. Mi guardavano come se fossi un insegnante di scuola elementare. Nella stanza imperava un’atmosfera molto distesa. Erano felici di essere insieme in quella stanza. Chiedo alla nonna che idea si era fatta sull’encopresi, sul sinthomo.
Cosa voleva dire Proserpina alla nonna attraverso quella comunicazione?
La nonna appare triste e dispiaciuta, mi dice: «Da quando io e il nonno ci siamo lasciati, sa dottoressa, lui non mi aiutava…», la bambina risponde prontamente: «Non è per questo che tu l’hai lasciato!», la nonna: «A nonna, lo dovevo fare!».
Cerere osserva da fuori questo scambio e con serenità aggiunge: «La bambina non accetta che i nonni si siano lasciati».
Terapeuta (alla nonna): «Mi parli del suo rapporto con Cerere».
Nonna: «Io le voglio bene, ma lei è cattiva con me, è sempre arrabbiata, mi accusa di non aver lasciato prima il padre, di non averla mai abbracciata, lei è sempre aggressiva con me, dice che non avrei dovuto fare da schiava al padre [comincia a piangere], ma io a lui gli volevo bene, non ce la facevo a lasciarlo».
Cerere: «È vero che sono sempre stata arrabbiata con lei, non ho mai sopportato vederla sempre abbattuta e sempre agli ordini di mio padre, ha fatto bene a lasciarlo, non merita di essere curato o seguito da noi, deve rimanere solo».
Proserpina: «No, nonno non deve stare solo».
È affascinante vedere questo scambio all’interno del quadro trigenerazionale, anche Cerere era molto protettiva nei confronti della propria madre.
Terapeuta alla nonna: «Come mai è diventata così responsabile? Cosa è accaduto nella sua vita che l’ha spinta a prendersi carico di tutti i dispiaceri del mondo?».
Nonna: «Il fatto è che, quando ero piccola, mia madre era molto irresponsabile. Era alcolizzata, quindi toccava a mio padre assumersi il ruolo del capofamiglia. Prima che morisse mi disse di stare attenta a mia madre [continua a piangere]».
Terapeuta: «E così da bambina era lei a prendersi cura della famiglia?».
Nonna: «Sì, mi prendevo cura di tutto».
Terapeuta: «Vedi Proserpina tua nonna e tua madre sanno bene che la gioia di avere un bambino comporta molta fatica, mentre tu sei ancora giovane per poterne essere cosciente, questo però ti può far capire che un giorno anche tu diventerai grande».
Proserpina: «Io voglio avere tanti bambini».
Nonna: «Sì, però prima devi imparare ad andare in bagno, a fare la doccia da sola, a fare i compiti da sola».
(Cerere rimane in silenzio come se non riuscisse ad entrare in questa relazione, come se si sentisse inadeguata).
Terapeuta: «[mi rivolgo verso Cerere] Come puoi aiutare Proserpina a prendersi cura di lei? Tu che sei una brava mamma?».
Nonna: «Devi continuare a provarci. Il fatto è che devi seguirla di più, non lasciare che faccia quello che vuole».
Cerere: «Non puoi dire che non ci abbia provato».
Terapeuta: «Sto iniziando un po’ a capire, forse possiamo unire le nostre teste per trovare delle alternative…».
Sul finire della seduta, mi sono trovata a mio agio con loro. Mi sono alleata con tutte e tre e ho mostrato loro sostegno. In particolare, mi sento molto vicina alla nonna, a quelle rughe scolpite che determinano il passare degli anni, un tempo che non si è mai fermato. Al tempo stesso vorrei aiutare Cerere a riscoprire il suo essere madre con più adeguatezza e ad abbandonare il suo essere figlia.
Mi piace la metafora che utilizza Minuchin [5], secondo cui ci sarebbero degli occhiali donati da qualcuno che ti fa pensare più facilmente a chi e a come ha influenzato la tua crescita.
Questa nonna era cresciuta in una scatola, priva di libertà sin da quando era piccola.
Utilizzerò anche la scatola come metafora per descrivere le loro transazioni e al tempo stesso sfidarle.
Nel corso della seduta si assisteva spesso ad un altro giro intorno allo stesso giro. Un altro giro in cerchio. Non mi faccio coinvolgere nella loro danza ma continuo a insistere che la nonna ha bisogno di aiuto, che è stanca, che potrebbe scoppiare. È un intervento che aumenta d’intensità perché ripetuto, ma che sposta l’attenzione dal senso d’inadeguatezza di Cerere alla necessità della nonna.
La scatola che questa famiglia sta tentando di infrangere è complessa, ed è tenuta da uomini “invisibili”.
Cerere e Proserpina avevano ancora tante cose da dirsi. Perché Cerere e la nonna stabiliscano un rapporto di mutuo rispetto, dovranno entrambe poter esprimere la loro opinione.
Il risultato di questa seduta era un inizio di questo lungo processo.
VUOI FARMI DA PADRE? VUOI FARMI DA PADRE!

«La mia benedizione ti accompagni! E cerca di imprimerti nella mente questi pochi precetti. Non dar lingua ai tuoi pensieri, e i pensieri aspetta di averli ponderati prima di convertirli in azione. Sii affidabile, ma non volgare; agli amici provati tieniti unito con vincoli d’acciaio, ma non farti venire il callo alla destra stringendo tutte le mani che incontri. Guardati dal cacciarti in risse: ma se proprio ti ci trovi, che il tuo avversario ne esca augurandosi di non vederti mai più. Ascolta tutte le opinioni, ma parla poco e sii riservato nei tuoi giudizi. Elegante il vestire in proporzione ai mezzi, ma senza sfoggio; ricco, non stravagante, perché l’abito rivela l’uomo. In ciò i grandi signori di Francia sono veramente impeccabili e magnifici. Non chiedere né dare prestito, perché chi presta perde quasi sempre il denaro e l’amico, e il dar debiti ottunde il senso della parsimonia. E questo soprattutto, sii sincero con te stesso; e ne seguirà come la notte segue al giorno, che non potrai essere falso per gli altri. E ora addio: la mia benedizione faccia lievitare in te questi consigli!»
Polonio al figlio Laerte
W. Shakespeare, Amleto, Atto I scena III
«Ogni bambino prima o poi formula una sorta di domanda di paternità. Tale domanda di paternità può trovare una risposta in figure sostitutive che il bambino stesso elegge» [6].
All’estremo dell’alta coesione, l’invischiamento, c’è una iperidentificazione con la famiglia che si esprime con un legame coesivo limitando, quindi, l’autonomia individuale.
Nel corso di questo processo terapeutico, è stato molto utile creare un contesto trigenerazionale, prima con la nonna e poi con il nonno di Proserpina, rispettivamente, madre e padre di Cerere.
Come descrive Canevaro [7] l’unione di questi nuclei potrebbe determinare uno scenario di una famiglia nucleare che evolverà delineando il proprio stile di vita.
L’incontro con il nonno è stato molto utile per comprendere le dinamiche relazionali, in particolare la dipendenza di Cerere dal giudizio del padre, un rapporto ancora molto marcato, una relazione tra loro che tende ad essere intensa, fragile e inversamente proporzionale alla famiglia nucleare.
Nel corso dell’incontro, Cerere rimproverava il padre per non averla mai ascoltata, avrebbe avuto bisogno di lui, ma lui era troppo intento al lavoro o ad altre donne. Delegava proprio a questo la sua condizione di solitudine emozionale e allo scaturire di una condizione di fragilità psichica e di un ricercare nel lavoro un rifugio per la gratitudine.
In questo contesto, però, esiste anche il paziente designato, Proserpina, come un “terapeuta fallito” della sua diade. Da questo incontro speculare e isomorfo nasceva una modificazione di un sistema che consentiva alla bambina, ora sostenuta, di essere accompagnata nel suo intento di aiutare la propria famiglia.
Quando questo intento sarà compiuto, il paziente designato si staccherà e potrà recuperare la sua identità.
Il terapeuta esperisce un ruolo altamente direttivo nell’organizzazione del setting terapeutico e nelle manovre strutturali ed esperienziali, e deve rimanere assolutamente neutrale circa i cambiamenti che si producono e che dipendono dai vettori psicologici ed emozionali in gioco, “perturbati” da quell’intervento contestuale.
Il padre risponde alla figlia che lui non riusciva a parlarle, lei era sempre arrabbiata, sempre chiusa in una stanza, a volte aveva dei momenti di rabbia che manifestava con movimenti ripetitivi, urlava.
Gli chiedo quale sia un momento che ricorda in cui loro due si sono incontrati, lui mi risponde che l’unico periodo in cui erano un po’ più vicini era quando Cerere aveva 18 anni, «finalmente riuscivo a vederla», e aggiunge: «Ora mi pento di tante altre cose che non ho fatto e di quelle che ho fatto e che non avrei dovuto fare».
Interviene la bambina che aggiunge: «Ora però le fa per me, lui è un nonno molto buono, mi dedica sempre tutta la domenica e quando non lo vedo sto molto male»; il nonno aggiunge: «Anche io sto molto male».
Se torniamo al sinthomo, si riscopre una forte valenza che unisce tutti, il tempo e lo spazio in cui Proserpina ha dato vita all’encopresi. Il momento della separazione dei nonni. Tutti danno una stessa cornice.
In questa seduta, avveniva una catarsi emozionale e il clima (sussurri, lacrime, abbracci) era simile a quello di un funerale. I lutti congelati cominciavano ad elaborarsi e “le lacrime diventavano dolci”. Esplorando la relazione diadica tra il padre e Cerere, ritrovavamo in questa gravi difficoltà comunicative; probabilmente nel suo percorso aveva lasciato sedimentare e mantenuto latenti aree di conflittualità celata e irrisolta, che provocavano sentimenti profondi, ma inespressi, di insoddisfazione reciproca. Questa insoddisfazione nasce da aspettative deluse che spesso rimandano a bisogni non risolti nella vita personale, non poteva essere esplicitata, perché il timore di una rottura con il padre rappresentava un rischio che non poteva essere emotivamente affrontato [8].
In questo momento terapeutico si otteneva più facilmente una ristrutturazione dei sub sistemi e la differenziazione intergenerazionale, abitualmente di­storte in questa famiglia.
Avendo loro davanti, Proserpina, Cerere e il nonno mi chiedevano o richiedevano un diritto di paternità e di figlio; se per la prima era un punto di riferimento, una figura sostitutiva, per la seconda era un ritrovo di conflitti e di emozioni perturbanti, che pian piano stavano disciogliendosi.
Il nonno, e allo stesso tempo il padre, questa volta era lì a tendere la mano ad entrambe, esprimeva il desiderio di vederle crescere anche se forse la sua vita era fatta di pochi anni.
I LETTI CONFUSI
«Non ci vedono dietro le mura.
Non sanno come viviamo qui!»
F. Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti 

Vengono la bambina, Cerere, e la figlia Proserpina. Sono l’una a fianco dell’altra, non si guardano, mantengono un orizzonte comune, una ricerca del contatto visivo con la terapeuta.
Si assiste ad un’aria di tensione, di rigidità, chiedo loro come sono trascorsi gli ultimi giorni. Quasi come una ricerca di chiarezza su ciò che è accaduto. La bambina guarda la madre facendo un gesto di non sapere a cosa io mi riferissi.
La madre non la guarda, ma guarda me. Io mi rivolgo a Proserpina e ridefinisco l’episodio dei soldi. La bambina mi dice subito: «Io non li ho presi, cosa ci dovevo fare con i soldi? Dove li avrei dovuti mettere? È lei che si è dimenticata di averli spesi o dati a qualcuno…». Allora chiedo alla madre cosa è successo facendo una cronologia di eventi che l’hanno portata a pensare che sia stata la figlia.
Lei mi dice che è andata fuori, a Teramo, per lavoro e quando è andata a pagare si è accorta che le mancavano 50 euro. La bambina mi dice subito: «Si è dimenticata di averli spesi». La mamma mi riferisce che non ha rubato solo i soldi, ma il giorno prima il tabaccaio le ha riferito che la bambina aveva rubato spesso un pacchetto di caramelle. A questo punto la bambina mi dice: «È vero…»; io le chiedo quando è successo, con chi era, e quale è stato il motivo, considerando che la mamma comunque gliele avrebbe comprate.
Proserpina mi dice che era con una sua amichetta, che lo ha fatto per ridere un po’ con l’amica e che avrebbe chiesto scusa alla mamma e al tabaccaio, e aggiunge di essere in castigo da 5 giorni… Allora io le chiedo cosa è successo quando la mamma lo ha saputo. La bambina guarda la mamma e si rivolge verso di me dicendo che la mamma l’ha picchiata. «Mi ha dato dei calci, mi ha tirato i capelli, e poi mi ha messo in castigo». Io le chiedo in cosa consiste il castigo; la piccola mi dice che la mamma da 5 giorni non le fa vedere nessuno, la fa andare solo a scuola. Mi rivolgo verso la madre e chiedo a lei cosa succede in quei momenti; lei mi conferma che picchia la figlia perché non riesce ad avere il controllo su di lei, non sa come fare per poter avere da lei il rispetto, e aggiunge: «Poi c’è mia madre che mi dice che io non sono capace, che dovrei picchiarla di più e che dovrei metterla più in castigo così da farmi rispettare di più».
Io chiedo se questo succede in altri momenti fuori casa, se Proserpina mostra disobbedienza fuori, quando è a scuola o quando è a casa del nonno. La bambina mi risponde di no: «Quando sono con nonno sono più tranquilla, con lui gioco a carte… quando sono con nonna e mamma mi sento irrequieta».
A questo punto chiedo di poter parlare solo con la bambina. Rimaniamo sole, io chiedo alla bambina se c’è qualcosa che vorrebbe dire alla madre: «Vorrei che non mi picchiasse più… che non mi tirasse più i capelli». A quel punto comincia a piangere con solo le lacrime che scendono… mi dice che ogni volta che lei vorrebbe andare dagli amici, la mamma glielo impedisce, se lei vuole dormire da sola, la mamma trova il modo di farla dormire con lei… mentre ora vorrebbe dormire sola, ma nell’altra stanza c’è la nonna. Chiedo alla bambina cosa vorrebbe dire alla nonna e lei risponde: «Di non dirmi le parolacce… di farmi stare più tranquilla», e poi aggiunge: «Anche lei ogni tanto mi tira i capelli ma è debole e io riesco a difendermi… invece da mamma non riesco a difendermi… ecco perché ho scelto di fare judo… così imparo a fermarla». I suoi occhi continuano ad essere lucidi. A questo punto chiedo cosa vorrebbe dire al nonno. La piccola mi dice che non ha niente da dire al nonno, che gli ha sempre detto tutto, che tra di loro non ci sono segreti… e che lui non l’ha mai picchiata. Mi racconta una delle cose che le danno più gioia: andare con lui la domenica a comprare il giornale e ciò che lei vuole. Allora io le dico che è una cosa bellissima… chiedo se ci sono anche con mamma questi momenti. Lei mi dice che anche la mamma a volte è affettuosa ma lei la rifiuta (anche in terapia è evidente quando la mamma si avvicina a lei la piccola si allontana): «Non mi va che mi baci… mi dà fastidio». Anche in questo momento la bambina si stropiccia gli occhi.
Mi chiede se può fare un disegno… io le rispondo naturalmente di sì. Le chiedo come ultima cosa se ha rubato quei soldi, lei mi guarda e mi dice di no, che non avrebbe avuto senso e che non ha bisogno dei soldi… «Ho rubato le caramelle e secondo me ho preso da mio padre!» Mi confessa il suo desiderio di andare in America… le chiedo perché, lei mi dice: «Perché per metà sono americana”.
Faccio rientrare la mamma, lei mi guarda e mi chiede: «Li ha rubati lei?». Io le dico: «Lo chieda a sua figlia ancora una volta». 
Cerere: «Sei stata tu a prendere i soldi?».
Proserpina: «No! Non sono stata io! Come te lo devo dire?».
A quel punto la mamma le chiede scusa, si avvicina per darle un bacio e la bambina si allontana, la mamma le dice allora che ridurrà il castigo e che la farà uscire nei prossimi giorni. Poi mi guarda e mi chiede cosa dovrebbe fare quando è così irrequieta, cosa deve fare per gestirla, io le dico che Proserpina è una bambina educata fuori, quando è a casa di amici, e questo è perché la mamma glielo ha insegnato, quindi la invito a scoprire le risorse che lei ha nel gestire la bambina che non devono necessariamente essere gesti violenti, che questi possono lasciare ferite irreversibili e che possono rendere ancora più cronica l’irrequietezza della bambina e la difficoltà di gestirla. Io sono sicura che tra di voi ci può essere un rapporto tra madre e figlia, concentrandovi soprattutto su voi due e sulle vostre risorse.
La madre mi chiede allora cosa deve fare per ottenere più rispetto, la bambina risponde: «Aiutami a fare i compiti». Lei le risponde che non ha sempre il tempo, allora io le dico che la richiesta di fare i compiti è un modo per sentirla più vicina, faccia questo esperimento… potrebbe riscoprire una bella sensazione nell’aiutare sua figlia.
La bambina aggiunge: «Io rispetto le regole e tu non mi picchi più!». «Va bene», risponde la mamma, lo prometto.
Sottolineo anche l’importanza di essere in due, genitore e figlio, quindi di concentrarsi su questo rapporto mettendo un recinto intorno… allora la bambina mi dice che la nonna lo ostacolerà e io le dico che il loro rapporto/recinto è molto resistente e che non cederà.



IL SILENZIO DEL TERAPEUTA: A PROPOSITO DI CONTROTRANSFERT
«Si forma una conchiglia madreperlacea e lucida
sull’anima morbida e le sensazioni
battono invano col loro becco contro di essa.
Su me si è formata»
V. Woolf Le onde

All’interno di questo percorso, nel racconto riprendevano colore pian piano alcune immagini di questa diade.
Il sintomo era regredito, la bambina aveva ritrovato una vicinanza con il nonno, il nostro proposito era stato fino a questo punto un rileggere questo tempo che era appartenuto a loro con lenti orientate alla centralità di questo rapporto avendo come obiettivo il favorire l’individualità attraverso un “prima” e un “dopo”.
Ma il tempo adesso si fermava, per dar luogo ad un contesto in cui il terapeuta si sentiva “confuso”.
In questo breve capitolo, vorrei tentare di descrivere le reazioni controtransferali in questo momento della terapia [9].
Queste reazioni non dipendevano solo dall’organizzazione difensiva del terapeuta ma anche dal tipo e dal livello con cui queste parole venivano affrontate.
Riporto in supervisione la seduta appena descritta, concentrandomi sulla fase in cui mi soffermo soprattutto sull’episodio in cui Proserpina ruba i soldi a Cerere, favorendo i loro scambi per orientare la mia musica intorno a quelle note, ma nel corso del racconto, che a me appariva fluido, avviene improvvisamente una forte stonatura, la musica non era più melodia ma era un battito di tamburi senza assonanze.
C’era un vuoto, avevo completamente spostato la mia attenzione mettendo un “»” sulla pellicola di questo film, che vedeva in quel momento un labiale che andava veloce e le lacrime che quasi diventavano un chiaroscuro. Ero assorbita da loro ma non volevo vedere, non volevo sentire.
In me ricomparivano le angosce legate alla liberazione di atti aggressivi vissuti che si riflettevano in fantasie riconoscibili e analizzabili di rifiuto e di fuga.
Al mio supervisore, prof. Cancrini, e al mio gruppo devo tanto. 
«Parlare di rischi non significa che l’emergere di un vissuto del tipo di quelli indicati sia di per sé il segnale di un qualcosa che non funziona nella relazione terapeutica» [10].
Il prof. Cancrini si rivolge a me dicendomi:
«Tutto è andato bene fino a quando non ti hanno fatto ascoltare l’origine di questo dolore, in questo racconto che tu hai fatto c’è un momento molto importante che è quello della bambina quando parla della mamma violenta nei suoi confronti, cosa è successo nella relazione terapeutica in quel momento? Cosa ti è successo? Perché non hai voluto vedere? Sei distratta dalle tue ricerche? Dai tuoi viaggi?»
Continuava con uno sguardo diretto ricercando il motivo per cui non avevo voluto porre la mia lente d’ingrandimento in questo contesto… dentro di me un’implosione, sapevo perché non avevo voluto ascoltare, sapevo perché quando la bambina mi diceva: mi fa male, fino a farmi i lividi, io ero assente o troppo presente.
Avevo paura di non essere d’aiuto.
Le fantasie riparative e i meccanismi di difesa basati sulla negazione si attivano solo quando le esigenze difensive del terapeuta sono così forti da impedire il riconoscimento di uno o più di questi vissuti.
Da questo momento terapeutico avevo imparato molto, che prevenzione e “terapia” si giocano tutti nel corso del training e del lavoro successivo di supervisione: centrati ambedue sul tentativo di aiutarlo ad aumentare la sua capacità di riconoscere e di accettare le emozioni destate dal contatto con i pazienti.
IL CONCERTO PIÙ FAMOSO: SUPERVISIONE CON IL PROF. CANCRINI
Secondo quanto riportato al prof. Cancrini, e probabilmente per le mie difficoltà nel gestire recenti contenuti della psicoterapia, invitiamo Cerere e Proserpina a venire dal prof. Cancrini.
Il professore chiede a me di presentarle:
«Cerere e Proserpina sono una figlia e una madre che seguo da più di un anno, hanno fatto un percorso molto difficile in cui hanno raccontato e hanno superato alcuni momenti dolorosi insieme.
Proserpina è una bambina allegra solare, a cui piace stare con gli altri, che frequenta la scuola elementare con un buon successo.
Cerere è un avvocato, trascorre molto tempo fuori per lavoro, ma la sera si dedica alla bambina. In questo momento stanno vivendo uno dei passaggi più difficili della vita, ovvero quello in cui Proserpina comincia a diventare grande, comincia ad avere alcune esigenze e a fare alcune richieste, quindi un momento difficile anche per la madre, sola nel gestire questa figlia. Il prof. chiede: «E il papà?».
La mamma si rivolge a me: «Non so se la dottoressa glielo ha detto ma Proserpina è nata da una fecondazione artificiale in USA, quindi non c’è un papà».
Io mi soffermo sulla mia difficoltà ridefinendo l’episodio in cui è emerso il vissuto della violenza da parte della madre, quindi un bisogno da parte mia di quanto sia stato doloroso per loro che percepiscono insieme e condividono questi episodi scaturiti secondo due momenti diversi.
La madre, in particolare, sottolinea che fino a 3 anni hanno vissuto con i nonni dopodiché sono andate a vivere sole, e da quel momento lei si è sentita di­sorientata, in difficoltà nel gestire Proserpina da sola, così quando la bambina ha cominciato a camminare e a fare delle richieste Cerere ha cominciato a picchiarla. Proserpina riferisce che i suoi ricordi nascono da quando aveva 5 anni: «Lo ricordo bene». Allora io sottolineo di aver già affrontato questa diversa posizione rispetto al momento del ricordo. Probabilmente perché entrambe rispettivamente lo riconducono a un proprio disagio.
Quindi sottolineo davanti al prof. Cancrini la mia perplessità rispetto a questi episodi e rispetto al dolore.
Il professore pone per loro come prima domanda quale è il problema più grande, la madre dice: «Il padre»; la bambina risponde: «Anche per me è che non c’è un papà», allora Cancrini le chiede per quale motivo le manca, lei dice che avrebbe potuto difenderla quando la mamma la picchiava, avrebbe potuto accompagnarla a scuola, e allora aggiunge che le manca molto. Il prof. Cancrini chiede: «Ma a scuola cosa racconti?», lei dice che alle persone di cui si fida dice la verità, ad altre non ha mai detto nulla; la mamma aggiunge di non aver mai nascosto nulla neanche ai parenti o ai suoi amici. Quando è nata Proserpina, sono venute tante persone a trovarci, tanta gente è venuta a salutarci; la bambina le chiede di farle un esempio, la mamma si trova in difficoltà allora dice: «Beh, tante persone che tu non conosci perché sono morte o si sono separati e sono andati via», allora la bambina risponde: «Se…se, proprio così».
Il professore chiede se hanno vissuto sempre sole, e lei dice di aver vissuto con i genitori fino a quando lei aveva 3 anni ma poi ha cominciato a lavorare e si è trasferita a CH.
«Ma poi a te cosa serve un papà, ci sono io», ma la bambina dice che non è la stessa cosa, e il professore le chiede in che senso. Proserpina dice: «Beh, per me avere un papà significa avere una famiglia normale, con un papà e una mamma, due figli, anzi no nel mio caso un figlio, sarebbe una cosa naturale. Il professore allora le confessa che anche sua sorella ha cresciuto la propria figlia pur non avendo un padre perché è morto troppo presto, ma comunque la nipote è cresciuta, ha studiato è diventata molto bella e intelligente comunque.
La mamma rinforza: «Vedi me, io ho avuto i genitori ma non tutto ciò che hai avuto tu, non mi hanno fatto mai un regalo o un’affettuosità», allora il prof. sottolinea: «Vedi, Proserpina, mamma ti sta dicendo che se anche lei ha avuto due genitori non ha avuto quanto te».
La bambina sottolinea: «Sì, ma io lo voglio». Allora la mamma ci racconta che per la bambina va bene anche una figura maschile purché possa avere un padre, ma sottolinea che non è possibile perché la mamma non è mai riuscita ad avere un fidanzato, e che non è così semplice (guarda il professore quasi come se volesse la sua complicità). Ad un certo punto ridono tra di loro, allora Cerere chiede a Proserpina se può dire quello che ha detto prima di entrare. Proserpina dice prima di no, poi la incoraggia, allora la madre confessa al professore che prima di entrare nella stanza la bambina le ha detto che magari potrebbe piacerle: «Chissà se il professore è sposato???». Il professore dice di avere 5 figli, come potrebbe seguire anche lei? E poi la madre?
Allora la figlia racconta di un diario che ha la madre in cui scrive tutto ciò che vorrà dire alla figlia quando avrà 16 anni; la figlia aggiunge però di aver letto una cosa di nascosto, ha letto che la madre le ha scritto: «Scusami se ti ho fatto soffrire e non ti ho dato un papà».
Il professore chiede come mai scrive questo diario, e perché dovrebbe leggerlo a 16 anni e non a 12 ad esempio. La mamma dice che ci sono scritte delle cose che preferisce non dire per ora alla figlia, cose che potrebbero turbarla, cose che lei ha visto, le sue sofferenze, e la considera ancora molto piccola. Ad esempio quello che ha visto di suo padre. Allora la bambina dice: «Cosa hai visto?» «Non te lo posso dire. Mio padre è stato sempre un Don Giovanni, finalmente mia madre e lui si sono separati, quasi come se gli volesse dare una punizione, sono stata io a farli separare, questa volta l’ha fatta proprio grossa, con una molto più giovane di lui, per giunta la baby sitter di Proserpina». Il professore chiede alla bambina: «E tu? Che hai fatto?».
Il professore chiede a me se ho conosciuto il nonno.
Io ho conosciuto il nonno e ho dedicato una terapia all’incontro tra la Cerere, Proserpina e il nonno.
«Eh! Io sono stata molto triste quando si sono separati… la mamma dice che hanno fatto bene…».
Nel corso della terapia il professore prende la mano di Proserpina due volte e la tira. Proserpina mostra un’ipercinesia e solo dopo quando si parla del padre si tranquillizza, comincia da lì una facile transazione tra Cancrini e la bambina, in cui con leggiadria il professore entra in relazione con lei e le chiede quanto le manca un papà: da quel momento la bambina comincia ad assumere un atteggiamento nostalgico. La madre racconta che quando era piccola aveva consultato una psicologa che le aveva consigliato di dire alla bambina che il papà era morto o era andato via. Così la piccola un giorno volle farsi accompagnare al cimitero per cercare il papà e quello fu un momento molto difficile. Allora quando fu più grande Cerere decise di raccontarele la verità senza vergogna.
La mamma dice ancora una volta che il papa in realtà lo vuole per lei, per non farla stare sola, quindi il professore riformula questa richiesta come una paura della bambina nel lasciare la mamma sola, quando lei crescerà; la mamma si avvicina a lei e le dice di non preoccuparsi perché lei non deve aver paura, l’importante è che Proserpina stia bene.
La bambina confessa di aver fatto una conquista in autobus e dice che la mamma è gelosa di questo, allora il professore chiede in che senso. La mamma sottolinea che la bambina fa sempre conquiste mentre lei non riesce a conoscere mai nessuno.
I MOMENTI DELL’ESSERE
«Un’improvvisa manifestazione spirituale o in un discorso o in un gesto
o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati…»
Virginia Woolf chiamò qualcosa di simile a “momenti dell’essere”.
Le epifanie non sono sempre attimi clamorosamente eccezionali ma piccole “rivelazioni”, “apparizioni”, luce o penombra nelle stanze buie.

Il nostro lavoro di terapeuti ha anche una valenza epifanica nel senso che, dalle connessioni invisibili che sappiamo tramare nella vita del paziente, collegando i fili che pendono spesso su vuoti sterminati, può nascere – non dal nuovo e dall’originale ad ogni costo bensì dal noto e dal conosciuto – un’epifania dell’anima. 
Perché questo “fenomeno” sia possibile è necessario conoscere e riconoscere le loro storie.
Così cominciava una narrazione a due voci, come dice Onnis [11]: ci sono diadi nate per curare, altre per riparare, alcune per imitare, altre ancora per differenziarsi.
Il terapeuta iniziava in questa fase a costruire con ognuna di loro, separatamente, una trama in grado di riattivare il passaggio evolutivo [12]. Questo lavoro veniva poi sviluppato nel corso delle sedute successive per favorire l’accesso a sentimenti di disillusione e accettazione.
Incontro dopo incontro, ognuna delle due poteva sviluppare un percorso emotivo che riattivava connessioni con le figure di riferimento, così da dare forma a legami di odio e di amore, di sintomi e guarigioni, di eventi narrabili e inenarrabili, di trame visibili e celate.
M

F
Schema:
Creazione di uno spazio terapeutico individuale
Rielaborazione della storia individuale
Passaggio dalla storia individuale alla trama individuale
Ri-narrazione
Integrazione delle specifiche configurazioni
 
Così dividevo la seduta ascoltando prima la figlia e poi la madre [13] .
Proserpina mi dice di essere contenta perché la mamma non l’ha picchiata mai, solo una volta stava per farlo ma poi si è fermata… la bambina aggiunge che la mamma le chiede: «Aiutami a non picchiarti… ti prego»… e così la bambina fa in modo tale di fermarla… nel contempo ha chiesto spesso alla mamma di fare i compiti con lei perché sa che lei era molto brava a scuola. La mamma anche se con difficoltà è riuscita a farlo; aggiunge che però quando lei chiede una cosa alla mamma lei non la fa, al contrario quando la mamma chiede una cosa alla figlia la deve fare per forza. Allora chiedo cosa significa per forza. Proserpina mi dice che è obbligata perché altrimenti la mamma la picchia anche se ultimamente non lo fa più.
Chiedo alla bambina che forse è giunto il momento che lei si prenda cura da sola della pulizia della propria persona, le dico che dovrebbe scoprire quanto sia bello prendersi cura della sua bellezza. La bambina mi dice che ho ragione ma che lei vede la mamma che non si cura per niente.
La bambina riprende il suo desiderio di andare a dormire sola, ed entusiasta dice di essere molto contenta che tra un po’ andrà nella sua nuova casa.
Proserpina inizia il suo racconto: «Mi tirava i capelli… anche quando ero molto piccola… da quando avevo cinque anni». Chiedo come mai ricorda così bene di aver avuto cinque anni, la bambina mi risponde che ricorda benissimo la prima volta che è successo: «Quando ero molto piccola ero buona, poi sono diventata disobbediente”. Chiedo alla bambina come mai abbia questo ricordo così nitido, lei mi dice di essere stata molto male di aver sofferto tanto anche quando era piccola. Stavo male perché volevo una famiglia. L’unica cosa che mi dava gioia era la domenica, perché finalmente avevo i miei nonni, e mia madre, e quando eravamo seduti a tavola sembravamo una vera famiglia.

Cerere: «L’altra sera Proserpina mi ha detto una cosa molto bella, mi ha detto che ha paura di perdermi, che io muoia». Allora sottolineo l’importanza per la bambina di essere rassicurata, ancora di più in un momento di crescita così fragile. Mi ha chiesto se può avere un papà… Io le ho risposto che lei ha sia il nonno che due zii che le sono vicini e che le hanno fatto sempre da papà.
Continua Cerere: «Secondo me mia figlia più che un papà vuole un uomo per me… ma io sto bene da sola. Poi forse per questo ho bisogno di parlare con qualcuno… comunque ho intenzione di prendermi cura di me stessa, ora ricomincerò la dieta… ho bisogno di piacermi un po’ di più».
Sposta l’attenzione sugli amici che frequenta la bambina, ma cerco di trattenerla nel suo spazio, le chiedo se lei ha degli amici, se esce, come è la sua vita sociale.
Cerere mi risponde che, a differenza della figlia, lei è sempre a casa o se esce è insieme ad alcune amiche. L’ultima volta ha visto un film, io le chiedo con chi è andata, lei mi dice che è andata da sola.
«Sono sempre stata così, in solitudine, cercavo sempre degli amici che sapevo già mi avrebbero abbandonato. Le uniche amiche sono due colleghe di lavoro che conosco da tanti anni con cui parlo tanto, anche loro hanno dei problemi. Mi ricordo quando ero piccola, mio padre non mi faceva uscire mai di casa, quindi giocavo da sola. Ma ora mi sta accadendo una cosa strana, da quando abbiamo cominciato questo percorso, mi capita di essere vista di più dagli uomini; pochi giorni fa un amico mi ha stretto la mano e l’ho sentito per la prima volta, mi ha vista più magra, ed io ho sentito, come un’adolescente, un brivido, come se non mi fosse mai successo di essere apprezzata da un uomo».
È chiara in questo momento una visione che diviene sempre più nitida, vedo un riappropriarsi del loro divenire; è affascinante come sembrano essere su di uno stesso piano evolutivo, la madre e la figlia. Proserpina è colpita per un complimento fatto in autobus da un suo coetaneo, e Cerere con occhi entusiasti che mi racconta della sua “prima volta” come se il suo amore fosse finalmente privo di scandalo.
AMORE SENZA SCANDALO
Il complesso processo che porta alla “completa” strutturazione dell’identità di genere si svolge durante tutto lo sviluppo, fino all’adolescenza, ed ancora oltre questa: sperimentandosi nuovamente con gli esiti della metamorfosi biologica [14].
La simbiosi madre-figlia funzionerebbe da induttore fondamentale della femminilità ed il mantenimento dell’identificazione primaria con la madre costituisce una sicura garanzia ad una conferma della femminilità della bambina. Tale processo di strutturazione di identità di genere implica la necessità di una “di­sidentificazione” della madre simbiotica ed è accompagnata da una “angoscia di simbiosi” [15]. Al distacco si unirebbe il timore di non poter esistere separati dalla madre [16].
Questa diade era rappresentata da una madre che non aveva riconosciuto né accettato la propria caratterizzazione di donna, quindi avrebbe potuto determinare una mancanza nell’agevolare il processo di disidentificazione, a maggior ragion in mancanza di un padre che avrebbe potuto facilitare tale processo.
Per questo nel percorso terapeutico inserivo una narrazione circa le rispettive crescite nell’ambito dell’identità di genere.
Proserpina aveva un desiderio senza misura di innamorarsi, tra i suoi obiettivi c’era quello di diventare madre, aveva voglia di avere tanti figli, raccontava della sua passione per i bambini. Mi raccontava dell’incontro con un ragazzino più grande di lei, anche se a volte mi chiedeva se era normale che preferisse vestiti da maschio piuttosto che da femminuccia.
Io le dicevo che nella scelta dei vestiti doveva seguire i suoi desideri, che questo era il tempo dei vestiti da maschietto, magari più avanti nella sua vita avrebbe preferito quelli da femminuccia.
Anche in questo il suo corpo cambiava, nel corso della terapia, la sua posizione da seduta se prima assumeva un atteggiamento spavaldo con la maglietta del Milan, poi si sedeva con la schiena diritta, e una maglietta più aderente, e i capelli un po’ più lunghi… il suo corpo prendeva uno spazio e un significato.

Cerere era una madre con bisogni infantili, rimasti inappagati ed una problematica identità di genere.
Da qui l’influenza del sistema familiare: «La famiglia è matrice dell’identità. Nella famiglia il bambino impara come punteggiare il flusso dell’esperienza» [17,18].
Cerere raccontava del ballo degli invisibili, delle sue angosce, dei suoi deliri che avvenivano quando aveva 25 anni, momento in cui incontrava un uomo per la prima volta e non sentiva piacere, da qui scaturivano les reverses [19], nella sua mente s’inseriva uno scenario di immagini femminili che ballavano e che le donavano piacere, la sua intimità veniva inquinata da queste immagini che lei non riusciva ad accettare. Aveva paura di scoprire la sua omosessualità. Nella narrazione, nell’ordine del suo tempo, raccontava che lei avrebbe desiderato tanto essere maschio, perché nella sua famiglia il padre adorava i maschi, dava loro molte attenzioni, li ascoltava, e la donna per lui era un oggetto, uno strumento.
Solo verso i 40 anni incontra un uomo che evoca in lei una image paterna, si sente attratta da lui, riscopre il suo corpo come meritevole di piacere. Questo rapporto rappresenta un passaggio importante nella sua identità di genere, e in questo momento del suo ciclo di vita decide di avere un figlio. Ha paura della sua sessualità, dell’unione con un uomo, così decide di avere un figlio con una provetta.
In questo scenario avvengono, allora quelle anomale coalizioni transgenerazionali che legano la paziente a un genitore attraverso la svalutazione dell’altro e che non solo inducono ad occupare posti impropri e colmare vuoti affettivi, ma in particolare rendono ardua l’assunzione di modelli definiti di identificazione, così da rimanere apparenti [7].
IN NOME DI UN PADRE CHE NON C’È
Continuando nel percorso di individuazione-separazione, a volte gli incontri sembravano resistenti ad una separazione, così nelle prime fasi delle sedute aspettavo che loro interagissero per poi dividerle, quasi a creare un legame sicuro tra loro [20].
Proserpina comincia a toccarsi gli occhi, dice: «Ho paura che tu muoia… voglio un papà».
Cerere si rivolge verso la bambina e dice guardandola con grande sofferenza: «Io non posso dartelo un padre, mammina, non ne sono capace… non te lo darò mai… ma questo lo devi accettare, come ha detto il prof. Cancrini, la tua è una realtà senza padre…». Proserpina comincia a piangere tanto come non aveva mai fatto, con singhiozzi, dicendo ad alta voce: «Io lo voglio! Io sto male!». Proserpina guarda la bambina ma rimane ferma con le lacrime agli occhi… quasi bloccata, in silenzio, lasciando lo spazio alle lacrime e ad una diade che soffre ma che allo stesso tempo è in divenire... poi incrocio lo sguardo di Cerere e riporto quello sguardo su Proserpina, così la mamma abbraccia la figlia e le dice: «Soffro tanto, ho sofferto sin dal primo momento, mi ricordo che quando ero in aereo di ritorno dagli USA pensai che non avrei potuto darti un padre, e piansi tanto… ma siamo qui e ce l’abbiamo fatta comunque… ed io, vedrai, non andrò mai via».
Proserpina continua a piangere e mi guarda. Le dico che questo è un momento difficile per entrambe, ma che allo stesso tempo tra loro c’è un grande amore che porterà entrambe ad avere fiducia e che le aiuterà a crescere. La bambina mi chiede perché soffre così tanto… perché è così arrabbiata… Io le dico che questo è un momento in cui lei sta elaborando comunque un lutto di un papà che lei ha immaginato da quando era piccola ed ora quell’immagine l’ha persa, quindi è un momento di dolore che la porterà a diventare più forte e a riscoprire ancora una volta un rapporto che è sempre esistito e che l’aiuterà a stabilire altri rapporti significativi.
Guardo la madre, lei l’abbraccia e le accarezza la testa, continua a dirle che qualsiasi cosa lei farà ci sarà sempre.
All’interno di questa diade si assiste ad una figura crepuscolare di un padre che non c’è.
Emerge nel corso della seduta una necessità di acquisire una figura paterna come “salvatore” e “riparatore” di un rapporto che comporta dolore e rabbia.
Proserpina desidera un padre per lei, un compagno per la madre, un’immagine creata nel corso dei suoi anni per rimanere sospesa nell’attesa di quella che lei chiama “una famiglia normale”.
Nel corso della seduta dedicata a definire insieme alla bambina cosa significhi avere un padre, sul perché sia così importante la sua presenza e/o esistenza, viene fuori attraverso la voce di Proserpina: «Il padre serve perché così ogni cosa prende il suo posto, perché così lui potrebbe difendermi. Lui ci aiuterebbe a ri-costruire un mondo familiare, un ritmo, orari, abitudini, regole».
Inserisco a questo punto il concetto di “proprio posto”; per esempio il “proprio letto” definisce la nostra collocazione nel mondo, il padre assegnandocelo, ci consente di vivere nel mondo.
Lei mi guarda con i suoi grandi occhi azzurri aggiungendo che se ci fosse stato un padre, lei avrebbe dormito sempre nella sua cameretta, perché un padre le avrebbe detto: «Vai nel tuo letto».
Continua il racconto secondo cui sarebbe necessaria questa figura, mi dice che le manca quando esce da scuola, le piacerebbe aspettarlo; questo le provoca un disagio nei confronti dei suoi compagni, da qui prende forma la sua bassa autostima.
In questo rapporto fusionale tra madre e figlia, sarebbe il padre a veicolare un’autonomia, perché egli è la figura del limite, di direzione di senso [21].
Padre vuol dire “precisa localizzazione di un principio reale”. In questo momento evolutivo, la bambina esprimeva con dolore questo vuoto, in lei aveva albergato un’immagine: quando aveva due anni le avevano comunicato che era morto, poi che sarebbe arrivato, per cui quando giunse alla consapevolezza della realtà, si realizzò la sua falsa credenza.
La bambina piangeva, ed io accolsi il suo dolore dicendole che questo momento era il tempo del dolore, un tempo in cui il “padre moriva una seconda volta”, era come un’elaborazione di un lutto.
Al fine di aiutare Proserpina ad elaborare la perdita del “padre” si attivava tra me e lei un far emergere le risorse che poteva ritrovare all’interno del rapporto con sua madre, anche attraverso figure che ruotavano intorno a lei sin da quando era piccolina.
Lei aggiungeva che un buon padre avrebbe integrato la madre nella regolazione dei suoi comportamenti violenti, l’avrebbe fatta stare meglio.
Come terapeuta mi sentivo spinta nel far emergere comunque una figura di “padre generoso”, perché aveva permesso a lei di nascere e alla sua madre di procreare. «Proprio per questo sicuramente sarà una bella persona». Sottolineavo che la figura di un padre non doveva necessariamente essere vista, ma semplicemente condivisa con un’immagine positiva, attraverso la quale lei si sarebbe sentita più forte.
Così con il suo modo spontaneo ed intuitivo mi disse: «Beh! Guarda Jacopo, ha un padre e una madre ma non li vede mai! Io almeno ho una madre che sta sempre con me!».
Incontro Cerere, comincia a narrarmi del suo incontro con il padre, il suo bisogno di confidargli le sue difficoltà quando era adolescente, la necessità di confessare la sua paura di omosessualità.
Cerere: «Ho raccontato tutto, lui mi ha ascoltato, avevo paura del suo giudizio ma poi ho pensato che era il momento di farlo; la cosa che mi ha sconvolto è stata la sua consapevolezza, lui aveva capito tutto, per questo è stato per molto tempo preoccupato, per la mia salute e per le mie scelte.
Mi guarda e mi dice: «La mia malattia mentale è stato un lungo taglio, un arresto, una dislocazione, mi sono bloccata, ho avuto paura. Proserpina mi sta aiutando a capite molte cose di me. È come se il tempo fosse fermo, depresso, oppresso, rotto. Poi ad un certo punto è esploso tutto, è scoppiato in mille pezzi e mi sono svegliata bruscamente con la mia bambina che stava diventando grande».
In Cerere era avvenuta una caduta del reale, ciò che era presente nella realtà esteriore era stato negato o era presente come qualcosa che non si muoveva, che restava senza vita, come un albero rinsecchito.
Mi riferiva un problema di adeguatezza e di inadeguatezza, ad un certo punto; nel periodo in cui aveva 23 anni cominciò a pensare “fuori dalle norme” tentando di introdurre un discorso grandioso.
«Adesso mi sento come un pallone che si sta sgonfiando, ma tutto è perché non c’è posto per me… i miei genitori sono troppo occupati per loro stessi, non mi hanno mai aperto la porta, mia madre è stata sempre avviluppata attorno a mio padre, e mio padre preso dalle sue donne».
Segue una pausa in cui le parole, mancanti di ossigeno, si sentono soffocate: il discorso gela, diviene senza ossigeno…
«Dopo aver incontrato mio padre, dopo avergli parlato senza paura, il “mio corpo-palla” od ombra vagante diminuiva della sua pressione e cominciavo ad avere più coraggio e forza nell’incontrare le persone.
L’incontro continuava tra gesti, parole e pause, svuotati dal loro vissuto o al contrario abitati, riempiti di sentimenti troppo sofferenti e troppo persecutori.
Rimandavo il concetto di libertà come scoppio di collera, di dolore o di gioia. Nella misura in cui il tempo si disgela e riprende a correre.
Due donne, in un modo o nell’altro sofferenti per la mancanza di un padre, nella prima la necessità di creare un’immagine del sé individualizzato sulla base di un’immagine di un padre invisibile e generoso, dall’altra il bisogno di liberarsi di un cattivo padre, il quale significa non solo ricordare ma anche rivivere la propria infanzia: entrambe private di un viaggio con un padre che avrebbe permesso loro di esplorare il mondo e conoscere meglio se stesse [22,23].
Proserpina da questo momento in poi iniziava un nuovo ciclo di vita accompagnata da una convivenza di una madre garante.
Cerere riscopriva, come in un’età da giovane adulta, la figura di un padre che le rimandava un’immagine reale, tanto da ritrovarla nel mondo degli altri.
IL RESTO DEL MONDO: LA VITA SOCIALE, GLI AMICI, LA NATURA
Dal cerchio, percepito anche come pericolo di soffocamento, Proserpina, che da bambina stava divenendo adolescente, aveva capito di dover uscire per non rimanerne prigioniera.
Il rapporto con le figure alternative alla madre, amici, vicini di casa, insegnanti, tendeva ad essere intenso ed esclusivo. La ragazza, sostituiva questi amore inadeguati con relazioni sociali soddisfacenti: andava bene a scuola, prendeva tutti voti alti, veniva lodata per il suo senso di responsabilità anche dai nonni. Raccontava la sua vita quotidiana come una persona che si apprestava ad affrontare un momento evolutivo difficile come l’adolescenza con tanti strumenti, il primo fra tutti la rimozione di lati in ombra.
La vita affettiva nel suo complesso era modulata da un desiderio di libertà («Non appena faccio 18 anni voglio andare in America dove sono nata; ho voglia di arredare la mia camera nella casa dove andremo ad abitare»).
Quando le chiedevo cosa voleva diventare da “grande”, i suoi occhi si illuminavano, diventare una brava madre e sposarsi. «Vorrei studiare per diventare una maestra e poi imparare a nuotare bene per insegnarlo ai miei figli». «Vedi, questo è il mio primo anello di fidanzamento…» (i suoi racconti diventavano sempre più ricchi di sogni e di progetti).
La sua vita andava avanti, fluiva all’interno di un mondo affettivo più equilibrato, in cui lei aveva un ruolo definito, i cui spazi erano propri (si lavava, da sola, dormiva nella sua camera, quando venivano gli amici li ospitava e lei stessa andava a casa loro).
Sopra ogni cosa esisteva una maggiore serenità di fronte all’assenza di un padre.
«Mia madre da sola ce la può fare…» (mi canta la canzone “Domani”, dedicata all’Abruzzo e alla gente che ha perso familiari e case… dicendomi: «Ho perso l’idea di avere un papà, ma in cambio ora ho una grande mamma… e avrò una casa tra un po’, dove vivremo serenamente...»).
Così la parola “madre” si sostituiva alla parola “mamma”.
Cerere: «La mia vita sociale è cominciata ora, a volte mi costringo ad uscire ma so che è la cosa che devo fare per stare meglio. È un momento bello per me. Sono contenta anche per Proserpina che sta meglio, questo mi fa sentire più adeguata al ruolo di mamma. Una cosa importante che mi è successa è che parlo tanto con mio padre, lui mi sta raccontando anche tanto della sua vita.
Prima andavo al cinema sola o con mia madre, ora vado con i miei amici. Non voglio trascurarmi, mia madre lo faceva e questo è stato un grave errore perché mi rimandava un’immagine di donna sopraffatta, io invece voglio insegnare a Proserpina che la donna deve curarsi di più.
Finalmente vedo i miei genitori come i portatori di alcuni valori, loro mi hanno insegnato il senso del dovere, il valore dei soldi... negli ultimi anni mi stanno dando tanto affetto, che non avevo conosciuto. Mio padre ha il terrore della morte ma continua a vivere con dignità e questo mi dà tanta forza, per questo cerco in tutti i modi di avere dei colloqui con lui e con mia madre, ho bisogno di raccontare loro della mia vita. Mi dispiace che siano separati, abbiamo parlato anche di questo, e magari un giorno torneranno insieme… Ogni giorno che passa porto con me il biancore della pelle di mia madre, la sua forza e il suo grande amore verso mio padre, che nonostante tutto è riuscita a sostenere… di mio padre la sua forza di seduzione e di libertà… Sono più serena perché sono tutti elementi che aiuteranno Proserpina a diventare grande».
FOLLOW-UP: “NASCERE NON BASTA…”
«Il vero viaggio di scoperta
non consiste nel cercare nuove terre
ma nell’avere nuovi occhi»
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto 

Rivedo Cerere e Proserpina, sono passati alcuni mesi da quando avevo detto loro che potevano continuare il loro cammino senza il mio aiuto. Erano in grado di farlo, si allontanavano con una spinta verso la propria individualità.
Conoscevano la loro storia e ne avevano attribuito un significato, con una condivisione del sapere e un attaccamento non più insicuro. Lasciavano la loro base per esplorare la loro vita.
Si presentano più curate, più sorridenti, Proserpina mi dice che è passata in prima media, che i suoi amici sono simpaticissimi e che lei si sente cambiata. Dorme nella sua stanza anche se a volte ha bisogno di andare a dormire con la mamma. Quando ha delle difficoltà chiede aiuto alla mamma o ai nonni, ma come tutti gli adolescenti, ora si fida molto anche degli amici.
Parla con loro delle sue difficoltà, ha raccontato dell’assenza di un padre senza vergogna, si è innamorata di un suo coetaneo ed è dimagrita. I suoi capelli rimangono sulle spalle… e mi dice: «Sai, Daniela, nascere non basta… poi viene la vita, dopo alcuni anni…».
Mi ringrazia perché le ho interrotto l’encopresi. Io le rimando che è tutto merito suo e della mamma, ed io ho semplicemente aiutato loro a dare un significato.
Cerere sembra più giovane, meno stanca, la sua pelle più bronzea la rende più curata. Mi racconta di non aver avuto grossi problemi nella relazione con Proserpina, è stata anche contenta di averla mandata in una vacanza da sola, e lei non ha manifestato nessun malessere.
Si sente più realizzata perché il padre le ha delegato tutte le attività di famiglia, definendo un’alta considerazione nei suoi confronti. Grazie a questo, non ci sono stati più scontri tra lei e i suoi genitori.
Vanno avanti, due donne, che risiedevano in una, ora le vedo, sono due atomi, due valenze, ognuna con una propria storia, con una propria entità e un proprio futuro.
Si potrebbe dire che ogni madre contiene in sé la propria figlia e ogni figlia contiene in sé la propria madre, e che ogni donna si amplia per un verso nella madre, per l’altro nella figlia. Da questa partecipazione nasce l’incertezza nei confronti del momento tempo: da madre si vive prima, da figlia poi [24].
Cerere e Proserpina sono troppo vicine o troppo lontane. Sono una coppia confusiva e interdipendente, emblematica di una relazione madre-figlia dove l’affetto e il legame reciproco sovrasta ogni altra e ulteriore connessione e dove per figlia non vi è spazio vitale al di fuori del legame con la madre.
Nella vita di Cerere, contenuta nell’insosteniblità emotiva di accettare che quanto ha contenuto nel dolore possa trasformarsi in contenitore di vita e di continuità.
In quest’area che rappresenta la cifra più significativa delle conseguenze e del danno connesso all’appartenenza di genere, si cela anche il lutto per l’infanzia perduta, espresso nella volontà del tempo sospeso, come se rimanere figlia colmasse carenza di cure e di attenzioni non ricevute e preludesse all’attesa di un risarcimento affettivo, fortemente desiderato ma mai conseguito.
Nella terapia avveniva una faticosa calibrazione della giusta distanza nella relazione, una mancanza di spazio. Amore mancato, abbandoni da “vendicare”, sogni mai realizzati vengono immaginificamente attribuiti alla figlia nel gioco “tu sei con me”, che inizia fin dal primo momento nella relazione.
La sensazione di potere, non scalfita né transitabile da qualsiasi evento, lascia spazio nella madre a sogni di proiezioni grandiose: la coesività recursiva tra lei e la figlia consente loro di intravedere un futuro altrettanto “potente”.
La figlia per crescere non deve solo andare via, lei deve andare contro. Contro l’indistinzione, contro la paradisiaca situazione di unitarietà felice, sperimentata precedentemente.
La figlia è per la genitrice se stessa e l’altra. È la sua quintessenza. È l’altra donna perché permette alla madre di “riaprire un nuovo capitolo della narrazione della propria vita”, consentendole di recuperare aspettative e desideri attraverso un caleiodoscopio di proiezioni [25] .
La rabbia di Cerere che la porterà a peregrinare tra il ballo degli invisibili non è motivata solo dal desiderio di sapere il destino della figlia quanto piuttosto dalla non volontà di aderire a disegni superiori, a leggi che non possono essere contraddette.
Il sintomo dell’encopresi sembrerebbe celare nel rapporto madre-figlia un ordito di nostalgia e di paura del divenire.
L’affetto depressivo che può incogliere la madre appare spesso con tonalità di incolore estraneità e vissuti corporei di svuotamento.
Solitamente accade che la figlia riesca, allontanandosi, a sopperire meglio all’assenza a riorganizzarsi con altre figure e o con altri sistemi.
La madre allora romperà il silenzio e tenterà disperatamente di scongiurare una perdita. Sarà questa la fase in cui Cerere sperimenterà un attaccamento furioso per il corpo della figlia, in una battaglia per riaverla con sé.
Ovviamente conterà molto come verrà vissuta l’assenza del padre, tale vuoto invertirà l’esito della vicenda lasciando posto ad un’iperinclusività materna che si estenderà.
Abbiamo già lungamente esaminato come la relazione madre-figlia costituisca il perno del processo di identità e quanto sia lento, luttuoso e parziale il processo di separazione accompagnato da un rimpianto perpetuo.
Così la vita è un dono gratuito, porta in sé l’esigenza di trasmettere, di rimborsare ciò che si è ricevuto, di riconoscere il dono della vita, promessa al tempo stesso di immortalità e di morte, implica anche il riconoscimento di un debito che circola di madre in figlia.
Un processo che investe la coppia madre-figlia in un processo di co-evoluzione.
Il destino dell’una è vincolato al destino dell’altra, o dobbiamo dire che forse è un vincolo o limitazione per l’altra.
Infine, bisogna riconoscere e tributare valore alla paziente, riconoscere valore.
Per la figlia la mancata separazione diviene vincolo per l’espressione delle sue caratteristiche personali, sperimentate come deneganti l’esigenza della madre di rispecchiarsi nella sua creatura, annullando il tempo ed il trascorrere di questo, insieme ai suoi dolori e alle sue rinunce.
È necessario in questa fase aiutare la paziente ad iniziare un dialogo profondo con le sue parti più dolenti e rabbiose, riconoscendole, legittimandole e muovendo verso un’operazione anche nei confronti della “little girl inside” della madre.
La bambina, che è stata la paziente designata che non ha potuto compiere questo iter, deve lentamente ripercorrere con la terapeuta le sue tappe di sviluppo di separazione, di differenziazione, per conquistare la possibilità di considerare il rapporto con la madre fonte di ricchezza e di eredità e non più di depauperamento e frattura.
Un ritorno attraverso la narrazione, in cui non bisogna inventare e deformare, mai denaturare ma solo stringere tra sensazioni e persone, ricordi e cose che esistono, nomi e significato, rapporti nuovi e interrelazioni che possano consentire ad entrambe una revisione della loro storia.
Per quanto riguarda la relazione terapeutica donna e donna, ho imparato che la relazione, in quel qualcosa “tra” imprescindibile, indicibile, al di là della tecnica, lega e trascina, storicizza e rende possibile, trasferisce e restituisce.
Ricordo nel primo anno di training un lavoro che mi fu molto utile, la lettura dell’opera “Alla ricerca del tempo perduto”, di Marcel Proust [26]: da allora porto con me la ricerca di una speranza e una promessa di felicità, ritrovare il tempo non è impossibile, a patto che il mondo ricreato sia un mondo interiore, mistico, costruito su questo gioco di memoria e tempo; lo scrittore si rifaceva alla contrapposizione tra il Tempo perduto e il Tempo ritrovato, attraverso la memoria involontaria che è il ricordo improvviso e spontaneo di una sensazione provata nel passato, suscitata dalla stessa sensazione del presente.
L’intelligenza e le emozioni hanno il compito di riavvicinare queste due sensazioni e di riportare la sensazione che sfugge. Questa esperienza, che non appartiene né al passato né al presente, è motivo di grande felicità, perché elimina la sensazione di perdita del tempo e permette al soggetto di uscire dalla dimensione del tempo reale e riscoprire la verità di un momento della sua esistenza.
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