Storia di un ascensore bloccato: Ermanno,
il ragazzo a cui avevano strappato il tempo

Raffaella Formillo
«C’è l’illusione: essere medico significa conoscere la fisiologia,
la patologia, la semeiotica, la terapeutica […].
Il medico fornisce all’uomo tutto ciò
di cui ha bisogno per sfuggire alla sofferenza, al declino, alla morte.
E poi c’è la realtà: essere medico significa
innanzitutto toccare il corpo dell’altro per mettere il dito
su ciò che fa male»
Martin Winckler, La malattia di Sachs

Riassunto. La terapia con le famiglie gravi, soprattutto quando è caratterizzata da interruzioni non concordate del processo terapeutico, espone doppiamente il terapeuta in formazione. Se da un lato egli è obbligato a confrontarsi con aspettative, ideali e istanze grandiose legate alla scelta della professione di cura che lo costringono a rimodulare e riformulate i tempi e la realtà degli obiettivi terapeutici, dall’altra egli è altresì obbligato a prendere contatto con vissuti, ansie e tematiche interne legate alla propria soggettività. Si delineano così doppi percorsi di crescita e cambiamento e la narrazione di una storia clinica, non è mai solo narrazione dell’altro, del caso clinico che si narra, ma diviene anche narrazione del proprio percorso formativo, come persone e quindi come terapeuti che si preparano allo svincolo dal proprio gruppo di training. Una narrazione che procede sia sul piano verbale che su quello delle immagini, esplicitate, evocate, sognate e ritrovate altrove, magari anche fuori dal setting, in un quadro o nello stralcio di un romanzo.
 
Parole chiave. Soggettività, consenzienza, spoilt children, tempo altrove, tempo sospeso.


Summary. Story of a blocked lift: Ermanno, the boy they had torn the time.
The therapy with psychotic families, especially when it is characterized by not agreed breaks, exposes doubly the therapist in training. If on one side he is obliged to deal with expectations, ideals and needs linked to the choice of the medical profession that force him to adjust and reformulate time and objectives of the therapy; on the other side he is also forced to take contact with his own background, anxieties and internal issues linked to his subjectivity. In this way are emerging double trails of growth and change. The narration of a clinical story is never just narration of the patient but it’s also narration of the training trail of the person and then of the therapist preparing himself to separate from his group of training. A narration based on words and images, declared, evoked, dreamt and found elsewhere, perhaps also outside the setting, in a picture or in a novel.

Key words. Subjectivity, consentient therapy, spoilt children, time elsewhere, stopped time.

Resumen. Historia de un acensor bloqueado: Ermanno, el chico a los que habían arrancado el tiempo.
Las terapías con las familias graves, sobretodo cuando es caracterizada de graves interrupciones no concordatas del proceso terapéutico, expone doblemente el terapista en formación. Si de un lado el es obligado a confrontarse con expectativas, ideales y grandiosas instancias legadas a la profesión de cura escogida que lo obligan a remodular y reformular los tiempos y la realidad de los objetivos terapéuticos; del otro lado el es obligado a tomar contacto con vividos, ansiedades y cuestiones internas vinculadas a la propia subjetividad. Se perfilan así dobles recorridos de crecimiento y cambio y por tanto la narración de una historia clínica, no es nunca solo narración del otro, del caso clínico que se escribió, pero pasará a ser también historías del recorrido formativo como personas y entonces como terapéutas que se preparan a la salida de sus grupo de training. Una narración que se da verbalmente y con imagines, explicitadas, evocadas, soñadas y encontradas a veces hasta fuera del setting, en una pintura o en un libro.
PREMESSA
Sono seduta dinanzi al mio computer, foglio bianco e confusione nella testa. Inizio a scrivere due frasi, cancello tutto e ricomincio. L’esame di fine training è una cosa importante, mi dico, devo essere chiara e dimostrare tutto ciò che ho imparato. Tutto ciò che ho imparato… che vorrà dire poi non lo so, visto che più mi addentro nella matassa del sapere, più mi sento confusa e stordita. E penso che Bateson aveva ragione nei suoi metaloghi sulla conoscenza: «Il sapere è come tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi… e la prima regola per essere chiari è quella di non mescolare idee che sono del tutto diverse tra loro… devi combinarle ma non sommarle… e allora hai un nuovo tipo di idea, di quantità… non si possono sommare o mescolare i pensieri, si possono solo combinare» [1] . 
Il caro Bateson mi aiuta, come sempre, e mi rilasso. Il pensiero si rischiara: nella mente non ci sono «cose», ma «idee» [2] e non devo scrivere ciò che so, un copia-incolla freddo e stereotipato di teorie, ma ciò che penso, ciò che la mia mente connette. E se c’è una cosa che mi hanno insegnato in questa scuola è proprio il connettere le idee, il produrre nuovi pensieri.
Resta adesso da stabilire quale storia dovrò narrare. E mi ritrovo di nuovo in un dilemma: scegliere di raccontare un caso clinico la cui evoluzione è stata soddisfacente, gratificante e più facilmente narrabile, o scegliere di raccontare un caso sofferto, difficile, frustrante?
Scelgo la seconda e più difficile opzione.
Scelgo di sfidarmi.
Scelgo con il cuore.
Scelgo l’esperienza emotivamente più significativa che potessi scegliere.
Perché la famiglia di cui voglio scrivere è stata la prima incontrata nella mia carriera di terapeuta inesperta, perché mi ha fatto gioire e soffrire molto, perché mi ha fatto riflettere e discutere per mesi sulla possibilità di aver commesso errori e sulla realtà degli obiettivi terapeutici. Decido di raccontare il caso che ha distrutto il mio ideale salvifico del fare terapia, che mi ha fatto deprimere, che mi ha fatto balzare in cielo e poi sprofondare sotto terra. In fondo, come più volte ha sottolineato Luigi Cancrini nei suoi scritti, «il lieto fine non è necessario perché un lavoro terapeutico ci insegni qualcosa» [3,4].
Mi accingo così a narrare, non di loro, ma di noi. Della famiglia Z, di me stessa, del gruppo di training e del supervisore che mi ha accompagnato in quest’avventura iniziata tra maggio 2003 e aprile 2004 in supervisione diretta.
Alla mia didatta, Simona De Simone, voglio dedicare la mia tesi, perché ha tenuto ben saldo il filo di quel palloncino che fluttuava in aria, trasformandolo in corda quando sono sprofondata sotto terra. Soprattutto vorrei ringraziarla per la metamorfosi che ha generato in me, perché… «Ci sono dei geni a cui vengono date le tessere di un puzzle con l’immagine di un pappagallo e loro ne ricavano un pesce. Io ti ho consegnato un parassita e tu hai ricomposto un uomo. Usando gli stessi pezzi ma migliorandone il risultato» [5].  
L’INCONTRO
«Scriveva Freud alla fine del secolo scorso che il racconto di una terapia,
per essere scientifico,
deve essere reso “in forma di novella”»
Luigi Cancrini, La casa del guardiamacchine

Sono agitata, mi fa male la pancia. Mentre attendo l’arrivo della famiglia Z passeggio su e giù per la stanza di terapia e mi guardo allo specchio. Ho l’aria da ragazzina e dimostro meno anni di quelli che ho, ma fortunatamente sono truccata e indosso il mio tailleur di lino nero, serio, acquistato apposta per l’occasione. Mi sorrido e torno a girovagare per la stanza. I compagni di training mi danno pacche incoraggianti sulla spalla. Ho paura, lo ammetto. Temo che la famiglia non si fiderà della mia giovane età, temo di scoprire che non sono adatta per questo lavoro, temo di deludere me stessa e la mia didatta.
È una settimana che mi preparo psicologicamente a questo incontro, il mio primo incontro con una famiglia, e penso che dovrò sviluppare un contenitore abbastanza grande per contenere le mie aspettative, le mie paure, le mie ansie e quelle della famiglia. Un contenitore che ha già iniziato a strutturarsi prim’ancora della seduta, un assetto interno già abbozzato.
La mia didatta si avvicina, riassumiamo brevemente le aree da sondare in questa prima seduta di consulenza e rileggiamo le poche notizie che abbiamo sul caso, scritte sulla scheda telefonica di primo contatto. La famiglia è composta da quattro persone, due genitori cinquantenni e due figli, Benedetta ed Ermanno. Il paziente designato è il secondogenito, Ermanno, ha 21 anni ed è seguito da circa otto mesi, sia da un punto vista psicoanalitico che farmacologico (prende il Risperdal) da uno psichiatra (che chiamerò il dott. DS), a causa di uno “stato depressivo” scatenato dalla bocciatura all’esame di Stato l’anno precedente. Il quadro clinico si completa con attacchi di panico, isolamento e idee di riferimento. A chiamare al Centro Studi di Terapia Familiare di Roma è stata la madre su indicazione del dott. DS.
La segretaria annuncia l’arrivo della famiglia. Si spengono le luci nella stanza dietro lo specchio, si accendono quelle nella stanza di terapia.
Ha inizio il primo atto.
I genitori si seggono vicini, nel centro, i figli si posizionano alle due estremità, Ermanno accanto alla madre, Benedetta accanto al padre. Sono tutti molto educati e formali. Il padre sorride, si presenta, si chiama Marco e lavora presso uno studio contabile. Nonostante il suo lavoro non gli piaccia molto è costretto a ritmi elevati, che lo portano ad essere poco presente a casa, molto meno di quanto vorrebbe. La madre è una donna bruna, dall’aspetto mesto, insegna alle elementari, ma tiene a precisare che la sua aspirazione è quella di insegnare alle medie, ambizione che già da molti anni sta cercando di realizzare. Trascorre molto tempo a scuola e il pomeriggio aiuta Ermanno nella preparazione all’esame di Stato ormai prossimo, poiché a suo avviso il figlio ha un cattivo metodo, un approccio sbagliato allo studio. Rispetto al problema che li ha condotti in terapia familiare, entrambi i genitori designano Ermanno, le sue ansie e quella che chiamano “la sua malattia” e che anche oggi lo ha portato a somatizzare e ad avere “mal di pancia”. Prima che il figlio fosse bocciato all’esame di Stato, la loro era una famiglia “normale”, “senza nessun particolare problema” e lo è tutt’ora, ragion per cui le difficoltà di Ermanno, iniziate lo scorso anno e in parte risolte, appaiono ai loro occhi inspiegabili. All’improvviso quello che era un ragazzo normale e autonomo è diventato “un bambino fragile”, un “rifugiato in famiglia”, incapace di fare da solo cose anche molto semplici. “Il dottor DS”, riferiscono, “dice che Ermanno ha paura di crescere”.
Guardo Ermanno e lui abbassa lo sguardo, docile e timido. Dalla mia poltrona penso che allora siamo in due ad essere ansiosi per l’incontro. Le nostre “pance” ci uniscono, così come questo sorriso ebete che mi si è stampato in faccia…
Ermanno, infatti, ha un’espressione manierata, un sorriso dolce e finto al tempo stesso. Ha 21 anni, ma il marsupio a tracolla, i bermuda e l’espressione del volto sono quelli di un sedicenne. Mentre parla guarda più volte la madre, come a cercarne l’approvazione, ed è spesso in accordo con lei. Afferma con imbarazzo di non avere molti interessi, a parte la Juventus, e di frequentare ancora il liceo classico essendo stato bocciato ben due volte. Rispetto alle sue difficoltà ammette di essere stato molto male dopo la bocciatura inaspettata dello scorso anno. Non usciva più di casa ed aveva persino paura di andare a comprare il pane perché pensava che le persone lo giudicassero e parlassero male di lui. “Non mi sono più sentito un ragazzo normale per tanto tempo” dice. “Per me quest’anno è stato duro e lo è ancora… sono pieno di dubbi, paure, angosce, insicurezze. Una volta non ero così; prima, se non ero il ragazzo più felice del mondo, ero il secondo…”.
Riguardo al momento attuale afferma di essere “stanco” della sua situazione, di partecipare alle solite feste dei 18 anni; vorrebbe voltare pagina, “aprire un nuovo capitolo della sua vita”. È ancora al liceo mentre dovrebbe essere altrove, all’università, perciò adesso la cosa più importante è superare l’esame, più importante della salute, perché quella ormai “è compromessa ed Ermanno sente che non tornerà mai più ad essere il ragazzo che era prima, nonostante abbia ripreso a frequentare regolarmente gli amici e le cose vadano molto meglio, grazie all’aiuto del dott. DS, il suo psicoanalista, ma soprattutto della sua famiglia che si è stretta attorno a lui per aiutarlo.
Benedetta è bionda con grandi occhi azzurri, ha 24 anni e una laurea appena conseguita a pieni voti. La osservo e mi sembra di guardare un affresco di Botticelli o una scultura di Michelangelo. Evoca la perfezione. È la figlia brava, autonoma, competente, colei che sta aiutando Ermanno nello studio assieme alla madre e che lo ha spronato durante la “crisi”. Anche in seduta sembra sostenerlo, gli rivolge parole dolci, lo incoraggia a parlare con grandi sorrisi e si unisce a lui nel definire il problema che li ha condotti in terapia, che non è tanto “la malattia di Ermanno”, come dicono i genitori, ma…
“Se c’è qualche problema è che in famiglia abbiamo sempre parlato poco”, dice Ermanno; “anzi”, aggiunge Benedetta, “paradossalmente il problema di Ermanno ci ha unito”.
Iniziano così ad emergere problematiche connesse all’assenza di condivisione in una famiglia dove, nella quotidianità, ognuno sembra condurre una vita a sé, dove non si chiede all’altro neanche “Come stai?”. Da questa coalizione tra i fratelli nella nuova definizione del problema, i genitori si difendono: la loro è una famiglia come tante e se ci sono problemi di comunicazione sono dovuti ai ritmi frenetici della società, al gap generazionale e ad una caratteristica tutta materna, quella di non invadere e rispettare la vita privata dei figli, per pudore e riservatezza.
La schismogenesi verificatasi a questo punto della seduta, ossia la diversa definizione che genitori e figli danno del problema, permette di introdurre una nuova interpunzione, di allargare il focus dal paziente designato all’intero sistema e di iniziare a ridefinire il sintomo, riconcettualizzando lo stesso in termini interpersonali [6]: se da un lato con il suo star male Ermanno è diventato un bambino fragile, dall’altro ha acquisito un grande potere, quello di unire la famiglia e di aprire varchi di comunicazione in un sistema dove si fa fatica a condividere e a confrontarsi.
Il sintomo inizia così a connotarsi di nuovi significati.
Ed è già terapia.
“LA MAPPA NON È IL TERRITORIO”, MA SERVE PUR SEMPRE PER ORIENTARSI
«Quali sono le parti del territorio che vengono riportate sulla mappa?
Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa […].
Ora se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato
sulla mappa se non i suoi confini […].
Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, sono le differenze»
Gregory Bateson,Verso un’ecologia della mente

Dall’altra parte dello specchio, sin dal primo incontro, abbiamo l’impressione di una famiglia molto formale ed educata, per la quale conta molto il giudizio degli altri. Ermanno non contraddice mai, si racconta in modo molto garbato e si profonde in mille ringraziamenti ai familiari per il sostegno che ha avuto da loro; la sorella si presenta evidenziando velatamente tutte le sue competenze e i successi scolastici; la madre si mostra donna prodiga di aiuti e preoccupazioni per il figlio; il padre si racconta come un uomo molto impegnato desideroso di dialogare di più con i propri cari anche se per ragioni di lavoro è poco presente in famiglia. L’impressione globale è che siano tutti attenti a trasmettere un’immagine positiva del nucleo familiare, l’immagine di una famiglia perfetta, unita, idealizzata, con difficoltà generazionali e litigi tra madre e figlia come in ogni famiglia “normale”. Da un punto di vista strutturale, i genitori appaiono particolarmente impegnati a mascherare aspetti disfunzionali dell’organizzazione familiare: la perifericità del padre è dovuta al lavoro; il distacco eccessivo tra madre e figlia è determinato da “pudore” e “rispetto della privacy”; l’eccessiva vicinanza tra Ermanno e la mamma è giustificata dal fatto che ella è maestra e nessuno meglio di lei può guidarlo nello studio.
La dicotomia tra i fratelli, già palese in questo primo incontro, diventa nel corso delle successive sedute sempre più marcata: Benedetta è la “figlia perfetta e competente”, Ermanno la “pecora nera”, poco responsabilizzato dai genitori, che deve continuamente essere spronato e controllato per l’abuso di cannabis, problematica questa a cui i genitori faranno continuamente riferimento nel corso delle successive sedute, come se fosse il nucleo centrale delle problematiche di Ermanno.
Tuttavia, nonostante la forte polarizzazione dei fratelli, emerge tra loro un grande legame, un’alleanza, che si manifesta anche nella definizione comune che danno del problema, che non è solo individuale (Ermanno e la sua difficoltà a crescere) ma familiare. Riteniamo tale legame all’interno del sottosistema della fratria una risorsa, così come la capacità di Ermanno di riallacciare relazioni amicali dopo un periodo di isolamento, nonché la sua voglia di prendere il diploma per proseguire negli studi e il successivo desiderio manifestato dal padre di una maggior vicinanza con i figli. Queste risorse ci appaiono importanti poiché, se sostenute e rinforzate, possono divenire utili strumenti per lavorare sulla riorganizzazione strutturale della famiglia, che al suo ingresso in terapia ci mostra la mappa disegnata in Figura 1.



Minuchin, infatti, in Famiglie e terapia della famiglia [6] scrive: «La mappa della famiglia è uno schema di organizzazione. Non rappresenta la ricchezza delle transazioni familiari, così come la mappa non rappresenta la ricchezza di un territorio. È statica, mentre la famiglia è costantemente in movimento. La mappa, però, è un potente strumento di semplificazione, che aiuta il terapista a organizzare il vasto materiale che va raccogliendo. La mappa lo aiuta a formulare ipotesi su settori familiari che funzionano bene o possono essere disfunzionali. Lo aiuta anche a definire i suoi obiettivi terapeutici».
Accanto alla mappa strutturale della famiglia, di cui si è finora detto e a cui si farà riferimento nel paragrafo successivo nel descrivere gli obiettivi terapeutici, vi è tuttavia un’altra mappa altrettanto importante e pregna di significato su cui sento il bisogno di soffermarmi in un ottica di complessità. La mappa a cui faccio riferimento è quella rappresentazione mentale, il quadro della famiglia, che durante i primi incontri ha iniziato a dipingersi nella mia mente osservando relazioni, comunicazioni e movimenti emotivi tra la famiglia, me stessa come terapeuta ed il gruppo di training a fine seduta. La mappa che ha iniziato a definirsi per differenze, veste le tinte emotive di cui si è impregnato questo incontro, è fatta di impressioni, sensazioni e colori. È una mappa che si costruisce per immagini pittoriche, in modo più primitivo ed intuitivo. I membri della famiglia si dispongono sulle tele della mia mente come i protagonisti dei dipinti di Hopper, pittore al quale peraltro il padre della famiglia Z somiglia realmente. Penso in particolare a Stanza a New York e a Casa sulla ferrovia, quadri che a prima vista offrono immagini rarefatte, ovattate, silenziose e tranquille ma che, ad un’analisi più attenta, si schiudono agli occhi dell’osservatore come dipinti di luoghi eterni e immobili, disabitati, in cui le figure umane appaiono chiuse nella loro solitudine e incomunicabilità, intente a guardare fuori dalla finestra, all’esterno, distaccate e separate pur essendo apparentemente in compagnia di altri. Il poeta americano Mark Strand [7] scrive a proposito di Casa sulla ferrovia: «La casa sembra fuori luogo, eppure padrona di sé, persino solenne, un sopravvissuto. [] Si erge nel sole, ma è inaccessibile. Il suo segreto è illuminato ma non svelato. Discosta, reliquia di un tempo andato, la casa è un elemento architettonico condannato, un luogo della storia inconoscibile».
Queste impressioni pittoriche, evocate nell’incontro con l’altro e poi approfondite in uno studio più solitario sull’arte di Hopper, si dimostreranno tutte vere nel corso della terapia, in particolare quelle legate alla dimensione temporale nella famiglia, alla profonda solitudine in cui tutti i membri appaiono imprigionati dietro la parola “riservatezza” e all’apparente tranquillità che occulta… Difatti, una delle caratteristiche della famiglia è quella di comunicare qualsiasi contenuto con toni molto pacati, sempre cortesi e rispettosi dell’altro, con una tonalità emotiva monocorde, depressiva quando si parla dello stare male di Ermanno e delle incomprensioni tra figli e genitori.
L’ipotesi che in questa famiglia non ci sia spazio per nessun’altra emozione, soprattutto la rabbia, vissuta come distruttiva e disgregante, ci viene confermata dai genitori: “In questa famiglia la rabbia non esiste… è inutile la rabbia, bisogna saperla gestire […] non è nostra abitudine esternare i sentimenti” (Madre); “Non c’è rabbia… la rabbia è qualcosa di irrazionale” (Padre). Lo stesso Ermanno dice di non riuscire più, dopo la bocciatura, a provare alcuna emozione, tanto meno la rabbia perché lui è un tipo che “incassa”.
Scopro così, a partire da queste immagini pittoriche, la realtà di ciò che scrive Cancrini [4]: «Più grave è la situazione, meno si potrà fare affidamento sulle comunicazioni verbali e più sarà importante ragionare su quelle non verbali e sulle proprie emozioni di controtransfert». D’altra parte Antonio Semi [8] considera l’arte e gli artisti come “cugini” del terapeuta, poiché «ci forniscono idee senza però eccessivamente spingerci a separare i ragionamenti dai sentimenti». Egli spiega che mentre i manuali di psichiatria ci forniscono degli strumenti per capire, l’arte facilita «l’identificazione in altre situazioni mentali, in altre esperienze umane», concedendoci di sentire certi sentimenti e di capire certe idee “prima”.
SOS EMERGENZA ESAME: LA PRIMA FASE DEL PROCESSO TERAPEUTICO
Nei successivi tre incontri, quelli che precedono l’esame di Stato di Ermanno, il tema della scuola diviene il tema dominante delle sedute. Per Ermanno l’unico obiettivo è prendere il diploma, più importante di qualsiasi cosa, anche della salute, tanto da dichiarare che “preferisce il diploma alla felicità” e che se non sarà promosso “si ammazzerà”. La famiglia, se da un lato si mostra preoccupata per come Ermanno vive l’esame di Stato, cercando esplicitamente, sul piano verbale, di ridimensionare l’importanza della promozione rispetto alla salute, dall’altro appare controllante rispetto al metodo di studio e ai possibili aiuti da fornire. Tutti i membri della famiglia, chi in modo più esplicito chi in modo più velato, sembrano quindi attribuire all’esame un peso eccessivo, tanto da non rendere possibile la trattazione di nessun altro argomento. L’evento “esame” si trasforma così da evento privato di Ermanno a evento familiare, attorno al quale ognuno cerca di fare e dire la sua, generando al tempo stesso aspettative e pressioni di cui il ragazzo sente il peso, tanto da vedere “negli occhi di tutti, in particolare di mamma, la mia bocciatura”.
Sente il peso della mamma “insegnante” che non è soddisfatta della sua organizzazione e controlla quanto studia, se va a letto presto e non si addormenta davanti alla tv. Sente il peso di dover essere all’altezza di Benedetta. Sente il peso di dimostrare qualcosa a suo padre che su di lui “non scommetterebbe 10 centesimi”, interpretando così la perifericità del papà come una totale mancanza di fiducia nelle sue capacità. Il quadro che si delinea è quello di un ragazzo che oltre alle sue ansie e paure, si trova a reggere anche le aspettative, le ansie e le paure degli altri, sentendosi peraltro doppiamente sotto esame e, come egli stesso si definisce, “in un ascensore bloccato” in cui nessuno può salvarlo.
L’esame sembra inoltre acquisire per Ermanno un significato più profondo della semplice delusione per un fallimento pregresso e un nuovo traguardo da raggiungere. Sembra andare a toccare e minare le fondamenta della sua identità, del suo stesso esistere, del suo valore come individuo; non può pertanto connotarsi come una semplice depressione post-traumatica da bocciatura. I vissuti depressivi, infatti, che manifesta a distanza di un anno dall’evento scatenante, legati al tema esame di Stato, portano in sé un senso di stigmatizzazione, come se ci fosse qualcosa di assolutamente frantumato e irreparabile, una rottura tra il prima, quando era “normale”, e il dopo senza soluzione di continuità. Percepisco un dolore profondissimo quando Ermanno dice che la sua salute ormai è compromessa, che non sarà mai più il ragazzo felice che era prima o quando afferma: “La paura che ho è quella di non farcela e di andare incontro a un altro fallimento e penso che se questo dovesse succedere non mi riprenderò mai più… non saprei proprio cosa fare nella mia vita”. Emerge un’angoscia più profonda della semplice ansia nevrotica, un’angoscia che sembrerebbe connotare una depressione più borderline o psicotica, del tipo «non esisto, non conto nulla, non valgo niente», che caratterizza i soggetti con un’importante carenza del sistema di attaccamento [9]. In questo senso interpretiamo anche l’abuso di cannabis che Ermanno fa sistematicamente ogni sera, a cui non sa rinunciare e di cui i genitori sono molto preoccupati. La sostanza sembra in questo caso consentire un’autoregolazione, sembra sostenere e rinforzare i meccanismi difensivi messi in atto da Ermanno, dando sollievo ad un’angoscia profonda che colloca questa dipendenza nelle categorie più gravi definite da Cancrini [4] di tipo C e D, e più precisamente in quella C.
La conferma della presenza di questa angoscia, minacciosa e psicotica, ci verrà confermata molte sedute dopo dallo stesso Ermanno che nel descrivere quanto i suoi pensieri lo facciano star male, dirà “cerco di non pensare, agisco”. E ancora, in una delle ultime sedute, richiamato perché distratto spiegherà che ha pensieri che lo distraggono e che preferisce tenere per sé, poiché “tento di non invadere loro con la mia confusione”.
Dobbiamo così lavorare su due livelli, da un lato quello dei contenuti, l’esame di Ermanno (come sembra indispensabile ed imprescindibile per la famiglia in questa fase), e dall’altro quello strutturale, attraverso prescrizioni inizialmente legate all’esame, ma che consentano l’esperienza di una nuova organizzazione.
Nella prima fase terapeutica ci poniamo quindi i seguenti due obiettivi, di cui il primo è necessario per creare una premessa ad un lavoro familiare, e l’altro, pur essendo apparentemente più legato all’emergenza, ha in realtà un obiettivo strutturale importante:
1. favorire una visione più complessa della situazione in termini interpersonali, uscendo dalla trappola familiare che cerca di appiattire tutto alla scuola: le difficoltà di Ermanno non sono legate alla bocciatura dell’esame di Stato ma sono pregresse, né sono esclusivamente la manifestazione di problematiche soggettive, ma l’espressione di difficoltà anche familiari; 
2. alleggerire Ermanno dal peso delle aspettative familiari in merito all’esame di Stato, attraverso una ridistribuzione di carichi e l’attuazione di manovre e prescrizioni che portino il padre ad essere più attivo e presente all’interno della famiglia e che consentano ad Ermanno di distanziarsi dalla madre, la cui eccessiva vicinanza lo fa sentire giudicato, in ansia per l’esame.
In particolare, costruiamo con la famiglia i movimenti che dovranno aiutare Ermanno a essere più sereno in questa fase di studio, cogliendo la richiesta di Benedetta di una maggiore vicinanza e comunicazione con la madre (“Mi piacerebbe che mamma chiedesse… mi sono lasciata dopo sei anni e mezzo e non mi ha chiesto niente”), quella del padre che vorrebbe parlare più con i figli e quella di Ermanno che vorrebbe uscire di più con il padre e studiare in autonomia. Si stabilisce che: Benedetta aiuterà Ermanno solo nella stesura della tesina; papà ed Ermanno usciranno di più insieme andando al cinema così come rivendica il ragazzo; la mamma, che dichiara la sua stanchezza, potrà riposarsi.
In termini di svincolo, l’obiettivo terapeutico alla base è chiaramente quello di promuovere il distanziamento di Ermanno dalla madre, rendendo il padre più presente nelle dinamiche familiari al fine di favorire sia un maggior confronto con “il maschile”, sia la triangolazione del rapporto diadico madre-figlio troppo ravvicinato, di ostacolo all’individuazione e allo svincolo di Ermanno, che si ritengono incompiuti.
L’esito in questa prima fase appare positivo. La famiglia segue le indicazioni fornite. Ermanno supera l’esame di Stato, organizza un viaggio estivo con gli amici, non presenta sintomatologia, continua a prendere i farmaci, a frequentare la terapia individuale e sembra maggiormente sereno.
In questo clima più rilassato, superata l’emergenza, ci si pone l’obiettivo di iniziare a lavorare per:
– spostare i riflettori dal paziente designato, allargando il focus d’osservazione ad ogni membro della famiglia;
– favorire la differenziazione di Ermanno attraverso il recupero della “propria voce”, del “proprio pensiero”, dei propri “bisogni” e delle “proprie emozioni”, inclusa la rabbia (esplicitamente negata ma di fatto espressa attraverso fantasie di “suicidio/strage” in caso di bocciatura);
– favorire la comunicazione e l’espressione emotiva all’interno della famiglia, attraverso la ricerca di una giusta distanza che non sia né siderale, né soffocante e invasiva.
Tutto pare andar bene in queste prime 5 sedute, che si susseguono a cadenza quindicinale, fino al ritorno dalle vacanze estive…
GIÙ LA MASCHERA: LA SECONDA FASE DEL PROCESSO TERAPEUTICO
«Tutti i suoi amici erano persone perbene e avevano amici perbene,
e dato che di solito le persone perbene allevano figli perbene,
il mondo di Edin assomigliava a un prato in cui l’erba
cresceva così folta da soffocare il male: un miracolo di perbenismo»
Jonathan Franzen, Le correzioni

Dopo l’estate e il superamento dell’esame di Stato di Ermanno, gli aspetti problematici della famiglia, tenuti a bada e occultati sotto il velo della normalità, divengono sempre più visibili e man mano che il paziente designato fa i suoi progressi (si iscrive in palestra, per dimagrire, e all’università, trascorre molto tempo fuori casa, ecc.), l’impalcatura e l’organizzazione della famiglia strutturatasi attorno al sintomo di uno dei suoi membri, comincia a scricchiolare. E la famiglia mostra il suo vero volto.
La madre si connota sempre più come controllante ma emotivamente assente, espulsiva e invasiva al tempo stesso, distruttiva, mortifera e portatrice di modelli eccessivamente idealizzati rispetto al come dovrebbero essere i figli. Di matrice molto cattolica, promuove un modello familiare basato sull’onestà, la correttezza, il dovere, la serietà e la decenza, senza possibilità di confronto.
I figli descrivono una madre che il sabato sera li aspetta alzata, in preda a fantasie di incidenti catastrofici, per dirgli “Vergognatevi!”; che controlla e giudica Benedetta per i vestiti e le scollature (“Vedo da parte sua solo critiche, mai un cercare la motivazione”); che disapprova Ermanno in quanto troppo pigro, perché non si attiva subito dopo l’esame di Stato, e ne giudica le amicizie e l’uso di spinelli. Tenterà, nella seduta immediatamente successiva le vacanze estive, di interrompere la terapia familiare attaccandola con rabbia e spiegando che “A furia di evocarla, la rabbia è emersa davvero… ognuno di noi ne uscirà a pezzi”. Non la ritiene utile perché Ermanno ha 21 anni e non è più un adolescente, in questo modo vorrebbe cambiare atteggiamento nei suoi confronti e trattarlo da adulto.
La relazione tra madre e figlio appare caratterizzata da una comunicazione paradossale, del tipo doppio legame, a cui Ermanno non riesce a sottrarsi né attraverso una metacomunicazione, né attraverso una sintesi creativa delle componenti antinomiche del messaggio [1,10]: ella dice esplicitamente che Ermanno è adulto ed in grado di fare da solo le sue scelte, salvo poi trattarlo come un bambino piccolo, incompetente e che deve essere guidato, tanto da arrivare ad iscriverlo, senza il suo consenso, ad un corso di informatica post-diploma, rimandando implicitamente ad Ermanno un immagine di sé come inadeguata, ma dichiarando poi che non si spiega come il figlio possa pensare che i genitori non abbiano fiducia in lui.
Lo stesso Ermanno presenta tratti ambivalenti poiché se da un lato esprime un senso d’inadeguatezza, sia rispetto al ritardo scuola/età sia rispetto alla sorella che rappresenta il suo ideale, dall’altro manifesta una tendenza un po’ onnipotente a sfidarsi troppo e a mettersi alla prova, come quando sceglie di andare all’esame di Stato senza vocabolario o come quando, nonostante la seconda bocciatura, sceglie di non fare due anni in uno, ma di tornare nello stesso liceo, nella stessa sezione con gli stessi professori con cui ha un cattivo rapporto. E ancora, esprime un forte desiderio di autonomia e individuazione (“Non vedo l’ora di star bene per tornare come prima ad uscire con gli amici e ad essere spensierato”. “Voglio studiare da solo”), ma poi si mette sempre nelle condizioni di farsi aiutare e di richiamare l’attenzione, come quando si affida alla madre per svegliarsi la mattina, al padre per iscriversi a scienze umanistiche il giorno prima della scadenza dei termini, e come quando fuma spinelli nella tavernetta di casa, sotto lo stesso tetto dei genitori, preoccupandoli.
Entrambi i fratelli sembrano, infatti, incastrati in un ruolo e rappresentano due polarità, due aspetti scissi della stessa famiglia: Benedetta è la figlia competente, autonoma e responsabile che con il suo ruolo rappresenta l’aspetto solitario, l’impossibilità a condividere e la forza centrifuga che porta i singoli membri ad organizzarsi all’esterno; Ermanno ha il ruolo del figlio problematico su cui si concentrano gli sguardi, è la forza centripeta che aggrega, compatta la famiglia e dà un senso di unità.
In questa fase storica della terapia (in cui le sedute divengono mensili a causa delle massicce proiezioni e angosce che la famiglia trae dal semplice stare tutti insieme) cerchiamo di valorizzare sia i progressi di Ermanno, rafforzando le aree funzionali del Sé, sia la figura paterna, che essendo maggiormente presente all’interno della famiglia, introduce importanti differenze rispetto alla madre: è più positivo, maggiormente disponibile ad un ascolto emotivo dei figli, difende la moglie dagli attacchi cercando di costituire un fronte genitoriale comune. Al tempo stesso si colgono però dissapori all’interno della coppia, poiché anche il padre, come la figlia, manifesta il suo “non sentirsi ascoltato” e la sua solitudine, rimandando ad una distanza coniugale.
La conflittualità tra la madre e Benedetta diviene più marcata e lo stesso Ermanno, che in seduta sostiene la sorella unendosi a lei nel sentirsi giudicato, viene poi accusato dalla stessa di essere troppo assente e proiettato fuori casa. Benedetta, infatti, proprio quando Ermanno sta meglio e riprende la sua vita extrafamiliare, esprime un malessere profondo, riferisce di essere in un momento difficile, di sentirsi sola, insicura, di non essere affatto forte così come tutti credono. Vorrebbe che il fratello le stesse più vicino, così come lei fece con lui, ed invece si ritrova sola e non sa a chi confidare il suo malessere, tanto più che si è lasciata con il ragazzo dopo 6 anni di relazione. Esplodono improvvise le sue fragilità e crolla il falso mito della sorella “perfetta”.
In questo contesto, inizia ad aprirsi uno scenario che porta alla luce angosce materne profonde e generalizzate che, partendo dalle problematiche di Ermanno, percepito troppo sensibile e fragile e di cui a sedute alterne ci chiede la diagnosi, porteranno la madre a raccontare di preoccupazioni e ansie antiche, “vecchi traumi” che nulla hanno a che vedere con Ermanno, ma che risalgono al suo nucleo di origine e ai comportamenti autodistruttivi attuati in passato dal proprio fratello, nel quale rivede il figlio.
Decidiamo di dare spazio a questi aspetti, seppur raccontati in modo frammentato e caotico, favorendone l’espressione in terapia. La finalità è quella di dare spazio alla madre, con le sue fantasie e profezie negative, in modo che: Ermanno possa distinguere tra i propri contenuti e quelli materni; il marito possa aiutarla, bilanciandola con una visione più positiva; le paure evocate possano manifestarsi in un contesto che ne contenga la distruttività.
Ci sembra, in accordo con lo psichiatra che ha in cura Ermanno e al quale ci raccordiamo di frequente nel corso della terapia, che il paziente designato sia incistato in un nucleo rabbioso e depressivo materno mai esplicitato. Ipotizziamo che la madre utilizzi il figlio come strumento di evacuazione e di espressione dei suoi aspetti scissi, evitando in questo modo una depressione profonda e quella “rottura” a cui accenna a settembre nello spiegare le ragioni per cui vorrebbe interrompere la terapia familiare.
Borgogno [11] definisce spoilt children questi pazienti che, cresciuti in una situazione di trascuratezza infantile, sono stati oggetto di «intrusione con conseguente estrazione di parti vitali ed evolutive dell’Io» da parte di un genitore che parassita il Sé, ossia che nega il riconoscimento autentico dell’altro, desertifica, colonizza, depositando nel figlio atmosfere mortifere che bloccano lo sviluppo del Sé reale.
Secondo questo autore esiste in alcune famiglie una sofferenza e un dolore inconscio, inelaborato, proveniente da più generazioni, che viene inevitabilmente e drammaticamente veicolato ai figli attraverso la trasmissione di una “logica operativa profonda” dello stare al mondo e dell’essere in relazione. Una sofferenza che non permette al genitore di vedere l’altro nei suoi bisogni di base, che non gli consente di essere mentalmente disponibile per l’altro e che determina il depositare, nel bambino, bisogni, desideri e angosce non suoi, che il piccolo non è in grado di capire, con cui si identifica e al tempo stesso sente come estranei. In termini bioniani [12] parliamo di genitori che a causa della loro ansia non sono in grado di contenere i propri stati mentali e trasformare quelli del figlio, genitori in cui si è verificato un fallimento della rêverie materna e un cattivo funzionamento delle funzioni alfa.
Riconosciamo, inoltre, nel caso clinico di Ermanno diverse caratteristiche descritte da Borgogno sia nel definire il quadro familiare di appartenenza degli “spoilt children” (legami fusionali con genitori che vivono le spinte verso l’autonomia del figlio come distruttive e che in realtà non sono autenticamente disposti a interessarsi della vita intima dei figli), sia nel definire le caratteristiche degli stessi che appaiano come soggetti che agiscono per non pensare, che sembrano non voler crescere, dipendenti e passivi da un lato e sotterraneamente ostili e rabbiosi, nonché diffidenti e ribelli verso ogni possibilità di aiuto, dall’altro.
Alla luce di queste considerazioni sulla relazione madre-figlio, resto colpita dallo scoprire, a distanza di qualche anno, che il quadro Casa sulla ferrovia in me evocato dall’incontro con la famiglia fu lo stesso che ispirò Hitchcock nella realizzazione della casa del film Psycho
“SE UNA COSA MI FA MALE IO LA EVITO”: L’ABBANDONO DELLA TERAPIA
«Allora ti ho guardato attraverso i miei occhiali
e ti ho visto per la prima volta. Avevi venti o ventidue anni
ed eri già incazzato»
Martin Winckler, La malattia di Sachs

L’esplicitazione del nucleo ansiogeno e mortifero della madre e la connessione di questo con gli eventi passati della propria vita consentono ad Ermanno di cominciare progressivamente ad accedere ai suoi vissuti e alle sue emozioni; così se prima era molto dipendente e cercava sempre il consenso dei familiari per parlare, nelle successive cinque sedute che caratterizzano la seconda fase terapeutica, inizierà ad esprimere la rabbia per il sentirsi continuamente giudicato, sotto accusa e “sempre in mezzo” anche quando sta bene. Nonché la sua rabbia per un padre ancora troppo assente (“Non mi piace la rassegnazione, se fossi io il genitore, ora che sono rinato non accetterei che mia moglie fosse rassegnata…”), per una madre che “non gioisce per un figlio che è rinato!”, per la quale “qualsiasi cosa faccia non sarà mai abbastanza”, arrivando addirittura a dire alla mamma, che dichiara di avere la tendenza a vedere sempre il negativo, “se stai male fatti aiutare!”.
Si riscontra nell’atteggiamento materno, e più velatamente nell’assenza paterna, quella modalità comunicativa descritta in Paradosso e controparadosso [13] tipica delle famiglie a transazione psicotica, che partendo da atteggiamenti di squalifica e disconferma, arrivano nella madre fino alla disconferma di se stessa come strategia per sottrarsi alla relazione.
Madre: “Io vorrei scomparire, diventare invisibile… percepisco che do fastidio pure se non parlo, anche le mie espressioni del volto voi le interpretate a modo vostro e allora capisco che do fastidio. Ho un’aspirazione, trovare un altro lavoro e andarmene via… forse questa cosa potrebbe aiutare la mia famiglia ad organizzarsi in modo diverso… Capisco che Ermanno deve avere più spazio e quando percepisco che potrei essere stata io a toglierglielo e a impedire questa crescita, allora questa cosa mi mette in difficoltà e faccio una feroce autocritica…”.
“State accendendo i riflettori su di me… non voglio essere coinvolta, è giusto che ognuno faccia la sua vita… ci sono tematiche più importanti… voglio farmi da parte”.
Accade così che la mamma, con un movimento che acquisisce peraltro un forte richiamo per Ermanno, manifesti il suo desiderio di scomparsa e allontanamento dalla famiglia, che non è solo fantasticato, ma argomentato realisticamente con spiegazioni circa possibili concorsi per insegnare alle medie, come da sua aspirazione, e di cui si tiene informata da diverso tempo.
Colpisce la verbalizzazione della madre, in termini di “spazio tolto” e blocco della crescita di Ermanno, proprio perché rimanda all’ipotesi precedentemente esposta di una relazione infantile con un oggetto di attaccamento che ha parassitato il Sé.
La fantasia di scomparsa della madre, da un punto di vista squisitamente sistemico, se da un lato scopre il gioco familiare per cui bisogna che qualcuno stia male affinché la famiglia possa esistere e mantenere una coesione interna, dall’altro crea una minaccia di disgregazione e smuove angosce abbandoniche proprio in una fase evolutiva importante per Ermanno, il quale rabbioso e disperato espliciterà in questa e in sedute successive, il ruolo scomodo in cui è incastrato e la funzione del sintomo: “Per far crescere me abbandona la famiglia, lo sapevo che era colpa mia! Che vi siete messi in testa!”; “ormai c’ho sto ruolo e non me lo toglierà nessuno…”; “Almeno stavano meglio loro quando io stavo male…”; “Dire che si vuole fare da parte è come dire che si rassegna ad avere un figlio e a vederlo crescere…”.
Ci si muove nel corso di questi incontri con molta cautela. Ermanno apparirà più confuso e distratto, la sorella continuerà ad esprimere la sua sofferenza, il padre tenterà maldestramente di mediare tra ciò che dice la moglie e il dolore dei figli ma con poca incisività, e la madre continuerà a connotare le sedute con la solita modalità distruttiva, rievocando l’anniversario dello stare male di Ermanno l’anno prima e cercando di tornare nell’ombra riportando l’attenzione sul figlio che abusa di sostanze stupefacenti e che sta riducendo i farmaci per perdere i 20 chili in più.
Sentiamo di essere in una fase delicata della terapia, in bilico tra l’attivazione di un processo omeostatico e spinte evolutive che hanno bisogno di essere incoraggiate. Lavoriamo, quindi, cercando di offrire sia un rispecchiamento alla famiglia, rimandando ogni volta un’immagine con un tassello di comprensione in più, sia rinforzando gli aspetti funzionali familiari e individuali, sia sostenendo le rivendicazioni di vicinanza da parte di Benedetta e quelle di autonomia di Ermanno che ci paiono nuove e sane rispetto ai ruoli in cui entrambi si erano incastrati. Se l’emergenza drammatica di Ermanno metteva d’accordo tutti, riconosciamo alla famiglia di chiedere loro un grande sforzo adesso che si comincia a parlare di altro, ma questo ci pare l’unico modo per affrontare i problemi che ci sono sempre stati, di cui Ermanno si è fatto il portavoce.
Accade tuttavia che alla decima seduta, dopo l’interruzione delle vacanze natalizie, Ermanno ci comunichi la sua decisione di abbandonare la terapia familiare, appoggiato in questo dalla sorella che torna ad essere sua alleata. Ricompare quella parte grandiosa di Ermanno a cui piace sfidarsi e sfidare, e ci spiega che con l’anno nuovo ha deciso di cambiare vita e di interrompere improvvisamente qualsiasi cura: farmaci, spinelli e terapia, mettendo così sullo stesso piano cose molto diverse tra loro. Appare molto deciso di questa scelta e, per la prima volta, si mostra molto rabbioso verso il sistema terapeutico sul quale devia la sua rabbia abbandonica, innescando un processo di disinvestimento che attacca sia la terapia familiare che quella individuale: “A me fa male venire qui, perché quando vado a casa ripenso a tutto quello che si dice qui e se qualcosa mi fa male, la evito”; “Ho deciso io e non torno indietro, ho preso questa decisione e basta […] il dott. DS mi ha preso in giro!!! Non sento più l’esigenza di parlare con i dottori, voglio parlare con gente che mi vuole bene e che sente la mia mancanza! […] La vita non è in questa stanza”.
Ci sembra che in questo modo Ermanno, spaventato sia dalla sua stessa rabbia nei confronti del sistema genitoriale sia dal fantasma di perdita e dalla depressione materna, crei le premesse per rimettersi nella condizione di stare male e ricoprire il suo vecchio ruolo in modo da proteggere tutti.
La modalità con cui Ermanno ci comunica la decisione d’interrompere la terapia appare simile a quella descritta da Cancrini rispetto a quei pazienti da lui definiti “piccoli naufraghi” [4], che a volte, in modo onnipotente e sfidante, abbandonano la cura e le comunità in modo prematuro, con la convinzione di potercela fare da soli, senza alcun tipo d’aiuto. In linea con il pensiero dell’autore, non possiamo far altro che agire in modo equilibrato, salutando Ermanno ed esplicitando la precocità di questa scelta che espone ad un rischio, ma al contempo rimandando immagini evolutive di un ragazzo per la prima volta deciso, che con questa scelta vuole occuparsi maggiormente della sua vita fuori dalla famiglia e portare avanti un progetto autonomo di cui abbiamo rispetto.
Con i genitori, che si dichiarano preoccupati, decidiamo di continuare il percorso terapeutico ad incontri mensili, a cui i figli, se vorranno, potranno partecipare. Ciò al fine di offrire sostegno ai genitori, monitorare la situazione e non dare troppo potere ad Ermanno.
IL TEMPO NELLA DIMENSIONE NARRATIVA FAMILIARE E INDIVIDUALE
La narrazione all’interno della psicoterapia sistemica tiene conto della dimensione storico-evolutiva della famiglia, non solo legata alla storia personale del paziente e degli altri componenti della famiglia che arriva in terapia, ma anche di quella legata ai genitori e alle relazioni tra questi ultimi e le rispettive famiglie d’origine. Come esiste una storia di rapporti tra persone appartenenti allo stesso livello e che condiziona i singoli soggetti, esiste parallelamente una storia di rapporti tra figure appartenenti a livelli diversi che genera una visione tridimensionale particolarmente utile per cogliere differenze e creare connessioni tra le varie dimensioni storiche delle relazioni. Marisa Malagoli Togliatti [12] evidenzia l’importanza di utilizzare un percorso terapeutico che si muova tanto su un asse temporale orizzontale quanto su uno verticale, che consenta, cioè, la comprensione del mito familiare e una ri-narrazione ed attribuzione di senso alla storia autobiografica e alla sofferenza psichica.
Nel corso del processo terapeutico con la famiglia di Ermanno, più volte si è cercato di cogliere temi e aprire argomenti che permettessero la ricostruzione della storia familiare pregressa all’insorgenza del sintomo, che potesse consentire una narrazione trigenerazionale della famiglia e l’introduzione di nuovi significati in una prospettiva storica. Se da un lato la morte nel nonno materno durante la terapia ha offerto spunti narrativi accennati dalla madre sulla propria famiglia d’origine e sui comportamenti a rischio di vita del proprio fratello, che allarmarono molto la sua famiglia quando era adolescente, dall’altro tale racconto sembra appiattire e schiacciare il resto della storia, quasi ad occultare la narrazione di altro, di ciò che è descritto come “normale”, che non è raccontato, raccontabile o ricordabile e che attiene più ad una dimensione profonda, relazionale ed emotiva del passato. Accade così che quando in seduta lo sguardo si volge all’indietro, la famiglia poco dopo si ammutolisce, rendendo frammentata la narrazione, l’attenzione si focalizza nuovamente su Ermanno e nulla più si riesce a sapere né della storia materna, né della storia paterna, né della storia della famiglia stessa prima della bocciatura, anche in assenza dei figli. La loro è una famiglia “normale” che ha solo difficoltà di comunicazione, senza grandi problemi, ad eccezione delle attuali difficoltà di Ermanno e dei passati problemi di Benedetta alla schiena e agli occhi, che comportarono difficili operazioni e assorbirono totalmente i genitori quando Ermanno era piccolo. Anche la narrazione di tali eventi, come quelli relativi alle difficoltà dello zio materno, appare tuttavia confusa, disorganizzata, senza un “prima” che spieghi ed un “dopo” che bonifichi. I fatti vengono dalla madre riportati come episodi sintetici da cui sembra volersi velocemente liberare e sono accompagnati da angoscia.
Al di fuori di tali eventi, la famiglia sembra spoglia, priva di quei ricordi affettivi, significativi e positivi, in grado di generare nei suoi membri un’appartenenza e un’identità familiare che va oltre ciò che genera preoccupazione. Tutto ciò che è narrato, infatti, o attiene ad eventi mortiferi, che hanno generato pericolo per l’integrità fisica di qualcuno e compattato la famiglia, oppure sono legati al “qui ed ora”, per cui ognuno narra sé stesso in riferimento al proprio lavoro, all’università, alla scuola, allo sport, agli amici e a tutto ciò che è, o era, la propria vita al di fuori della famiglia.
Tutte queste considerazioni ci permettono di ipotizzare che ogni membro della famiglia di Ermanno riesca a difendersi dalla confusione interna al suo nucleo e alle massicce proiezioni e angosce, sia organizzando il proprio Sé nel mondo esterno, strutturando identità fortemente separate ma fragili, sia attraverso “le catastrofi” che, attivando tutti ed in particolare la madre, fungono da principio aggregante, organizzativo e strutturante, dando corpo e giustificazione ad angosce primitive mai elaborate ed esplicitate.
La sensazione è che il nucleo familiare non funzioni come contenitore narrativo; gli episodi sembrano infatti attraversarlo senza essere trattenuti. Non vi è una dimensione “meta” che organizza e dà senso, tanto che la linea del tempo, compresa tra la malattia di Benedetta e i problemi attuali di Ermanno, sembra dissolversi, appiattirsi. Di fatto gli unici eventi familiari significativi che la famiglia trattiene e che danno dinamicità e movimento, scandendo il tempo, sono gli eventi drammatici, che con la loro funzione aggregante sembrano essere l’unico punto di riferimento nella trama narrativa familiare. Lo stesso Ermanno non ricorda nulla di quando era piccolo, dichiara di essere stato un bambino felice, idealizzando il passato, ma poi non è in grado di raccontare episodi concreti e dirà “non ricordo uno schiaffo… né una carezza”. È come se avesse perduto parte della sua memoria, tanto da chiedere al padre di raccontargli che cosa facevano assieme quando era piccolo.
Tali deficit della memoria sono stati ampliamente osservati anche in molte ricerche nell’ambito della teoria dell’attaccamento ed in particolare da Holmes [14] che studiando la connessione tra il legame di attaccamento insicuro/disorganizzato e i disturbi psichiatrici, evidenzia come in questi vi sia una scarsa “capacità autobiografica”, intendendo non solo deficit di memoria, ma soprattutto la capacità di fornire un racconto equilibrato delle difficoltà e della capacità di trasformazione emotiva di eventi dolorosi del passato. Caratteristica quest’ultima che sembra caratterizzare l’intero nucleo familiare, tant’è che nessuno appare in grado di trovare spiegazioni e attribuire significati agli accadimenti dolorosi del passato e alla loro risoluzione. La bocciatura, i problemi dello zio in adolescenza e i problemi di salute di Benedetta sono narrati come eventi improvvisi, inspiegabili, risoltisi con il tempo, a volte quasi magicamente, come i comportamenti dello zio, e dopo i quali non c’è mai stato uno spazio di riflessione che consentisse l’elaborazione dei vissuti.
La complessità e la problematicità della dimensione temporale della famiglia non si risolvono inoltre nella semplice sospensione del tempo, che il blocco evolutivo di Ermanno esprime, ma in una più complessa dimensione temporale di chi smarrisce il proprio Sé e che ricorda molto quella descrizione che Baricco, nel romanzo City [15], traccia di un villaggio che vive al di fuori del tempo convenzionale: «Succede che qualcosa strappa il tempo, mi disse, e non si è più puntuali con niente. Si è sempre un po’ altrove. Un po’ prima o un po’ dopo. Hai un sacco di appuntamenti con le emozioni, o con le cose, e tu stai sempre a inseguirli o ad arrivare stupidamente prima. Diceva che quella era la mia malattia, volendo. Julie Palphin la chiamava: smarrire il proprio destino […]. Si può vivere senza orologi, è più complicato farlo senza destino, con addosso una vita che non ha più appuntamenti».
Così come nella città di Baricco, anche nella famiglia di Ermanno il tempo misurato dagli orologi convenzionali è fermo, mentre ciò che scorre è un tempo individuale e familiare differente, che corre o un po’ più avanti o un po’ più indietro.
Resta un po’ più indietro quando Ermanno, che dovrebbe per età essere all’università, viene bocciato e rimane alle scuole superiori; quando iscrittosi all’università resta sdraiato a letto arrivando in ritardo e perdendo le lezioni; quando dovrebbe essere fidanzato ma non riesce a farsi avanti con le ragazze al momento giusto; quando la madre resta bloccata al malessere di Ermanno e ai vecchi problemi di salute di Benedetta, anche quando questi sembrano superati e i ragazzi segnalano una ripresa.
Ed è poi lo stesso tempo che corre un po’ più avanti, sia quando Ermanno decide di abbandonare la terapia in modo prematuro; sia quando a quindici anni lascia la squadra di pallavolo prevedendo che per l’altezza non diventerà mai capitano; sia quando la madre si immerge in future profezie catastrofiche sul figlio, senza rallegrarsi dei miglioramenti; sia quando Benedetta, considerata la figlia precoce, si laurea un anno prima del previsto.
IL TEMPO NELLA DIMENSIONE TERAPEUTICA
Tutte queste osservazioni sul tempo familiare e individuale ci consentono di fare alcune considerazioni sul tempo adottato nella terapia, che date le premesse non poteva che muoversi all’interno del territorio della “consenzienza” proposto da Corrado Bogliolo [16,17] nel trattamento dei sistemi gravemente di-sfunzionali, rigidi, atemporali, in cui vi è una tendenza all’invarianza e un’apparente compliance verso il processo terapeutico. Bogliolo spiega che con il termine “consenzienza” s’intende la necessità di utilizzare una modalità terapeutica più “rispettosa per l’altro”, meno “interventista”, più “tollerante”, che rinunci alla pretesa di ottenere risultati a breve termine e “consenta alla famiglia di continuare a mantenere le proprie regole disfunzionali in attesa che emergano spinte evolutive” da cogliere, utilizzare e incoraggiare. Tale modalità, incentrata sull’accomodamento allo stile familiare, sottende una “sincronizzazione” con i tempi del sistema, perché “è su questo tempo più o meno arrestato che il terapeuta è chiamato ad inserirsi, senza pretendere di cambiare bruscamente la cadenza”. Peraltro è la famiglia stessa a comunicarcelo in maniera implicita, quando dopo la morte del nonno materno dichiarerà che l’eredità spirituale lasciata loro, è “il rispetto dei tempi degli altri”.
È su questa linea che ci muoviamo quando decidiamo di rallentare e trasformare in mensili gli incontri con la famiglia, così come ci muoviamo su questa linea quando decidiamo di lavorare con la famiglia maggiormente sul “qui e ora”, senza forzare una narrazione strutturata e sistematica della storia trigenerazionale, se non quando è la famiglia stessa ad aprire degli spiragli e offrire canali d’accesso.
Canali d’accesso che offre la madre quando parla delle analogie tra il proprio fratello ed Ermanno, che offre l’inaspettata morte del nonno e che offre Ermanno quando chiede al padre di raccontargli cosa facevano assieme da piccoli. È in questi momenti che diamo spazio al racconto del passato, fondamentale poiché, come spiega Sassolas [18], nel trattamento delle psicosi è importante lavorare proprio per la salvaguardia e il recupero delle funzioni attentive e mnemoniche, particolarmente compromesse, dove per memoria non si intende solo la memoria di eventi, ma di esperienze relazionali affettive, la cui stratificazione contribuisce a definire il senso di sé, della propria unicità in quanto essere dotato di un’autobiografia. L’obiettivo è rafforzare l’identità in soggetti che “fuggono da sé stessi”, verso “l’anonimo, l’impersonale, l’insistente”.
Cerchiamo così nello spazio terapeutico, di fare piuttosto uno sforzo di “ricucitura”, più che programmare e dedicare intere sedute alla storia familiare, avviando una sorta di “rilegatura” del libro familiare attraverso un continuo tentativo di ristoricizzare e di rinarrare utilizzando quei flash e quelle tracce sparse che la famiglia deposita negli incontri [19]. D’altra parte l’etica del terapeuta, ovvero la strada dell’esitazione, è quella che il caro vecchio Bateson [20] ci consiglia. Esitazione rispetto a ogni storia, al voler sapere a tutti i costi, a chiudere il pensiero in una diagnosi, a mettere il piede lì dove anche gli angeli esitano…
IL CONTROTRANSFERT E IL LAVORO DI SUPERVISIONE: L’IRRUZIONE
DI UNA NUOVA MODALITÀ NARRATIVA NEL PROCESSO TERAPEUTICO
L’incontro con la famiglia fu per me così intenso da generare forti emozioni controtransferali, che si palesarono anche al di fuori della stanza di terapia attraverso l’irruzione del sogno nella mia vita quotidiana. Mi accadde così di sognare la famiglia in una situazione e in una fase della terapia talmente particolari da sentire l’esigenza di condividere ciò che avevo sognato con il supervisore e il gruppo di training. Di seguito il racconto che feci al gruppo. 

“È novembre, sto aspettando l’arrivo della famiglia. Mi ricordo, nel sogno, che Ermanno ha dichiarato nell’ultimo incontro di voler interrompere la terapia, ma spero vengano tutti.
Arrivano solo i genitori ed io, delusa, inizio un colloquio con loro di cui non ricordo nulla, come se fosse stato inutile, durato pochissimo o come se i temi trattati non fossero importanti ed emotivamente pregnanti.
Quando usciamo dalla stanza, cerco di concordare il prossimo appuntamento, che cadrà tra un mese, dopo Natale. La signora Z è ansiosa, chiede di anticipare l’incontro, ne propone uno più vicino e chiede di tornare alla vecchia modalità di incontro quindicinale. Accetto.
All’improvviso, proprio quando i genitori stanno per andare via, compaiono sulla soglia Ermanno e Benedetta ed una bambina piccola, di circa quattro-cinque anni. Bisogna rientrare in stanza e ricominciare la terapia. Ho la sensazione che adesso inizi la vera seduta. Faccio accomodare tutta la famiglia in stanza e io resto un po’ fuori a parlare con il mio supervisore che mi dice: ‘cerca di sondare le atmosfere familiari, di capire cosa è cambiato dopo la scelta di interruzione di Ermanno’.
Mi sento impaurita, spiazzata per il fatto che l’incontro con i soli genitori non era in realtà la vera seduta. Il mio supervisore mi incoraggia, mi abbraccia. È un abbraccio caldo e consolatorio. Appoggia una guancia sulla mia guancia, come fanno le mamme con i bambini che tengono in braccio. Poi entro nella stanza.
Vi è un letto matrimoniale al centro, anzi due lettini uniti come fossero un letto matrimoniale. Io ne sono stupita, ma la famiglia non lo è. Ci si sdraia sopra esausta. Ermanno è seduto all’angolo sinistro del letto, la madre a quello destro. Sono entrambi in prima fila. Il padre è seduto al centro, ma più dietro, nel punto di congiunzione dei due letti. Benedetta non c’è più. Vi è però la bambina piccola che gironzola vivace per la stanza, disturbando e distraendo.
La mia è una sedia vecchio modello, mezza rotta, malandata. Mi siedo e penso che è davvero molto scomoda e non ha neanche l’imbottitura. Guardo la bambina e mi chiedo: ‘Fa parte della famiglia? Non ricordo come si chiama, ma non è mai venuta prima!… ’. Lo chiedo alla madre, che non mi risponde e continua a scuotere la testa. Intanto la piccola inizia a fare un baccano tremendo, anche se gli altri all’inizio sembrano non accorgersene, come fosse normale. Parlo a fatica, c’è troppa confusione, devo avvicinarmi alle persone per assicurarmi che mi sentano e per riuscire ad ascoltare. Dico, accostandomi all’orecchio di Ermanno, che sono contenta che abbia deciso di tornare, so che deve essere stato difficile per lui, ma la maturità si dimostra anche con la capacità di saper tornare sui propri passi. Ermanno risponde che in realtà nell’interrompere la terapia non stava sfidando me, la dottoressa D e il supervisore, ma i suoi genitori. Lo guardo è nervoso, rabbioso. Ha un tono deciso. Cerco di lavorare su questo tema, ma il chiasso diviene troppo forte e copre le voci. Faccio un’enorme fatica a guidare la seduta. Si capisce poco, ma riesco a sentire Ermanno che dice: ‘a casa mia non è cambiato molto, mio padre continua a non esserci’. Gli rispondo che il padre è lì e che può dirglielo di persona, guardandolo negli occhi. Ermanno si gira all’indietro verso il padre e quando comincia a parlare, il papà inizia a sprofondare nell’intermezzo dei letti, scomparendo. Ermanno si volta di nuovo verso di me, frustrato e più rabbioso di prima. Adesso il chiasso è divenuto insopportabile, cominciano a sentirsi nella stanza anche le voci dei ragazzi del gruppo di training dietro lo specchio. Siamo tutti sfiniti dalla fatica, interrompo la seduta e li accompagno fuori dalla stanza, dicendo che mi rendo conto dell’impossibilità di continuare con una confusione tale. Il supervisore mi raggiunge, ma anziché salutarci come stavamo per fare, ci spostiamo tutti in un’altra stanza più tranquilla, quella dei seminari, per concludere la seduta. Il supervisore ci fa strada.
Mi sveglio sudata”.
Ci colpisce che io abbia sognato Ermanno proprio dopo il suo abbandono della terapia. Ci colpisce perché ci sembra particolarmente significativo anche in relazione alla mia fase di training, essendo io al terzo anno, ovvero nella fase di separazione dal gruppo formativo originario d’appartenenza.
Il sogno parla, e parla a tre livelli, inglobando aspetti della famiglia, di me stessa, nonché del processo terapeutico in essere. Pertanto, se da un lato è un sogno che dà corpo e voce alle percezioni e alle comunicazioni psichiche, preverbali ed emotive della famiglia Z, dall’altro è un sogno che esprime qualcosa che riguarda me stessa e che si è risvegliato nell’incontro con l’altro, nonché qualcosa che ha a che fare con il nuovo membro, appunto il terapeuta, che è entrato a far parte del sistema.

Semi [8] esplicita molto bene che quando si sogna un paziente non si sogna solo qualcosa del paziente “che non è stato detto e che ci frulla ancora per la testa”, ma è assai probabile che “il paziente ci presti la sua figura per simbolizzare qualcosa”, ossia che diventi un sostituto utilizzato dallo psicoterapeuta per esprimere qualcos’altro. Così, se a livello familiare il sogno fa emergere il tema della confusione, del caos da cui ogni membro della famiglia tenta di difendersi allontanandosi e da cui io stessa mi sento invasa, nonché il legame troppo intimo tra madre-figlio da cui Ermanno chiede di essere salvato e l’assenza di un padre che non interviene a triangolare il rapporto ma che scompare lasciando madre e figlio da soli su un letto “matrimoniale”, a livello personale narra temi e vissuti che riguardano me sola e che si sono amplificati nell’incontro con il paziente.
Il sogno da sì voce a quella sensazione di confusione che provo in seduta per effetto del transfert psicotizzante della famiglia [21] – dal quale nella realtà tento di difendermi come psicoterapeuta razionalizzando e facendo lunghi interventi per rimettere ordine – ma dà voce anche alla “piccola terapeuta” in formazione, che fa errori, è insicura ed ha sempre paura di sbagliare, di non avere capacità riparatorie (la vecchia sedia rotta), che ha bisogno di concludere la seduta con il suo supervisore, che ha bisogno di essere contenuta con un abbraccio prima di iniziare, che ha difficoltà in tutte le separazioni e paura di camminare con le proprie gambe.
Ipotizziamo, quindi, che la bambina che girovaga per la stanza e fa confusione possa rappresentare molteplici aspetti: la parte di me infantile e onnipotente che non accetta che Ermanno abbandoni la terapia e lo fa tornare in sogno, portando indietro il tempo; la piccola terapeuta che fa fatica nel futuro a pensarsi sola con i pazienti, quando questo terzo anno di training finirà; ma anche l’aspetto vitale e le potenzialità evolutive introdotte nella famiglia attraverso il processo terapeutico.
La figura della bambina che gioca, si muove e fa confusione, che è estranea alla famiglia e allo stesso tempo parte di essa, evoca l’imprevisto, l’inedito, il nuovo, un femminile vitale in contrapposizione al femminile mortifero della famiglia reale; inoltre contiene in sé quelle potenzialità evolutive, che ci portano ad immaginarla come una simbolizzazione del processo terapeutico stesso.
A questo sogno, a distanza di una settimana, ne seguì un altro, in cui il tema della separazione dal mio gruppo di supervisione diretta, il futuro cambio di didatta per il quarto anno, la necessità/paura d’imparare a camminare da sola e soprattutto il tema “dell’estraneità” furono più espliciti.
In merito a quest’ultimo aspetto, discutemmo molto sul legame tra le caratteristiche soggettive del terapeuta, ossia il mio essere affettiva e calda nelle relazioni, ed il vissuto d’estraneità e di non riconoscimento contenuto in entrambe le rappresentazioni oniriche. Ipotizzammo che la famiglia mi esponesse ad un vissuto di allontanamento tale, congruo peraltro con le modalità espulsive dei sistemi a transazione psicotica, da essere per me difficilmente tollerabile.
“È il giorno dell’appuntamento con la famiglia Z. Sono in ritardo. In segreteria c’è il mio supervisore che mi fa un cenno con il capo. Lo interpreto come l’indicazione che la famiglia è già arrivata. Entro in stanza di terapia. La famiglia è presente. Le sedie dei terapeuti sono due, e su una c’è uno stivale da donna. Mi siedo sulla sedia libera. Inizia la seduta, ma mentre la signora che ho di fronte parla, mi accorgo che non è la mia famiglia, dev’esserci stato un errore. Mentre penso ciò entra nella stanza un altro didatta della scuola, non la dottoressa D, che si siede accanto a me sulla sedia in cui prima vi era lo stivale. Capisco che è una delle famiglie del suo gruppo, inviata a lui, non alla dottoressa D.
Esco dalla stanza, sono sconcertata, spaventata. Come ho potuto non riconoscere la mia famiglia? È intollerabile!
Il mio supervisore si avvicina e mi dice che oggi la famiglia Z arriverà più tardi”.

Questi sogni mi portano a riflettere, a distanza di qualche anno, sull’intensità dei vissuti da me esperiti all’interno della relazione terapeutica e sull’importanza che ebbe allora il gruppo di training nell’evitare che si verificasse ciò che Cancrini [22], rifacendosi a Kernberg, definisce “fissazione controtransferale”, intendendo con questo termine la perdita nel terapeuta dell’obiettività e lo schieramento a favore dell’uno o dell’altro membro, nonché una difficoltà crescente di valutazione realistica delle situazioni legate alla terapia che conduce a blocchi ed errori. Ciò accade quando l’aggressività che il paziente borderline o psicotico agisce nei confronti di se stesso e della relazione terapeutica, proprio nel momento in cui essa “si consolida e si appresta a dare i suoi frutti”, è vissuta dal terapeuta come propria incapacità di curare ed attiva difese quali: ritiro narcisistico, blocco dell’interesse terapeutico o convinzione di essere l’unico a poter aiutare il paziente.
Sassolas [18], in merito al trattamento delle psicosi, sottolinea che il miglior garante di un processo terapeutico è proprio il “pensare la cura psichiatrica”, ossia preservare e creare tutte quelle “condizioni necessarie” affinché nell’incontro siano rafforzate non soltanto le attività mentali dei pazienti, ma anche quelle del terapeuta, dal momento che la vicinanza con la psicosi e le massicce identificazioni proiettive mettono continuamente in pericolo la nostra attività di pensiero, confondendo le emozioni e il senso e mescolando ciò che dovrebbe restare separato: la nostra vita psichica e quella del paziente.
Il sistema gruppo fu pertanto fondamentale ed efficace nella sua funzione meta-riflessiva e contenitiva, la condizione necessaria per “pensare la cura”, consentire una limitazione degli agiti e l’elaborazione di questi intensi vissuti che, essendo già presenti per definizione nel terapeuta in formazione, risultano pericolosamente amplificati nell’incontro con le famiglie gravi. Nello sogno, infatti, compaiono delle stanze-contenitore, le braccia del didatta che consolano e contengono chi non si sente all’altezza, un supervisore che indica la strada e conclude la seduta mettendo ordine lì dove c’è caos.
Così alle immagini pittoriche e agli stralci di romanzi, si aggiunsero due sogni a popolare la costellazione di rappresentazioni evocate che si svilupparono nell’incontro terapeutico. Mi torneranno alla mente tutte, infine, nel valutare l’esito della terapia.
ULTIMO ATTO: I SUPERSTITI
Nelle tre sedute che seguono l’abbandono della terapia da parte di Ermanno e Benedetta, si lavora con i soli genitori per contenere preoccupazioni e di­sorientamento e dare un senso a ciò che accade. Entrambi i genitori chiedono indicazioni per relazionarsi correttamente al figlio che si mostra ambivalente: a volte tutela il suo spazio individuale, tenendo tutti fuori dalla sua vita e arrabbiandosi con la madre quando cerca di capire come si sente, e a volte si confida con il padre sulle ragazze e chiede attenzione (“devo sbroccare affinché vi accorgiate di me”). Entrambi lo vedono svogliato, poco responsabile, disimpegnato nello studio e sempre fuori con gli amici fino a tardi, ma mentre il padre riconosce i passi avanti fatti da Ermanno ed appare più preoccupato per la lentezza con cui progredisce nella crescita e per le scelte avventate da adolescente, la madre sembra sintonizzarsi unicamente con le fragilità del ragazzo, con la parte danneggiata, tanto da confidarci di avere difficoltà a rappresentarsi il futuro del figlio e di temere per lui “un futuro da barbone, da disadattato”. Lo immagina come se fosse intrappolato “nella tela di un ragno” e ci confida i suoi rimorsi, la delusione, il senso di fallimento come madre. La sua angoscia nel presente sembra subire continue infusioni dal passato e ad ogni seduta sarà necessario sottolineare i cambiamenti e le conquiste fatte da Ermanno in questo anno, che lo pongono in una prospettiva differente rispetto al passato. In questo processo chiediamo aiuto al padre, maggiormente capace nell’accedere ad una “memoria del cambiamento” rispetto alla madre, in modo da promuovere nella signora l’integrazione tra le sue rappresentazioni interne danneggiate del figlio e rappresentazioni più positive, che inglobano aspetti funzionali e risorse. Cerchiamo allo stesso tempo, in questo modo, di far sperimentare al marito una funzione contenitiva delle fantasie distruttive della moglie, la quale sembra in realtà lasciata molto sola ai suoi pensieri da un partner che, quando cerca di esplicitarle, più che ascoltarla le dice “contieniti”.
Guidiamo i genitori verso un atteggiamento più flessibile con il figlio, in modo che egli possa sentire disponibilità e vicinanza affettiva quando ne ha bisogno e al contempo una giusta distanza per sperimentarsi, evitando l’oscillazione tra l’essere troppo distaccati, quasi fino a “scomparire”, e l’essere troppo dentro Ermanno interpretando ogni suo gesto o facendo scelte al suo posto (come quella della madre che fa per lui domanda di servizio civile in un centro per pazienti psicotici!).
Riguardo al rispetto delle regole familiari, riteniamo opportuno che sia il padre a doverle far rispettare, poiché il consentire ad Ermanno di fare tutto ciò che vuole, gli dà la sensazione di “non essere visto”.
Intanto apprendiamo dal terapeuta individuale che Ermanno salta molte sedute e in assenza di farmaci e di una relazione terapeutica continuativa c’è il rischio che si amplifichino certe rigidità del pensiero e certe interpretazioni della realtà.
Accade infatti nella terza seduta con i genitori che ci vengano raccontati episodi di un Ermanno che arrabbiato rompe la porta della sua stanza, che non vuole che i genitori vengano in terapia familiare (“mi fa male sapere che andate”), che non guida più la macchina perché pensa si sia rotta dopo un piccolo tamponamento, che chiude a chiave tutte le porte e le finestre di casa dicendo “vi devo proteggere”, credendo che un ragazzo autorizzato a raccogliere pigne nel loro giardino sia un ladro. Episodi che sembrano essersi innescati dopo l’attentato di Madrid, evento da cui Ermanno è rimasto molto turbato e che ha risvegliato vecchie angosce.
Ci sembra che Ermanno abbia deciso di proteggere la sua famiglia e tenerla unita a suo modo, riprendendo il suo vecchio ruolo e facendo preoccupare tutti. Per questo a maggior ragione esplicitiamo l’importanza di continuare la terapia, incoraggiando i genitori a non spaventarsi troppo e a non aderire alla richiesta di interruzione avanzata da Ermanno, per quanto ne riconosciamo la funzione protettiva.
Sarà questo tuttavia l’ultimo incontro che faremo con la famiglia Z. I genitori non verranno al successivo appuntamento, assecondando il volere del figlio.
FOLLOW-UP: GRAVITÀ E REALISMO DEGLI OBIETTIVI TERAPEUTICI
Nelle successive tre telefonate che faremo a distanza di un mese l’una dall’altra, durante le quali riusciremo a parlare solo con il padre, verremo a conoscenza di una fase molto critica di Ermanno caratterizzata dall’interruzione totale anche della terapia individuale, di forte rabbia verso il dottor DS a causa di un fraintendimento, di idee paranoidi rispetto al suo nucleo familiare che parlerebbe alle sue spalle, di giornate trascorse in casa a dormire o sdraiato sul letto senza uscire con gli amici e parlare con nessuno.
La sintomatologia, produttiva, di ritiro sociale e distacco dalla realtà, descritta dai genitori negli ultimi incontri e quella descritta dal padre nelle telefonate, evidenzia quelle che Sassolas [18] considera manifestazioni esterne del nucleo centrale dell’esperienza psicotica, che consiste in realtà nel “vivere in esilio al di fuori di sé stessi”, “nell’incapacità di far proprio il mondo” – percepito come estraneo, alieno e misterioso perché ricco di dati caotici a cui il paziente psicotico non riesce ad accedere attraverso il processo di appropriazione simbolica – e “nell’incapacità di fronteggiare il mondo”, poiché troppo ricco di informazioni che non riesce a filtrare e che acquisiscono un carattere “alluvionale” e precipitoso.
In una situazione sì drammatica, i meccanismi di “congelamento” ed “evacuazione” usati dal paziente psicotico per consentire la sopravvivenza della vita psichica sono veri e propri meccanismi di “sopravvivenza” e non semplicemente di “difesa”, dove per “congelamento” s’intende il ritiro, la sospensione della vita emotiva, l’uscita dal tempo e il mantenimento solo di alcuni rapporti essenziali di base a forte connotazione simbiotica, mentre per “evacuazione” s’intende una modalità estremizzata dell’identificazione proiettiva, attraverso l’attribuzione violenta all’altro dei propri contenuti, al fine di rendere il mondo interno più ordinato. Secondo l’autore, i pensieri, le emozioni, i ricordi e i desideri che rendono ognuno di noi un essere umano sono per loro fonte di dolore, angoscia e terrore ed è per questa ragione che la loro vita psichica è oggetto di continui attacchi inconsci, finalizzati a svuotarla e annientarla dall’interno o ad espellerla nel mondo esterno attraverso il delirio e i vissuti persecutori [18].

Nel confrontarsi con situazioni cliniche sì gravi, diventa fondamentale essere consapevoli della «modestia apparente degli obiettivi che il terapeuta deve darsi», acquisire «un’umiltà realistica capace di prendere il posto dei sogni di redenzione dell’altro» [4], ed accettare i propri limiti. Vuol dire anche mettere in conto che l’operazione cauta, lenta e graduale di riportare all’interno ciò che questi pazienti “buttano” fuori, attraverso un processo terapeutico inverso (che Sassolas definisce «prendere in contropiede il movimento spontaneo della psicosi») comporta anche il rischio di fasi di riacutizzazione, di “fughe necessarie” che il sistema terapeutico deve inevitabilmente prevedere, mettere in conto, lavorando affinché tali riacutizzazioni non siano dirompenti e cercando il più possibile di creare una rete tra il gruppo dei curanti, così come abbiamo cercato di fare attraverso i frequenti raccordi e incontri con il terapeuta individuale, il Dott. DS.
In merito De Francisci e Piersanti [23] sottolineano come nel trattamento delle patologie gravi sia indispensabile un processo terapeutico complesso fondato sull’integrazione di più interventi terapeutici differenziali (farmacologico, individuale, familiare) che possano rispondere alla molteplicità dei bisogni sottesi. Interventi che devono essere collegati e in risonanza fra loro, inscritti all’interno di una cornice di significati condivisi, in modo da generare continuità e coerenza, creare una vera e propria trama terapeutica, riflettere l’esperienza integrativa a cui ogni intervento terapeutico mira. Secondo le autrici solo attraverso questa integrazione è possibile una visione complessa e multidimensionale che non è semplicemente sommatoria di competenze, ma piuttosto sottrazione di certezze, disponibilità a non rimanere vincolati alla propria visione teorica, per creare quel vuoto e quello spazio mentale necessari a costruire un’esperienza trasformativa.
Ripensando adesso ad Ermanno mi piace declinare di lui tutte le risorse che abbiamo colto: la sua affettività, la sua capacità di mantenere relazioni amicali e un rapporto terapeutico per un anno, l’interesse per le ragazze, la tenacia nel non abbandonare gli studi e, anche se a fatica, canalizzare le forze per raggiungere un obiettivo, l’andare a scuola sempre, anche se impreparato…
Mi piace pensarlo come l’ho immaginato nella quarta e ultima telefonata di follow-up avuta con il padre: come un ragazzo che abbiamo accompagnato in una fase, che ha chiuso un percorso e ne ha iniziato un altro, che ha accettato di farsi aiutare nuovamente e che ha ricominciato una terapia individuale e farmacologica, anche se con un altro psichiatra. In fondo l’interruzione non concordata di un rapporto terapeutico «non significa necessariamente fallimento esistenziale del paziente: la possibile gamma delle sue relazioni non può essere narcisisticamente ridotta a quella, seppur importante, con il suo terapeuta» [19].
INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO IN OTTICA SISTEMICA
E VALUTAZIONE SULL’ESITO DELLA TERAPIA
Secondo la classificazione di Cancrini [24], che propone una lettura dei disturbi psicotici in termini di ciclo vitae, il caso di Ermanno sembra rientrare nella categoria dello “svincolo inaccettabile”, che caratterizza coloro i quali sono abbastanza individuati da tentare lo svincolo, ma troppo poco per riuscirci. Ermanno, infatti, sembra aver portato avanti un processo di individuazione personale, ma solo fino ad un certo punto. I rapporti con il mondo esterno che è stato in grado di istaurare in adolescenza gli hanno tuttavia consentito di non perdere completamente l’aggancio con la realtà, come invece avviene per gli schizofrenici ebefrenici. La sintomatologia, di tipo produttivo e paranoide, il cui andamento procede per crisi e remissioni, inizia in corrispondenza con la bocciatura all’esame di maturità, in una fase di passaggio significativa proprio in relazione al processo di svincolo. Il ragazzo agisce come se fosse combattuto tra un desiderio di autonomia e distacco dalla famiglia e un bisogno di affiliazione e appartenenza. A differenza di ciò che accade nello svincolo impossibile, in questo tipo di pazienti «la realtà non viene abbandonata per ritornare completamente all’interno dell’Io familiare ma viene ‘individualmente’ distorta o interpretata nei sintomi produttivi secondo dinamiche che appartengono al nucleo familiare» [24].
Il sintomo di Ermanno diviene così comprensibile e svolge diverse funzioni all’interno del nucleo familiare: esso è utile sia al sistema nel suo complesso sia ad ogni singolo membro per tutelare istanze soggettive [3].
In particolare:
– è utile al sistema per mantenere la sua unità, poiché svolge una funzione aggregante in un nucleo che si compatta solo per far fronte ad eventi drammatici;
– è utile al padre e più in generale al sottosistema della coppia per non affrontare un conflitto coniugale che appare in stallo e coperto;
– è utile alla madre poiché la protegge dalla depressione in cui sprofonderebbe se Ermanno non l’attivasse con il suo sintomo, il quale dà forma e motivazione ad un’angoscia materna antica e senza nome, che appare di una tale portata da far ipotizzare per lei una psicosi latente [1];
– è utile a Benedetta poiché le consente di evitare il confronto con le sue fragilità e mantenere un’immagine di sé come figlia “competente”, che può esistere solo in contrapposizione ad un fratello inadeguato;
– è utile ad Ermanno sia per acquisire visibilità e cure all’interno di un nucleo familiare che sembra riuscire a svolgere la sua funzione solo nelle emergenze, sia per evitare il confronto con una realtà esterna che lo spaventa e lo fa sentire inadeguato.
Se, infatti, l’esperienza dell’identità umana si fonda su due elementi: un senso di appartenenza e un senso di differenziazione [6], risulta comprensibile come sia difficile per Ermanno separarsi e trovare la propria voce, se questo nucleo non è percepito dai sui membri come “base sicura”, indipendentemente dalla funzione aggregante che svolge Ermanno. Risulta così difficile crescere se si percepisce la propria funzione come “garante dell’unità”, se l’incamminarsi verso uno svincolo comporta il rischio della scomparsa di uno dei suoi membri e della disgregazione del nucleo familiare.
Altro aspetto che voglio qui considerare è la valutazione dell’esito di questa terapia, in un caso in cui l’interruzione non è stata concordata ed elaborata assieme alla famiglia. Semi [8] sostiene che nel valutare l’esito di un trattamento psicologico è necessario distingue due aspetti, uno razionale e uno “umano”. Quello razionale è connesso alla valutazione delle differenze e delle modificazioni strutturali e funzionali avvenute nel paziente, e nella famiglia, al termine del trattamento; l’altro, quello “umano”, è invece connesso alle rappresentazioni visive, i sogni, le fantasie e le emozioni di controtransfert sviluppatesi nell’incontro con l’altro. Secondo l’autore «quando l’insieme delle fantasie e della valutazione razionale costruisce una storia coerente e aperta insieme […] quando abbiamo l’impressione di aver man mano compreso qualcosa di più e di aver potuto giocare con questo qualcosa di più come i genitori fanno con i figli mediante le fiabe, di aver potuto cioè vedere l’utilizzabilità di questo qualcosa che abbiamo capito», allora vuol dire che si è fatto un buon lavoro, anche se non si sono risolti tutti i problemi e il lavoro non è completo.
Tiro così un sospiro di sollievo se penso per differenza alla famiglia che ho conosciuto all’inizio del percorso (gentili, mai arrabbiati, cristallizzati nella loro “normalità” con un Ermanno dipendente privo di un suo pensiero) e la famiglia da cui mi sono separata infine: certamente più consapevole delle difficoltà, maggiormente capace di esprimersi nelle differenze e nel dolore, più capace di sfruttare le risorse e gli aiuti esterni, più capace di utilizzare, anche se in modo oscillante, nuove modalità di relazione.
Se dovessi cambiare qualcosa al quadro Casa sulla ferrovia, spalancherei le finestre, disegnerei strade verso l’esterno ed un treno sulle rotaie…
IL TERMINE DI UNA TERAPIA NON CONCIDE MAI CON LA SUA FINE…
NELLA MENTE DEL TERAPEUTA
Sono sdraiata sul letto. È sera. Dall’ultima seduta con la famiglia Z sono trascorsi quattro anni. Ho altri pazienti affidati alle mie cure, ho altre preoccupazioni, altri sintomi da comprendere e sebbene l’esperienza della mia “prima volta” in stanza mi appaia così lontana, a volte capita ancora che tornino a trovarmi, loro quattro, come fantasmi del passato, come se avessero ancora qualcosa da dirmi, da insegnarmi, da farmi capire. Li rivedo nel gesto di una madre che scuote il capo, nell’arbitraggio fallimentare di un papà che cerca di mediare tra moglie e figli, nella rabbia di un adolescente che cerca di separarsi, tra i versi di una poesia o il brano di un libro. A volte penso che per me l’esperienza con la famiglia Z sia diventata il mio “modello operativo interno” del fare terapia, una matrice primaria a cui tornare spesso e attingere… “Cosa disse il supervisore quella volta che la madre...? Come gestimmo l’abbandono della terapia con la famiglia Z?”.
Così anche stasera, dopo quattro anni, gli apro la porta. Sfoglio La malattia di Sachs di Martin Winckler [25] e leggo qualcosa che mi fa pensare a loro. Sono “i pensieri sconvenienti” di un medico di provincia chiamato in visita domiciliare da una madre angosciata per il figlio malato…

«… Che cosa ne pensa dottore? Il mal di testa e la febbre non saranno mica la meningite? La febbre e il mal di pancia non saranno mica l’appendicite?[…]
E queste sono le paure confessate, le paure articolate, le paure immaginabili.
Ma ci sono le altre, le paure dimenticate, ancestrali, trasmesse senza dire una parola di nonna in nuora… E poi ci sono le paure irrazionali, le paure quotidiane, le paure che nulla può calmare…
Allora nel corridoio, appena prima di entrare nella camera da letto, o dopo, in cucina, riassumono e ripetono i sintomi, formulano le loro preoccupazioni, i loro lamenti… Non sanno cosa pensare, allora parlano. Sono scombussolate, sono smarrite, sono disperate. Sono sicure di essere le uniche a sentire e a vedere quello che succede, ma è così difficile farsi capire, i dottori mica sempre trovano il tempo di ascoltare e lui nemmeno, quando sono malati non vogliono sentire niente. E io non né posso più, dottore, capisce?
Sì, tu capisci… Perché quando spingi la porta della camera da letto, capisci che la tosse, la stanchezza, la perdita dell’appetito… sono solo una scusa, un pretesto, che non ti dà la spiegazione della faccenda.
Ti domandi ‘Ma cosa vuole?’ ed è il bambino in persona a spiegartelo. Con un gesto, uno sguardo, una parola appena più forte del dovuto, delinea il quadro… l’ansia vampirica della madre che non si capacita che il suo neonato non sia più tale, che cresca e dica no e le lanci per aria le sue minestrine e, con quelle, tutte le frustrazioni che lei vorrebbe compensare attraverso il suo bambino che corre dappertutto, la sua bambina che parla già, i cui pantaloni sono troppo corti, le sue camicette troppo strette e che non possono più fungere da compensazione alla madre…
‘Come dice?’.
‘Dico che non è necessario ricoverarlo’.
E il viso del bambino o dell’adolescente si alza, si illumina…
E a quel punto le prendi la mano e la fai sedere, e le dici: ‘Lei è molto preoccupata…’.
‘Ah, questo sì! E se fosse solo per mio figlio non sarebbe niente…’.
Ed eccola che si mette a raccontare la sua vita, la sua fottuta vita di donna e mentre lei racconta, l’altro o l’altra – la persona per cui in teoria eri stato chiamato – sente che non c’entra più niente, che non è più in prima linea, e si siede nel letto per giocare con le bambole e dopo un po’, quando trova che comincia ad averne abbastanza, dice: ‘Mamma ho fame’ … perché tutto questo è molto bello, vecchio mio, sei gentile a occuparti di lei, mi dà il tempo di prendere fiato ma non dimentichiamo che lei è qui per curare me’».
Rileggo il brano tre volte e sorrido. Lo rileggo tutto d’un fiato e penso che questo medico internista oltre ad essere un bravo scrittore ha un ottimo pensiero sistemico. Penso che in queste righe, per quanto semplificative, c’è la sintesi di quanto accaduto in 13 sedute.
BIBLIOGRAFIA
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