Oltre lo sguardo. La fotografia in psicoterapia


Gabriella Monti1


1Psicologa, psicoterapeuta, Didatta Centro Studi Terapia Familiare e Relazionale, IPRA, Pescara.


Riassunto. L’uso della fotografia in psicoterapia è diffuso in modo trasversale nei vari orientamenti teorici. Nel presente contributo si analizzeranno i diversi utilizzi della fotografia e i principali autori che se ne sono occupati, in particolare le PhotoTherapy Techniques di Judy Weiser e il lavoro in ottica sistemico relazionale di Rodolfo de Bernart. Verranno presentati alcuni casi clinici per illustrare l’utilizzo delle immagini fotografiche in terapia, in particolare: il genogramma fotografico, l’autoritratto e il dialogo con gli antenati. Con il genogramma fotografico è possibile entrare direttamente nel mondo relazionale del paziente, nel racconto si segue il filo delle foto, una narrazione parallela a quella del discorso verbale che però la arricchisce e approfondisce. Nel lavoro con l’autoritratto il paziente ha la possibilità di guardare se stesso: la macchina fotografica, come uno specchio, restituisce aspetti nuovi e sconosciuti della propria identità. Nel dialogo con gli antenati si fanno comunicare tra loro gli autoritratti del paziente e le foto degli antenati.


Parole chiave. Psicoterapia, fototerapia, genogramma fotografico, autoritratto.


Summary. Beyond the gaze. Photography in psychotherapy.

The use of photography in psychotherapy is widespread across the various theoretical orientations. In this paper we will analyze the different uses of photography and the main authors who have dealt with it, Judy Weiser’s PhotoTherapy Techniques and Rodolfo de Bernart’s work in a systemic relational perspective. Some clinical cases will be presented to illustrate the use of photographic images in therapy, in particular: the photographic genogram, the self-portrait and the dialogue with the ancestors. With the photographic genogram it is possible to enter directly into the patient’s relational world, in the story one follows the thread of the photos, a narration parallel to that of the verbal discourse which, however, enriches and deepens it. In working with the self-portrait, the patient could look at himself: the camera, like a mirror, returns new and unknown aspects of one’s identity. In the dialogue with the ancestors, the patient’s self-portraits and the photos of the ancestors communicate with each other.


Key words. Psychotherapy, phototherapy, photographic genogram, self-portrait.

Resumen. Mas alla de la mirada.Fotografia en psicoterapia.

El uso de la fotografía en psicoterapia está muy extendido en las diversas orientaciones teóricas. En este artículo analizaremos los diferentes usos de la fotografía y los principales autores que la han abordado, en particular las técnicas de Fototerapia de Judy Weiser y el trabajo de Rodolfo de Bernart en una perspectiva relacional sistémica. Se presentarán algunos casos clínicos para ilustrar el uso de imágenes fotográficas en terapia, en particular: el genograma fotográfico, el auto retrato y el diálogo con los antepasados. Con el genograma fotográfico se puede adentrarse directamente en el mundo relacional del paciente, en el relato se sigue el hilo de las fotos, una narración paralela a la del discurso verbal que, sin embargo, la enriquece y profundiza. Al trabajar con el auto retrato, el paciente tiene la oportunidad de mirarse a sí mismo: la cámara, como un espejo, devuelve aspectos nuevos y desconocidos de la propia identidad. En el diálogo con los antepasados​​, los auto retratos del paciente y las fotos de los antepasados se hacen para comunicarse entre sì.


Palabras clave. Psicoterapia, fototerapia, genograma fotográfico, auto retrato.


«È un’illusione che le foto si facciano con la macchina…

si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa»

Henri Cartier-Bresson

INTRODUZIONE

L’uso della fotografia in psicoterapia è diffuso in modo trasversale nei vari orientamenti teorici; la psicoterapia sistemica in particolare ha sempre utilizzato tecniche non verbali, si pensi al lavoro con le sculture familiari e agli “oggetti fluttuanti” di Caillé [1,2].

È opinione condivisa che il canale non verbale sia meno controllato e controllabile del canale verbale e, nella relazione terapeutica, permetta di entrare più facilmente nel mondo interno del paziente, connettendo la persona alle proprie emozioni.

Il lavoro con la foto inoltre aiuta a superare le difese e le resistenze, permette l’attivazione di un pensiero per immagini e l’incontro tra mondo interno e mondo esterno dell’individuo.

Nel presente articolo, dopo un excursus sugli orientamenti teorici che si sono occupati della fotografia in psicoterapia, con particolare riferimento al lavoro di Judy Weiser [3] e, in ambito sistemico, di Rodolfo de Bernart [4,5], verranno presentati tre casi clinici per illustrare il modo in cui sono state utilizzate le immagini fotografiche in terapia.

In particolare, verrà esposto il lavoro con il genogramma fotografico, il lavoro con l’autoritratto e il dialogo con gli antenati prendendo spunto da The Self-Portrait Experience (SPEX), un dispositivo di arte autobiografica creato da Cristina Nuñez [6].

CORNICI TEORICHE DI RIFERIMENTO

L’utilizzo della fotografia in terapia ha una lunga storia: già nel 1856 Hugh Diamond, psichiatra inglese, usa la fotografia nel lavoro con i pazienti di un reparto psichiatrico per documentare la patologia, scoprendo così un effetto terapeutico positivo di aumentata autostima; famosi sono i suoi “ritratti della follia”.

Nei primi anni del 1900, Jacob Levi Moreno userà la fotografia nelle sedute di psicodramma, successivamente Carl Rogers lavorerà con le foto in terapia come stimoli per favorire l’introspezione e Heinz Kohut utilizzerà le foto portate dai pazienti per l’anamnesi, la valutazione e la diagnosi. Sarà però con Judy Weiser, nel 1975, che si avrà una sistematizzazione delle tecniche e la nascita del termine FotoTerapia.

«Ogni scatto ha storie da raccontare, segreti da condividere, e memorie da portare alla luce» [3].

I diversi orientamenti teorici hanno dato vari contributi alla lettura e comprensione di quello che accade quando ci si trova davanti a una fotografia.

La teoria psicodinamica ed i concetti di identificazione e proiezione forniscono una lettura del modo in cui le foto attivano un processo trasformativo, favorendo il contatto con le parti più regressive.

Se la proiezione è «operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o oggetto, delle qualità̀, dei sentimenti, dei desideri e degli oggetti, che egli non riconosce o rifiuta di sé», e l’identificazione è il «processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente sul modello di quest’ultima» [7], possiamo dire quindi in estrema sintesi che il paziente è presente in tutte le foto e le singole foto riguardano il paziente.

Seguendo Winnicot, il processo di mediazione favorito della fotografia, come l’atto creativo, crea un’area transizionale. «Non è l’oggetto che è transizionale. L’oggetto rappresenta la transizione del bambino, dallo stato di unione con la madre allo stato in cui è in relazione con lei, in quanto oggetto esterno e separato» [8].

Secondo Jung [9] le immagini inconsce sono autorappresentazioni dei processi profondi in atto nella psiche, descrivono i blocchi e i problemi invitandoci a entrare in una dimensione simbolica della realtà.

 Le immagini indicano la strada per dialogare con il nostro mondo interno e, in questo senso, sono straordinari strumenti di guarigione.

La foto: fare una fotografia è un modo per concretizzare tali eventi interiori, in questo modo diviene disponibile per il soggetto qualcosa di concreto e non solo qualcosa che è presente all’interno del mondo psichico.

 Scattando una foto inoltre trasformiamo l’immagine interna ed entriamo quindi in contatto con la parte creativa che, secondo Jung, come le opere d’arte, affonda le sue radici nell’inconscio, per cui può̀ indicare strade non battute, illuminare nuovi territori e aprire a soluzioni inattese.

L’arte, infatti, dà rappresentabilità a contenuti latenti e ne permette quindi una elaborazione.

La psicologia della Gestalt, e in particolare il lavoro di Oliviero Rossi [10], apporta ulteriori elementi di riflessione.

Il significato di una foto dipende dallo sguardo della persona che entra in relazione con l’immagine, e questo non riguarda solo le foto scattate da noi stessi, ma anche le immagini realizzate da altri.

La fotografia ha una funzione metacomunicativa, permette della realtà molteplici letture emotive: la foto, infatti, non è una copia identica della realtà, ma una lettura di essa.

«Le foto sono metafora del modo che la persona ha di percepire il mondo (non sono una riproduzione fedele della realtà), prodotto dell’interpretazione soggettiva dell’osservatore, del suo modo di essere, di relazionarsi, di vedere quello che gli è intorno.

Ogni foto rappresenta un’immagine carica o caricabile di senso esistenziale e un’importante traccia del percepito della persona che viene in terapia» [10].


Rodolfo de Bernart sottolinea l’importanza dell’uso delle immagini in terapia poiché solo attraverso il linguaggio non verbale è possibile la “conoscenza relazionale implicita” teorizzata da Daniel Stern [11]. Parliamo di quelle relazioni implicite, non verbali, non simboleggiate, non raccontate ma non represse e non rimosse.

Infatti «l’implicito non è l’inconscio di Freud, costruito attraverso meccanismi di difesa, quali la censura, lo spostamento, la rimozione di materiale psichico disturbante emotivamente […]. Nell’implicito ci sono una serie di esperienze che semplicemente non abbiamo portato a consapevolezza, e possiamo più facilmente focalizzarle attraverso le immagini» [4, p. 23]. Per avere accesso all’implicito la parola da sola non basta, «… non abbiamo accesso all’implicito con le parole, ma solo attraverso il linguaggio non verbale e corporeo» [4, p. 20].

Il canale non verbale e il linguaggio metaforico costituito attraverso le immagini e le fotografie permettono di entrare nell’immagine interna di una famiglia, consentendo l’incontro tra mondo interno e mondo esterno.

L’uso delle immagini inoltre favorisce una maggiore sintonizzazione emotiva e una più alta circolazione affettiva tra paziente e terapeuta: si tratta dei “new moments” di cui parla Stern, che aprono a nuove letture e a cambiamenti.

Infine, i recenti sviluppi delle neuroscienze (il costrutto di “mente estetica”, ovvero quel network neurale articolato in diverse aree che ci fa godere del bello) «… ci portano ad ipotizzare che l’uso di immagini solleciti il processamento di codici pre-verbali e pre-simbolici e li faccia transitare in un’area riflessiva e simbolica. Lavorare in psicoterapia con immagini, fotografie e produzioni grafiche significa stimolare gli aspetti analogici della comunicazione, evocare risvolti emotivi, favorire elaborazioni ed integrazioni tra aspetti emotivi e cognitivi» [12], risultando un fattore di implementazione dell’alleanza terapeutica.

FOTOTERAPIA E FOTOGRAFIA TERAPEUTICA

Un’importante distinzione da fare è tra FotoTerapia e Fotografia Terapeutica.

La FotoTerapia è un insieme di tecniche che possono venire usate da un terapeuta, indipendentemente dall’orientamento teorico, nel lavoro clinico [3,13].

La Fotografia Terapeutica invece è l’utilizzo della fotografia per affrontare, comprendere e modificare situazioni specifiche e momenti di difficoltà, si tratta di uno strumento di auto terapia. Nella Fotografia Terapeutica la fotografia viene utilizzata come strumento per lavorare sui processi psicologici: fotografandosi l’artista prende il controllo di quello che sta succedendo ed elabora il trauma. La fotografia diventa un’espressione e oggettivazione della psichicità dell’autore.

«È così che funziona la fotografia terapeutica: un individuo è spinto a rappresentare in immagine, a trasformare in simbolo il suo tormento interiore, e già nel lavorare a questa trasformazione, il dolore si allevia» [14].

Le PhotoTherapy techniques di Judy Weiser

Judy Weiser distingue cinque modalità per utilizzare le foto come strumento di mediazione in psicologia clinica; sono modalità molto versatili, non devono essere utilizzate tutte né in sequenza, ma va scelta la più adatta in base all’obiettivo terapeutico.

Le cinque tecniche della FotoTerapia sono:

1. Photoprojective, uso delle foto come strumento proiettivo, foto proposte dal terapeuta al paziente.

2. Fotografie scattate o raccolte dal paziente, foto portate dal paziente su temi proposti dal terapeuta.

3. Fotografie del paziente scattate da altre persone.

4. Album di famiglia, foto che parlano della storia della famiglia e delle relazioni del paziente.

5. Autoritratti, rappresentazione che il paziente ha di sé.


Nel processo proiettivo, le immagini fotografiche sono usate per stimolare nel paziente l’espressione di emozioni, promuovere l’emergere di significati nuovi a contenuti latenti, migliorare l’autoconsapevolezza prendendo coscienza di aspetti di sé non consapevoli o nascosti. Il significato della foto viene dato dal paziente durante il processo di percezione dell’immagine, non esiste un modo unico, giusto o sbagliato, di percepire una foto anzi le percezioni sono molteplici e cambiano durante il processo stesso di osservazione. Nel lavoro con il PhotoProjective le foto andranno scelte dal mazzo di fotografie proiettive: questo contiene una serie di circa 100 immagini, si tratta di un insieme eterogeneo di fotografie, foto di persone, luoghi, natura, opere astratte, edifici, ecc. La consegna per il lavoro con il PhotoProjective deve essere aperta: questo consente al paziente di sentirsi libero, si abbassano le difese e le foto che si scelgono esprimeranno i temi dominanti in quel momento.

Esempi di consegna per il lavoro con il PhotoProjective:

• scegli una foto che ti piace e una che non ti piace;

• scegli una foto che ti rappresenta (autoritratto metaforico);

• scegli una foto che rappresenta diversi aspetti di te oppure di una fase della vita.

Le domande sulla foto scelta partiranno sempre da una descrizione della foto per capire cosa vede il paziente, nel dettaglio domande sull’immagine globale, sui singoli elementi della foto, su cosa c’è e cosa manca nella foto. Si indaga inoltre sulle motivazioni della scelta, è possibile far scegliere altre foto per approfondire il tema emerso.

Foto scattate o raccolte dal paziente

Si propone al paziente di scattare foto o di raccogliere foto da riviste, in risposta a una consegna. Le consegne non devono essere troppo complesse, è importante prestare attenzione al timing della richiesta e non fare richieste che il paziente viva come troppo minacciose o difficili. Ad esempio: foto della persona che sono e che nessuno conosce realmente (il sé segreto), foto di speranze, di sogni oppure foto che parlino di un tema emerso in seduta.

Foto del paziente scattate da altre persone

Permettono di vederci con gli occhi degli altri, vedere i molteplici aspetti di noi stessi e mettere a confronto ideali, aspettative e credenze su noi stessi

Sono utili per lavorare sull’immagine corporea; interessante lavorare sui cambiamenti nel tempo, ci si può soffermare sui cambiamenti avvenuti nelle varie fasi della vita.

Album di famiglia

Per focalizzare dinamiche familiari, conflitti relazionali, caratteristiche transgenerazionali, legami affettivi ed emozioni collegate; in generale consentono una ri-narrazione dell’intera storia familiare e del posto occupato dal paziente. Accade di frequente che le foto che mancano ci dicano di più di quelle portate dal paziente.

In generale gli aspetti da indagare quando si lavora con la fotografia sono i seguenti:

• la scelta della foto: come è stata fatta la scelta, è stato difficile? Come vengono conservate le foto, dove, da chi? Qual è la storia di questa foto specifica?

• Descrizione iniziale della foto, cosa sto guardando e cosa vede il paziente.

• Come, quando perché, protagonisti, chi è il fotografo, relazioni tra gli attori nella foto, elementi della foto cioè luci, ombre, colori, personaggi mancanti e spazi vuoti. “Cosa colpisce di questa foto?”, “Qual è la cosa più evidente?”, “Cosa racconta di te questa foto?”,” Chi sta guardando la persona ritratta nella foto?”; lo sguardo in particolare è sempre molto importante rispetto alle informazioni che può portare.

• Emozioni, ricordi, connessioni e collegamenti tra la foto e la storia del paziente, nuove e molteplici letture della foto, legame tra passato, presente e futuro. È possibile fare un lavoro di tipo immaginativo sugli elementi della fotografia. Ad esempio: “Provi ad entrare nella fotografia, dove potrebbe posizionarsi nella foto?”, “Cosa manca nella foto che potrebbe essere aggiunto?”.

• Fase finale dove emergono nuove letture di sé e della propria storia.


L’uso della fotografia in terapia aiuta, come già sottolineato, a superare i limiti della comunicazione verbale e le resistenze, consentendo al paziente di esprimere le emozioni e i vissuti profondi, aumentandone la consapevolezza, è utile per superare momenti di stallo terapeutico, elaborare traumi, per lavorare sulla conoscenza di sé e l’autostima, consente inoltre di lavorare sulla dimensione relazionale, familiare e trigenerazionale. Favorisce la condivisione, la partecipazione emotiva e la sintonizzazione interpersonale tra paziente e terapeuta.

Il genogramma fotografico

Rodolfo de Bernart è considerato uno dei massimi esponenti delle tecniche di immagine in psicoterapia sistemico-relazionale e dobbiamo a lui l’introduzione del genogramma fotografico. Non mi soffermerò sul genogramma in terapia sistemico-relazionale poiché argomento ampiamente conosciuto [15].

Con l’introduzione della fotografia il lavoro con il genogramma ha assunto una connotazione maggiormente emotiva e un livello di analisi più profondo. «Attraverso la fotografia l’assente diviene presente nel senso che ad esempio la foto di tua nonna non è solo la foto di tua nonna ma qualcosa in più, diviene un oggetto metaforico che rappresenterà tua nonna durante la seduta» [4, p. 62].

Nel genogramma fotografico già dalla consegna di portare le foto della famiglia trigenerazionale, e quindi il fatto stesso di dover andare alla ricerca di queste foto, spesso conservate da genitori o nonni, rappresenta un momento significativo poiché porta in luoghi, sia fisici che emotivi, spesso non più frequentati, diviene una sorta di “viaggio a casa” alla Bowen.

Dalla visione delle foto vengono alla luce somiglianze e differenze tra personaggi familiari, tratti comuni, caratteristiche transgenerazionali, possono emergere conflitti relazionali, affiorano emozioni rispetto ai legami e viene stimolata una ri-narrazione dell’intera storia familiare.

È molto importante vedere cosa manca, quali foto vengono portate e quali invece scartate o addirittura non esistono proprio.

La ricerca delle proprie radici attraverso le immagini aiuta il riconoscimento delle modalità relazionali tipiche della propria famiglia, stimolando così un lavoro sulla comprensione della trasmissione transgenerazionale dei modelli e degli schemi relazionali familiari.

Tramite l’immagine è possibile accedere al mondo interno, non facilmente raggiungibile e spesso difeso dall’uso del canale verbale, e diventa possibile dare rappresentabilità a quei contenuti che molte volte possono essere solo agiti.

Infine, il genogramma fotografico consente di introdurre il livello trigenerazionale, cioè conoscere le famiglie di origine, anche senza la loro presenza fisica in stanza di terapia.

«Roland Barthes dice che “la fotografia è una profezia al contrario come Cassandra, ma con gli occhi rivolti al passato”: ciò significa che se guardiamo le foto del passato potemmo essere in grado di capire il nostro presente e magari fare qualcosa riguardo al nostro futuro» [4].

Il genogramma fotografico clinico può essere usato in terapia individuale, di coppia e familiare. Nel genogramma fotografico si richiede al paziente di portare 30 foto della storia trigenerazionale della famiglia, scegliendo quelle che ritiene più significative.

Il paziente deve tornare in famiglia per procurarsi le fotografie, poiché spesso queste foto non sono in suo possesso, per cui è costretto a misurarsi subito con le dinamiche scatenate da questa ricerca.

Deve poi scegliere tra le foto quelle che ritiene più significative e ordinarle secondo un suo criterio, infine presentarle al terapeuta; in seduta poi, attraverso domande e commenti che connetteranno le varie immagini tra loro, il terapeuta stimolerà nuove letture e interpretazioni della storia familiare.

La scelta di alcune immagini al posto di altre diviene uno strumento utile per conoscere l’interiorità della famiglia del paziente e permette di capire come queste relazioni familiari interne interagiscano con il mondo esterno.

In terapia di coppia la consegna circa le foto da portare cambia leggermente: per rappresentare le famiglie di origine e le fasi del ciclo vitale relative all’infanzia e all’adolescenza (10 foto dell’infanzia e 10 foto dell’adolescenza) la scelta viene fatta dai due coniugi separatamente.

Per illustrare l’incontro della coppia e il matrimonio la scelta delle foto va fatta congiuntamente, possono decidere insieme le 10 foto da portare per rappresentare il periodo della loro vita insieme. A queste foto possono aggiungere ognuno cinque foto che possono essere definite come quelle che vorresti portare, ma che il tuo partner rifiuta.

Quando le coppie sono più vecchie e hanno un lungo matrimonio e dei figli si include una quarta fase con altre 10 foto della loro vita familiare.

Nella lettura del genogramma fotografico, secondo R. de Bernart, devono essere presi in considerazione tre parametri.

1. Parametro interattivo, ovvero leggere le interazioni osservando le foto in cui sono presenti diverse persone; se ci sono posizioni simili in molte foto si possono fare ipotesi sui ruoli, le funzioni e i legami emozionali presenti nella famiglia.

2. Parametro relazionale: deve includere la storia e il tempo; per esempio, se una situazione specifica viene ripetuta con il passare del tempo possiamo ipotizzare una funzione relazionale stabilita nella famiglia (foto con pose simili con la stessa persona in diversi momenti storici).

3. Parametro simbolico metaforico, ovvero soffermarsi su quelle foto con un significato speciale che possono far emergere un mito della famiglia o della coppia.


L’intero genogramma deve essere osservato longitudinalmente, per vedere se ci sono delle ripetizioni nel tempo, e trasversalmente, per vedere se ci sono eventi simili nello stesso tempo per diversi membri della famiglia.

Infine, nelle foto di gruppi familiari vanno osservate le posizioni vicine o lontane dei vari membri e l’eventuale assenza di un membro importante della famiglia.

Nelle foto individuali va osservato se ci sono rassomiglianze con altri membri della famiglia, considerare il numero delle foto per ogni membro, notare inoltre la proporzione delle foto tra famiglia di origine e famiglia attuale.

Con gli strumenti non verbali, sostiene R. de Bernart, viene fuori l’immagine interna: «la comunicazione simbolica contenuta nelle immagini permette l’emergere di sentimenti e informazioni che non sono chiari neanche a chi le sceglie e che diventano portatori di nuovi elementi di conoscenza» [4, p. 41].

Il collage in terapia di coppia

Secondo Rodolfo de Bernart, il collage si può utilizzare per lavorare sull’idea che i partner hanno della coppia e sulla sessualità nel caso di stallo nella terapia o in presenza di coppie che tendono a razionalizzare troppo.

Nella consegna si chiede alla coppia di scegliere e ritagliare su giornali e riviste le immagini che ritengono utili per mostrare l’idea che hanno della coppia (o della sessualità).

Una consegna volutamente ambigua per favorire l’emergere di contenuti latenti e di modelli interiorizzati di relazione: la tecnica, infatti, si situa nell’interfaccia tra famiglia rappresentata e famiglia reale e consente di lavorare su tali significati. Con la fotografia diviene possibile vedere e parlare di quegli aspetti che vengono solitamente agiti in maniera inconsapevole.

Successivamente i due partner, individualmente e non mostrando all’altro il proprio lavoro, realizzeranno un collage delle immagini scelte. In seduta si lavorerà sulla lettura incrociata dei due collage, cioè ogni partner commenterà prima il collage dell’altro, un’interpretazione delle singole immagini e dell’insieme sottolineando ciò che viene evocato, ciò che piace e ciò che disturba.

Alla fine, si chiede a entrambi cosa volessero dire con il proprio collage, prima in generale poi in particolare, e ognuno sceglie la foto preferita e quella odiata.

Il collage, grazie alla rappresentazione visiva che, come sappiamo, è meno controllata dalla coscienza della rappresentazione verbale, permette di far uscire i contenuti latenti, i modelli interiorizzati di relazione, le emozioni, l’immagine interna della coppia. È un modo alternativo di rappresentare la storia relazionale della coppia; infine le letture incrociate richiedono di riuscire a mettersi in relazione con l’altro, con ciò che l’altro pensa e prova.

Il terapeuta lavora soprattutto sulle differenze piuttosto che sui significati del singolo collage, sulle differenze nella scelta della foto preferita e odiata, sulle differenti capacità di leggere il collage dell’altro, ecc. «Il lavoro con le immagini intende privilegiare una costruzione e ricostruzione dell’esperienza che riporti fuori e drammatizzi i mondi interni di queste due persone e il loro incontro» [4, p. 41].

L’autoritratto

Innanzi tutto, è necessario distinguere l’autoritratto dal selfie.

Il selfie ha modificato le regole alla base della fotografia: per oltre un secolo fotografare qualcosa o qualcuno è stato un atto quasi metafisico, si estrae un attimo dal flusso del tempo per isolarlo da quello che è venuto prima e da quello che sta per avvenire, rendendo assoluto un istante.

Nel selfie invece si annota, come in un diario, quello che accade quotidianamente, si ferma nello scatto tutto ciò che capita.

Quando si fa un autoritratto c’è un uso particolare del dispositivo tecnico (devi inquadrare senza soggetto, definire il tempo di attesa/scatto, andare al punto prefissato e attendere lo scatto, senza poter calcolare/vedere la tua espressione).

Il selfie invece consente un controllo assoluto dell’immagine che vogliamo dare di noi stessi, si utilizza lo schermo del cellulare come uno specchio in cui possiamo vederci e programmare ogni dettaglio.

Attualmente il fenomeno del selfie è diventato talmente pervasivo da sconvolgere il rapporto delle persone con la propria immagine, il tempo è diventato un eterno istante e lo spazio diventa reale solo se immortalato e condiviso sui social network.

Nel considerare i meccanismi psicologici alla base dell’autoritratto sono importanti le considerazioni di Stefano Ferraris [14] che parte dal concetto di Winnicot del volto materno come primo specchio nel quale il bambino si vede e si riconosce, sviluppando quindi il suo senso di identità attraverso il rapporto con l’altro. «Come il bimbo si vede (o non si vede) rispecchiato nel volto materno, così noi continuiamo a vederci attraverso gli occhi degli altri, o meglio attraverso l’immagine che immaginiamo che gli altri abbiano o debbano avere di noi. […] L’artista attraverso l’autoritratto si libera di parti di sé inaccettate che vengono scisse e proiettate sulla tela. È già questo un processo di riparazione, che però non è sufficiente: bisogna infatti che egli elabori e reintroietti quelle parti di sé scisse con le quali deve comunque fare i conti, in quanto anch’esse gli appartengono. […] Ma sotto un profilo tecnico c’è di fatto una scissione, o meglio, uno sdoppiamento tra l’io oggetto e l’io soggetto: infatti per potersi rappresentare come oggetto, per diventare l’immagine del quadro, occorre che l’artista torni a guardare alla sua immagine come a quella di un altro. […] L’uomo che si autoritrae deve tornare a guardare alla propria immagine come a quella di un altro» [16].

L’autoritratto dunque è una via privilegiata per guardare a se stessi, poiché favorisce la distanza necessaria per rileggere ciò che siamo, consentendo di esplorare il senso di identità ampliando così la consapevolezza di noi stessi. Stimola inoltre un dialogo interno, aiutando a integrare i vari aspetti di sé. L’autoritratto è utile per lavorare sull’immagine di sé del paziente, sull’immagine che pensa di dare agli altri, come cioè pensa che gli altri lo vedano. Permette infine di esteriorizzare le proprie emozioni. «L’autoritratto in sé, per il tempo che obbliga l’artista a stare con sé stesso, a contemplarsi, a confrontarsi con la propria immagine, non può non avere una ricaduta psicologica per quanto concerne certi nodi fondamentali del suo io e del suo senso d’identità» [14].

Molteplici possono essere le consegne per un compito fototerapico con l’autoritratto; ecco alcuni esempi:

• scatta una foto che racconti come ti senti in questo momento della tua vita;

• autoritratto che parla di te, fotografa diversi aspetti di te (sé professionale, sé personale, sé sociale, sé ideale);

• “cercati nel mondo”, utilizzo dell’autoritratto per familiarizzare con la propria immagine, perché fermandola è possibile guardarla meglio;

• “come vuoi essere visto”, per lavorare con l’immagine ideale/idealizzata;

• “autoritratto nelle vesti di altri”, mettere una maschera per svelarsi, utilizzare la maschera per far emergere personaggi interni;

• “autoritratto mentale”, per rappresentare il proprio stato mentale, immagine del proprio mondo interno; non è necessario mostrare il volto, la somiglianza non è importante perché l’autoritratto deve mostrare la natura intima dell’autore.

Secondo Ferrari un autoritratto «risponde all’esigenza di familiarizzare con la propria immagine e letteralmente di addomesticarla […], soprattutto in momenti critici e cruciali della nostra esistenza (come l’adolescenza, la vecchiaia, la malattia), quando essa ci appare estranea e tendiamo a non accettarla» [14].

The Self-Portrait Experience (SPEX)

La storica affermazione di Murray Bowen «Credo che un terapeuta non possa chiedere alla famiglia di fare ciò che lui non fa» [17] mi ha spinto a mettermi in gioco in prima persona partecipando al workshop SPEX, confrontandomi così con la mia immagine e con le foto degli antenati in un lavoro creativo e introspettivo molto interessante.

Lo SPEX è un dispositivo di arte autobiografica creato da Cristina Nuñez, consiste nella produzione di autoritratti fotografici e in video, nella percezione delle immagini secondo criteri artistici specifici e nella costruzione di progetti artistici d’autoritratto.

Il metodo SPEX stimola il processo creativo inconscio a partire dell’espressione di emozioni difficili, permette di migliorare l’immagine interna scoprendo, attraverso la propria vulnerabilità̀, i propri punti di forza; aumenta l’autoconsapevolezza e stimola una maggiore apertura alla relazione con l’altro attraverso la condivisione e la collaborazione in gruppo. «Lo SPEX non è terapia ma uno strumento “auto-terapeutico”».

«Il processo creativo è trasformativo in sé perché è possibile mostrare aspetti opposti in un’unica immagine e le molteplici percezioni amplificano e arricchiscono la propria immagine di sé. La sfida è scattare foto “brutte” di noi stessi cioè dove non corrispondiamo ai canoni estetici di bellezza imperanti ma solo così possiamo vedere la bellezza autentica e naturale. Quando vedi una foto di te “orribile” è un’ottima opportunità per lavorare sulla tua immagine interna; se la contempli per 5 minuti inizierai a vedere e riconoscere qualcosa di te scoprendo qualità, punti di forza (e la tua grandezza). Questo significa lavorare per unire la nostra immagine interna con quella esterna» [6].

Il metodo SPEX prevede dettagliati criteri da seguire nella percezione delle immagini; sintetizzo di seguito alcuni aspetti che ho trovato interessanti da riproporre in terapia con i pazienti nel guidare la loro percezione delle fotografie.

• Come mi sento mentre guardo queste fotografie? Che cosa non mi piace? Che cosa c’è di sorprendente, nuovo o strano? Mi riconosco?

• Come è stata scelta la foto? Si tratta di una scelta estetica, l’immagine è tridimensionale, il soggetto si stacca dallo sfondo, risulta “perfetta”, non cambieresti nulla dell’immagine, tutto ha senso? Oppure è una scelta “perturbante”, qual è la foto che ti disturba di più, in cui ti riconosci di meno?

• Guarda il soggetto nella foto, come se fosse davanti a te, parlandoti. Che cosa ti dice personalmente? Che cosa ti chiede?

Qual è il punctum nell’opera? Il punctum, secondo Roland Barthes, è ciò che attira lo sguardo, la parte più importante dell’opera, un dettaglio marginale che però colpisce lo spettatore. Riguarda quindi un aspetto emotivo, quello che mi coinvolge della foto che sto guardando, la ferita che la foto suscita in me. «Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura, è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione» [18].

• Soffermati a guardare i due lati del volto separatamente, il lato sinistro, connesso all’emisfero destro, è il lato più emotivo, innocente, vulnerabile. Il lato destro, connesso all’emisfero sinistro, rappresenta la parte più razionale, lato del pensiero, dell’obiettivo e della strategia.

• Considera il tempo nelle cinque temporalità: l’espressione del soggetto suggerisce un richiamo al passato remoto, a ciò che è appena successo, al momento presente, a ciò che sta per accadere o al futuro lontano?

• A quale archetipo o personaggio mitico il soggetto nella foto rimanda?

Dialogo con gli antenati

Questa metodologia proposta da Cristina Nuñez mi è sembrata particolarmente interessante nel momento in cui si lavora in terapia con il genogramma fotografico e si hanno quindi a disposizione tante foto della famiglia trigenerazionale.

In terapia è possibile mettere le foto una accanto all’altra a formare un dittico, promuovendo un dialogo tra le immagini.

È un momento di intensa emozione e di nuove scoperte, le foto ci restituiscono frammenti inediti della storia familiare, nuove letture dei rapporti e delle relazioni e diverse visioni di se stessi all’interno delle dinamiche familiari. Si tratta di un «incontro che non è possibile nella vita reale, ma è possibile con la fotografia; questo incontro con gli antenati rende possibile che loro, in quel momento della loro vita (immortalato nella fotografia), attraversano il tempo e lo spazio e possono effettivamente incontrarsi, guardarsi negli occhi e parlare di ciò che è importante per la famiglia e per loro» [6].

Anche R. de Bernart sottolinea come «la rappresentazione di queste immagini fa divenire l’assente presente, non solo attraverso un’evocazione magica nel tempo e nello spazio di questa memoria e di questa identità, ma anche tramite una vera e propria “sostituzione oggettuale”. La foto di una persona cara morta può farla essere presente fra noi per un dato tempo» [5, p. 65].

CASI CLINICI

“Le foto non mentono”

Una coppia chiede una terapia per essere supportata in un momento difficile: la figlia, tossicodipendente, era ricoverata in una comunità terapeutica. Marco e Giada sono due professionisti affermati sul lavoro e con una vita sociale attiva, Marco ha ricoperto anche incarichi in politica.

In seduta sono molto contenuti, poche emozioni, soprattutto lui, lucido e razionale; Giada a volte si lasciava andare al pianto, ma l’impressione era che si trattenesse, come se ci fosse qualcosa che voleva dire ma non esprimeva, forse per timore di rompere un equilibrio.

Nella storia patologica della famiglia emerge che Giada ha nascosto al marito la tossicodipendenza della figlia per un lungo periodo durante il quale la ragazza, seguita dal SerD, va addirittura a studiare fuori casa; lì però la situazione precipita e sono costretti a informare il padre.

Colpisce molto questa madre che tiene un tale segreto, ma anche questo padre che non si accorge di niente. Nessuno della famiglia allargata è a conoscenza della tossicodipendenza.

Propongo il lavoro con il genogramma.

Vengono fuori importanti collegamenti tra la storia della famiglia di origine della madre e la famiglia attuale, degli script ripetitivi legati al ruolo di mamma come confidente dei figli.

Dalla storia di Marco emerge un padre “genio e sregolatezza”, libertino con le donne, famoso per i suoi tradimenti che tanto facevano soffrire la madre, al punto da farla svenire.

Marco in mezzo al conflitto tra padre e madre si immobilizzava, soffriva per mamma, ma non riusciva ad arrabbiarsi con un padre che tanto ammirava. Madre donna bellissima, padre geniale, ammirato da tutti e con tante donne, prepotenti escono i miti familiari della bellezza e del talento, creatività, genialità ed eccesso; chi eredita questi miti?

Decido di lavorare con le foto e chiedo di portare 15 foto della famiglia di origine per ciascun coniuge e 15 scelte insieme che illustrino la storia della loro famiglia nucleare.

Marco mi sorprende perché arriva in seduta postando due enormi buste con dentro tutti gli album di famiglia. Attraverso le foto emerge la sua storia di bambino che ha tanto sofferto: nasce infatti con la labiopalatoschisi e problemi all’anca per cui dall’età di 5 anni ha dovuto portare una protesi per 3 anni circa. Riuscirà a superare le problematiche fisiche, giocherà a calcio e farà tanti sport, conseguirà brillantemente la laurea rendendo orgoglioso il padre e, come questi gli ripeteva sempre da piccolo, proprio le difficoltà lo hanno reso forte. Le difficoltà quindi, nel dettato paterno, devono essere superate ma non c’è possibilità né tempo per l’elaborazione del dolore.

La visione delle foto è un momento di grande emozione, entrambi i coniugi hanno gli occhi lucidi, elementi del passato cancellati tornano sulla scena, la fragilità può essere mostrata, se ne può parlare, non deve solo essere superata e poi dimenticata.

Attraverso il medium della fotografia pazienti e terapeuta riescono ad avvicinarsi a un livello più profondo, non accessibile prima attraverso l’uso delle parole, l’incontro avviene su un piano emozionale, preconscio, affettivo, e affiorano nuove possibilità di cambiamento ed evoluzione.

Rispetto alle foto della famiglia nucleare emerge una mancanza: a un certo punto papà non è più presente nelle fotografie, solo foto di mamma e figli; ricostruiscono che si tratta del periodo in cui Marco si è occupato attivamente di politica ed era molto impegnato e poco presente in famiglia. Viene fuori a questo punto una relazione extraconiugale dell’uomo, che però lui ha sempre negato: Giada sostiene di avergli creduto, però nel tempo non sono mancate frecciatine e rinfacci; i figli hanno certamente saputo perché la vicenda ha destato uno scandalo con tanto di articoli sul giornale, anche se non ne hanno parlato mai apertamente in famiglia.

È uscito lo scheletro dall’armadio; dopo 7 mesi di terapia deve essere stato molto difficile per loro, soprattutto per Marco, che in seduta sembra una statua, un viso senza alcuna espressione. Per i figli sarà stato fonte di confusione, si saranno fatti tante domande, forse mamma pur mantenendo il segreto si sarà lasciata scappare qualche sospiro, forse si sarà lamentata con i figli o avrà fatto qualche battuta; la confusione sarà aumentata nel vedere mamma sempre al fianco di papà come se niente fosse accaduto.

Queste storie di segreti, non detti, emozioni negate sono alla radice delle problematiche familiari. Con le fotografie la stanza di terapia ha preso vita, popolandosi dalle immagini dei vari personaggi che acquistano spessore, sono lì, presenti, e il racconto si fa più carico di emotività. Le foto disposte sul tavolo a formare un albero genealogico ci rivelano un altro racconto, una narrazione sotterranea, che corre parallela a quella narrata dal discorso verbale che però la arricchisce, approfondisce e ne svela aspetti nascosti.

“Il buco”

Francesco, avvocato di 40 anni, sembra più giovane della sua età, ha un aspetto per così dire “casual”, modi molto gentili. Arriva in terapia per problematiche esistenziali, si sente bloccato in un lavoro che non lo soddisfa e nelle relazioni sentimentali.

Lavoriamo con il genogramma tradizionale, molti racconti sulla famiglia materna, mentre su quella paterna diverse lacune, ma soprattutto colpisce che conosca pochissimo della storia d’amore dei suoi genitori (attualmente separati), non sa neanche se si sono sposati in Chiesa o in Comune, non ha mai visto una foto del loro matrimonio. Dice di non capire come mai si sono sposati perché non hanno niente in comune, sono due persone profondamente diverse. Dal racconto emerge che nella sua famiglia ci sono molti non detti e lui, seguendo un mandato familiare, non chiede.

Racconta per esempio che, tornato a casa dopo il periodo dell’università trascorso in un’altra città, scopre che i genitori si sono separati, ma anche questo è un non detto, non viene esplicitato, non se ne parla, semplicemente il padre non abita più nella casa familiare. Sa anche che il padre ha un’altra donna, ma non è mai stato detto, non ricorda neanche come e quando ne è venuto a conoscenza. Il fratello è omosessuale, ma anche questa è una cosa di cui non si è mai parlato esplicitamente.

È inevitabile quindi a questo punto lavorare con le foto. Chiedo di portarmi 30 foto per illustrare il suo genogramma, foto della famiglia di almeno tre generazioni.

Cosa ci dicono le foto: foto del periodo dell’infanzia, foto che ama e che ha visto tante volte, la famiglia felice, in montagna con il padre, con la madre e il fratello intenti in varie attività gioiose, i nonni e i cugini: viene fuori dunque l’affresco di una grande famiglia felice.

La riflessione sulle fotografie porta alla luce un buco temporale di 3 anni, anni in cui non ci sono foto, e soprattutto le foto degli anni successivi erano diverse: colpisce molto il paziente il fatto che la madre prima sorrideva e dopo no. Ne parla con il fratello, fa dei collegamenti temporali e ipotizza che il matrimonio dei genitori sia potuto finire a causa dell’altra donna proprio in quegli anni.

Per lui è una rivelazione!

Il lavoro con le foto della famiglia ha permesso il riconoscimento delle modalità relazionali tipiche della propria famiglia, la comprensione della trasmissione transgenerazionale dei modelli e schemi relazionali familiari, e ha stimolato una ri-narrazione della storia.

Le immagini fotografiche sono state usate per stimolare nel paziente l’espressione di emozioni, risultando catalizzatori di significati nuovi a contenuti latenti, utili per migliorare l’autoconsapevolezza e prendere coscienza di aspetti di sé non consapevoli o nascosti.

Nel prosieguo della terapia si lavorerà sulle sue difficoltà a vedere le relazioni, a capire i suoi desideri, a esprimere le sue emozioni: tutto dipende dalla sua storia di non detti, “tutta colpa del buco” affermerà il paziente stesso riferendosi alla mancanza di foto nell’album di famiglia.

“Allo specchio”

Marina, 40 anni, professionista, sposata senza figli. Arriva in terapia subito dopo il lockdown per problemi di ansia generalizzata, attacchi di panico, disturbi del sonno, timore di prendere il covid e/o di trasmetterlo per una sua trascuratezza, attenzione ossessiva a rispettare le norme di sicurezza. Parla di difficoltà con il marito a causa di questi suoi comportamenti e delusioni lavorative per scelte sbagliate. Racconta dell’impossibilità di avere un figlio per problematiche organiche, lo sanno da tanto tempo ma per un senso di protezione reciproca lei e il marito non ne hanno mai parlato, paura di ferire il marito poiché la sterilità è causata da un suo problema. Dai primi colloqui viene fuori la tendenza a dover essere perfetta, a controllare tutto per paura che altrimenti potrebbe accadere qualcosa.

Iniziamo il lavoro con il genogramma fotografico (30 foto della sua famiglia trigenerazionale).

Le foto vengono sistemate dalla paziente sul tavolo, viene data libertà su come presentarle, in questo caso sono messe a formare un puzzle, un grande affresco familiare che si snoda in ordine cronologico a partire dal basso con una grande foto dei genitori (le origini). A partire dalle foto prende vita il racconto, la saga della famiglia.

I timori della paziente hanno origini molto lontane, se ne ritrova l’eco nelle storie degli antenati dove proprio nei momenti più felici capita l’inimmaginabile (morti improvvise, incidenti, difficoltà lavorative).

Le foto del marito sono solo 2 (su 30), si riferiscono ai primissimi tempi della loro unione poi, con la delusione per il bambino, è come se tutto si fosse fermato, il tempo congelato.

L’unione deve essere protetta, (foto del matrimonio portata con la pellicola per non farla rovinare! Anche come vengono conservate le foto ci dice molto) e per questo si evita di affrontare questioni dolorose, non si parla del figlio che non possono avere, si tengono entrambi dentro tutto questo dolore per amore dell’altro, per non farlo soffrire.

Si propone a questo punto di lavorare con l’autoritratto.

Il lavoro con l’autoritratto fatto dal paziente è un «modo per guardare a sé stessi, favorisce la distanza necessaria per rileggere ciò che siamo, esplorare il senso di identità (intimo, sociale, relazionale, ideale, ecc.), modo per esteriorizzare le proprie emozioni, aumenta la consapevolezza di sé stessi» [3].

Nella lettura dell’autoritratto mi ispiro all’esperienza maturata con il metodo SPEX. I criteri per la percezione delle immagini e le domande fatte osservando la fotografia sono utili per fermarsi e riflettere, scoprire nuovi aspetti di sé. Dalla lettura dell’autoritratto emerge come gli opposti possono coesistere, fragilità e forza presenti contemporaneamente.

Il lavoro con le foto, come uno specchio, restituisce aspetti inediti di se stessi, più profondi.

Nel prosieguo del lavoro si riprendono le foto dell’album di famiglia facendole dialogare con l’autoritratto (le due foto si collocano una vicina all’altra a formare un dittico). Escono fuori nuovi collegamenti, nuove riflessioni che rispondono ai quesiti iniziali della paziente.

Cosa sta dicendo questa bimba alla paziente adulta? In se stessa bambina ritrova aspetti che pensava di non avere più, nuove scoperte su di sé.

Importante nel lavoro con le foto la domanda “cosa manca?”. Questa apre sempre scenari importanti, come nel caso di una foto che era stata letteralmente tagliata eliminando un personaggio: nel lavoro emerge che si era eliminato un personaggio sofferente, stanco, ferito e senza futuro; diviene quindi necessario integrare gli aspetti di sofferenza perché fanno parte della persona, di come è adesso, rendendola più ricca e completa, è proprio questo quello che ci porta a scoprire il dialogo con gli antenati.

CONCLUSIONI

Con le fotografie, insomma, la stanza di terapia è come se prendesse vita, viene a popolarsi dalle immagini dei vari personaggi della storia familiare del paziente; questi sono lì, presenti, e il racconto si fa più carico di emotività. L’incontro tra terapeuta e paziente diviene più autentico, riescono ad avvicinarsi a un livello più profondo, non possibile con l’uso solo delle parole.

Il lavoro con le foto della famiglia, nel genogramma fotografico, consente di conoscere e ri-conoscere quelle che sono le modalità relazionali tipiche della propria famiglia, la trasmissione transgenerazionale dei modelli e schemi relazionali familiari, avviando una possibile ri-narrazione dell’intera storia familiare e del posto occupato in essa dal paziente.

Il lavoro con l’autoritratto, come uno specchio, restituisce aspetti inediti di se stessi, sconosciuti o messi da parte, più autentici.

Il dialogo con gli antenati, infine, è un incontro reso possibile solo dalla fotografia, dove gli avi, attraversando il tempo e lo spazio, possono parlarci, restituirci nuove visioni di noi stessi, del nostro posto nella storia familiare e aprire nuovi scenari per il futuro.

BIBLIOGRAFIA

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16. Nicasi S. Autoritratto e identità, intervista a Stefano Ferraris. SpiWeb 2008; 16 aprile. Disponibile su: https://bit.ly/3cn1sYQ [ultimo accesso 17 novembre 2021].

17. Bowen M. Dalla famiglia all’individuo. Roma: Astrolabio, 1979.

18. Barthes R. La camera chiara. Torino: Einaudi, 2003.