Il protocollo Aiutarsi ad aiutare:
quando l’Alzheimer è in famiglia


Valeria Vermeil1, Annalisa Palazzo2, Ilaria Perla Pallagrosi1


1Psicologa, psicoterapeuta, socia del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.
2Psicologa, allieva del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.



«Quando la memoria recente fallisce, recuperiamo l’equilibrio recuperando i ricordi iniziali.

Quando la vista fallisce, ci si rivolge agli occhi della mente per poter vedere.

Quando l’udito ci lascia, ascoltiamo i suoni del passato».

Wiler Penfield



Particolarmente dedicato ai medici e agli operatori della salute, l’articolo col­locato in questa sezione risponde a una domanda fondamentale sulla possibilità di utilizzare, fuori dal campo in cui esso nasce, il sapere che origina dal lavoro degli psicoterapeuti.




Especially addressed to practitioners and other health specialists, the article placed in this section answers to the main question on the possibility to make use of the knowledge resulting from the work of psychoterapists outside the field in which it is born.




Dedicado especialmente a los médicos y demás profesionales de la salud, el artículo presentado en esta sección responde al tema fundamental sobre la posibilidad de utilizar los conocimientos derivados del trabajo de los psicoterapeutas fuera de su campo original.





Riassunto. L’équipe “Famiglie Darwin” presenta il protocollo d’intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia” per dare risposta a una richiesta sociale a lungo trascurata: la cura di chi si prende cura. Il protocollo propone un intervento di prevenzione secondaria rivolto ai familiari di persone affette dalla malattia e nello specifico prevede un intervento di gruppo, co-condotto da due psicologhe, articolato in un ciclo di 12 incontri. L’obiettivo è di promuovere un miglioramento della qualità di vita dei caregiver, che rischiano di diventare la “seconda vittima” della malattia. Il protocollo stilato dall’equipe, di approccio sistemico-relazionale, presenta due livelli di intervento: diretto (i familiari del malato) e indiretto (le persone affette dalla malattia), evidenziando l’interconnessione e la complementarietà che lega il malato e chi se ne prende cura. In questi anni il protocollo è stato oggetto di consenso e condivisione scientifica (Convegno Nazionale SIPI, CNOP, Ordine degli Psicologi del Lazio) e l’équipe “Famiglie Darwin” ha sentito crescere l’esigenza di farlo conoscere anche a contesti medicalizzati e non, sensibili ai temi della malattia, quali l’RSA San Giuseppe di Roma e la parrocchia di Santa Maria di Loreto di Castelverde - Lunghezza (RM). L’applicazione del protocollo in questi due diversi contesti ha evidenziato la replicabilità dello stesso senza risentire della diversità tra i due.


Parole chiave. Alzheimer, caregiver, prevenzione secondaria.


Summary. The protocol Helping yourself to help: when the Alzheimer is in the family.

The “Famiglie Darwin” équipe presents the intervention protocol “Helping yourself to help: when the Alzheimer is in the family” to answer a long-neglected social request: the care of those who care. The protocol proposes a secondary prevention intervention aimed at the families of people affected by the disease and specifically it provides for a group of intervention, co-conducted by two psychologists, articulated in a cycle of 12 meetings. The aim is to promote an improvement of the life’s quality of caregivers, who are at the risk of becoming the second victim of the disease. The protocol drawn up by the equipe, based on a systemic-relational approach, has two levels of intervention: direct (the family members of the patient) and indirect (the people affected by the disease) by highlighting the interconnectedness and complementarity between the patient and the caregiver. In these years the protocol has been subject of scientific consensus and sharing (National Conference SIPI, CNOP, Order of Psychologists of Lazio) and the “Famiglie Darwin” équipe felt the need to make known the protocol also to medicalized contexts and not, sensitive to the issues of illness, such as the RSA San Giuseppe di Roma and the parish of Santa Maria di Loreto di Castelverde - Lunghezza (RM).The application of the protocol in these two different contexts has revealed the replicability of the protocol, which is not affected by the diversity of contexts.


Key words. Alzheimer, caregiver, secondary prevention.


Resumen. El protocolo Ayudarse para ayudar: cuando el Alzheimer está en la familia.

El equipo “Familias Darwin” presenta el protocolo de intervención “Ayudarse para ayudar: cuando el Alzheimer está en la familia” para dar una respuesta a una solicitud social ignorada durante mucho tiempo: el cuidado a quién cuida. El protocolo propone una intervención de prevención secundaria dirigido a los familiares de las personas afectadas por esta enfermedad y prevé, en concreto, una intervención de grupo realizada conjuntamente por dos psicólogas, que se articula en un ciclo de 12 encuentros. El objetivo es promover una mejoría de la calidad de vida de los cuidadores para que no se conviertan en la “segunda víctima” de la enfermedad. El protocolo elaborado por el equipo, con un enfoque sistémico-relacional, presenta dos niveles de intervención: directo (los familiares del enfermo) e indirecto (las personas afectadas por la enfermedad), destacando la interconexión y la complementariedad que une el enfermo a quién lo cuida. En los últimos años, el protocolo ha sido objeto de consenso y de intercambio científico (Convención Nacional SIPI, CNOP, Colegio de Psicólogos del Lazio), y el equipo “Familias Darwin” ha sentido la necesidad de dar a conocer el protocolo también en ámbitos médicos y no médicos, sensibles al tema de la enfermedad, como el RSA San Giuseppe de Roma y la parroquia Santa María de Loreto de Castelverde – Lunghezza (Roma). La aplicación del protocolo en estos dos diferentes ámbitos ha dado a conocer su reproducibilidad, reproducibilidad que no se ve afectada por la diversidad de los contextos.


Palabras clave. Alzheimer, cuidadores, prevención secundaria.

INTRODUZIONE

La demenza è una condizione che porta a progressive perdite fisiche e funzionali. Il processo di modificazione della struttura neuronale che arriva fino alla neurodegenerazione è lento e si sviluppa in lunghi anni fino a determinare il passaggio dalla condizione di invecchiamento “normale” a quella di alterazione cognitiva. Tale passaggio è regolato da un insieme di fattori, alcuni non controllabili dall’individuo, come la sua struttura genetica, altri invece controllabili, ovvero quegli atteggiamenti “vitali” che attivano le potenziali capacità dell’encefalo e svolgono una continua opera di controllo e rallentamento delle modificazioni biologiche indotte dai fattori genetici stessi, allontanando la comparsa dei sintomi [1].

Demenza e deterioramento cognitivo sono le principali cause di disabilità e dipendenza nelle persone anziane. Mentre gli anziani con una marcata disabilità fisica possono spesso autogestirsi o essere gestiti senza difficoltà e rimanere ragionevolmente indipendenti, l’insorgenza di un deficit cognitivo può invece compromettere rapidamente la loro capacità di svolgere compiti semplici, ma essenziali nella vita quotidiana, con conseguente impatto fisico, psicologico ed economico della demenza sugli individui e sulle loro famiglie [2].

La persona affetta da deficit cognitivo ha una storia clinica “unica” che include il versante cognitivo, comportamentale e quello della salute fisica. Curare una persona affetta da demenza, con una lunga storia di malattie, è sempre un compito gravoso e difficile [3]. La cura del dolore, ad esempio (spesso di difficile identificazione in chi non sa riferirne le caratteristiche di intensità, localizzazione, durata), assume sempre un ruolo importante, perché la sofferenza peggiora sia la cognizione che il comportamento [4].

Un decennio fa si pensava che l’aumento dei servizi avrebbe ridotto l’impegno di chi presta assistenza diretta alle famiglie e anche quello delle badanti. Invece secondo lo studio Aima-Censis del 2016, la fruizione dei servizi pubblici appare diminuita in favore di quelli forniti privatamente. Dal 1999 al 2015 l’età media dei malati di demenza assistiti a casa è passata da 73,6 anni a 78,8; ciò ha indotto un aumento oggettivo delle problematiche assistenziali, sia riguardo agli aspetti clinici sia quelli riguardanti la qualità della vita [1].

Nell’ultimo decennio sono cambiati gli stili di vita degli italiani ed anche quelli di chi si dedica alla cura degli anziani ammalati. Il carico di cura assistenziale per il caregiver aumenta sempre di più con il peggiorare della malattia. Viene a modificarsi non solo la vita della persona malata di Alzheimer o di qualche altra forma di demenza, ma anche quella dei familiari. Si parla infatti di “carriera del caregiver” [5].

In molte letterature si parla di “vittime nascoste della malattia” facendo riferimento ai familiari.



«Quando mio marito si è ammalato si sono allontanati tutti» «Mia madre ha fatto tanto per tanti… ora sono rimasti in pochi»

«Qui fanno di tutto per sostenere il malato, ma poi a te familiare chi ti aiuta?»

Testimonianze dirette di caregiver partecipanti ai gruppi svolti


Il caregiving resta una realtà nascosta e dolorosa, che tende a diventare sempre più drammatica con la crisi economica e con il progressivo allentamento dei legami familiari [6]. Il dato diventa ancor più di rilievo se si associa all’aumento dell’età media dei caregiver, da 53,3 anni a 59,2 anni, mentre la condizione di solitudine della diade paziente-caregiver è passata nello stesso tempo dal 23 al 30% [1].

Alla luce di quanto descritto, il presente articolo ha l’obiettivo di condividere una modalità di supporto ai caregiver familiari, ideata dal gruppo di lavoro “Famiglie Darwin”; il protocollo di intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia”.

L’équipe propone un approccio multidisciplinare con l’obiettivo di creare una qualificata rete di supporto e una maggiore circolazione di informazioni al servizio degli utenti, nella consapevolezza che la demenza richiede una gestione “olistica, integrata e continua”, come sottolineato anche dal Rapporto Mondiale Alzheimer 2016. L’obiettivo generale è di spezzare il binomio invecchiamento-solitudine e promuovere un miglioramento della qualità di vita dei caregiver che, se non sufficientemente supportati, rischiano di diventare la “seconda vittima” della malattia.

ALZHEIMER: DALLA DIAGNOSI AL CAREGIVING

«Ognuno di noi ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo.
Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi,
la legga e gliela racconti».

Pablo Neruda


La demenza è un termine utilizzato per descrivere un declino delle facoltà mentali sufficientemente grave da interferire con la vita quotidiana; la perdita di memoria è la principale peculiarità di questo declino. Il morbo di Alzheimer rappresenta la più comune tipologia di demenza: una patologia caratterizzata da una lenta e progressiva degenerazione neuronale che compromette le capacità cognitive e funzionali del malato, seguendo un gradiente gerarchico, con interessamento progressivo dalle funzioni cognitive più complesse alle più semplici. Nelle prime fasi sono intaccate le capacità di apprendimento, le competenze lavorative e le attività socialmente complesse. Con il progredire della malattia la persona non è più in grado di svolgere le attività di base della vita quotidiana quali l’igiene personale, la deambulazione e l’alimentazione autonoma. In generale si configura un aumento della fragilità globale della persona, delle patologie che la affliggono e del rischio di mortalità [2].

Il decorso della malattia di Alzheimer è unico per ogni individuo. La durata media è stimata tra gli 8 e i 20 anni e la suddivisione in fasi ha il solo scopo di orientare chi si occupa del malato rispetto alle caratteristiche evolutive della patologia, al fine di consentirgli un’adeguata pianificazione dell’assistenza e una maggior consapevolezza di quanto potrà accadere e come affrontarlo [7].

Oggi il tempo medio in Italia per arrivare a una diagnosi dopo la comparsa dei primi sintomi si è nettamente accorciato; è infatti passato da 2,5 anni nel 1999 a 1,8 anni nel 2015. La famiglia ancora oggi vive con angoscia la diagnosi, angoscia che si riflette più o meno direttamente sull’ammalato, che comprende la riduzione progressiva delle proprie capacità cognitive e, allo stesso tempo, intuisce la crisi della famiglia, non sempre in grado di affrontare la situazione con la necessaria lucidità. La reazione immediata è spesso quella della negazione, dovuta principalmente alla necessità di proteggersi dalla malattia; si pensa che quello che sta accadendo non è vero: “si saranno confusi i medici, non conoscono bene mio padre”, “è tutta colpa della stanchezza” [8]. In alcune situazioni si rivivono le difficoltà che per molti anni hanno accompagnato la diagnosi di cancro, la cui sola parola significava angoscia e prospettive terribili. Un contributo alla riduzione dello stigma è derivato anche dai chiarimenti tramessi al pubblico sull’ereditarietà della malattia di Alzheimer, cioè sul fatto che questa è strettamente limitata ad alcune forme genetiche rare, in età presenile, che, come già ricordato, coprono non più dell’1% del totale [1].

Spesso si parla del malato di demenza che non riconosce più i suoi cari, ma anche il familiare non si sente più riconosciuto. L’Alzheimer infatti può essere definito “malattia familiare”, poiché non colpisce solo la persona malata, ma produce un impatto su tutta la sua famiglia, destabilizzando l’intero sistema. Il familiare non solo assiste al progressivo declino del proprio caro, ma sperimenta anche un senso di perdita “funzionale” di una persona a cui la malattia sottrae progressivamente ruoli e funzioni ricoperte in famiglia fino a quel momento. Ne consegue una “perdita emotiva” dell’altro, in termini relazionali, poiché la malattia determina la progressiva “assenza” della persona cara con la quale condividere storie, momenti e attività. Talvolta i familiari non accettano la “piccola morte quotidiana” che così diviene una continua fonte di stress e di atteggiamenti colpevolistici verso se stessi o verso chi cura [1].


«Io provavo rabbia e senso di colpa ogni volta che mi accorgevo che lui non era più lui. Non accettavo che lui fosse diventato come non è mai stato»

«Ci intestardiamo perché loro facciano più di quanto a oggi riescano a fare»

«A volte il nostro dolore non diventa presunzione da parte nostra? No, il dolore è dolore, è qualcosa che hai dentro, non confrontabile con nulla»

«A volte mi ostino a non capire che è la malattia a renderla così... Non accetto questo. Mio marito quando torno a casa capisce come sta mia madre dal mio umore»

Testimonianze dirette di caregiver partecipanti ai gruppi svolti


Quando la morte segue una malattia grave e prolungata (malattie neurodegenerative, oncologiche, ecc.) il processo di elaborazione del lutto si attiva prima del decesso. Il sistema familiare viene investito da una serie di emozioni quali vissuti di ansia, tristezza, inadeguatezza, sensazioni di fatica e di impotenza e attiva un processo definito lutto anticipatorio. Esso si configura come un periodo piuttosto variabile in cui il paziente e la sua famiglia percepiscono la minaccia della morte in concomitanza a una serie di perdite: di funzionalità e integrità fisica, dei ruoli all’interno della famiglia e nella società e di tutto ciò che caratterizzava la vita e la quotidianità prima dell’insorgenza della malattia [9]. Il lutto anticipatorio ha una funzione adattiva, cioè quella di preparare le persone al distacco, ma un’assistenza impegnativa e lunga del malato può complicare il processo di elaborazione della perdita [10]. L’individuo che sperimenta il cosiddetto lutto anticipatorio percepisce l’esistenza presente come terra di nessuno, una situazione ricca di ambivalenza dove la speranza ci sta lasciando ma dove, tuttavia, non ci troviamo ancora di fronte a un deserto assoluto [11]. Per il sistema familiare un evento traumatico fa apparire la quotidianità come “senza senso”, enfatizzando una sproporzione tra l’importanza dell’evento stesso e la vita fatta di gesti “banali” e routine. Il quotidiano però si ripropone in gesti, routine e automatismi che nondimeno sembrano da “creare” nuovamente, quasi come se si presentassero per la prima volta [9].

Intorno alla persona affetta da male incurabile ruotano almeno tre sistemi chiusi. Il primo è interno al paziente, agisce attraverso una profonda consapevolezza della morte incombente, che quasi mai viene comunicata dallo stesso ai suoi cari. Il secondo è la famiglia, che oltre a interfacciarsi con il medico che dà loro informazioni, cerca e raccoglie notizie da altre fonti, quindi amplifica, distorce e reinterpreta i dati durante le conversazioni che avvengono al suo interno, per poi decidere, in base all’interpretazione familiare, quale comunicazione ufficiale dare al parente malato. Il terzo sistema chiuso riguarda il medico curante e il personale sanitario: essi cercano di dare alla famiglia notizie obiettive, che vengono comunque distorte dalla loro personale emotività e dal desiderio di sottolineare necessariamente le “buone” o “cattive” notizie. Il tempo necessario alla famiglia per ristabilire un nuovo equilibrio emotivo dipende dalla sua integrazione emotiva precedente e dall’intensità del disturbo [12]. Vi è un bisogno di ricostruire il proprio mondo, di ristabilire una uniformità tra il mondo di prima e quello di adesso. Ricostruire è una ricerca di senso, il tentativo di dare un senso a quanto si sta vivendo. La ricerca di senso è la chiave della salute mentale [9]. La famiglia del paziente con patologia in fase terminale, confrontandosi con l’imminenza della perdita, può manifestare reazioni emotive e meccanismi di difesa molto intensi i quali, purtroppo, possono generare ulteriori conseguenze negative.

Il lutto anticipatorio può produrre azioni di abbandono prematuro, per esempio lasciare il proprio caro ricoverato in ospedale o in clinica delegando tutte le cure e l’accudimento al personale sanitario. Questo comportamento non dovrebbe essere confuso con l’indifferenza che si osserva in alcune famiglie di tipo “svincolato/disgregato”. Azioni d’abbandono, infatti, possono verificarsi anche in quelle in cui i rapporti sono solidi e in tal caso, dovrebbero essere considerate come una modalità difensiva. Una seconda possibile reazione di difesa al lutto anticipatorio è la negazione della realtà di morte, riconoscibile dal fatto che il paziente è trattato come fosse quello di un tempo: gli vengono assegnate responsabilità di cui, però, non riesce più a prendersi carico o gli sono richiesti, in forma più o meno diretta, comportamenti o sentimenti incompatibili con la sua malattia. Non si dovrebbero confondere queste azioni con il cinismo o l’indifferenza nei confronti della malattia, perché è probabile che esse rappresentino il tentativo di evitare la realtà della perdita e del dolore, ripristinando le condizioni familiari precedenti. Una terza reazione al lutto anticipatorio è la speranza della morte del malato, che ha una duplice valenza: da un lato sancirebbe la fine delle sofferenze del malato, dall’altro libererebbe i familiari dalla sofferenza del lutto anticipatorio che a volte dura anni. Tale processo, infatti, si innesca per lo più a fronte di lunghe malattie che sottraggono, pian piano, le forze al malato e a coloro che gli forniscono assistenza, provocando il burn-out, una sindrome da stress ben studiata negli operatori socio-sanitari, ma che può colpire chiunque presti cure a persone bisognose. Esso comprende sintomi quali l’affaticabilità, l’insonnia, la mancanza d’energie, l’irritabilità e l’aggressività, fino alla depressione.

Quello a cui si assiste nella maggior parte dei casi è uno sconvolgimento di ruoli, funzioni e confini all’interno della famiglia. “Colui che si prende cura” (caregiver) della persona malata finisce spesso con l’assumere un ruolo diverso da quello svolto fino a quel momento a causa della necessità di accudimento: si assiste spesso a figli che assumono un ruolo genitoriale nei confronti del proprio genitore malato, mogli/mariti diventano madri/padri del proprio coniuge e così via. Il ruolo di caregiver, dunque, si sviluppa in base alla necessità della persona affetta da patologia grave.

Si possono distinguere due tipologie di caregiver.

– Informale: definito anche “primary cargiver”, si identifica normalmente con un familiare del paziente (più frequentemente un figlio o un coniuge) o altre volte può essere un amico.

– Formale: si identifica con un professionista come il medico, l’infermiere, eccetera.

In generale, dunque, colui che viene riconosciuto come caregiver assume il ruolo di responsabile attivo nella presa in carico di un secondo individuo e si impegna a svolgere una funzione di supporto e cura nei confronti di una persona che si trova in condizione di difficoltà. Il termine caregiving, invece, riassume tutte le attività assistenziali che il caregiver svolge al fine di proteggere e migliorare il benessere di un’altra persona. Nel caso del caregiver informale quindi, colui che all’interno di un nucleo familiare si assume il compito principale di cura e assistenza va a rivestire un ruolo fondamentale nella storia della malattia del proprio caro [13]. È proprio durante la malattia che i familiari si trovano a dover affrontare diversi tipi di difficoltà poiché l’assistenza della persona con demenza si svolge quasi sempre all’interno del nucleo familiare e le ripercussioni dovute al carico di cura ricadono sia sul caregiver che sui familiari. Tali fattori costituiscono il “carico assistenziale del caregiver”, identificato nel concetto di caregiver burden che descrive il grado in cui il caregiver soffre a causa della presa in carico del proprio familiare a livello emotivo, fisico, di vita sociale o finanziario [14]. Secondo diversi studi i caregiver soffrono tipicamente di sintomi ansiosi e depressivi elevati rispetto alla restante popolazione. Il deterioramento della propria salute, ad esempio, è uno dei rischi a cui si espone il caregiver, come conseguenza dell’eccesso di responsabilità legate al carico di cura imposto dalla malattia e dello stress psicofisico che ne deriva. Ore di sonno insufficienti, ridotto esercizio fisico, alimentazione inadeguata e stanchezza incidono sullo stato di salute del caregiver, in particolare sui più anziani. La vita privata e sociale subisce anch’essa delle conseguenze: vengono a modificarsi gli stili di vita, l’organizzazione del tempo libero e delle ferie subiscono delle variazioni significative, il tempo dedicato alle relazioni sociali diminuisce, in favore di un isolamento sempre maggiore del caregiver insieme al proprio caro malato [15]. Il concetto di caregiver burden è quindi multidimensionale e deriva dalla percezione di stress che il caregiver stesso ha nello svolgere le attività assistenziali. Esso inoltre può essere incrementato o diminuito anche dall’influenza di fattori psicosociali come la parentela, l’ambiente sociale e la cultura [13].

Nel corso degli anni sono stati effettuati diversi studi relativamente a quanto e come l’assistere persone affette da demenza provochi nel “caregiver” conseguenze che vanno a ledere la propria integrità psico-fisica. Uno di questi studi è stato condotto dalla professoressa Gill Livingston et al. [16] attraverso un programma chiamato START (STrAtegies for RelaTives, strategie per parenti). Le sedute di START erano rivolte a coloro che seguivano pazienti affetti da demenze, il cui rischio era quello di sviluppare quadri clinici di ansia e di depressione. Le stesse venivano realizzate attraverso accessi domiciliari di psicologi che lavoravano su base individuale con il familiare, attuando strategie di sostegno con supporto emotivo e sollievo allo stress. Le difficoltà incontrate dal caregiver sono infatti associate a esiti patologici negativi non solo per il paziente, ma anche per la persona che se ne fa carico, la quale, se non sostenuta e supportata, diventa la “seconda vittima” della malattia. Lo studio ha portato gli autori a concludere che per migliorare le condizioni dei parenti si dovrebbe dare ai caregiver la possibilità di usufruire di interventi finalizzati ad affrontare il senso di fallimento e lo stress psico-fisico, fornendo sostegno e supporto psicologico continuativo, senza richiedere un eccessivo investimento di tempo personale e di risorse psicofisiche, per evitare un aumento paradossale del carico soggettivo.

La presa in carica del sistema a partire dal caregiver:
il nostro protocollo

A partire da queste premesse, l’équipe “Famiglie Darwin” composta da tre psicologhe/psicoterapeute ha progettato il protocollo d’intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia”, rivolto ai caregiver, figure alle quali difficilmente si fa attenzione, esposti a un rischio di vittimizzazione secondaria. L’équipe condivide, quale cornice teorica di riferimento, il modello sistemico-relazionale, un orientamento teorico-pratico che centra il proprio interesse sui sistemi interpersonali, facendo dell’interazione tra le persone il momento privilegiato dell’analisi dell’intervento. Il termine “sistema” sta a indicare un complesso di parti le quali istituiscono tra loro relazioni, tali che il comportamento di ciascuna di esse è influenzato e influenza tutte le altre. L’insieme conferisce al sistema proprietà che non sono la mera derivazione della somma delle note distintive delle parti, ma risultano del tutto originali. Ne deriva che nella totalità dell’organismo strutturato il singolo elemento, per essere veramente conosciuto, va esaminato in riferimento alla condotta di tutti gli altri e quindi a quella dell’intero sistema, per cui la variazione introdotta in una componente si ripercuote tanto sul funzionamento di tutto il sistema, quanto sul comportamento delle altre componenti [17].

Una persona affetta da demenza/Alzheimer è infatti immersa all’interno di un sistema di relazioni che influenza e da cui è influenzata, di cui il caregiver, in qualità di principale fonte di supporto al malato, è parte integrante e imprescindibile. Ed è proprio sulla figura del caregiver che l’équipe Famiglie Darwin ha pensato di porre una lente di ingrandimento, in un’ottica di prevenzione intesa come attività finalizzate a promuovere e conservare lo stato di salute e a evitare l’insorgenza di malattie. Focalizzare l’attenzione sulla principale fonte di supporto al malato, infatti, significa riconoscerlo e sostenerlo nel suo stesso bisogno di cura e attenzione, promuovere una maggiore consapevolezza di sé e favorire il suo adattamento alle varie fasi della malattia. In tal modo il progetto contribuisce a prevenire lo sviluppo di sintomi psicopatologici nel caregiver e promuove un miglioramento dell’interazione caregiver-malato e della qualità di vita di entrambi. Il progetto promuove il benessere psicofisico, sostiene la cooperazione e la coesione sociale tra i familiari del malato, nel caso in cui questi sia ricoverato riduce il rischio di burnout negli operatori della struttura, promuove una cultura di sostegno nei confronti dei caregiver. Ne risulta, dunque, un impatto in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria. In quest’ottica di prevenzione si è scelto di applicare il protocollo “Aiutarsi ad Aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia” con l’obiettivo generale di proporre un intervento di prevenzione secondaria rivolta ai familiari di persone affette da Alzheimer. In particolare:

• per i familiari che assistono a casa il proprio caro l’intervento mira a ridurne il disagio, a sostenerne le competenze e le capacità di cura e accudimento al fine di favorire la permanenza dell’anziano nella propria casa e nel proprio contesto familiare il più a lungo possibile, così da ridurre al minimo il ricorso alla istituzionalizzazione;

• per i familiari che hanno inserito il proprio caro in RSA l’intervento mira, nella fase d’ingresso del malato in struttura, a sostenere e accogliere il caregiver rispetto al suo senso di colpa e abbandono; per chi, invece, ha già da tempo inserito in struttura il proprio caro, l’intervento mira a sostenere il processo di adattamento alla malattia e a elaborare la perdita del contatto relazionale.

Attraverso lo strumento del gruppo si sono perseguiti i seguenti obiettivi specifici:

1. Accogliere e sostenere il familiare rispetto al suo senso di colpa e ai vissuti di dolore e rabbia rispetto all’evoluzione della malattia.

2. Favorire il processo di adattamento alla malattia.

3. Prendere in carico il benessere emotivo del familiare.

4. Ridurre il disagio, sostenere le competenze e le capacità di cura del familiare.

5. Favorire una permanenza più serena dell’ospite in RSA o in casa, valorizzandone le capacità residue.

6. Riconoscere il malato come persona con una dignità all’interno della patologia.

7. Riequilibrare ruoli, funzioni e confini all’interno della famiglia.


Lavorando all’interno di una cornice circolare, il protocollo offre un intervento di sostegno diretto (per chi assiste: i familiari del malato) e indiretto (per chi è assistito: i malati affetti da demenza). Un intervento, quello proposto, che intende dunque lavorare su un duplice livello: il malato viene riconosciuto come persona con una dignità all’interno della patologia e il familiare viene riconosciuto non solo come “colui che si prende cura”, ma anche come una persona con degli interessi, con degli affetti, una persona che può desiderare e avere bisogno di vivere in modo più sereno. Il familiare all’interno di questo spazio ha la possibilità di rivendicare la necessità di uscire dall’isolamento e di essere “accudito”, “ascoltato” nel suo stesso bisogno di cure e di attenzioni. Sono previsti dodici incontri di gruppo articolati in due step e preceduti da un primo incontro informativo e di accoglienza. Il primo step prevede sette incontri con cadenza quindicinale, mentre il secondo step si articola in cinque incontri con cadenza mensile. Il gruppo è composto da massimo otto partecipanti e co-condotto da due psicologhe. È stata scelta la forma gruppale come peculiarità di questo intervento, poiché il gruppo «è qualcosa di più e di diverso dalla somma dei suoi membri, può definirsi come una totalità dinamica» [18]. Il senso di appartenenza, la curiosità verso gli altri membri del gruppo e la condivisione di racconti amplia la gamma delle possibili descrizioni della propria situazione, aumenta la possibilità di empatia con l’altro e crea la possibilità di ridefinire la propria storia passata e attuale, favorendo l’individuazione di nuovi obiettivi che diventano ora perseguibili. Diviene così possibile il recupero della responsabilità personale, l’accettazione e ampliamento dei nuovi ruoli e il recupero della capacità di chiedere aiuto [19].


«[…] Hai bisogno di sentire altre persone che ti dicono le tue stesse cose,
i tuoi stessi pensieri […]».

«[…] Qui ho visto e sentito cose di me che non vedevo […]».

Testimonianze dirette di caregiver partecipanti ai gruppi svolti


Un secondo elemento peculiare dell’intervento è rappresentato dalla scelta della co-conduzione degli incontri, dovuta alla consapevolezza della multidirezionalità della relazione che si viene a creare con i partecipanti al gruppo e della possibilità continua di supervisione e apprendimento reciproco della coppia terapeutica. La co-terapia appare di fondamentale efficacia soprattutto nella fase di consultazione, cioè negli incontri di riflessione e costruzione di una strategia terapeutica. Appare evidente come le risorse della co-conduzione siamo meglio utilizzate nei contesi più complessi che si creano con le convocazioni allargate, il gruppo dunque non fa eccezione. Inoltre il concetto di “mente collettiva” è rappresentato nella mente dei pazienti come maggiore possibilità di riflessione su di loro e i loro problemi e come scambio “cooperativo” tra i curanti. Il lavoro d’équipe può darci rimandi importantissimi sul nostro modo di funzionare. L’équipe accresce la nostra autorevolezza nei confronti dei pazienti, consente complesse articolazioni di interventi paralleli e integrati che nessun terapeuta potrebbe fare da solo, favorisce sinergie che possono essere decisive. Altre fondamentali potenzialità: la possibilità che i membri dell’équipe si identifichino più fortemente con differenti persone della coppia/famiglia; oppure scoprire che la stessa persona suscita reazioni emotive diverse. I presupposti per un buon lavoro d’équipe richiamano, infine, alcune dimensioni etiche, citate da Doherty [20] per la psicoterapia: partecipazione, coraggio e responsabilità, prudenza e fiducia, stima e rispetto, capacità di cooperazione. Aspetti imprescindibili in ogni sana relazione umana [21].

La co-terapia dà strumenti di fondamentale importanza all’utenza, ai terapeuti e al sistema terapeutico nel suo insieme:

• al sistema permette di avere un modeling con il quale confrontarsi, fa sì che la coppia terapeutica faccia da specchio emotivo, da contenitore, ma anche da suggeritore, esplicitando con maggiore spontaneità emozioni sommerse, quindi pericolose;

• ai terapeuti permette un confronto emotivo, una maggiore libertà di azione durante la seduta, maggiore flessibilità, un senso di appartenenza a un sottosistema e infine una corrispondenza emotiva che altrimenti non sarebbe possibile.

Trovarci insieme in co-terapia significa anche avere a che fare con quello che Loriedo chiama “il terzo terapeuta”, ovvero quell’entità che emerge dalla relazione che si instaura fra i singoli terapeuti rispetto alla famiglia. Il terzo terapeuta ha sensazioni proprie, permette di “vedere” al di là dei singoli, utenti o terapeuti che siano; imparare ad ascoltarlo significa crescere con lui e avere fiducia in lui. La fiducia nella relazione tra i terapeuti permette una co-crescita che, a nostro avviso, non sarebbe altrimenti possibile. La particolarità di questo modo sta proprio nel fare riferimento alle emozioni e alle sensazioni del terapeuta per la valutazione e il procedere per la terapia. Non è la tecnica a essere messa in risalto, bensì lo stato emotivo dei terapeuti che, per isomorfismo di contesto, deriva da ciò che quella famiglia porta in quella seduta. Come sottolinea Whitaker [22] «talvolta i trucchi, quando si cerca di farli intenzionalmente, producono uno strano contraccolpo e la relazione con gli spettatori, con i figli affidatari, si interrompe. Premeditazione significa artificio, ed essere artificiosi distrugge l’interazione professionale. Programmare le sedute, pensare a due livelli durante l’ora di terapia sono processi che ci allontanano da noi stessi e annullano la nostra capacità di essere terapeuti» [23].

L’APPLICAZIONE DEL PROTOCOLLO

Premessa

Il protocollo di intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia” in questi anni è stato oggetto di consenso e condivisione scientifica presso il X Convegno Nazionale della Società Italiana di Psicologia dell’Invecchiamento [24] e di riconoscimenti di merito da parte del Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi, dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, nonché di patrocinio da parte del Comune di Roma (Municipio V). Alla luce di questi importanti riconoscimenti, l’équipe “Famiglie Darwin” ha sentito crescere l’esigenza di far conoscere il protocollo anche a contesti medicalizzati e non, sensibili ai temi del disagio e della sofferenza provocati dalla malattia della demenza/Alzheimer. Nelle pagine successive descriveremo l’applicazione del protocollo presso l’RSA San Giuseppe di Roma e presso la parrocchia di Santa Maria di Loreto di Castelverde - Lunghezza (RM).

L’esperienza in RSA

La casa di Riposo RSA San Giuseppe – Gruppo Korian – sita a Roma nel quartiere Prati-Trionfale è una struttura sanitaria residenziale costituita da cinque nuclei abitativi, 100 posti letto e un poliambulatorio specialistico, da sempre attenta alla qualità della vita e alla costruzione di un rapporto umano con i propri ospiti e le loro famiglie. Tale sensibilità ha consentito l’avvio, nel 2014, di una collaborazione con l’équipe “Famiglie Darwin” per una start-up del protocollo di intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia”. Successivamente l’équipe ha scelto di replicarlo nella medesima struttura, a seguito dell’assegnazione di una borsa di studio nell’ambito del bando del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP) istituito nel 2015. A partire da questa prima esperienza e dai feedback ricevuti dai partecipanti si è deciso di replicare il progetto apportando alcune modifiche al protocollo: è stato scelto di ampliare il numero degli incontri di gruppo passando da cinque a dodici, di dare una maggiore strutturazione agli incontri e di definire obiettivi più a lungo termine. Successivamente a una fase di promozione del progetto svoltasi a dicembre 2015 presso l’RSA San Giuseppe di Roma, a gennaio 2016 si è costituito un gruppo eterogeneo composto da cinque careviger. Gli incontri di gruppo, avviati nel febbraio 2016 e terminati nel novembre 2016, co-condotti da due psicologhe dell’équipe, sono stati proposti ai familiari degli ospiti dell’RSA affetti da demenza o Alzheimer. Il lavoro con il gruppo, come da protocollo, è stato caratterizzato da tempi e fasi suddivisi in due step, il primo di sette incontri a cadenza quindicinale e il secondo di cinque a cadenza mensile. Di seguito verranno descritte le fasi che hanno caratterizzato il percorso del gruppo.

Fase iniziale: costruzione dell’alleanza terapeutica e della capacità di affidarsi

La prima fase, sviluppatasi nel corso dei primi sette incontri, è stata caratterizzata dalla formazione del gruppo, dalla costruzione dell’alleanza terapeutica, dalla possibilità per i partecipanti di esprimere i propri vissuti di solitudine, isolamento e senso di colpa, attivando così un reciproco sostegno tra caregiver, nonché una condivisione degli stati emotivi. I singoli membri del gruppo, attraverso il racconto delle singole storie che hanno caratterizzato per ciascuno un intero incontro, hanno avuto modo di conoscere se stessi e la persona malata alla quale erano affettivamente legati. Uno scambio di vissuti a cui il gruppo ha partecipato ponendosi in ascolto dell’altro e consentendo a chi si raccontava di rivivere alcuni frangenti della propria storia e le emozioni vissute anche attraverso occhi e orecchie diversi.


«... sento di averla abbandonata».

«Mi sento in colpa perché io non la sopportavo più».


«No il dolore è dolore, è qualcosa che hai dentro, non confrontabile con nulla».


Una volta strutturato il gruppo e creata quella rete di supporto tra i partecipanti, è stato possibile passare al riconoscimento e valorizzazione delle capacità residue del proprio familiare, consentendo al caregiver un’analisi e presa di coscienza circa le proprie aspettative rispetto alla persona cara, favorendo una maggiore aderenza alla realtà dei fatti.


«Io non accetto mio padre così... non è lui, io ci parlo con gli occhi con mio padre».

«Dovevamo fare un sacco di cose da vecchi, fare i viaggi, goderci i nipoti».

Fase finale : il cambiamento

Una volta attraversata la prima fase di questo percorso e aver preso coscienza di sé, della propria storia passata e attuale e dei propri vissuti, è stata avviata l’ultima fase, focalizzata sulla possibilità del cambiamento. Quest’ultima, strutturata in cinque incontri a cadenza mensile, ha previsto l’analisi delle dinamiche relazionali emerse nel corso degli incontri, il consolidarsi di una rete di supporto tra i partecipanti e l’apertura a un possibile cambiamento nel rapporto con il parente malato. Il caregiver ha avuto modo di ridefinire il proprio ruolo e funzione, ridefinire dei chiari confini all’interno della famiglia e riscoprire la possibilità di strutturare uno spazio per sé, attivando una rete sociale.


«Non ce la facevo, mi stavo ammalando. Ancora adesso è tosta, una vita passata insieme, ma so di aver fatto la cosa giusta per entrambi».


«Uscire da qui e ripensare a quello che hanno detto gli altri mi ha fatto sentire molto serena».


«Mi sono riappropriata della mia vita, mi riscopro più sorridente nei riguardi della famiglia».


La partecipazione agli incontri di gruppo si è diversificata a seconda dei partecipanti: è risultata costante per chi aveva inserito da pochi mesi il proprio caro in struttura e necessitava quindi di un maggiore spazio di confronto e ascolto; è risultata meno costante per due partecipanti che avevano inserito il proprio caro in struttura da un periodo maggiore (oltre 2 anni) e che quindi, in passato, avevano già partecipato ad altri gruppi di sostegno. Un dato che sembrava illustrarci la caratteristica fondamentale del gruppo era la sua eterogeneità, legata alle diverse fasi della malattia che i parenti dei degenti si trovavano ad affrontare e al differente legame di parentela con la persona malata (3 figlie e due coniugi). Tali peculiarità, se all’inizio potevano apparire come una criticità, si sono rivelate in corso d’opera un punto di forza del gruppo, poiché hanno permesso ai partecipanti di confrontare le proprie esperienze e i propri vissuti fortificando il senso di appartenenza al gruppo e agendo sul comune senso di solitudine spesse volte manifestato dai parenti.

Una criticità che si è invece potuta riscontrare è relativa al numero di partecipanti al gruppo: trattandosi di un progetto gratuito sia per il caregiver sia per la struttura ospitante (RSA S. Giuseppe), l’aspettativa era la formazione di un gruppo più numeroso, considerato che la struttura ospita 100 utenti. In tal senso, una possibile strategia in una prospettiva futura di reiterazione del progetto potrebbe essere quella di ampliare il tempo dedicato alla fase di promozione del progetto, prevedendo oltre all’evento informativo rivolto ai caregiver, anche un incontro informativo e formativo rivolto agli operatori della struttura con l’intento di lavorare in un’ottica multidisciplinare. Una seconda criticità è stata riportata direttamente dai partecipanti al gruppo che hanno sentito la necessità, e di conseguenza proposto, un incremento degli incontri nella seconda fase del progetto. In tal senso la strategia possibile è l’incremento degli incontri, o l’ipotesi di stabilire una cadenza quindicinale anche nella seconda fase del progetto.

L’intervento ha permesso ai partecipanti nella fase d’ingresso del malato in struttura di sentirsi riconosciuti rispetto a vissuti quali senso di colpa e abbandono e ha permesso altresì di sostenere chi invece aveva già da tempo inserito nella struttura il proprio caro, con l’obiettivo di favorire il processo di adattamento alla malattia e l’elaborazione della perdita del contatto relazionale. Il progetto ha perseguito l’obiettivo di promuovere una cultura di attenzione ai più fragili e in particolare una cultura di sostegno nei confronti dei familiari di persone affette da demenza/Alzheimer, i caregiver, che se non sufficientemente supportati, rischiano di diventare la “seconda vittima” della malattia.

La realizzazione di questo intervento all’interno della RSA ha permesso a livello di prevenzione primaria di promuovere una coscienza sociale e sensibilizzare sul tema i responsabili delle strutture assistenziali, gli operatori del settore, i familiari dei pazienti; a livello di prevenzione secondaria di intervenire in modo diretto sui familiari e sul benessere psicosociale; a livello di prevenzione terziaria di sostenere l’accettazione e l’adattamento alla malattia, riducendo le complicanze a essa connesse sia a livello funzionale sia a livello psicopatologico nei familiari coinvolti. Il progetto promuove il benessere psicofisico dei partecipanti, ne sostiene la cooperazione e la coesione, favorendo l’attivazione di una rete sociale tra gli stessi; rete che si rivela di fondamentale supporto (e quindi una risorsa) anche e soprattutto dopo la conclusione del ciclo di incontri. Il miglioramento della qualità della vita percepito dai partecipanti fa sì che gli stessi si facciano promotori dell’intervento presso terzi, garantendo la conoscenza e replicabilità futura del progetto.


«Uscire da qui e ripensare a quello che hanno detto gli altri mi ha fatto sentire molto serena».


«Mi sono ripresa un pezzo di vita pur dedicando lo stesso tempo di prima a mamma».


Il protocollo ha dimostrato nel suo contesto di applicazione un’efficacia rispetto agli obiettivi iniziali, pertanto risulta replicabile in altre strutture nell’ottica di promuovere un’attenzione ai più fragili e in particolare una cultura di sostegno nei confronti dei familiari di persone affette da demenza/Alzheimer: i caregiver. A conclusione del progetto si è provveduto alla realizzazione di un convegno aperto alla cittadinanza, con l’obiettivo di promuovere un confronto sul tema della demenza, in particolare sul ruolo del caregiver e sulla necessità della presa in carico del suo benessere psicologico. L’evento, svoltosi presso l’Ordine degli Psicologi del Lazio il 23 novembre 2016, ha trovato grande riscontro e interesse sia da parte dei caregiver venuti a conoscenza dell’incontro sia da parte dei diversi operatori del settore invitati (geriatri, assistenti sociali, psicologi, responsabili e operatori di strutture e associazioni). La cospicua partecipazione ha confermato non solo la rilevanza di questa problematica, ma anche l’importanza di stimolare una coscienza sociale e di sensibilizzare sul tema le autorità, i responsabili delle strutture assistenziali e gli operatori del settore. Feedback interessanti sono arrivati in particolare dagli assistenti sociali che hanno apprezzato, come caratteristica prioritaria del loro ruolo, l’attenzione posta durante il convegno sulla necessità di una presa in carico integrata del malato e della sua famiglia. Tutti gli operatori hanno condiviso l’importanza di un approccio multidisciplinare e di un lavoro di rete territoriale. L’evento è stato vissuto dai partecipanti come momento di confronto tra linguaggi e codici etici appartenenti alle diverse professionalità che a vario titolo si occupano di demenza, sia nel pubblico sia nel privato. I caregiver presenti hanno potuto beneficiare di questo spazio di condivisione per attingere informazioni e indicazioni, nonché per dare voce ai loro bisogni.

L’esperienza in parrocchia

La parrocchia di Santa Maria di Loreto è risultata essere la struttura pilota che ha visto l’applicazione del protocollo in un nuovo contesto, non sanitario, ma sicuramente assistenziale se si fa riferimento al percorso di fede che lo caratterizza come luogo. La parrocchia di Santa Maria di Loreto, sita a Castelverde (Roma), da sempre vicina ai bisogni dei suoi fedeli e sensibile ai temi dell’Alzheimer, ha condiviso con l’équipe “Famiglie Darwin” la promozione di un’iniziativa sociale concretizzatasi in una raccolta fondi organizzata presso la sede parrocchiale in occasione delle festività natalizie 2017-2018. I fondi raccolti hanno permesso alla parrocchia di finanziare il progetto promosso dall’équipe “Famiglie Darwin” e di accogliere e rispondere alla richiesta di aiuto espressa dalla comunità di Castelverde. Come da protocollo è stato proposto un intervento di prevenzione secondaria rivolto ai familiari di persone affette da demenza/Alzheimer e gli obiettivi specifici perseguiti sono stati tutti incentrati sulla presa in carico del benessere emotivo del caregiver. Si è quindi posta l’attenzione sull’accogliere e sostenere i diversi vissuti emotivi del caregiver rispetto all’inevitabile progressione della malattia del proprio caro e alla diversa ubicazione del malato (struttura vs domicilio). Inoltre si è lavorato sulla ridefinizione delle relazioni familiari e sul promuovere la riscoperta di uno spazio per il caregiver con annessa attivazione di una rete sociale. Gli interventi di gruppo, iniziati in data 20 febbraio 2018 e terminati in data 6 novembre 2018, sono stati co-condotti da due psicologhe dell’équipe “Famiglie Darwin” e sono stati rivolti ai familiari di persone affette da Alzheimer ospiti della parrocchia di Santa Maria di Loreto, Castelverde (Roma). Una caratteristica fondamentale del gruppo è stata la sua eterogeneità, legata alle diverse fasi della malattia vissute dai parenti dei pazienti. Alcuni di loro erano già ubicati in struttura, altri invece ancora presso i propri domicili. Il gruppo, inoltre, è risultato eterogeneo anche rispetto al ruolo del caregiver, ossia al diverso legame familiare che unisce il caregiver al malato (moglie, marito, figlio/a, nuora).

Al fine di poter leggere e descrivere le dinamiche evolutive del gruppo di caregiver che ha aderito al protocollo “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia”, i 12 incontri, previsti e scanditi dal protocollo, saranno descritti e raggruppati all’interno di due fasi.

Fase iniziale: costruzione dell’alleanza terapeutica e la capacità di affidarsi

Durante la fase iniziale gli incontri sono stati in primo luogo uno spazio d’accoglienza e di scambio tra sofferenze diverse che desiderano dialogare e confrontarsi. Ciò che spinge i familiari a partecipare è il bisogno di informazioni e la ricerca di risposte, oltre che il desiderio di condivisione e di sostegno. Vengono agli incontri per un genitore, il coniuge, una suocera. Raccontano storie di tentativi di cura precedenti o in corso, ma anche di difficoltà nell’identificare i professionisti cui rivolgersi. Chiedono informazioni sulla patologia diagnosticata, la sintomatologia, l’efficacia dei farmaci. Esprimono preoccupazione per la durata delle cure, spesso sono spaventati. Dai loro vissuti si raccoglie spesso rabbia, tristezza, diffidenza e resistenza.


«A volte non si sa dove finisce il carattere e dove inizia la malattia».


«Il secondo malato è chi sta vicino al malato».


In questo clima confuso e confusivo si iniziano a muovere i primi passi per costruire un’alleanza terapeutica. Vengono esplorate aree a cui ciascun caregiver è particolarmente sensibile. La malattia, modi e tempi di insorgenza, il disagio relazionale, la capacità di gestione da parte della famiglia e l’organizzazione di quest’ultima intorno alla malattia. Si cerca di introdurre, nella raccolta di informazioni, elementi di contesto, di tipo emozionale e relazionale che comincino a orientare il caregiver verso nuove possibili visioni della malattia. L’altra area a cui il caregiver è sensibile è la sua storia personale. La narrazione della storia personale consente di cogliere, sottolineare, rendere note delle connessioni importanti tra l’insorgenza della malattia e fasi particolari del ciclo vitale familiare. Gli interventi mirano ad accogliere il caregiver rispetto ai suoi diversi vissuti. La paura e la non accettazione della scoperta della malattia del familiare, il senso di colpa e abbandono per chi ha già da tempo inserito in una struttura residenziale il proprio familiare, la rabbia e la stanchezza di coloro che vivono il malato nella loro quotidianità, nella loro abitazione. L’obiettivo è di favorire il processo di adattamento alla malattia e l’elaborazione della perdita del contatto relazionale. Toccare questi temi sensibili con partecipazione e empatia permette di costruire con i singoli partecipanti e con il gruppo una relazione di affidabilità e fiducia. In una cornice di consolidata alleanza terapeutica, diventa possibile proporre ai caregiver interventi di cambiamento. Essi richiedono ai caregiver un impegno di grande intensità emotiva, che non sarebbe sostenibile in fasi premature. I caregiver sono chiamati a svelarsi, a mostrare parti di sé nascoste e dolenti ed è ovvio che essi debbano essere accompagnati e supportati in questo percorso con cautela, attenzione e rispetto. È proprio in questa delicata fase che si registrano resistenze e rifiuti. Non c’è la consapevolezza di poter fare qualcosa per se stessi, di pensare a possibilità di scelta, prendersi degli spazi o magari curare la qualità dei propri tempi. È negata la possibilità di scelta.

«Tu come ti vedi? Su una barca che prima o poi affonda».


In questa fase è particolarmente prezioso il ritorno alle storie personali dei caregiver e al rapporto con le rispettive famiglie d’origine, perché in questo quadro possono ora essere meglio chiarite le aspettative illusorie e le insoddisfazioni reciproche legate, inconsapevolmente, a un’eredità pesante che ognuno porta con sé. E allora al risentimento, finalmente espresso, possono sostituirsi una nuova solidarietà e una nuova circolazione di affetti. Questo rende possibile un miglioramento complessivo dell’atmosfera emozionale della famiglia a cui si accompagna una diversa lettura dei vissuti relazionali.


«Anche la neurologa e il geriatra mi ricordano che P. è una roccia e che io devo imparare a volermi un po’ di bene allontanandomi da casa».


Gli interventi incidono sulla percezione di “non essere soli” rispetto al problema. L’esperienza emozionale intensa e condivisa, resa possibile dai linguaggi espliciti usati negli incontri di gruppo, permette a ciascun partecipante di sentirsi una squadra e di potersi affidare al gruppo.

Fase finale: il cambiamento

Sulla base di una nuova visione della malattia e del significato delle difficoltà che comporta, emerge un’accettazione della stessa e la possibilità di condivisione del disagio all’interno del sistema familiare. Nella fase conclusiva il lavoro continua a essere maggiormente centrato sulle dinamiche personali del caregiver, è finalizzato ad affrontare temi e problemi di autonomia, è ora richiesta al caregiver la possibilità di creare e beneficiare di propri spazi individuali. È in quest’ultima fase che il gruppo ha alimentato un aumento del senso di appartenenza e una diminuzione del senso di solitudine. L’intervento ha inciso sulla percezione di “non essere soli” rispetto al problema e di potersi affidare al gruppo. Gli interventi hanno sollecitato i caregiver a promuovere una migliore coesione prima con se stessi e poi con il malato di Alzheimer. Ritrovare nella malattia una nuova identità emotiva che avvolge e definisce il caregiver e il parente malato. L’obiettivo è ora di ritrovare un rapporto, ritrovando i propri spazi.


«La gioia che sta tirando fuori».


«Il ritrovarmi».


Da quanto si è evinto, gli ultimi incontri sono stati determinanti per la promozione del benessere psicofisico dei partecipanti. Il clima di cooperazione e di coesione ha favorito l’attivazione di una rete sociale tra gli stessi che si è rivelata di fondamentale supporto (e quindi una risorsa) anche e soprattutto dopo la conclusione del ciclo di incontri. Terminato il progetto, il gruppo ha espresso un desiderio di proseguire il percorso avviato. Anche nel contesto parrocchiale il protocollo ha risposto efficacemente agli obiettivi iniziali tradotti in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria. Il progetto ha promosso l’accettazione e l’adattamento alla malattia, riducendo le complicanze a essa connesse sia a livello funzionale sia a livello psicopatologico nei familiari coinvolti. Una criticità riscontrata è relativa al numero di partecipanti al gruppo. Il gruppo in corso d’opera ha visto la perdita di alcuni partecipanti. Se si considera l’offerta del servizio erogato, quest’ultimo a titolo gratuito per i caregiver, l’aspettativa era la formazione di un gruppo più numeroso. L’eterogeneità del gruppo, se all’inizio poteva apparire come una criticità, si è rivelata un punto di forza dello stesso, nella misura in cui ha permesso ai partecipanti di confrontare le proprie esperienze e vissuti fortificando il senso di appartenenza al gruppo e agendo sul senso di solitudine spesse volte manifestato dai parenti.

CONCLUSIONE

L’équipe “Famiglie Darwin” ha voluto presentare in questo articolo il protocollo d’intervento “Aiutarsi ad aiutare: quando l’Alzheimer è in famiglia” per dare risposta a una richiesta sociale a lungo trascurata: la cura di chi si prende cura. Il protocollo stilato dall’équipe presenta due livelli di intervento, ossia propone di offrire un sostegno diretto (per chi assiste: i familiari del malato) e indiretto (per chi è assistito: le persone affette da demenza). Esso propone una particolare attenzione alla natura complessa della malattia con cui si confronta, evidenziandone l’interconnessione e la complementarietà che lega il malato e chi se ne prende cura. L’applicazione del protocollo nei due diversi contesti - l’RSA di San Giuseppe di Roma e la parrocchia di Santa Maria di Loreto di Castelverde - è servita a rendere nota la replicabilità del protocollo, replicabilità che non risente della diversità dei contesti.

Dalle esperienze condotte si evince che il pilastro del protocollo è risultato essere l’attenzione al caregiver rivolta al bisogno di informazione, formazione e sostegno. Il familiare ha avuto la possibilità di rivendicare la necessità di uscire dal proprio isolamento, di essere accudito e ascoltato nel suo stesso bisogno di cure e di attenzione e al tempo stesso il paziente di essere riconosciuto come persona con una dignità all’interno della patologia. Altro punto di forza è stato il gruppo, che oltre a essere una strategia è stato una risorsa dell’intervento stesso. Lo spazio libero e protetto offerto dagli incontri di gruppo ha permesso ai partecipanti di condividere paure, dubbi e difficoltà, fronteggiare i cambiamenti comportamentali del malato, trovando nuove strategie per stimolare e valorizzare le proprie risorse e quelle residue dei propri cari e scoprire che ciò che pensavano un carico insormontabile esclusivamente proprio appartiene in realtà anche agli altri. Lo spazio gruppale ha favorito la costruzione di trame e reti, consentendo ai partecipanti di “sentirsi meno soli”, passando dalla dimensione intrapersonale a quella interpersonale. Si è infatti constatato in tal senso l’attivazione di micro gruppi tra partecipanti all’esterno dello spazio proposto in entrambe le strutture. Tale passaggio è stato favorito e sostenuto dalla co-conduzione di due psicologhe dell’equipe, che hanno saputo ricucire antiche e dolorose trame, perturbando strategicamente i sistemi di vita dei caregiver e avviando così un processo di cambiamento che sarà poi l’individuo a portare avanti, forte della cooperazione e della coesione sociale attivatesi. Al termine degli interventi proposti i caregiver hanno imparato a riconoscere e valorizzare le capacità residue del proprio familiare, ridefinito ruoli, funzioni e confini all’interno della famiglia, trovato nuove modalità di relazione e interazione con la figura di cui si prendono cura, riscoperto uno spazio per sé e attivato una rete sociale.

Nell’articolo si è cercato di mostrare i vantaggi del protocollo, ma è necessario ricordare che si tratta solamente di prime tappe che sicuramente rappresentano l’inizio di un cammino che potrà trovare ampio riscontro e applicabilità all’interno di una rete di lavoro. È necessario adottare sempre un’ottica di intervento multidisciplinare e multilivello (sistema famiglia e sistema allargato delle cure) in quanto la demenza/Alzheimer richiede una gestione integrata e una continuità assistenziale sul territorio. Il lavoro di rete con altre figure professionali (neurologo, medico geriatra, infermieri, OSS e terapisti occupazionali) contribuisce a potenziare il miglioramento della qualità di vita del caregiver e, indirettamente, del malato.

Concludendo, appare chiaro che il protocollo ha dimostrato nei sui contesti di applicazione un’efficacia rispetto agli obiettivi iniziali, pertanto è riproducibile in diverse strutture contribuendo a promuovere un’attenzione ai più fragili e in particolare una cultura di sostegno nei confronti dei familiari di persone affette da demenza/Alzheimer: i caregiver.



Ringraziamenti. A distanza di cinque anni dalla nascita di questo progetto è per noi un onore poter raccogliere e condividere, attraverso questo articolo, i frutti di un’esperienza lavorativa che è stata, e ci auguriamo possa continuare a essere, una vera e propria esperienza di vita!

Ringraziamo pertanto la Dott.ssa Anna Lisa Micci, che è stata per noi una guida importante che ha creduto in questo progetto fin dai primi passi; le colleghe che hanno preso parte alla sua costruzione dando un contributo fondamentale alla fase di avvio; l’RSA San Giuseppe di Roma – gruppo Korian, che ha accolto con entusiasmo la nostra proposta valutandone gli effetti positivi non soltanto per i caregiver coinvolti nel gruppo, ma anche per i pazienti presenti in struttura, con conseguente beneficio da cui è scaturita la richiesta di effettuare una seconda edizione del progetto. Ringraziamo la Cooperativa Nuova Agape e la parrocchia Santa Maria di Loreto (Castelverde di Lunghezza – Roma) per aver richiesto questo progetto di intervento, partecipando attivamente anche alla sua crescita. Infine un ringraziamento speciale e doveroso va al cuore di questo progetto: le persone che hanno preso parte ai vari gruppi attivati e che ci hanno donato le loro paure, le loro emozioni, le loro lacrime, ma anche i loro sorrisi e le loro gioie ritrovate nei piccoli gesti e in una qualità del tempo trascorso con il proprio caro, un tempo ritrovato anche con il resto delle loro famiglie e con loro stessi.

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