Il virus di Schrödinger*


Tommaso Sardi1


1Psicologo e psicoterapeuta sistemico-relazionale.



Vale la pena di fronte a una pandemia mettersi a fare ragionamenti sulla politica, sulla società, sugli individui e sui termini che vengono quotidianamente usati, oppure è meglio lasciar passare il tempo, l’emergenza e solo dopo interrogarsi su quanto sta accadendo? O non interrogarsi affatto, accontentandoci di dare valore alle tante manifestazioni di solidarietà, di vicinanza e di aiuto a cui assistiamo?

Credo interrogarsi sia sempre il primo passo da fare. Credo ci si debba sempre far trovare pronti a ogni possibile scenario e non rincorrere gli eventi quando ormai gli eventi stessi ci hanno inesorabilmente superato e non resta che affannarsi senza un briciolo di certezza. Credo serva per riflettere anche sulla nostra professione. Non interrogarsi, non elaborare piani per anticipare tutti i possibili eventi, è stato il primo errore della nostra politica.

Avevamo avuto la “fortuna” (le virgolette sono d’obbligo quando per fortuna si intende la sfortuna di altri) che questa piaga fosse iniziata lontano da noi e altri ci avessero mostrato la strada da percorrere. Certo ogni strada deve essere riportata al territorio su cui va costruita e non si può pensare che misure facilmente attuabili in una cultura come quella cinese, frutto di millenni di impero e decenni di governo comunista, siano replicabili nella nostra cultura occidentale, che ha fatto della libertà dell’individuo, del libero arbitrio, il suo vessillo.


Libertà, appunto, è il primo concetto su cui questa crisi ci obbliga a riflettere. E su questo termine si apre il primo interrogativo: quanto ci siamo spinti in là con l’idea di libertà individuale? Troppo, troppo poco, nella giusta misura?

Oggi esiste un prodotto per ciascuno di noi e anche se questo può sembrare molto bello, da un lato elimina il senso di collettività e dall’altro aumenta l’idea narcisista che il mondo è a misura mia e nessun accomodamento mi è richiesto per poterci vivere. Il concetto di libertà si è spinto a livelli tali che il mio “io voglio” si trasforma immediatamente in un “io ho diritto”, anzi si fonde a un livello tale che viene a mancare quello spazio mentale in cui ci si interroga se il nostro volere va a discapito di altri o se è davvero utile per noi stessi o necessario.

Dove finisce in tutto questo il senso di collettività? Credo si perda nell’illusione di essere sempre connessi. Siamo diventati isole collegate da fili anziché da ponti: tutti sanno camminare su un ponte, ma per farlo su un filo si deve essere equilibristi!

Possiamo utilizzare l’esempio delle serie tv. Oggi arrivi a cena con gli amici, chiedi se hanno guardato l’ultima puntata di “The Walking Dead” e uno risponde che ora guarda “L’uomo sull’alto castello”, mentre un altro “La casa di carta” e non c’è più niente da dire sull’argomento. Ricordo i tempi di “Beverly Hills 90210” quando tutti avevamo chiaro di cosa si parlava e ci si schierava chi dalla parte di Dylan chi da quella di Brandon, e ricordo la lotta tra chi eleggeva a serie del millennio “X-Files” e chi lottava per “E.R. medici in prima linea”, e c’era anche chi non guardava niente di tutto questo, eppure inevitabilmente sapeva di cosa si parlava e nessuno, o quasi, si sentiva escluso totalmente. Erano fenomeni collettivi.


C’è altro. La libertà assoluta è anche libertà di parola, conquistata con fatica e oggi abusata. Oggi assistiamo a politici che portano gli smartphone nelle trasmissioni tv per poter twittare in tempo reale su quello che viene detto, e noi facciamo altrettanto ogni volta che qualcuno fa qualcosa e scrive qualcosa: perché io ho il diritto di dire la mia! E questo apre a un’altra riflessione: il tempo.

Il tempo oggi scorre veloce, così veloce che niente ha il tempo per potersi sedimentare nella memoria e poter diventare ricordo collettivo. Pensiamo alla tecnologia. Siamo riusciti ad avverare la visione di Tesla, che immaginava un futuro in cui le persone con un oggetto senza fili sarebbero state in continua connessione tra loro. Quel futuro è il nostro presente, un presente in cui, altro aspetto che questa crisi dimostra, ci si reputa una generazione digitale ma nessuno sa veramente usare tutta questa tecnologia. Nemmeno i millennials, che a ben pensarci sono più indietro di noi, che quantomeno abbiamo vissuto l’era del Basic o del Windows 3.1. Ci sarà sempre più automazione e sempre meno conoscenza. Viviamo un presente in cui la velocità dei cambiamenti è sempre minore (come evidenziato dalla legge dei ritorni accelerati di Ray Kurzweil), fino a quando arriveremo a realizzare le parole di Kevin Kelly: “tutti i cambiamenti saranno superati dal cambiamento che avviene nei prossimi cinque minuti”.


Se niente si trasforma in ricordo, dove va a finire la narrazione di noi stessi? Come si fa a costruire una storia senza ricordi? Come faremo a lavorare con persone senza memoria, con persone con cui avremo poco da condividere perché tutto quello che è collettivo sparisce?

Da questo punto di vista, questa pandemia potrebbe tornare utile: tutto quello che sta accadendo offre un ricordo a una generazione che altrimenti non ne avrebbe avuti.

I nostri nonni hanno avuto le guerre, i nostri genitori gli anni del terrorismo, dei movimenti studenteschi, noi gli anni ‘80 con tutti quei fenomeni culturali che oggi dal cinema all’elettronica tutti stanno riprendendo. Ho un fratello del 1992 e mi rendo conto che la sua generazione fino a oggi non avrebbe avuto niente da raccontare. E sui racconti, come scrivevo con altre parole, si costruiscono le identità. Non per forza questo periodo deve lasciare traumi. La narrazione collettiva che ne deriverà sarà fondamentale.

Torniamo al tempo. Se lasciassimo il tempo alla nostra mente di elaborare i messaggi a un livello più profondo, sono certo che post e tweet diminuirebbero in modo vertiginoso. Non è un pensiero, è una realtà provata nel ciclismo. Sì nel ciclismo. In un’intervista di circa due anni fa, veniva chiesto a Davide Martinelli come mai la sua squadra e i suoi compagni non erano mai dentro a discussioni sui social, se fosse perché non potevano usarli. Lui rispose che loro erano liberi di usare i social, ma non nella prima ora successiva a una gara. Passata quell’ora, le rabbie, le delusioni che avrebbero portato a scrivere contro l’avversario che li aveva ostacolati in una volata, o non aveva dato i cambi in una fuga, si alleggerivano e non valeva più la pena tirarle fuori sul Web! Il tempo oggi è diventato per costrizione più lento e potrebbe non essere un male nemmeno per il nostro essere psicoterapeuti. Forse anche noi ci siamo lasciati trasportare dall’accelerazione del tempo, spingendoci alla ricerca di protocolli di intervento sempre più brevi. Ma come si può passare da un apprendimento di tipo 1 a uno di tipo 2 se ci spingiamo a fare interventi di una, due, tre sedute?


C’è poi il tema del sacrificio. La nostra libertà è arrivata al livello che stare in casa con le proprie famiglie diventa un sacrificio, per cui un Presidente del consiglio ci ha definito, nei primi interventi di marzo, “straordinari”. Certo, straordinario è chi accetta senza obbligo ma per senso civico di chiudere la propria attività senza sapere se potrà riaprirla, o quella donna condannata a stare chiusa 24 ore su 24 con un marito violento, ma quello che si chiede è di fare il sacrificio di rinunciare alla corsetta o all’aperitivo. E nel momento in cui in un decreto parlo esplicitamente delle regole che devono regolare la corsa fuori, ma non mi preoccupo di spiegare con regole chiare quello che possono fare le famiglie con i figli piccoli o disabili, stabilisco degli ordini di importanza.

Sacrificio significa mettere a rischio ciò che di più importante abbiamo, a partire dalla vita nostra e dei nostri cari, come quando i nostri nonni e bisnonni venivano chiamati al fronte mettendo in gioco la propria vita e l’integrità della propria famiglia.

Mi sono riletto Mauss di Spiegelman, per ricordare il senso delle parole sacrificio, tempo, libertà.

Oggi ci è stato chiesto di rinunciare alle attività ludiche e sportive per stare con i nostri cari, nella nostra casa, che non rischia nessun bombardamento, che ha la connessione per fare videochiamate, per guardare film in streaming. Non sto negando gli effetti di un così forzato e lungo isolamento. Non sto negando lo stress del personale medico (mia moglie lavora all’ospedale di Careggi a Firenze). Non sto negando che per tutti, anche per chi ha una buona solidità psicologica, questa non sia una dura prova. E anche gli ambienti di vita non vanno sottovalutati. Un conto è isolarsi in una casa di campagna, un altro in un appartamento di 50 metri quadri in un palazzo di dieci piani, in mezzo ad altri palazzi. Non chiudo gli occhi di fronte a questo, anzi credo che proprio oggi sia ancor più necessario il nostro intervento, perché le sofferenze individuali sono e saranno amplificate da quello che sta accadendo. Ma oggi, ad esempio, posso dire a una persona di mandarmi una mail al giorno per poter tirare fuori le proprie preoccupazioni e paure, per non esserne irrimediabilmente fagocitato. Avrei potuto farlo venti anni fa?

Poco sopra ho usato l’esempio degli uomini al fronte, perché da molti ogni giorno quello che stiamo vivendo viene definito una guerra. Mi sembra un termine molto scorretto. Stiamo vivendo una catastrofe, una calamità, perché sono questi i termini che si devono usare per descrivere gli eventi della natura. E questo è un evento naturale. Un evento perfetto per la natura se facessimo un ragionamento solo scientifico. Anni fa, ben prima di Greta, Bill Gates, scrisse questa equazione: CO2 = PxSxExC. Era la descrizione dei fattori che contribuiscono all’anidride carbonica presente sul pianeta, dove P indica le persone, S i servizi per le persone, E l’energia che muove i servizi e C l’anidride carbonica media per ogni servizio. Essendo fattori, la matematica insegna che se uno dei fattori diventa zero, tutta l’equazione ha zero come risultato.

Se guardiamo questo virus esclusivamente da un punto di vista evoluzionistico, lasciando per un attimo da parte il dolore, la sofferenza e la preoccupazione di ognuno di noi, è un virus perfetto per abbassare tutti i dati dell’equazione, senza azzerarne alcuno (quindi senza eliminare l’umanità): è mortale per le persone anziane (che non dovrebbero più procreare, anche se oggi la libertà individuale si è spinta a garantire alle donne di poter essere madri anche a sessant’anni), colpisce principalmente i maschi (perché di uomini ne bastano pochi per ripopolare un pianeta), viene contratto in minor numero da donne (invece di loro ne servono molte, perché non si può chiedere a una donna di avere più di un tot di gravidanze) e salva i bambini, che sono la prosecuzione della specie. Stiamo combattendo una calamità naturale e la nostra civiltà ci porta, in questo caso giustamente, ad andare contro natura.


Credo che la fisica quantistica possa essere usata per comprendere l’essenza del Covid-19 e spiegare perché abbiamo assistito a molte affermazioni e prese di posizione completamente in contrasto tra loro, pur venendo da persone con lo stesso livello di preparazione (medici, infettivologi, virologi…). La fisica quantistica ha mostrato come, ad esempio, un fotone possa essere sia una particella che un’onda (cercare “esperimento della doppia fenditura”), e non è che un fotone nasce onda mentre un altro nasce particella. No: ogni fotone è entrambe le cose nello stesso momento, fino a quando una misurazione non gli fa scegliere cosa essere tra onda e particella e da quel momento resterà nello stato scelto per sempre. Per spiegare tutto questo Schrödinger disse: “mettete un gatto in una scatola chiusa a cui è attaccato un congegno che rilascia una sostanza mortale nel momento in cui viene attivato dal decadimento di un isotopo radioattivo all’interno del congegno: il gatto nella scatola è sia morto che vivo fino a quando non apriamo la scatola stessa”. Il gatto è nei due stati di vita e morte nello stesso momento, come se ci fossero due gatti, e quando apriamo ne vediamo solo uno, o quello vivo o quello morto. Il Covid-19 è esattamente così. Può essere tutto e niente allo stesso tempo. Può essere mortale, ma anche asintomatico. Visibile o invisibile. Proprio come il gatto nella scatola: potremo chiamarlo il virus del gatto di Schrödinger! E se la scoperta della dualità onda/particella, scombussolò Einstein, credo diventi chiaro come mai questo virus genera tanti mal di testa a chi deve decidere come affrontarlo.

C’è altro, forse più profondo, per cui il termine guerra non è usato in modo corretto. Una guerra lascia vinti e vincitori: questa calamità ci lascerà tutti vinti e vincitori allo stesso tempo. Sì perché tutti vinceremo, sconfiggeremo il virus e torneremo alle nostre occupazioni, per chi avrà ancora un’occupazione. Ma ci sarà un tempo, non so quanto lungo, in cui continueremo a stare a distanza, a portare le mascherine, a non fidarsi dell’altro vedendo in lui un possibile portatore di sventura. Altri reagiranno ostentando sicurezza, ma in gran parte sarà un meccanismo difensivo.

Alla fine di una guerra, quantomeno i vincitori scendevano nelle strade, avevano voglia di tornare a vivere e viversi l’uno con l’altro. Si fanno parate, feste, ci si abbraccia, si brinda. Tutto questo non ci sarà dopo il virus di Schrödinger. Una guerra distrugge e lascia macerie, ma proprio questo dà linfa al mercato, perché c’è da lavorare, c’è da ricostruire. Domani non ci saranno distruzioni, eppure credo ci saranno molti locali sfitti, molte micro-imprese che non avranno la forza di ripartire. E il buon vecchio negozietto di sport che comunque reggeva nonostante l’avvento di Amazon non ce la farà a rialzarsi e i colossi diventeranno sempre più colossi e le piccole realtà non avranno di che andare avanti. E se la fiducia nei confronti dello stato italiano già era bassa sia da parte dei cittadini che dei mercati, temo domani lo sarà ancora di più.

Inoltre quello a cui assistiamo è un fallimento dell’idea di Europa. Ancora oggi, in una pandemia, ogni stato punta a fare la dichiarazione che permette al proprio mercato di risalire ai danni di un altro, pur facente parte della Comunità Europea. L’individualismo non è solo a livello delle persone!


La società è l’insieme degli individui, ma governanti, politici, fenomeni del Web hanno il potere di influenzarne i comportamenti. Per questo trovo sì meritevole di lode tutto quello che gli ordini regionali e i singoli psicologi e psicoterapeuti stanno facendo per dare il proprio contributo nella gestione dell’emergenza, ma credo che non ci si debba fermare a questo: noi psicoterapeuti relazionali possiamo essere apartitici, ma non apolitici! Anzi: apartitici entro certi limiti.

Non si può, da psicologi relazionali, vedere la sofferenza di chi è chiuso nelle case o di chi scappa da Milano per timore di non rivedere la propria famiglia, e non vederlo in chi scappa da una vera guerra e dalla vera fame, mettendo a rischio la propria vita e quella dei familiari, bambini compresi. E non si può tacere o demandare solo all’ordine.

Non si può accettare questa escalation di individualismo celato dalla parola diritto, senza far niente. Non si può tacere quando nella realtà dei nostri studi sempre più persone ci raccontano di quanto sia più importante condividere un post su Facebook e controllare quello degli altri contatti, invece che parlare con la propria moglie o il proprio marito. Non si può tacere quando si pensa che tessere relazioni sia un qualcosa che si può fare da dietro uno schermo. Non si può tacere quando viene venduto che “social” ha lo stesso valore di “sociale” perché c’è solo una “e” di differenza. Non si può tacere quando si pensa che fare comunità significa spettacolizzare gli eventi, come applaudire da un balcone dei medici che fino a un giorno prima dell’emergenza erano accusati di non saper fare il loro lavoro e il giorno dopo la fine di tutto questo torneranno a essere vittime di denunce e diffamazioni. Non si può solo connotare positivamente, esaltando le belle iniziative a cui è stato dato vita!

Non possiamo tirarci indietro da un discorso di verità, da una critica della realtà nel senso kantiano del termine, perché non si può solo lavorare con i risultati della società, ma dobbiamo cercare di dare una direzione alla società stessa. Questa realtà influenza i sistemi e gli individui e, tra i sistemi che influenza, non può non esserci anche il nostro.


I nostri studi non sono esenti da questo tsunami individualista: sempre più terapie singole, sempre meno allargamenti di sistemi, sempre meno inviti, sempre più abbandono degli ambiti elettivi del nostro approccio (famiglie, famiglie psicotiche, famiglie anoressiche) e sempre più concentrazione sul singolo. Ma se non invitiamo, se non allarghiamo, se non lavoriamo con il sistema e con i sottosistemi, come possiamo far riemergere una realtà vera di collettività? Che senso avrà una terapia sistemica se in futuro i sistemi saranno solo sistemi individuali?

Se abbiamo scelto di essere psicoterapeuti sistemici non possiamo accettare un futuro che spinge in questa direzione.


*L’articolo è stato scritto il 20 marzo 2020.