Gli angeli di Kinshasa
Lidia Bosello1



Portiamo avanti con la storia raccontata da Lidia Bosello la sezione dedicata alla migliore delle storie cliniche preparate per l’esame di fine training dagli allievi del Centro Studi. Un gruppo di didatti ha verificato, in un lavoro precedente pubblicato su “Ecologia della mente”, la validità terapeutica di questi interventi.


With the story by Lidia Bosello we continue the section devoted to the best clinical case prepared for the final examination by the students of the Centre. A group of teachers has verified, in a previous work published in “Ecologia della mente”, the validity of these interventions.


En esta sección dedicada a la mejor de las historias clínicas estudiadas para el examen de final de training de los alumnos del Centro Estudios, presentamos la historia escrita por Lidia Bosello. Un grupo de didactas evalúan la efica­cia y validez de estas acciones terapéuticas ya publicadas anteriormente en “Ecologia della mente”.



Un detto popolare dice che “Non c’è posto più bello del luogo in cui sei nato”.
Vero. Per quanto povero e insicuro, è la tua culla. È vero quasi sempre, soprattutto per chi nasce dalla parte giusta del cielo. Allora mi verrebbe da precisare: “Non c’è posto più importante del luogo in cui sei nato”. Perché non lo dimenticherai mai, nel bene e nel male.
Questa storia parte da lontano, in un luogo molto lontano da qui. Siamo in Congo, un paese dove il caldo è più caldo, dove le giornate non finiscono mai e il tempo e lo spazio si dilatano. La terra si perde all’orizzonte, e spesso l’orizzonte si confonde tra la linea delle dune e del cielo. Sulle lunghe giornate torride, fatte di sabbia e mosche sulla pelle, lentamente scende il buio della notte. Ma lì il buio è più buio. Non ci sono luci, non ci sono ombre, spesso neanche quelle del fuoco, perché il legname serve per le cotture. Questa storia ha il sapore del cioccolato, quello fondente. L’intensità delle fave di cacao resta a lungo, si attacca alle pareti della bocca e persiste. Questa è la storia di due cioccolatini fondenti. Due bambini che difficilmente puoi dimenticare, dal sapore intenso che ti avvolge e persiste; il sapore forte di chi ha già vissuto esperienze oltre il limite del necessario dovuto, ma non abbastanza secondo i propri bisogni, nel modo in cui avrebbero scelto e sperato.
LA CONSULENZA
L’invio: un’insolita adozione
Questa storia inizia dalla fine, mentre ero a scuola e mi chiama una collega psicologa del Servizio Materno-infantile di Latina, per la presa in carico di una famiglia in grande difficoltà nella gestione dei figli. La coppia ha adottato due fratellini congolesi, attualmente di sei e nove anni. Al tempo dell’adozione i bambini avevano tre e sei anni, e sono giunti in Italia in prossimità dell’inizio della scuola, per il piccolo in concomitanza dell’inizio della scuola dell’infanzia, per la sorella maggiore con l’inizio della scuola primaria. In verità le pratiche per l’adozione risalivano a due anni prima, ma le autorità congolesi e le organizzazioni non governative che operano nel paese per veicolare le adozioni ne autorizzarono la partenza con un incomprensibile ritardo. Non è infrequente che capiti, qualche volta succede anche che i bambini non arrivino proprio, e si perdano le loro tracce durante il viaggio. Nessuno sa perché e che fine facciano. Restano solo il vuoto e l’amarezza dei neo-genitori che li aspettano invano qui in Italia.
Tanto per capirci, è una storia piena di contraddizioni, a cui imparo presto ad abituarmi.
La famiglia G. si è sentita abbandonata dall’associazione che ha curato l’adozione; un funzionario ha spiegato loro che da quel momento in poi avrebbero potuto riferirsi ai servizi territoriali per l’infanzia e rivolgersi ad una psicologa per eventuali necessità di supporto. Un trattamento di fine rapporto che non prevede riaperture né tantomeno continuità con le realtà locali, si tratta piuttosto di un salto nel buio, per la famiglia ma anche per me che sto per accoglierli completamente a digiuno.
Dopo un periodo di permanenza in Congo, sono tornati tutti insieme in Italia ed hanno iniziato a conoscersi, a viversi nel quotidiano finché è sopraggiunta la necessità di un supporto, un aiuto concreto a gestire una realtà così nuova quanto complessa. Fino ad allora pensavano e speravano che si trattasse di questione di tempo, che l’amore bastasse a coprire ed appianare tutte le difficoltà.
È solo una questione di tempo e di amore. Tuttavia l’inafferrabilità di molti comportamenti e i continui solleciti della scuola generano un ulteriore senso di disorientamento per cui decidono di chiedere aiuto. È una storia di abbandoni, ma anche di attese e di speranze. I genitori hanno aspettato due anni prima di incontrare i bambini per poterli portare definitivamente in Italia; intanto in Congo i due fratellini erano stati per due anni in un centro di raccolta per minori di Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, e avevano vissuto insieme ad altri bambini e ragazzi. Come era accaduto per altri bambini che erano stati lì per un po’, e poi erano stati adottati da famiglie straniere, anche loro sognavano di vedere arrivare i loro nuovi genitori. Li cercavano tra quei gruppi di apprendisti mamme e papà che ogni tanto andavano a fare visita al centro di raccolta della città; alcune erano grasse coppie di bianchi, gli étrangers, che incuriositi si aggiravano tra quegli stretti vicoletti di terra battuta fra la casa e l’alto muro di cinta, scattavano delle foto e poi spesso se ne andavano, senza nemmeno salutare, come a volte fanno i visitatori quando escono da uno zoo. Nella presa in carico della famiglia mi fa riflettere quella frase del papà detta in occasione della prima consultazione: “Dall’associazione ci hanno abbandonato appena siamo tornati in Italia”. È una temporanea adozione che si aspettano da me?
Diverso da chi?
Quando incontro per la prima volta nel mio studio la famiglia, resto curiosamente sorpresa per la varietà di colori e di forme di cui il nuovo nucleo si caratterizza.
Claudia è una piacevole signora di 45 anni, di corporatura slanciata e longilinea. Mi colpiscono i suoi grandi occhi neri; il suo viso appare ben curato e truccato, incorniciato da fitti e biondissimi capelli lunghi. Ha un incarnato poco mediterraneo e più nord-europeo, sebbene sia originaria di una località marina vicina al comune di Gaeta. Probabilmente è per l’occasione che sceglie un outfit a tema (perché in seguito non la rividi mai più con quel capo), indossa infatti un abito congolese, coloratissimo con una vivace fantasia giallo-verde e marrone.
Il marito Valerio è primo cuoco nella mensa di un noto presidio ospedaliero della Provincia di Latina, ed anche lui è originario di un paesino nell’entroterra di Gaeta. Diversamente dalla moglie, Valerio ha un accento che tradisce la provenienza, complice anche un incarnato più olivastro, la barba e i capelli brizzolati medio-lunghi, legati con un codino. Fisicamente si presenta notevolmente in sovrappeso, e veste con una comoda tuta grigia, che in seguito indosserà spesso.
Un aspetto evidentemente più trascurato che lo fa sembrare molto più grande della sua età, 46 anni, uno solo in più della moglie.
I due fratellini entrano separati e senza un preciso accordo si siedono vicini al centro tra la madre e il padre. La bambina è evidentemente la sorella maggiore perché è una spanna più alta del fratello. Il suo nome è Chance; è magra ma non esile, ha un corpo asciutto e tonico, con i capelli neri neri raccolti in un’unica coda che comprende un centinaio di piccole treccioline. Si muove lentamente, è claudicante, e per questo gli altri le lasciano più spazio intorno, per sistemarsi come meglio crede. Intanto il fratello, Abyaz, le sta di fianco e sembra che tenga il conto dei suoi respiri. Sembra che i due non abbiano bisogno di guardarsi negli occhi per capirsi, piuttosto si sentono, si intendono e si annusano.
Lui le avvicina la sedia e le sistema il giubbetto sullo schienale, in silenzio e con movimenti chiaramente automatici, affinati nel tempo. Mi intenerisce osservarli, vedere con quanta naturalezza vengano riservate queste piccole attenzioni: il più piccolo che si prende cura della sorella maggiore. Noto quasi subito che evitano il mio sguardo. Più tardi mi rendo conto che lo stesso trattamento è riservato ai genitori, che spesso si devono spostare fisicamente per intercettare un loro sguardo.
Mentre siamo impegnati a presentarci e a disporre una serie di rituali di accoglienza con i genitori, Abyaz esordisce dicendo “Io e Chance siamo due cioccolatini. Siamo sempre stati neri neri come il cioccolato, mentre mamma e papà non sono sempre stati così. Papà una volta era magro magro perché faceva le gare di nuoto, invece mamma era una cicciona. Adesso si sono invertiti, quindi fra di loro sono sempre diversi. Io e Chance invece saremo sempre uguali, neri fondenti”. La sorella annuisce , e con fare lapidario esternano tutto d’un fiato quanto intendevano dire oggi. Si chiudono a riccio ripiegati nelle loro cose: Chance in un silenzioso ascolto, ed Abyaz in un’agitazione motoria continua e provocatoria. Il padre fa un profondo e rumoroso respiro ed esclama un “Cominciamo bene! Sarà impossibile nasconderle qualcosa, perché qui abbiamo due giornalisti di una certa levatura”. Un’espressione che fa sorridere tutti e permette di rompere il ghiaccio per passare più velocemente al fulcro dell’incontro.
Mi sento solo di aggiungere: “È bello poter conoscere dei bambini con un ottimo spirito di osservazione. Penso che questa qualità ci potrà essere molto utile!”.
L’idea del problema
Il padre, portavoce della famiglia spiega che Abyaz e Chance sono due splendidi bambini, ma non riescono a gestirli, soprattutto Abyaz, perché è “iperattivo”, non sta un attimo fermo soprattutto a scuola e nei contesti sociali. Le suore dell’istituto che ha frequentato negli anni della scuola d’infanzia segnalavano che spesso si arrabbiava con i compagni e li picchiava per futili motivi, gridava e disturbava in classe, era oppositivo nel seguire le consegne dell’insegnante, e nei momenti di maggior agitazione lanciava oggetti anche contundenti, sedie e panchine. Oggi ha sei anni, da poco è iniziata la scuola primaria e le cose non sono migliorate, anzi è diventato particolarmente aggressivo. I bambini iniziano a temerlo, spesso lo evitano ed Abyaz sembra soffrirne molto. In altri momenti, con gli stessi bambini, diventa un simpatico amicone, li cerca, propone giochi ed è disponibile a condividere. “Chance ci dà meno problemi”. La mamma si inserisce nella conversazione e specifica che per fortuna lei è molto tranquilla, che adora tutto ciò che riguarda la scuola, scrivere, leggere, disegnare, colorare. È disciplinata, e controlla i suoi compiti minuziosamente prima di chiudere il quaderno e andare a giocare. Il gioco spesso è un prolungamento dei compiti. Trascorre molto tempo libero a scrivere pensieri, fare disegni e usare penne colorate e glitter. Chance ha soltanto qualche problema motorio, è così dalla nascita.
Sembra che una sofferenza neonatale le abbia procurato un’emiparesi sinistra che ha interessato sia il relativo arto inferiore, sia un nistagmo dell’occhio, con una conseguente difficoltà di deambulazione e di adeguata coordinazione oculo-manuale. Questi quadri diagnostici sono stati acquisiti in tarda età, nel corso dei primi mesi in cui i bambini sono giunti qui in Italia, e sono stati sottoposti ad una lunga serie di accertamenti medici. Sullo sfondo delle descrizioni, posso solo constatare l’esigenza di Abyaz di muoversi, mi fa quasi girare la testa; il papà lo sgrida con voce tuonante ma lui continua più di prima, finché non cade per terra accartocciato nella sua stessa sedia. Con senso di vergogna e calma apparente, il padre mi chiede perdono con lo sguardo, ma dentro bolle di rabbia. La mamma che gli siede accanto resta ferma, chiude gli occhi in segno di resa e si copre la bocca con una mano. Seguono altre interruzioni nel corso della seduta: spostamenti, richieste di fogli, colori, colla e altri materiali, fatico a seguire il filo del discorso.
Mentre accade tutto questo Chance resta seduta con le braccia poggiate sulle gambe e osserva. L’unico movimento è quello della testa che ruota spesso per vedere “cosa combina” il fratello. Accenna solo un sorriso ogni tanto ma colpisce il suo volto perlopiù inespressivo, impassibile; esprime una discrezione quasi surreale tenendo conto della sua età.
Mi chiedo in che modo i comportamenti di Abyaz possono essere considerati il segno di un disagio più grande che interessa tutta la famiglia: rifletto anche sulle difficoltà di deambulazione della sorella (dai racconti dei genitori sembrano riguardare solo la sfera fisica, ma le impediscono comunque di relazionarsi adeguatamente con i pari); mi chiedo inoltre come affronta e percepisce la propria disabilità, visto che è impegnata in sedute bisettimanali di terapia riabilitativa costantemente da ormai quasi tre anni. Infine ci sono i visibili disagi dei genitori, impegnati ad affrontare difficoltà a loro dire “soverchianti e immani” . Mentre faccio questi ragionamenti mi rendo conto che il tempo a disposizione per il primo incontro si è concluso, ringrazio quindi la famiglia e concordiamo il prossimo appuntamento.
PRIMA SUPERVISIONE
La prima supervisione è preceduta dal timore che non sarò compresa dai colleghi e dalla didatta. La mia mente è affollata di pensieri. La generosità della famiglia nel fornire così tanti indizi e contenuti intimi forse non è stata sufficientemente da me ripagata. Colludo con la richiesta potente, quasi irraggiungibile, da parte della famiglia, di un’adozione insolita, per cui giudico il mio non fare abbastanza come una inadeguata accoglienza, con la probabile conseguenza di una scarsa fiducia della famiglia nel setting terapeutico. La sensazione di urgenza mi scatena l’istinto di dover fare subito qualcosa, pur sapendo che accogliere, osservare ed essere parte del sistema è già il primo passo per l’ipotesi terapeutica, cosicché non mi perda nel vortice della complessità [1].
In questi incontri mi sono limitata a fare domande per capire meglio le loro richieste, assecondando il loro stile comunicativo, talvolta facendomi sovrastare da quello del papà, evidentemente più loquace, lasciando meno spazio a quello più asciutto e discreto della mamma.
Nel corso della supervisione non passano certo inosservati i miei timori, ma, terminato il racconto, le parole del supervisore mi giungono inaspettate: “Il livello di complessità del sistema è molto alto, ma sembra che gli indizi più importanti arrivino dai bambini:
• Il bisogno di muoversi serve per scoprire le cose. Forse i bambini hanno bisogno di mettere ordine nel proprio passato ed aggiungere informazioni per riorganizzare la loro storia.
• I bambini vanno aiutati a distinguere i propri vissuti e le proprie emozioni in quanto mostrano una profonda confusione.
• Nel corso della terapia sarà importante aiutare i genitori a ridefinire i propri ruoli e i propri spazi con i figli, un miglior bilanciamento del rapporto con i figli.
• La fiducia è una conquista: vale tanto per i bambini nei confronti dei genitori, tanto per la famiglia nei confronti del setting terapeutico.
• La diversità. Sarebbe importante introdurre il tema della differenza come risorsa [2].
• Per procedere ad una lettura sistemica sarà utile tessere la rete familiare, prendendo in considerazione la storia dei bambini, quella dei genitori, e come queste due storie si incontrano per formarne una nuova.
A PROPOSITO DI ME…
Il mio vissuto si è caratterizzato dapprima da una sensazione di inadeguatezza, legata ad una ricerca di aiuto incondizionato al didatta, cercare un appoggio, una “base sicura” sulla quale costruire la seduta di terapia. Inizialmente questo bisogno prevaleva sulla resto. La mia emotività era ancora come bloccata, e questo sbilanciamento, in favore delle tecniche e delle teorie fin ad allora studiate minuziosamente, a qualche livello frenava anche la famiglia. È seguito un periodo intermedio in cui con la didatta abbiamo affrontato il mio atteggiamento oscillante, somigliante al movimento di un’altalena; un atteggiamento a me noto fin dai giorni della sensibilizzazione, quando i didatti tradussero in chiave metaforica i miei tentativi di avvicinamento e inserimento al gruppo di training, alternato a periodi di distacco, di resistenze che apponevo per non farmi pienamente coinvolgere. È stato un lavoro impegnativo, talvolta tormentato, esplicitare con maggior spontaneità le mie emozioni, a volte vissute perfino come “pericolose”, quindi sommerse, tenute sotto soglia per non correre il rischio di esserne travolta, dal momento che mi suscitavano risonanze sul tema dell’appartenenza e dell’abbandono. Finché non ho iniziato ad utilizzarle come un ponte per raggiungere la famiglia stessa, metterle in circolo in terapia, generando alle volte movimenti inaspettati nel setting. Le mie emozioni non erano più un limite ma una risorsa.
QUESTIONE DI FIDUCIA O DI ADATTAMENTO?
Alcuni incontri successivi sono stati dedicati ampiamente alla conoscenza del nucleo familiare, la loro quotidianità e all’approfondimento delle problematiche che generano sofferenza un po’ per tutti. Claudia è sempre più stanca, lo vedo dal volto, ma soprattutto da quel trascinarsi le gambe per entrare in stanza. I movimenti lenti e rigidi, spesso nascosti nel suo cappotto per tutto il tempo. Valerio appare più aperto e libero a manifestare l’affettività con i bambini, coglie maggiormente le occasioni di gioco con loro, ma è anche più nervoso e perde facilmente la pazienza.
Dopo aver esplorato un po’ la loro quotidianità fatta di scuola compiti e svaghi pomeridiani, ripercorriamo insieme come sono stati i primi tempi in cui sono arrivati in Italia con i bambini.
Claudia e Valerio ricordano benissimo quanto sono stati duri. Nei primi sei mesi i bambini non hanno mai dormito: si addormentavano con difficoltà e durante la notte si alternavano in risvegli improvvisi, madidi di sudore, con il battito del cuore accelerato. Abyaz si svegliava di scatto urlando e piangendo, mentre Chance ricordava perfettamente l’incubo che aveva appena fatto. Generalmente era Valerio ad alzarsi per consolarli, perché aveva il sonno più leggero ed aveva le antenne accese orientate alla cameretta accanto. Claudia, dal sonno indubbiamente più profondo, non sempre si svegliava, e quando ci riusciva si limitava ad assistere a quel momento consolatorio, che si risolveva in un fortissimo abbraccio con il papà e qualche ninna nanna.
“Spesso la stanchezza ci ha fatto fare degli errori. Vogliamo capire il significato dei comportamenti dei nostri figli. Sapevamo che sarebbe stata dura. Non conoscere cosa è stato il “prima” ci disorienta e ci spaventa. Abbiamo vissuto momenti di profondo sconforto, è venuta meno la fiducia nelle nostre capacità”.
A casa i bambini sono abbastanza gestibili; il problema nasce quando Abyaz si trova nel contesto dei pari, quindi quasi esclusivamente a scuola. Nel rapporto con gli adulti il bambino appare solo un po’ agitato, ma con i bambini diventa una furia. Spesso le insegnanti chiamano i genitori affinché vengano a scuola per intervenire; è fisicamente più forte e nessuno riesce a contenerlo. Ha tentato delle fughe da scuola, spesso lo hanno ritrovato nel giardino antistante arrampicato su un alto albero. Corre andando da un’aula all’altra, sbatte e rompe le cose, oppure affronta fisicamente i bambini, arrivando anche ad utilizzare forbici e taglierini, tagliando vestiti e quaderni, oppure usa penne appuntite per colpire alcune parti del corpo. In queste circostanze in cui Abyaz raggiunge un apice comportamentale e una sovreccitazione motoria sembra che solo il padre sia in grado di calmarlo, riportarlo in quota per farlo ragionare sugli eccessi e sulle conseguenze della sua condotta. Per concludere, Valerio aggiunge che probabilmente l’esigenza di voler a tutti i costi e prima possibile vederli integrati e adattati qui, li ha portati a perdere di vista alcuni aspetti importanti della loro crescita e forse della loro storia vissuta in Congo, che sembra aggirarsi come un fantasma sulle loro vite, e ne impedisce la normalità che cercano faticosamente di raggiungere.
“Vogliamo solo essere una famiglia felice. Ma loro non adorano parlarci del Congo. Non più di quel che già sappiamo sulla loro storia”.
Claudia, nel frangente del racconto del marito, socchiude gli occhi, lo asseconda con la mimica facciale, spesso scuote la testa ma resta sempre in silenzio. Nel corso dei prossimi incontri, saranno il suo corpo e i suoi gesti a riferirci contenuti importanti sulle sue modalità di affrontare le difficoltà. I bambini si sono avvicinati alla scrivania uno accanto all’altro, si organizzano con fogli e colori per fare un disegno, ma entrambi sono di vedetta, quasi di silenzioso studio delle reazioni nei volti di tutti noi (spazialmente si scelgono una posizione in cui possono vederci meglio). Valerio prosegue nello sfogo: “Abbiamo la sensazione che i bambini non si fidino di noi, ci mettono alla prova, per vedere quanto resistiamo; Chance a volte è enigmatica e non capiamo quali emozioni, quali pensieri le attraversano la mente. Pensiamo che forse questo può succedere in generale, ma non sappiamo se e quanto invece può dipendere da qualcosa che dal passato torna, si insidia e minaccia la loro serenità”. Mentre siamo in attento ascolto, Abyaz sembra multitasking: segue per filo e per segno ogni sillaba e vibrazione vocale del padre; intanto realizza con destrezza qualcosa che per noi è ancora poco chiaro. Sono molto curiosa di scoprire cosa produrrà usando fogli righello forbici e scotch; intanto intuisce un bisogno di Chance, perché senza che lei dica nulla le porge un colore che si trovava nel lato sinistro, per lei poco visibile, lo sposta in traiettoria del lato destro, quello visivamente preservato e dice: “Tieni Chancy è qui”. Lei ringrazia e tornano ciascuno al proprio lavoro. “È irrefrenabile, ma anche incredibilmente intelligente sensibile e intuitivo”, penso dentro di me. Tra i due fratellini sembrano esserci un’intesa e un’alchimia fortissime. Un rapporto indissolubile che ci esternano con questi piccoli gesti, spesso ad incorniciare i contenuti verbalizzati dal papà, in questo caso la loro fiducia reciproca.
Rileggendo le parole di Valerio mi chiedo se il senso di fiducia di cui parla ha a che fare anche con temi che riguardano più da vicino la storia personale della coppia, e se anche per loro esistono contenuti del passato che insidiano e minacciano la propria serenità personale e genitoriale. Abyaz e Chance chiedono spesso di farsi raccontare dai genitori come si sono conosciuti e come loro due sono finiti qui in una famiglia di “bianche mozzarelle”. Tutti si perdono in una fragorosa risata e allora il papà ci rende partecipi di questa storia, pare spesso raccontata la sera prima di andare a dormire, pensando che possa placare l’ansia e lenire l’inquietudine. A Chance e Abyaz raccontano che volevano proprio due bambini cioccolatini. Ed è per questo che si sono spinti così lontano, fino in Congo, per cercarli.
Alla fine Valerio e Claudia si guardano e riconoscono congiuntamente che rassicurarli non è sufficiente per fidarsi e vivere con più serenità le opportunità di questa nuova vita. Per Valerio “sono quei momenti in cui pensi che l’amore non basta”. A fine incontro Chance ci fa vedere un bellissimo disegno tutto colorato: una suora con tanti bambini, si divertono e sono tutti felici. Abyaz assembla i diversi pezzi a cui si è lungamente dedicato nel corso della seduta e con soddisfazione ci dice di aver realizzato un fantastico fucile. Sorride, alza la canna e prende di mira i miei occhi. Sono proprio fortunata perché mi guarda ma non spara.
IPOTESI ED OBIETTIVI
Che funzione hanno i sintomi di Abyaz denunciati dai genitori e a cui assistiamo durante la consulenza? Probabilmente gli consentono di continuare ad identificarsi nell’immagine di bambino difficile, in continuità con la vita altrettanto difficile in Congo. Tuttavia si tratta di scoprire quali sono i vantaggi che gli stessi sintomi suscitano adesso in termini di equilibrio personale e familiare, e per cui sembrano non perdere forza nel tempo. Identificarsi nel ruolo di provocatorio sembra permettergli di conservare la propria identità di bambino forte e coraggioso, e al contempo sembra funzionale per facilitare la sorella nel raggiungere i suoi obiettivi, aiutarla a superare gli ostacoli e proteggerla in condizioni di minaccia. Probabilmente è lui stesso a volersi proteggere e a sentirsi protetto dai suoi sintomi, e sapere di più sulla loro vita in Congo ci aiuterebbe a capirne i nessi.
La capacità analitica di Chance è molto importante per Abyaz, per farsi conoscere, come ci ricorda la bambina stessa nel corso delle prime sedute parlando a proposito di Blacky, il loro nuovo cane: “È di grossa taglia ma in realtà è ancora un cucciolo, lo capisci dal comportamento perché spesso fa cose sciocche, apparentemente senza senso. Per lui il senso c’è e come, ha bisogno di muoversi per capire e affrontare le cose. Come mio fratello Abyaz”.
Rispetto all’origine dell’immagine di sé e dell’immagine che i genitori avrebbero del figlio, sembra importante il ruolo delle aspettative genitoriali che il figlio avrebbe disatteso; tale aspetto si evidenzia attraverso la mortificazione e il senso di fallimento espresso per non essere riusciti a raddrizzare il figlio dopo tre anni che sono con loro. Anche il tema dell’appartenenza sembra giocare un ruolo importante: il bisogno dei bambini di sentirsi appartenere ad una nuova famiglia (un nuovo contesto e un nuovo paese), come si inserisce all’interno di un rinnovato senso di appartenenza dei genitori alle rispettive famiglie d’origine? Come si riorganizza il trigenerazionale con l’arrivo dei figli? Intanto riprendiamo virtualmente l’aereo per tornare insieme in Congo. Ritornare alle origini per recuperare una nuova consapevolezza, esplorare la loro terra verso la comprensione e l’attribuzione di significati, creare una circolarità di comunicazione ed emozioni fra i bambini e i genitori. Ricercare ed aggiungere quei tasselli che i genitori sentono mancare alla ricostruzione della loro storia; utilizzare nuovi linguaggi per raccontare le esperienze fondamentali della loro vita, condividerle sotto nuove forme e creare connessioni con il tema delle differenze che in questo momento tutta la famiglia sta portando in terapia.
PROCESSO TERAPEUTICO
Una città di contraddizioni
Le armi
In uno dei tanti giovedì alternati in cui coincide ormai il nostro consueto incontro, in attesa della famiglia, mi rendo conto di aver raccolto una serie di disegni e di aver accumulato una considerevole refurtiva di armi: due fucili a canna mozza, una pistola, due coltelli e una fionda. Alla domanda “Ti piacciono le armi?” Abyaz non risponde mai, ma solo quando e nel modo che preferisce, generalmente costruendo qualcosa o mediante un agito.
Chance nel frattempo colleziona disegni fiabeschi con principesse, farfalle e fiori su grandi prati verdi. Altre volte disegna se stessa al centro, vicina ad una figura femminile, una suora o un’amica. Il piccolo particolare non trascurabile è che tutte hanno un incarnato scuro, e si prendono per mano.
Vista la quantità di materiale così prezioso oltre che spazioso, oggi proporrò alla famiglia di portare per la prossima volta una scatola, da lasciare qui in terapia dove potranno riporre tutti i loro elaborati, ma utile anche per me, per visualizzare concretamente questa prima fase di contenimento.
Le foto
Sembra che i bambini abbiano intuito a distanza le mie intenzioni, presagito il lavoro che avrei proposto oggi: Abyaz entra in stanza con una certa fretta scavalcando madre e padre per arrivare primo e buttarmi sulle gambe una consistente busta piena di foto del Congo. Valerio e Claudia mi premettono che le foto non sono tutte così belle; si trovano anche quelle della città, che hanno scattato come testimonianza dei luoghi, gli ambienti e le persone, pensando che sarebbe stato importante, anche a distanza di anni, avere traccia della loro terra e della loro storia, anche se finora si fermano a guardare solo quelle dei momenti dell’incontro.
Nella moltitudine di foto, i bambini selezionano quella in cui sono tutti insieme, Abyaz in braccio al papà e Chance in braccio alla mamma. La definiscono come “la più bella di tutte”, con un’intensità tale da far scendere i lacrimoni ai genitori. Ora il discorso è stato aperto e i bambini si allontanano verso il tavolo per fare un disegno, lasciando mamma e papà con me. Valerio appena ne ha capacità dice: “Eh, ma per arrivarci è stata dura, durissima”. Subito dopo l’eco di Abyaz ci spiazza “Anche per noi è stata dura, che credi?”. Provo ad aprirmi una strada di dialogo con lui approfittando di questa freccia. Cerco di chiedere qualcosa in più ma il piccolo mi guarda con uno sguardo torvo, fa il grugno e torna ad immergersi nelle sue cose. Sta disegnando un leone che occupa tutto lo spazio del foglio: ha la bocca spalancata con visibili denti uncinati, la criniera che segna tutta la bordatura del foglio ha un impressionante aspetto tridimensionale. L’animale sembra pronto a mordere. Chance mi guarda fisso, stavolta è seria e pensierosa. Lei disegna una casa con dietro un grande arcobaleno, con fiori e farfalle. Un po’ d’istinto seguendo le mie sensazioni, provo a ridefinire ciò che sta accadendo in questo momento: “Sembra che queste foto hanno un grande potere. Sono tutta la vostra vita in Congo. Sento che per voi hanno un grande significato, che suscitano tante emozioni, anche in mamma e papà. Qui sono raccolte le vostre esperienze più importanti, i luoghi dove siete nati e cresciuti, le persone più significative della vostra infanzia. I ricordi fanno provare tante emozioni tutte insieme, che a volte possono turbarci, e di conseguenza ci fanno sentire più confusi e agitati. Ma segnano anche i momenti più belli perché avete conosciuto mamma e papà”.
Per tutto il tempo Abyaz gira per la stanza: tocca ogni cosa che vede, struscia agli angoli delle pareti, striscia per terra, si impegna in ogni azione di contatto, con la bocca fa solo versi, finché il padre lo prende in braccio e se lo mette a cavalluccio: a questo punto, il pericoloso e temuto felino (come nel disegno) diventa un cucciolo, inizia a miagolare come un gattino o a lamentarsi come un bambino piccolo e indifeso. Ed è così che resta per tutto il resto dell’incontro, mentre Claudia e Valerio si cimentano nel lunghissimo racconto del loro viaggio in Congo prima di arrivare al villaggio dai bambini. Chance torna a sedersi vicino alla mamma, e segue in religioso silenzio il lungo racconto.
L’incontro
La giovane coppia è partita da Fiumicino insieme ad un gruppo di genitori con cui avevano fatto una breve preparazione al viaggio. Tramite l’AiBi (Associazione Amici dei Bambini), che ha organizzato il tutto, all’aeroporto di Kinshasa li aspettava un pulmino. L’albergo era una costruzione ristrutturata alla meglio e distava 15 di km dal villaggio.
“Quel periodo è stato molto importante per noi. Eravamo abbastanza seguiti dalla guida dell’associazione, ma abbastanza liberi di girare per renderci conto di cosa significasse vivere in quel posto, fatto di ricchezza, povertà e squallore. Lì per lì non vedevamo l’ora di prenderci i nostri bambini e tornare in Italia. Però stare lì ha avuto un senso: sento che potrà aiutarci a capire meglio i nostri bambini. Loro non parlano quasi mai del Congo. E se noi proviamo a parlarne, Abyaz si chiude ma si agita e Chance dice un tanto e non più”.
Claudia definisce quei due mesi traumatici, e l’unico momento veramente positivo è stato l’incontro con i bambini. Abyaz continua ad essere aggrappato al papà che gli accarezza la testa; ogni tanto si gira per vedere le espressioni sui nostri volti poi richiude gli occhi e torna ad accucciarsi in grembo al padre. Chance è superattenta, silenziosamente attratta nella ricostruzione del ricordo. “Kinshasa di notte ci faceva paura. Al tramonto le vie alberate del centro si svuotano e puoi incontrare solo malviventi”. Abyaz si drizza sulla schiena e sgrana gli occhi: leggiamo la sua incredulità e in quel momento ridefinisco che anche i papà e le mamme possono provare paura. Abyaz trova assurdo che un papà possa aver paura, e Valerio cerca di confortarlo che adesso sono qui al sicuro e nessuno può far loro del male. Stanno ricordando la loro esperienza passata, adesso è tutto “diverso”, adesso vivono una nuova vita.
Quando il mattino dopo sono arrivati davanti al grande cancello di ferro del villaggio, erano scortati dalla camionetta della polizia. L’ingresso era controllato, per questo il perimetro era circondato da un alto muro invalicabile. L’arrivo di nuovi genitori rappresenta per i bambini del villaggio un giorno di festa perché arrivano cibo, vestiti, giocattoli, ma soprattutto la redenzione per quei piccoli che verranno portati in un paese occidentale. I primi giorni sono i più belli perché la presenza dei genitori è un beneficio per tutto il villaggio. Il cibo è in abbondanza per tutti ed è possibile fare la “doccia” lavarsi e cambiarsi. Chance rivela di non aver capito chi fossero i propri genitori, finché non ha sentito la voce del padre. Sentirsi dire “Ciao cucciola” è stata una fortissima emozione. Abyaz, che nel frattempo si solleva dalla pancia del papà, ricorda che lui stava sul suo albero e li guardavo dall’alto: “Io stavo sempre sugli alberi, anche di notte”.
Claudia e Valerio sono emozionati, si avvicinano ai bambini per toccarli e accarezzarli. Il clima è molto intenso, ma silenzioso. Provo a dire a Claudia se vuole dare voce ai sentimenti che sta provando: lei mi guarda e scoppia in lacrime. Con grande tenerezza riesce a dire con un fil di voce “Non ci riesco”. Cerco gli altri con lo sguardo e senza che io proferisca parole, Abyaz le va in braccio e inizia ad abbracciarla. Chance lo accompagna con parole di conforto: “Non ti preoccupare mamma, abbiamo capito che piangi di contentezza!”.
Rifletto su questa contraddizione per cui sono i bambini che consolano la mamma, e mi chiedo quanto quel pianto ha a che fare con altri aspetti della sua vita con cui dolorosamente entra in contatto. Claudia non riesce ad abbracciare i figli, e i bambini lo sanno: in momenti come questo mi colpisce la loro capacità di accorciare le distanze e aiutare i propri genitori a tirare fuori l’emotività. Abyaz la sollecita con baci e abbracci, Chance con tenere parole.
Per Claudia i soggiorni a Kinshasa sembravano durare una eternità: le giornate erano interminabili, non c’era niente da fare, se non stare con i bambini, giocare con le cose che avevano portato e condividere un pasto. Oscilla da un atteggiamento stanco e annoiato ad uno più caratterizzato dalla difficoltà di sostenere le diversità e le contraddizioni del paese. Lei, così profondamente atea, si è dovuta confrontare con una cultura imperniata da una spiritualità più vicina alla stregoneria che alla religione. Nel riconoscere il ruolo delle religiose nel villaggio mantiene un certo distacco emotivo, usando toni piuttosto squalificanti. Il suo sforzo sembra infastidire sia i bambini che Valerio, che cerca di far recuperare dignità alla loro immagine parlandoci proprio di loro.
Colgo questa diversità nella coppia a proposito di come venivano trattati i bambini al villaggio: per Claudia le suore avevano completa incuria, per Valerio facevano del loro meglio con i mezzi a disposizione. Il villaggio era gestito da suore cattoliche, le uniche in grado di farsi carico delle condizioni di vita sociale dei bambini abbandonati dalle famiglie. Erano periodicamente impegnate in prima linea nelle zone al confine con l’Uganda e il Ruanda per fare il rastrellamento di bambini, lasciati lungo le strade o in fuga dalle guerriglie, poi portati in salvo al villaggio di Kinshasa. Dai loro racconti Abyaz e Chance provenivano proprio dal confine. Al villaggio erano abbastanza protetti ma i cancelli dovevano restare sempre chiusi e la polizia doveva fare la ronda per scoraggiare i guerriglieri che affrontavano giorni di viaggio per arruolare piccoli soldati o per riprendersi un figlio. In Congo i bambini sono ricercati come i minerali preziosi. Quando non sono considerati stregoni sono una proficua miniera: vengono sfruttati per lavorare o per fare la guerra, venduti illegalmente agli stranieri. I due genitori ricostruiscono il racconto davanti ai bambini, aggiungendo che le suore ricordavano spesso i loro rischi, così da metterli in guardia e renderli più pronti alla fuga in caso di pericolo. Li sgridavano se si avvicinavano al cancello, nessun minore poteva uscire dal villaggio.
Abyaz sembra iniziare a ricordare qualcosa, ma appena inizia a parlare finge palesemente di non ricordare, poi si scambia uno sguardo di intesa con la sorella e si copre la bocca.
Ascolto e assaporo con grande curiosità emotiva e provo a coinvolgere tutti nel ricordo di quei luoghi, e capire chi sono i bambini stregoni. Scende un silenzio profondo ma Chance si scioglie come il ghiaccio: i bambini stregoni sono i bambini che vengono considerati malvagi, che portano male e fanno ammalare le persone perché sono posseduti dal demonio. Lei però non ne è sicura. Potrebbero essere solo bambini sfortunati, che nascono in famiglie sfortunate, dove non c’è l’acqua e non c’è da mangiare e allora i grandi danno la colpa ai piccoli. Scende di nuovo il silenzio. Si aspettano che io dica qualcosa. E qualcosa arriva molto vicino a quello che possono sentire. “Non è facile essere un bambino in Congo. Gli adulti non si fidano dei bambini. Spesso perfino i bambini si convincono di non valere molto e crescono senza fiducia. In Congo la vita è difficile: gli adulti li vedono come portasfortuna e non vedono il loro bisogno di crescere in modo sereno. Ora invece siete al sicuro, in una famiglia che punta al meglio per voi. Io penso che i bambini del Congo sono come i bambini di tutto il mondo, hanno bisogno di sentirsi al sicuro, di giocare e scoprire le cose con gioia e serenità. Per fortuna i bambini hanno veramente tanta fantasia, immaginazione e forza d’animo, per poter affrontare e superare anche grandi ostacoli come questi e tornare a sorridere. Voi ora potete farlo nella vostra nuova famiglia, con adulti che vi vedono come la cosa più preziosa per loro, come una risorsa e non come un problema”.
Abyaz sembra placarsi e mi guarda più spesso, si avvicina alla sorella e la abbraccia fortissimo. Si crea un clima emotivo molto intenso fra tutti. Anche mamma sembra commuoversi, contiene per un po’ le lacrime e poi dice di avere caldo. Toglie il cappotto, e si distrae prendendo un fazzoletto. Valerio resta in silenzio, ma lo vedo che piange dentro. Abbraccia virtualmente i bambini con un grande sorriso e poco dopo i due fratellini si tuffano tra le sue braccia.
Stavolta vanno a consolare lui. Io sottolineo che mamma senza il cappotto è più facile da abbracciare e così Chance torna da lei sorridendo. Le lacrime ci sono per tutti, me compresa.
Ridefinisco quello che sta accadendo e aggiungo alcune riflessioni sulla vita in Congo che è molto diversa da quella che viviamo qui e non si tratta solo del colore della pelle, ma anche del clima, delle abitudini, la religione e la cultura. Quando i bisogni sono tanto diversi, anche il modo di pensare e di vedere le cose sono tanto diverse. Questa diversità può generare una distanza in famiglia con mamma e papà, perché si ha la sensazione che facciamo fatica a capirci. Nel chiedere qual era il bisogno più importante per loro in Congo in coro rispondono: “L’acqua! L’acqua, il cibo”. E qui invece di cosa avete più bisogno? Abyaz ci pensa un po’ e poi dice: “Giocare. Di tutto il resto non manca niente”.
Il fenomeno dei bambini stregoni
In Africa ma soprattutto in Congo esiste da sempre la credenza negli spiriti maligni.
A stabilire se un bambino è posseduto dal demonio provvedono, a pagamento, “profeti” che promettono miracolose guarigioni, redenzione istantanea dai peccati e felicità eterna. Un business in crescita sfruttando il cristianesimo e le tradizioni ancestrali africane. Previo contributo alle spese del rito, si esorcizzano i bambini in odore di stregoneria. I malcapitati vengono costretti a ingurgitare olio di palma, pozioni di erbe e, se non vomitano il demonio, i loro genitori sono autorizzati a cacciarli di casa.
Per questo il governo ha opportunamente emanato una legge che consente alle famiglie di poter abbandonare uno o più figli, in nome della “salute” familiare; una legge contraddittoria però, perché non consente di poter riammettere nel nucleo familiare il proprio figlio abbandonato, nel caso ci abbiano ripensato, o siano stati mossi da un rimpianto. L’abbandono è irreversibile e i bambini sono destinati altrove, nel migliore dei casi affidati a strutture di accoglienza, centri di raccolta, alcuni con l’ipotesi miracolosa di un’adozione. Per gran parte di loro li aspetta una vita in strada. Non è facile avvicinarli: sono aggressivi, rissosi, induriti dalla mancanza di affetto e dalle violenze subite. Dormono raggomitolati negli stracci, tra scatole di cartone, vivono di elemosina e furti. Nel migliore dei casi vengono presi dalle suore e portati al villaggio. L’esclusione e l’emarginazione sono le sanzioni più frequenti per le persone ritenute colpevoli di stregoneria e che rifiutano l’esorcismo. I membri della comunità, compresi i parenti più stretti, devono astenersi da atteggiamenti di supporto o di amicizia o dal mostrare affetto o compassione nei confronti dello “stregone”. Le accuse rivolte ai bambini derivano da alcuni comportamenti che non vengono compresi, e che non sono quindi ritenuti socialmente accettabili: casi di enuresi notturna, sonnambulismo, bambini con disabilità, aggressivi o solitari, particolarmente dotati, nati prematuramente o in posizioni inusuali, perfino i gemelli.
Tutte queste credenze hanno spesso una radice molto pratica: la povertà, e la stregoneria è la spiegazione ai loro problemi. Spesso i colpevoli di tali ingiustizie o fatalità sono i bambini, anche i propri figli. Popolarmente vengono spesso chiamati “serpenti”, per i loro abili tentativi di sfuggire agli atti persecutori. Per arrivare a Kinshasa o a Lubumbashi fanno dagli 800 ai 1000 km a piedi, silenziosi si nascondono nei camion, si infilano nei treni o nei battelli. Sono numerosi quelli che trovano la morte durante il cammino, chi per incidenti, chi per violenze, chi viene mutilato, chi viene violentato o viene immesso nel traffico di minori.
Faccio una riflessione sulle aspettative malevole che gli adulti hanno sui bambini, e sull’immagine fortemente distorta legata più ad aspetti magici e fatalisti, lontanissima dalle conoscenze sullo sviluppo evolutivo e psicologico nell’infanzia. I bambini si allineano a tale immagine e si convincono di coincidere con gli aspetti salienti di quelle rappresentazioni distorte. Da una parte gli adulti non danno importanza al valore dei bambini, ma dall’altra attribuiscono loro un grande potere, un potere soprannaturale, portare sfortuna e causare i mali delle persone. Questa contraddizione sembra influire sulla formazione della propria identità, sullo stato confusivo dei bambini e sulle risposte emotive e comportamentali verso le persone per loro significative, e con cui stanno costruendo nuove relazioni importanti.
A fine seduta riconosciamo visibilmente che Abyaz ha realizzato un fantastico cannocchiale. Con fare ironico Chance tira un sospiro di sollievo e dice “Meno male che almeno oggi non hai cattive intenzioni…”, e inizia a ridere coprendosi la bocca con le mani, mentre il fratello sorride e la spinge per gioco verso la mamma. La seduta si chiude con la mia notazione sull’acuta osservazione di Chance. Costruire oggetti che richiedono mira, fa pensare che prende forma la necessità di focalizzare ancora meglio lo sguardo e l’attenzione su questioni importanti della vita di questa famiglia, del vissuto della prima infanzia dei bambini, e dei vissuti più interni ed emotivi del Sé. Ma anche conoscere meglio mamma e papà, la loro storia prima di conoscersi e di come questi aspetti stanno influenzando le dinamiche relazionali familiari e sociali.
Il cortile trincea
«Il Congo è il paese maledetto dalla sua ricchezza»
David Snow

Una leggenda vuole che Dio, mentre stava creando il mondo, sia inciampato nel Kilimangiaro e il sacco pieno di minerali che aveva sulla testa si sia rovesciato sul Congo. In effetti, questo paese è particolarmente ricco di minerali preziosi, ma questa ricchezza nel corso dei decenni è diventata una disgrazia, attirando gli interessi di quasi tutti i paesi occidentali.
Il Congo sembra andare a due velocità perché è uno dei paesi più ricchi del mondo e, al tempo stesso, uno dei più poveri e dei più pericolosi. Tutte le guerre hanno cause economiche, fatte per prendere gratuitamente i minerali o l’energia. Ad ogni angolo si trovano diamanti, ma mancano acqua e luce. 
Dopo aver parlato della condizione sociale ed economica in cui versava il paese, per una serie di incontri iniziamo a capire meglio anche il senso della vita nel villaggio.
Ogni giorno i genitori in prova andavano in gruppo al villaggio dei bambini e trascorrevano con loro alcune ore. Portavano grandi scorte di vestiti e cibo e le suore si mettevano presto a cucinare in grandi pentoloni, riso e cereali, perlopiù un piatto unico per tutti. I bambini erano invitati dalle suore a ballare per riconoscenza di quanto avevano avuto. Erano giorni di festa di cui tutti nel villaggio ne giovavano. La doccia era una rarità. Mentre parliamo Abyaz mostra evidente imbarazzo, quasi vergogna. Io ridefinisco che non c’è da vergognarsi di nulla, quello era un sistema che funzionava lì in Congo perché mancava l’acqua e quella poca che c’era bisognava spartirla; è inoltre un’esperienza che li arricchisce perché fa apprezzare meglio le cose che hanno qui.
Chance decide di raccontarci delle cose che forse non ha mai raccontato, e spesso si è sforzata di pensare che le avesse solo immaginate per quanto sono brutte.
Le suore raccoglievano tutti i bambini che venivano considerati stregoni, mentre erano solo bambini sfortunati. I bambini lì dentro sanno di non essere stregoni, ma hanno paura che l’altro possa esserlo. Per questo nessuno si fida veramente dell’altro.
In orfanotrofio succedevano delle cose brutte, ma non le vuole neanche ricordare. Bambini grandi che facevano cose “strane” ai piccoli.
“Nel periodo che sono stata lì, c’era un uomo che veniva a cercarmi perché voleva prendermi. Le suore mi dicevano: ‘C’è un uomo che ti vuole prendere e che forse è meglio non sapere quello che ti vuole fare ed è meglio che ti nascondi dove ti diciamo noi’”.
Le suore la nascondevano nell’armadio o sotto un mobile, e in quei momenti di grande paura, sudava ma non aveva caldo. “Avevo una fifa blu! Stavo li ferma per ore”.
Il fratello la difendeva sia dai bambini grandi che facevano cose brutte, sia dagli uomini in divisa che venivano all’improvviso con le jeep. Ogni volta che sentiva quel rumore dei motori si bloccava per la paura. Anche il cuore si fermava e non batteva più.
Il senso delle suore nel villaggio era anche di proteggere i bambini dall’arrivo degli uomini armati. Chance in quei momenti di angoscia cercava Abyaz e sapeva di trovarlo sull’albero che stava al confine col muro. Da lì lui poteva controllare sia i bambini dentro sia gli uomini fuori.
Chance continua: “Cercavo di capire se poteva essere mio padre. Per alcuni versi avrei voluto rivederlo. Però le parole delle suore mi gelavano. Mi chiedevo perché un papà ti abbandona pensando che porti malefici e sei posseduta dal demonio, e poi viene a cercarti per portarti via con lui con le armi? È un controsenso!”. Abyaz tuona all’improvviso: “Secondo me tuo padre voleva ucciderti! A casa tua si sono tutti ammalati o morti, quindi lui pensava che era colpa tua! Però penso che era un po’ scemo. Mica un bambino può essere capace di tutte quelle cose brutte!”.
Quando aveva più paura andava sull’albero e ci passava la notte. Questo era il modo in cui Abyaz affrontava i bambini grandi che davano fastidio a Chance. Da lassù li poteva controllare e, se si avvicinavano alla sorella, li picchiava con un bastone. Ci fa vedere tutto questo in un disegno, in cui rappresenta gli elementi più importanti della sua infanzia, quelli che ricorda della vita nel villaggio.
Ragioniamo insieme sull’importanza di quel muro di cinta. Quel cancello che poteva separarli dall’esterno minaccioso e pericoloso. Restare dentro ne garantiva la salvezza, almeno dagli uomini armati. Comunque i pericoli venivano anche da dentro: i bambini grandi che facevano cose strane ai piccoli… Cerchiamo di capire insieme come quest’atteggiamento venga mantenuto anche qui nella loro famiglia. Vivere il sociale, esterno alla famiglia pone Abyaz sempre di vedetta, in uno stato di allerta continua, pronto a reagire, anche inopportunamente e in modo aggressivo, a minimi segnali di “pericolo”: soprattutto nelle relazioni con i compagni, interpreta comportamenti e atteggiamenti altrui in modo minaccioso per la propria incolumità e della sorella.
Abyaz, nel rievocare la vita in Congo sembra disturbato, infastidito. Cerco di mettere in circolo nella famiglia una comunicazione più orientata alla comprensione dei sintomi. Originariamente i sintomi potrebbero aver avuto un valore protettivo nella realtà: difendersi e difendere la sorella da reali pericoli di vita. Lo stato di paura costante genera atteggiamenti di stati di allerta ed iperagitazione comprensibili per la salvaguardia della propria e altrui incolumità fisica prima ancora che psicologica.
Fratelli di sangue, fratelli di vita
Valerio e Claudia con un certo imbarazzo spiegano che c’è stato un episodio nel week end che avrebbe turbato i bambini. Sono andati a Ostia a trovare Suor Benedicta, in Italia da qualche mese. I bambini erano a loro dire felici di rincontrarla dopo tanto tempo; ma i genitori non li avevano preparati per tempo all’evento e neanche me. In più in quella circostanza a loro insaputa avrebbero incontrato altri bambini con cui erano stati al villaggio, ora adottati, e che venivano da altre città d’Italia. Quell’incontro avrebbe fatto scatenare la furia di Abyaz: se all’inizio ha timidamente salutato la suora, in seguito alla vista dei bambini si è agitato moltissimo e non sono riusciti a tenerlo fermo. I sintomi si sarebbero riattivati, nel rivivere una situazione altamente traumatica.
Oggi in seduta i bambini apprendono dai genitori che non sono fratelli di sangue. Suor Benedicta lo avrebbe rivelato all’incontro. Sembra che Valerio e Claudia ne sono stati scossi più dei figli. Rileggo il loro imbarazzo iniziale, come la difficoltà quasi di dirlo a se stessi, di avere due bambini fratelli ma che in realtà non lo sono. Sulle prime questa notizia non ha particolarmente scosso la famiglia, ma scopriamo in seduta qualcosa in più. I genitori hanno atteso il nostro incontro per dirlo ai bambini per timore delle loro reazioni. Riflettiamo insieme sul fatto che a volte le nostre rappresentazioni hanno un peso importante sulla realtà e queste possono influenzarla notevolmente.
Rimando alla famiglia che bisogna allenare l’occhio a non vedere il bruco, ma la farfalla che verrà.
I genitori hanno idee, fanno progetti, si creano aspettative, ma se ci si limita ad osservare il bruco, si impedisce di vedere la farfalla. Il bambino capisce se lo guardi come bruco o come farfalla e si comporta di conseguenza. Abyaz e Chance dalle loro reazioni ci stanno dimostrando che essere fratelli va al di là del legame di sangue. Sono l’esperienza, la condivisione e il legame che li rende fratelli. Esplicito cosa sta accadendo in seduta. Stiamo raccontando cose molto dure della loro storia, cose che ai bambini non dovrebbero accadere per vivere serenamente: una famiglia che abbandona il figlio perché pensa che porti male (Abyaz); un padre che vuole con sé la propria figlia per ucciderla (Chance), e scoprire entrambi di non essere fratelli. Eppure nonostante il peso dei contenuti emotivi che stiamo affrontando Abyaz sembra essersi placato. È in ascolto attento, concentrato, e forse questa chiarezza che svela e rivela la verità gli permette di sentirsi più in pace. Non parla ma, mentre disegna, non perde di vista Chance, e solo alla fine mette la sua firma su tutto il discorso: “Io comunque ero più forte di loro, anche se erano più grandi; sono bravo ad usare il bastone, senza il bastone oggi io e Chance non so che fine avremo fatto!” (… ride… poi diventa serio e triste). Ma i ricordi di Abyaz sono più sommari e frammentari. Per lui prevale più una memoria epidermica, istintiva, comportamentale. Chance è l’anima narrativa, di precisione nei ricordi razionalizzati. E alla luce di questa complementarità mi spiego perché siano “diventati” fratelli, accomunati dagli stessi disagi ma diversi bisogni. Le suore ritennero funzionale renderli fratelli perché si aiutavano l’un l’altro. Abyaz difendeva lei, lei placava lui.
Riflettiamo insieme che la diversità e l’uguaglianza sono le due facce della stessa medaglia; è ciò che accomuna le loro storie con quelle della gran parte dei bambini del villaggio; è ciò che li unisce mentre il resto si differenzia; è l’essenziale che conferisce significato a tutte le vicende vissute insieme. Mamma e papà sono gli “stranieri bianchi” tanto più simili a loro nei sentimenti e nelle emozioni di tanti bambini cioccolatini che vivevano come minacce. I legami importanti ci rendono più vicini e per questo più simili perché si condividono le esperienze importanti della vita. La vicinanza è importante per potersi sentire ed essere “famiglia”.
La diversità come opportunità
“Mamma e papà qualche volta piangono ma per motivi diversi: mamma lo fa quando è triste papà perché è contento se lo sorprendiamo”. Grazie a queste parole dei bambini emerse nel precedente incontro sono riuscita a chiarire meglio la diversa emotività dei due genitori; in seduta abbiamo ridefinito in quel momento la “diversità come un vantaggio”, che può servire per affrontare tante situazioni in più che possono accadere nella vita di tutti i giorni.
Gran parte delle sedute riprende esattamente dal punto in cui c’eravamo lasciati. È Abyaz a ricordarcelo appena entrati mentre si dirige veloce ad aprire lo scatolone delle loro produzioni per prendere del materiale. La scatola che hanno scelto insieme raffigura uno scenario spaziale, una navicella in volo con il sottofondo di pianeti e satelliti. Un viaggio tra mondi lontani quanto diversi.
Per una serie di incontri il lavoro procede nel senso di identificare e capire le diversità fra il Congo e l’Italia, come possibilità di avere maggior chiarezza del proprio passato per ottenere una maggior ricchezza in circolo nella famiglia.
Ricordiamo che, con l’adozione internazionale, si assiste a una rottura culturale a più livelli.
Per questo si possono incontrare problemi di adattamento, aggressività, mutismo, iperattività, regressione, rivolta, ed un bisogno intenso di tornare alla ricerca delle loro origini.
Il confronto con la diversità riguarda, seppur in misura diversa, anche i genitori, che faticano a modulare le loro abitudini, la routine, gli schemi, affrontare l’imprevedibilità dei problemi. L’idea è che i bambini devono adattarsi in nome di una cultura migliore. Per questo spesso il papà si innervosisce e fatica ad accettare le difficoltà dei bambini ad adattarsi ai nuovi sistemi, più o meno funzionali, più o meno logici, certamente migliorativi rispetto alle condizioni di provenienza. Valerio si innervosisce, Claudia tende a chiudersi e getta la spugna. Un’altra delle tante diversità importanti fra mamma e papà.
Scopriamo che in Congo molti nomi di origine francese vengono modificati dando una precisa attribuzione di significato. Abyaz e Chance sono “Innocenza” e “Opportunità”.
Simbolicamente rappresentano aspetti tanto importanti della vita di un bambino, quanto fondamentali per crescere in modo sereno e con gli stimoli giusti. Insieme riflettiamo sull’importanza di questa diversità che in Congo ha permesso loro di sopravvivere. L’innocenza ha avuto una funzione protettiva, ha sfruttato l’istinto per affrontare i pericoli, mentre l’opportunità era la speranza ma anche l’anima razionale, che sa sfruttare il ragionamento e la logica per fare le scelte giuste. Abyaz e Chance erano una squadra e lo sono ancora, anche se il nuovo mondo chiede loro di cambiare tanti aspetti della loro identità e di integrare il vecchio con il nuovo.
Scoprire di non essere fratelli di sangue sconvolge le loro certezze ma consente di far luce su tanti angoli bui della loro storia. L’incontro con suor Benedicta è stato definito dal padre “una pessima idea”, già solo per il fatto di ritrovarsi a contatto con il passato, in questo momento così delicato in cui i bambini ancora non si sono adattati alla nuova famiglia. Ragioniamo coi genitori sul fatto che forse l’effetto sorpresa alla vista dei bambini sia stato vissuto come una minaccia, per cui si sono riattivati i noti schemi difensivi finalizzati a proteggere e proteggersi. Riflettiamo insieme però anche sull’importanza di aver scoperto questa amara verità in un momento tanto importante in cui stiamo lavorando sul tema della diversità. “Diventare” fratelli è una decisione presa dalle suore, dettata anche dall’opportunità reciproca di poter essere più facilmente adottati insieme da un’unica famiglia. Adesso iniziano a sperimentare che provengono da famiglie d’origine diverse e quindi hanno due storie diverse. Eppure possono continuare ad essere fratelli, ad essere una squadra. Anche mamma e papà sono tanto diversi fra loro. A partire dalla loro fisicità, dal carattere e dai modi di fare. Eppure sono una coppia e hanno deciso di vivere insieme e di formare una famiglia. Occuparsi di famiglie adottive comporta la necessità di conoscere quali possano essere gli effetti di un trauma originario anche sullo sviluppo del rapporto genitoriale. Solo un cenno per dire che, quasi sempre, c’è un trauma anche nella storia dei genitori adottivi, che adottano per non essere stati in grado di generare figli naturali. La fecondazione artificiale, lungi dall’aver risolto felicemente il problema, provoca spesso altre situazioni traumatiche di cui non è il caso di trattare in questa sede. È sufficiente tener presente come anche i genitori adottivi siano spesso persone sofferenti o che hanno sofferto per una loro “diversità” e che l’adozione è a volte l’incontro di più traumi diversi. Dal punto di vista legale e istituzionale l’adozione è un istituto giuridico che ha come scopo di dare una famiglia a un bambino, ma anche di dare dei figli a una coppia di genitori. Dal punto di vista psicologico è invece un modo particolare di creare legami affettivi-mentali di tipo familiare, genitori e figli, con sue caratteristiche peculiari. Infatti, l’atteggiamento mentale e affettivo dei genitori nei confronti di un figlio adottivo è necessariamente differente rispetto a quello verso un figlio naturale, anche se ogni tanto si sente affermare il contrario.
“Differente”, e non potrebbe essere diversamente, perché il figlio adottivo [3] viene da fuori e non è generato nella famiglia ed è a tutti gli effetti uno straniero.
È necessario sottolineare che parlando di straniero non si intende indicare il bambino nato in altro paese dall’Italia, ma lo straniero che, venendo da fuori, potrebbe anche provenire dalla porta accanto. In un libro di Algini [4] si parla anche del figlio naturale come di “quell’estraneo che pure ci appartiene così profondamente”. Nello stesso tempo anche l’atteggiamento mentale e affettivo dei bambini nei confronti dei neo-genitori è “differente”: le fantasie e le aspettative, da un lato, di trovare una famiglia che risponde ai propri bisogni, dall’altro che sappia accogliere la propria storia personale nella sua più cruda realtà e di potersi fidare di metterla nelle loro mani. La diversità può essere un vero arricchimento per tutti. È l’occasione di mettere in circolo tante risorse e strategie per affrontare situazioni diverse e avere punti di vista diversi per comprendere meglio le cose.
Abyaz e Chance, dopo essere stati scelti da nuovi genitori, stanno iniziando a sceglierli come genitori. Cerco di lavorare sul clima di fiducia in circolo reciproco fra loro per facilitare il processo di acquisizione di fiducia verso l’altro; realizzare il processo decisionale di accettare/adottare quei genitori (e quei bambini) in modo da potersi riconoscere l’un l’altro nei propri reciproci bisogni e secondo le proprie esperienze relazionali pregresse. Tenere conto nella realtà familiare che adottare un figlio è un elemento di notevole complessità; adottare due fratelli lo è un po’ di più. Adottare due fratelli che scoprono di non esserlo, genera livelli di complessità ancora maggiore. Se poi non intendiamo fermarci a considerare solo il quadro lineare di “due genitori che adottano due bambini”, ma ci spingiamo verso l’interpretazione di un sistema complesso che intende spostare il focus sui bambini, ci avventuriamo nella lettura del contesto di due bambini che accettano/scelgono di adottare quei genitori. Riconoscere la diversità, accogliere, accettare, sentirne l’appartenenza reciproca. Equazione tanto facile da scrivere, quanto complessa da realizzare.
SECONDA SUPERVISIONE
Il tema della diversità ci ha portato molto lontano. I racconti dell’esperienza in Congo sembrano avere un effetto “buco nero”, almeno all’inizio, per la straordinaria quantità di informazioni date in forma caotica frammentaria ed emotivamente forte da ascoltare ed elaborare. L’effetto successivo della diversità è quella della scatola cinese: “Una storia nella storia”. Si affianca un grosso lavoro di ricostruzione, di riorganizzazione dei loro contenuti, nonché un senso cronologico e un significato rispetto al cambiamento [5]. La diversità come risorsa può essere compresa, ma ancora non accolta.
In occasione della seconda supervisione ragioniamo insieme sulla possibilità di dedicare alcuni incontri per approfondire:
• sul piano diagnostico, i rispettivi disagi dei bambini, per capire meglio come le esperienze traumatiche precoci vissute dai due fratelli possano incidere sul comportamento, sulle relazioni sociali e sul clima di benessere generale della famiglia;
• dedicare alcuni incontri all’esplorazione della storia di Valerio e Claudia: ripercorrere insieme con il genogramma [6] le rispettive storie familiari, la loro unione come coppia fino alla scelta dell’adozione. L’intento è quello permettere ai bambini di conoscere la storia di mamma e papà, renderli partecipi di conoscere la propria “nuova storia familiare”, e di facilitare per loro l’inserimento in questo percorso in divenire, facilitare l’integrazione e il senso di appartenenza alla nuova famiglia [7].
• sul piano simbolico, utilizzare un linguaggio meta che possa mettere in comunicazione ed in relazione le reciproche storie d’origine dando senso e continuità e alla nuova famiglia. Il metodo narrativo e il disegno congiunto come chiusura della terapia.
UN INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
Integrare un approfondimento diagnostico può rendere più efficace il percorso terapeutico con le piccole vittime di esperienze sfavorevoli infantili (ESI) [8]. Generalmente si evidenziano specifici modelli operativi interni (internal working models - MOI) che dovranno essere modulati con modelli di funzionamento più virtuosi e funzionali. Il concetto di MOI, introdotto per la prima volta da Bowlby, spiega che il bambino in fase di sviluppo costruisce una serie di modelli di sé, degli altri e del mondo esterno basati su pattern ripetuti di esperienze interattive; tali schemi sé/altro formano strutture rappresentazionali che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione ad esso [9]. Questi bambini presentano una filosofia di vita basata sull’assunto di un mondo malevolo (opposto quindi all’assunto della fiducia di base), orientata al compiere profezie che si autodeterminano soprattutto nelle relazioni significative e caratterizzate da intimità e dipendenza emotiva che non hanno altro risultato che rinforzare nel soggetto la credibilità e l’ineluttabilità proprie dei modelli operativi distorti. Questa sorta di destino crudele può essere cambiato e ri-orientato solo con un intervento incisivo e mirato di psicoterapia. I due fratelli hanno sostenuto una serie di incontri individuali per l’approfondimento diagnostico: Abyaz ha ottenuto punteggi significativi considerati bisognosi di attenzione clinica nelle scale di rabbia-aggressività, stress post-traumatico-arousal, stress post-traumatico-evitamento, stress post-traumatico-
intrusione.
Chance invece ha ottenuto punteggi altrettanto significativi nelle scale di depressione, di dissociazione, dello stress post-traumatico-intrusività e dello stress post-traumatico-evitamento.
Il supporto e l’approfondimento diagnostico vanno nella direzione di un chiaro disturbo post-traumatico da stress. Questo dato ci permette di procedere nel percorso terapeutico con una visione più tridimensionale del contesto. Hanno bisogno di un contesto genitoriale accudente e protettivo, in risposta alle loro provenienti esperienze sfavorevoli. I genitori appaiono particolarmente sensibili alle difficoltà di adattamento dei bambini, ai loro sbalzi di umore e all’iperattività. Tali aspetti influenzano le abilità genitoriali nella direzione di una riduzione del senso di competenza e di autoefficacia avvertita dai genitori, una limitazione del proprio ruolo e una difficoltà a favorire un adeguato legame di attaccamento.
LE ESPERIENZE TRAUMATICHE
In clinica sono ritenute traumatiche le esperienze che minacciano la nostra incolumità fisica, oppure l’assistere ad esperienze simili rivolte ad altre persone. Il trauma psicologico determina sofferenze psichiche dovute alle ferite aperte, ai processi di cicatrizzazione psichica incompiuti conseguenti ad esperienze traumatiche. Le relazioni di accudimento traumatiche si verificano nella fase molto delicata della prima infanzia (0-3 anni) e provocano gravissimi danni alle strutture elementari della formazione del Sé. Si definisce il trauma come «il risultato mentale di un “colpo” o una serie di “colpi” improvvisi che destabilizzano temporaneamente il bambino, e che fanno fallire le ordinarie strategie con cui si affrontano gli eventi esterni e le operazioni difensive [10].
La vittima è resa inerme da una forza soverchiante: vengono sconvolti i normali sistemi di tutela che danno all’essere umano un senso di controllo, di relazione e di significato. La caratteristica saliente dell’evento traumatico è il suo potere di ispirare impotenza e terrore. Chance ci descrive perfettamente cosa provava nei momenti in cui arrivavano gli uomini armati: reazioni somatiche riferibili a paralisi, freddo, blocco del pensiero e una “fifa blu”, tanto che la sua unica salvezza è rappresentata dall’intervento del fratello, l’unico in grado di agire per lei. Abyaz è invece un chiaro esempio di come la minaccia evochi sentimenti intensi di paura, ma anche di rabbia. Questi cambiamenti nello stato di allerta, attenzione, percezione ed emozione sono normali reazioni adattive che mobilitano la persona minacciata per l’azione strenua di lotta o di fuga.
Gli eventi traumatici causano cambiamenti profondi e durevoli negli stati di eccitazione fisiologica, nelle emozioni, nella cognizione e nella memoria [11]. Si può esprimere un’intensa emozione senza avere una chiara memoria dell’avvenimento, oppure ricordare ogni particolare senza emozionarsi. O potrà trovarsi in uno stato di costante vigilanza e irritabilità senza sapere perché.
Questo è ciò che succede ad Abyaz e Chance durante gli incubi notturni; ciò che accade ad Abyaz quando percepisce la presenza dei compagni di classe come una minaccia di pericolo per la sua incolumità; ciò che succede a Chance quando si blocca per la paura.
Gli studi neurobiologici sullo sviluppo mentale infantile dicono con sicurezza che l’esperienza dà direttamente forma alle strutture cerebrali e che nei bambini piccoli i circuiti neuroendocrini attivati dal trauma possono divenire permanenti, alterando la plasticità cerebrale e condizionando la personalità del futuro adulto. Ma la psicoterapia può essere un buon antidoto.
Il funzionamento psicologico post-traumatico è riattivabile non solo da situazioni reali, ma anche da ricordi specifici. La reattività potrà generalizzarsi, sicché il sistema di risposta al trauma sarà attivato in continuazione anche quando il pericolo non sarà effettivamente presente. Ciò avviene non soltanto a riguardo di esperienze o memorie in qualche modo affini a quelle precedenti negative, ma anche in circostanze che per altri soggetti non vittime non evocherebbero reazioni da stress, mentre nella vittima inducono allarme. È noto come immagini, sensazioni, profumi, eventi possano scatenare reazioni intense di malessere.
Spesso i bambini con esperienze di maltrattamento presentano grosse difficoltà nelle interazioni sociali con i propri pari e vengono rifiutati dai compagni di classe.
Alcuni autori [12] hanno analizzato la qualità delle interazioni in questi bambini in età prescolare, e hanno notato scarse abilità nell’avviare interazioni con i pari, l’esibizione di una più alta proporzione di comportamenti negativi nell’interazione con gli altri bambini, una certa difficoltà nel mantenere l’autocontrollo e un gran numero di problemi comportamentali. Vengono considerati bambini poco desiderabili come compagni di gioco. Il rifiuto da parte dei pari quindi è un’esperienza che i bambini maltrattati iniziano a sperimentare molto precocemente, sin dalle loro prime interazioni, e qualcosa di simile sta accadendo anche ad Abyaz. Col passare del tempo mi rendo conto che ci stiamo muovendo in un campo molto complesso.
Nel tentativo di integrare la dimensione individuale a quella relazionale-sistemica [13], Matteo Selvini a proposito di diagnosi di personalità e funzionamenti post-traumatici nel pensiero sistemico ricorda indispensabile anche riferirsi ad una teoria che sia strutturalmente individuale e relazionale: la teoria dell’attaccamento [14], ma nello stesso tempo tener presente le ricerche sugli adattamenti post-traumatici: Fight: ipervigilanza; Flight: dissociazione; Frozen: congelamento depressivo; Sottomissione: considerata come una variante del congelamento, come tentativo di superamento del blocco.
Queste quattro forme di resilienza [15] si sono sviluppate in combinazioni/integrazioni difensive diverse nelle modalità comportamentali e reattive dei due fratellini.
Lo strumento teorico di riferimento migliore per comprendere la complessità delle esperienze negative e le relative difese sembra essere la teoria dell’attaccamento. Quale tipo di attaccamento presentano i nostri bambini? È sul versante ambivalente o evitante? Finora abbiamo indizi nella storia dei legami primari spaventanti e angosciosi. La nostra ipotesi si muove quindi verso la disorganizzazione dell’attaccamento, per cui i processi di identificazione con le figure di attaccamento primario originariamente compromessi necessitano di una nuova spinta verso la riorganizzazione.
LA COPPIA… UN’ARABA FENICE
«Il disegno della pioggia rassomiglia alla pioggia
molto più della parola pioggia»
(Bowen, 1979)

Nonostante le indicazioni emerse in seconda supervisione, in seguito all’approfondimento diagnostico rivolto ai bambini, sento molto forte la tentazione di riservare uno spazio solo alla coppia per approfondire aspetti importanti della loro storia e per trovare nessi più significativi con la loro genitorialità. L’insidia risiede proprio nella mia “mancata fiducia” che i bambini possano farcela: saranno in grado di ascoltare e tenere il filo senza troppe interruzioni, intrusioni ed eccessiva agitazione motoria da parte di Abyaz? Il mio timore è che possiamo vanificare l’impatto emotivo di tanti momenti importanti e significativi a causa del loro effetto “diluente”. Mi sbagliavo. Accecati quasi da un fascino fiabesco, restano tutti e due seduti, spesso Abyaz è con la bocca aperta e il volto completamente rapito dai genitori, per non perdersi i movimenti minimi e le micro reazioni del volto. Chance, pacatamente, alterna lo sguardo ora sull’uno ora sull’altro, senza battere ciglio, e si lascia andare ad alcuni commenti lapidari in fondo ai discorsi (“WOOW”; “Ah, questo proprio non lo sapevo!”; “Non l’avrei mai detto!”, e tutta una serie di suoni onomatopeici che racchiudono il suo stupore oltre la curiosità).
Iniziamo con il genogramma. Le parole di Bowen [16] sono esplicative per indicare che una rappresentazione grafica è sicuramente più immediata di una pagina scritta. Ha un impatto emotivo più forte, arriva dritto superando le interferenze delle sovrastrutture cognitive. Mi sembra un passaggio ideale per loro, che con le sole parole hanno di rado saputo risolvere le difficoltà.
Claudia viene da una famiglia di contadini, il padre aveva un ampio terreno, simile a quelli a terrazze che si vedono a picco sul mare. Ai mercati vendevano la verdura, e hanno vissuto per anni solo con il ricavato di questa modesta attività familiare. Il padre, deceduto pochi mesi prima di incontrare Valerio, lo ricorda come un uomo mite, di cultura semplice ma dall’animo puro. Non era abituato a grandi dimostrazioni di affetto, ma lei era cresciuta imparando a farsi “bastare” il suo sguardo dolce, un’immagine che la confortava nei momenti di solitudine. La mamma aveva una personalità più forte, a volte spigolosa e sfuggente. Ricorda la sua impazienza con la figlia nel fare le cose secondo i suoi tempi, sempre troppo lenta per la madre, meticolosa e inadatta.
In questo frangente Chance si inserisce nel perfetto intercalare ed aggiunge: “Anch’io sono lenta, perché zoppico, in questo assomiglio a mamma”. Entrambe si rivolgono un tenero sguardo e Claudia sembra tradurlo in un pianto silenzioso. Viviamo insieme questi momenti di silenzio pieno di affettività e vicinanza, poi aggiungo: “Stupisce come a volte possiamo sentirci più simili tra persone apparentemente diverse, come voi lo eravate finché non siete diventati una famiglia. Questa condivisione rinsalda il legame e potete entrare meglio in contatto con le vostre emozioni più profonde che vi accomunano”. Claudia ricorda che da piccola veniva spesso rimproverata. La mamma la sollecitava ad una maggior efficienza dicendole: “Non lo so proprio come farai tu un giorno con i figli!”. Per questo in gioventù provava molta rabbia, prima per il senso di sfiducia stratificatosi negli anni e in seguito perché i figli “proprio non venivano”. Ricorda la sua infanzia caratterizzata da tanti momenti di solitudine; figlia unica con poche occasioni di condivisione, ma la madre le ha indotto anche una grande forza di impegnarsi in grandi obiettivi. Questo le ha permesso di diplomarsi alla scuola Agraria con indirizzo Cucina e ad impiegarsi presto in alcuni ristorantini sciccosi del litorale. Identifica lo stemma della sua famiglia con “una zappa su una zuppa”. Il motto è il seguente: “Sacrificati e avrai”. Mentre Claudia ci racconta la sua storia tende ad avere un atteggiamento minimizzante, ad attribuire scarso valore alla sua storia familiare, quasi non la considerasse una storia degna di essere ricordata. Appare fortemente imbarazzata soprattutto in quei passaggi in cui ci parla della quotidianità fatta di cose semplici, che scandiscono una realtà chiusa, monotona e poco stimolante. Questi aspetti assumono un significato importante se letti in connessione con la sensazione di fatica e noia che sembra provare Claudia nel descrivere gli aspetti più relazionali e affettivi della famiglia. Una difficoltà che sembra colludere anche nel rapporto con i bambini in merito all’espressione dei propri bisogni emotivi e affettivi, per cui tende a mollare e si appoggia emotivamente al marito. Fatica ad entrare in relazione più profonda con i figli, ad abbracciarli e a sintonizzarsi emotivamente con loro. La modalità con cui i figli fanno delle richieste, le piccole grandi provocazioni potrebbero riassumersi tutte in un’unica richiesta di affettività, bisogno di contenimento fisico, sostegno e protezione. Accanto al bisogno di sentirsi accettati e sostenuti al tempo stesso, è palpabile la necessità di ricostruire quel senso di appartenenza fortemente compromesso sin dalla loro prima infanzia. Il sacrificio di Claudia trova merito nella realizzazione del grande progetto di un nucleo familiare, al caro prezzo di una solitudine emotiva. “Sacrificati e avrai”.  
Valerio proviene da una famiglia altrettanto modesta. Il padre era un camionista di lunghe percorrenze, mentre la mamma cuciva in un piccolo laboratorio di sartoria e spettava a lui (con buona dose di piacere innato) preparare da mangiare per tutti. Ricorda il padre come un uomo calmo e sicuro, con una personalità forte e decisa. Bastava un suo sguardo per mettere tutti in riga, ma era anche capace di esprimere una grande affettività creando momenti di grande tenerezza e allegria. La madre lavorava sempre. Il tempo da dedicare ai figli era poco, però “il dialogo in famiglia non è mai mancato, a casa c’era sempre qualcuno su cui contare, pronto ad ascoltarti quando ne avevi bisogno”. Lo stemma della sua famiglia sono due mani che accarezzano un viso e il motto è “Il coraggio a due mani”. Valerio rappresenta l’anima più emotiva che Abyaz e Chance hanno trovato nella nuova famiglia. È un papà chioccia dove loro due si acciambellano tutte le sere dopocena, sul divano per leggere una fiaba o giocare prima di andare a dormire. Ma rappresenta anche la forza.
Valerio e Claudia si conoscono da moltissimo tempo, quasi vent’anni. Un tempo lavoravano nella cucina di un ristorante di mare, la stessa location che ha visto nascere il loro amore, frutto di un lunghissimo corteggiamento. La loro unione arriva dopo sei anni di conoscenza e in breve decidono di sposarsi. In quel periodo si sono trasferiti a Latina grazie all’attuale impiego di Valerio ottenuto nel prestigioso ospedale, e che ha permesso alla coppia di pensare di allargare la famiglia. Malgrado i buoni propositi, il tempo passa, vivono numerose frustrazioni, così decidono di intraprendere la strada dell’adozione. Entrambi si uniscono in coppia con l’idea di formare una famiglia, basata sulla genitorialità; sposarsi per avere dei figli. Per Claudia rappresenta l’opportunità di raggiungere quei grandi obiettivi in linea con le aspettative della madre e al tempo stesso la possibilità di riscattarsi dimostrando anche a se stessa di potercela fare e di esserne all’altezza. Per Valerio si tratta di ricostituire quel clima familiare da lui percepito come positivo e significativo, e al tempo stesso poter dare alla famiglia una presenza paterna più vicina nella quotidianità. Un progetto preciso, semplice e lineare. Fin troppo, perché presto si accorgono che non funziona. L’ingranaggio non va, i figli non arrivano. Man mano vedono sfumare il grande progetto, ma il progetto non cambia, si fa “solo” più ambizioso. Quando hanno saputo di non poter avere figli hanno provato un senso di incapacità, di fallimento totale, un senso di morte. Non riuscivano neanche a fare l’amore. Per diverso tempo sperimentano nuovamente la solitudine che aveva distinto gran parte della loro infanzia e adolescenza, soprattutto per Claudia. In seguito comincia a prendere forma all’interno della coppia una nuova immagine in cui si rispecchiano, per le caratteristiche delle loro fantasie, dei loro sogni, delle loro aspettative come coppia. Questa immagine corrisponde ad un’Araba Fenice, un uccello mitologico che simboleggia l’eternità dello spirito, ma anche tutte le morti e le rinascite che l’uomo compie in vita, dando la possibilità di rigenerarsi ed evolversi.
L’Araba Fenice rinasce dalle proprie ceneri. Dalla sua esplosione si formano le ceneri, e al suo interno si nasconde l’uovo da cui essa stessa si rigenera, rinasce a nuova vita. L’uovo è simbolo di fertilità che conserva la coppia nonostante le esperienze di abbandono, di fallimento delle aspettative originarie, degli atteggiamenti che non portano ad una ulteriore crescita della coppia. Rinascere significa quindi scoprire nuove opportunità, nuove risorse di coppia per rilanciarsi al futuro e attuare un processo trasformativo.
Il mito dell’Araba Fenice rappresenta un sogno, il sogno di Valerio e Claudia, di riconoscersi nella desiderata maternità e paternità, e di schiudersi al ciclo della vita attraverso la scelta dell’adozione. La capacità di rigenerarsi e di rinnovare il patto permette alla coppia di spiegare le loro ali e volare fino in Congo per cercare i loro bambini.
MECCANISMI DI MANTENIMENTO DEL SINTOMO
Durante la consulenza ci siamo concentrati sui sintomi dei bambini da quando abitano qui in Italia insieme ai nuovi genitori: questo è vero almeno in parte perché sembra che anche in Congo alcuni comportamenti avessero una precisa funzione difensiva e protettiva rispetto alla relazione fraterna e alla sopravvivenza nel villaggio. Nel momento in cui introduco l’argomento del periodo successivo, ossia del viaggio che fanno di ritorno in Italia, Abyaz fa un disegno molto importante: un’astronave-navicella che preleva un bambino per portarlo in un altro mondo. Nell’immaginario questa esperienza rappresenta in primo luogo uno strappo, un’operazione quasi innaturale, in cui un “marziano” decide arbitrariamente di portare un bambino in un mondo a lui sconosciuto. Tale aspetto è avvalorato anche dalla scatola con il disegno di una navicella nello spazio, che i bambini hanno portato in terapia per riporre tutte le loro produzioni. L’andare a vivere altrove con genitori-marziani pone entrambi i fratellini in un limbo in cui sembrano bloccati: Chance mette in atto una forte resistenza a far trapelare aspetti emotivi di sé, laddove Abyaz si iperattiva riguardo al passato; entrambi presentano significative difficoltà nel relazionarsi con il presente, e li accolgo concentrandomi inizialmente sulle situazioni del quotidiano. Il tema della fiducia assume grande importanza perché implica il lasciare un contesto, seppur traumatico, pur sempre familiare, per doversi affidarsi ad un mondo migliore, ma sconosciuto e imprevedibile. E l’imprevedibile è una potenziale minaccia.
Pur tenendo conto degli esiti diagnostici che vanno nella direzione di un disturbo post-traumatico (il quale spiega in parte le modalità reattive e comportamentali dei bambini), cerco però di approfondire anche l’impatto che il sintomo ha avuto sulla famiglia e i cambiamenti che si sono verificati in termini di funzionamento, organizzazione e abitudini familiari, al fine di capire se il sintomo va ad alimentare modalità relazionali disfunzionali preesistenti e come sostiene il gioco della famiglia stessa.
L’anello di congiunzione fra il passato e il presente, il Congo e l’Italia, sembra risiedere nella necessità di conservare la propria identità e lealtà verso la terra d’origine e dall’altra il bisogno di soddisfare un nuovo senso di appartenenza familiare in fondo mai avuto.
Il senso di lealtà sembra riguardare anche Claudia rispetto alle dinamiche familiari d’origine, allineandosi alle attese dei propri genitori di essere una madre poco efficiente, e Valerio rispetto al volersi allineare al mandato familiare, come padre presente e di costante sostegno sia economico che emotivo per tutta la famiglia. In seguito alla degenerazione del comportamento pubblico di Abyaz, sia i genitori sia i fratelli riferiscono di vivere in una condizione di maggior isolamento: il padre ha ridotto le relazioni sociali a causa della vergogna e dell’imbarazzo, sentendosi “fallito come genitore”; la madre ritiene di “stare sempre all’angolo” perché il marito riesce a comunicare meglio con i figli e a farsi sentire, ma solo a casa. L’isolamento è funzionale per riuscire a tenere a bada quei comportamenti ma sembra anche una necessità per riuscire a praticare la genitorialità in forma più rispondente alla propria immagine di genitore.
Per i due fratellini tale isolamento della famiglia sarebbe importante in questa fase del ciclo di vita della famiglia, per rafforzare il senso di appartenenza e il processo di identificazione [17].
D’altra parte accanto a questa maggior chiusura sociale, ha fatto seguito una maggior frequentazione con le rispettive famiglie d’origine. Vedono più spesso i nonni sia paterni che materni, che in precedenza si limitavano a rare occasioni. Anche questo appare importante rispetto al mettere radici da parte dei bambini, per rafforzare il senso di appartenenza alla rete familiare anche in senso trigenerazionale. La relazione più stringente con i nonni costituisce inoltre un richiamo da parte di Claudia e Valerio nel tentativo di rafforzare il proprio ruolo genitoriale e il senso di autoefficacia a partire dalle rappresentazioni dei rispettivi genitori [18].
Abyaz spesso si offende sia perché i coetanei non lo cercano e lo escludono dal gruppo, sia perché i genitori non si fidano di lui, e credono più alle maestre che al proprio figlio.
L’obiettivo principale di questa fase della terapia è quello di agire attivamente su quei modelli relazionali disfunzionali che consentono il mantenimento del sintomo, quindi incoraggiare maggiormente un dialogo tra madre e figli che implichi la presenza di un contatto emotivo, e contemporaneamente coinvolgere il padre con modalità diverse facendo in modo che assuma un ruolo meno accentratore, ma comunque non periferico. I membri della famiglia potranno sperimentare modelli alternativi di relazione e viverne i rispettivi connotati emotivi, in un rinnovato processo di identificazione e di appartenenza familiare [19].
IL TERMOMETRO DELLE EMOZIONI
Un tempo si credeva che i bambini molto piccoli sarebbero stati protetti da condizioni traumatiche perché non comprendevano la severità del pericolo. La ricerca sulla salute mentale del bambino non conferma questa visione. I bambini molto piccoli rispondono al trauma e ne sono affetti. Sappiamo che le abilità cognitive dei bambini sono altamente avanzate, come il riconoscimento delle emozioni e la discriminazione delle parole [20].
Durante il primo anno di vita non è solo la maturazione neurobiologica che influenza i processi psicosociali, ma lo sono anche le interazioni con le figure di attaccamento che modificano la struttura cerebrale e l’organizzazione funzionale, e che rendono le precoci esperienze familiari vitali per lo sviluppo del bambino. I bambini molto piccoli reagiscono e registrano l’atmosfera familiare, lo stato d’animo della madre e le espressioni facciali [21,22]. Allo stesso modo si suppone che i bambini si accorgano della paura dei genitori traumatizzati e di un’atmosfera genitoriale minacciosa. Più sinteticamente rispetto ai precedenti studi, i più recenti suggeriscono che i bambini rispondono agli eventi traumatici in due differenti modi: attraverso l’iper-arousal e la dissociazione. L’iper-arousal nasce come reazione di allarme nei confronti della paura e del pericolo in cui la componente simpatica del sistema nervoso autonomo è fortemente attivata. Come conseguenza, i bambini manifestano battito cardiaco e pressione sanguigna elevati, respiro intenso, ed esprimono sofferenza psicologica attraverso pianto e grida. Lo stato di paura e di terrore è mediato dall’iperattivazione simpatica che si riflette su elevati livelli di ormone dello stress.
Nelle risposte dissociative invece i bambini traumatizzati si allontanano dagli stimoli esterni e dalla comunicazione umana per ritirarsi nel proprio mondo.
Le esperienze provocatorie emotive di paura e orrore sono codificate nell’infanzia nella memoria implicita che non richiede codifica o immagazzinamento cosciente. Esperienze minacciose precoci non sono quindi disponibili come ricordi episodici e narrativi ma è soprattutto la memoria procedurale a dominare l’esperienza del trauma [23].
Chance ed Abyaz sembra abbiano sviluppato modalità reattive e compensative alle proprie esperienze traumatiche con temperature diverse: per Chance l’emozione è qualcosa di freddo, che ferma ogni cosa: il pensiero, i sentimenti e persino i movimenti del corpo. Le idee in quel momento subiscono un blocco funzionale mirato a conservare la propria incolumità. Per Abyaz la temperatura delle emozioni è decisamente più elevata: sprigiona energia calda, il cuore gli batte sempre forte, suda, si tira su le maniche tanto da non mettere mai il giubbotto. Per lui l’emozione è qualcosa di caldo: pensieri e sentimenti vanno alla stessa velocità del corpo, corrono veloci e spesso senza logica, dal passato al presente, in un miscuglio confusivo.
Ad uno degli ultimi incontri la bambina rivela di sentirsi per questo simile alla mamma di fronte alle situazioni difficili, in cui si prova timore, paura, o anche solo preoccupazione. “Anche mamma parla poco delle sue emozioni: è chiusa e spesso facciamo fatica a capire cosa pensa”. Chance inizia a trovare elementi identificativi con mamma Claudia, in seguito ad un grosso lavoro sulla diversità come risorsa, e dopo aver scoperto tratti importanti di differenziazione dal fratello: gli interessi diversi, la discreta differenza di età, il diverso temperamento, ed in ultimo, ma non in ordine di importanza, il fatto di aver scoperto di non essere fratelli di sangue e quindi di avere in parte una storia familiare diversa. Potersi differenziare da Abyaz le ha permesso di entrare più in contatto con i genitori, in particolare la mamma. Una vicinanza non solo legata alle affinità caratteriali, ma anche per gli aspetti emotivi e relazionali che la bambina sembra iniziare a trasferire ed investire sulla nuova figura materna. Alcuni vissuti emotivi ed esperienze relazionali che hanno caratterizzato l’infanzia della bambina (il vuoto affettivo, il senso di solitudine) si legano molto anche ai vissuti di Claudia, e sembrano avviarsi ad un processo di riparazione con l’instaurarsi del nuovo legame materno [24]. Una specularità che Chance rappresenta con il disegno di una farfalla: “Io e mamma siamo le due ali e insieme possiamo volare”.
Anche Claudia, sommersa da quei modelli transgenerazionali, in un circuito ricorsivo in cui non esisteva possibilità di modificazione, si trova oggi a mettere in discussione quegli schemi, a non riprodurli secondo una coazione a ripetere, ma ad avviarli verso un processo di riconoscimento, di consapevolezza, differenziazione e disponibilità verso un’evoluzione. Nel continuum dell’esperienza trasformativa dei modelli transgenerazionali si inseriscono anche Abyaz e Valerio. Il bambino disegna spesso il papà (mozzarella) che lo prende per mano. Una bellissima immagine dell’affettività nella diversità. Abyaz inizia ad avere pensieri più fermi, a sostare nelle emozioni che prova di volta in volta, e ad accoglierli con più tranquillità, sostenuto e protetto dal padre su cui ora va sempre in braccio soprattutto quando elaboriamo insieme i nuovi significati e mettiamo in circolo tutte le emozioni. Abyaz ha possibilità di fare tante domande, per le cui risposte non è importante tanto il cosa ma il come: “Ma se io non sono fratello di Chancy allora chi è il mio papà?”. Valerio lo abbraccia teneramente e dice: “Abbiamo chiesto ma non lo sappiamo, purtroppo. Per noi la cosa più importante è la tua felicità e la felicità della nostra famiglia”. E il figlio scivola beatamente avvolto nell’abbraccio.
IL RECUPERO DELLA PATERNITÀ
In uno degli ultimi incontri del percorso la famiglia arriva con una brutta notizia. Pochi giorni prima è deceduto il padre di Valerio, a causa di un problema cardiaco. Un evento improvviso e funesto, che la famiglia vive come un duro colpo. I bambini sono in religioso silenzio e noto la surreale tranquillità di Abyaz che garbatamente prende un foglio per fare un disegno.
Per la prima volta realizza un contesto organizzato. Il cielo, il prato, un grande sole ed un albero. Al centro disegna se stesso che prende per mano il papà del Congo. Il padre naturale è stato ucciso con un colpo di pistola alla gamba sul fronte quando lui aveva pochi mesi, e per questo il piccolo è stato allontanato dalla famiglia. È un disegno con tanti colori, che trasmette serenità. Il padre naturale chiaramente con la pelle nera e se stesso invece più caucasico. Vuole immaginare così suo padre che non ha mai conosciuto. Un ricongiungimento immaginario, che permette di sanare lo strappo originario dalle sue radici. Il diverso colore della pelle sottolinea allo stesso tempo la consapevolezza, oggi, di appartenere ad un altrove, ad un’altra famiglia.
Questo recupero della relazione interna con il padre ci appare significativo non solo come sostegno in relazione al momento di lutto che sta vivendo l’intero nucleo familiare, ma soprattutto per l’elemento di continuità che rappresenta la sua relazione con il padre naturale, la relazione con il papà Valerio e la relazione di Valerio con il padre appena venuto a mancare. Emerge chiaramente un significato trigenerazionale del legame paterno e della relazione padre-figlio, in continuità storica tra tutte le figure maschili significative di Abyaz. Un nuovo processo di identificazione che sembra possibile grazie alla condivisione di vissuti emotivi importanti. La prematura perdita del nonno gli permette di mettersi in contatto con il vissuto emotivo del padre e di immedesimarsi nella sua stessa condizione di lutto. Infatti nel disegno successivo rappresenta due aquile, padre e figlio che si comunicano di volersi bene.
Il figlio empatizza con il papà sul sentimento di tristezza e del vissuto di perdita della figura paterna. “Papà ti capisco perché da quando non c’è più nonno ti senti perso, perché anche io avevo nonno morto”. E tra loro mette un grande cuore rosso.
I PROCESSI SIMBOLICI
Intuitivamente i processi simbolici sembrano essere importanti nel recupero da un trauma poiché i bambini, specialmente quelli in età prescolare e scolare a cui piacciono le favole, sono al culmine del gioco simbolico e comunicano con più facilità attraverso rappresentazioni grafiche di animali e figure di fantasia. Inoltre, questi pensieri simbolici e metaforici non terminano durante il periodo dell’infanzia, diventano latenti per un po’ di tempo e possono formare un contesto di esperienze psicologiche più grande durante l’adolescenza e nell’età adulta [25]. L’esposizione al trauma rende i processi simbolici particolarmente vulnerabili nei bambini piccoli e in età prescolare. Normalmente questi processi, quando rimangono intatti o funzionali, proteggono la salute mentale del bambino da un impatto negativo del trauma [26]. Ad esempio il gioco traumatizzato ha qualità distinte, come l’inflessibilità, i rituali, un’atmosfera di minaccia e temi ripetitivi legati al trauma che mancano di tematiche di repertorio, cambiamenti, sfumature e repertori di espressioni emotive. Hanno comunque un valore protettivo per il bambino. Per diverso tempo Abyaz mette in scena, con il gioco dei legnetti, una situazione emotivamente pregnante che rappresentava una fra le sue esperienze più significative in Congo: la vista degli uomini morti durante le guerriglie.
Nei giorni in cui è particolarmente agitato o pensieroso prende i legnetti e costruisce un cumulo di macerie che sovrastano i corpi degli uomini morti. Non ci sono persone che interagiscono in questo gioco. Spiega che si può solo intuire il fatto che delle persone siano state uccise e sotterrate sotto una grande catasta di legname, foglie e quant’altro. In questi momenti Abyaz appare molto distaccato, non abbina un’emozione congruente e la riproduce alla stregua di un fatto di cronaca. Chance invece non ha attivato alcun gioco ripetitivo. Ricorrono invece temi ripetitivi nei disegni con cui esprime i suoi bisogni di protezione e di rafforzare il legame materno.
IL DISEGNO CONGIUNTO
Un aspetto rilevante degli interventi di terapia familiare con i bambini traumatizzati è l’incoraggiamento a disegnare i propri ricordi, dolorosi, e riportarli alla mente in giochi simbolici, storie metaforiche e fiabe; riproporre i propri incubi in condizioni terapeutiche e sicure [27].
I processi simbolici dei bambini funzionano come una sorta di pratica di auto-guarigione. Con la famiglia G. non è servito incoraggiarli. I bambini hanno prodotto tantissimo materiale in qualità di disegni e di oggettistica con il cartoncino. Abyaz per diversi incontri realizzava solo armi, poi man mano è passato a rappresentarle graficamente ed infine ha modificato sia lo stile sia i contenuti emotivi delle sue rappresentazioni. Chance inizialmente disegnava solo suore, figure con cuori e arcobaleni. Solo all’ultimo incontro realizza il disegno in cui dice di rispecchiarsi nella sua nuova mamma “in fondo siamo simili”. Quando con la famiglia abbiamo lavorato attraverso il disegno congiunto è stato un momento emotivamente importante. Questo strumento grafico-interattivo ha permesso di mettere in luce aspetti importanti delle interazioni e delle relazioni familiari, a partire dalle loro fantasie e rappresentazioni mentali sul loro essere famiglia. Senza un preciso accordo, anzi in forma quasi istintiva, decidono di rappresentarsi come uno tsunami che arriva in Italia e sovrasta la città di Latina. Uno tsunami rappresentato dalla potenza dell’acqua che travolge, dall’energia che cambia le cose (un vortice) ed infine da un fiore che porta bellezza, tenerezza e positività. A prendere l’iniziativa è stato Valerio, velocemente supportato da Abyaz e a seguire Chance e la mamma. In questa occasione ciascuno ha deciso di immettere un elemento: Abyaz pensa di disegnare il mare grosso, Valerio si dedica a raffigurare la città, mentre Claudia immagina e riproduce il grande vortice che si abbatte sulla costa e Chance il fiore che lo accompagna. La mamma sembra aver guadagnato più spazio nella relazione con i figli, anche se il papà resta l’elemento centrale per il conforto e la rassicurazione dei bambini. Sono i bambini che cercano di tirare dentro Claudia nell’attività. Adesso sembra le faccia più che piacere, si avverte una certa gratificazione nel volto, che fino a questi ultimi incontri di terapia non riusciva a trasmettere. Claudia inizia ad avere slanci più naturali con i bambini, li accarezza in volto e li tira a sé per abbracciarli. Mentre disegnano si guardano a vicenda e commentano il modo di disegnare dell’altro: Abyaz prende in giro il padre ridendo forte mentre rassicura la mamma che sta facendo un tornado fantastico, “da paura!”. Chance sorride in silenzio ma qualche volta le scappa una risata più forte e si copre la bocca per vergogna. Valerio ne è felice e allora la avvicina a sé per farle il solletico e chiedendole di ridere ancora perché “Sei bellissima quando ridi, cucciola”. Abyaz mostra un’inaspettata capacità autocritica: “Il mio mare è un mare in tempesta, è spaventoso perché c’è tantissima acqua, e arriva all’improvviso e copre tutto. Però l’acqua se la sai prendere è la cosa più importante, perché ci dà la vita, ci disseta e ci fa stare bene”.
Attraverso il disegno e la rinarrazione della loro storia d’origine, tutta la famiglia ha iniziato a riconoscersi nella propria unicità e nelle differenze che hanno caratterizzato il passato. Il recupero di tanti tasselli ha permesso di iniziare a dare un significato nuovo alla propria storia d’origine e ad aprire la strada verso la risposta ad alcuni dei quesiti insoluti e ad emozioni bloccate [28].
Quando chiedo come mai hanno scelto questo disegno per descriversi, i bambini lanciano un input molto chiaro ai genitori, chiedendo loro di parlare di cosa è successo quel giorno all’aeroporto.
Claudia e Valerio restano in silenzio per qualche istante e poi tra l’incredulità e la paura raccontano che il giorno in cui stavano per imbarcarsi sul volo per l’Italia, all’aeroporto di Kinshasa accadde un fatto molto inquietante, di cui hanno preferito non parlare più da allora. Le guardie armate sequestrarono i loro passaporti e li lasciarono bloccati per ore in una stanza per essere approfonditamente controllati. Arrivarono a sospettare che i bambini fossero stati sequestrati e quindi non regolarmente adottati come i documenti attestavano. Chance e Abyaz iniziarono a piangere e temevano che qualcosa di brutto potesse accadere loro. Non riuscivano più a capire di chi potessero fidarsi in quei momenti, e diventarono muti per intere ore. Una volta risolta la situazione partirono e continuarono a restare nel loro mutismo finché non arrivarono nella nuova casa a Latina. Fu per loro uno stravolgimento, un tornado di emozioni che si affastellavano, e non riuscivano a placare.
Tutte le loro paure, i loro drammi del passato si sono manifestati in tutta la loro potenza, e si sono abbattuti sulla nuova realtà con grande violenza, proprio come quel mare, grosso rumoroso e pauroso.
Gli ultimi incontri di terapia si caratterizzano per il gioco condiviso. Mamma e papà giocano con i figli. Scelgono attività, giochi da tavolo, ma anche argomenti con cui “giocare” prendersi in giro ed ironizzare, in un clima protetto leggero e divertente. Si scambiano di posto e mostrano sempre meno rigidità nelle loro postazioni iniziali. Questa maggior fluidità permette a mamma e papà negli ultimi due incontri di sedersi vicini e mostrare un contatto più intimo, caldo, con l’opportunità di gestire insieme alcuni comportamenti di Abyaz, ad essere più accoglienti e protettivi, ma al tempo stesso fiduciosi nelle iniziative del figlio. Sembrano più una squadra, e questo sembra avere un effetto più positivo per i bambini, che accettano maggiormente le loro richieste. Abyaz d’altra parte non esprime quei comportamenti di 8 mesi fa, così furenti ed esplosivi. Si sono ridotti notevolmente in frequenza e in intensità. Anche a scuola le cose sembrano andare meglio: accetta maggiormente le richieste dell’adulto, e dimostra un maggior autocontrollo dei suoi comportamenti. Quando gli succede cerca di autoregolarsi e chiede scusa. Chance sente meno la necessità di dover controllare il fratello e sembra assumere via via un atteggiamento più rilassato, si esprime con più scioltezza e anche il tono dell’eloquio sembra meno “meccanico” e più “emotivo”. La notte non fa più gli incubi e con la mamma sono aumentati gli spazi di condivisione delle esperienze: escono spesso, fanno shopping, preparano i dolci. Abyaz ha da poco iniziato un corso di Hip Pop e mentre mi fa vedere alcuni passi che richiedono una certa agilità, mi rendo conto che non solo è davvero portato per questo ballo, ma che riesce a liberare tanta energia (le paure recondite, la rabbia, le insicurezze) e a trasmettere la propria interiorità in modo più funzionale, a canalizzarla in modo più soddisfacente e positivo.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Tutta la famiglia sembra aver scoperto per la prima volta spazi di condivisione importanti, sia delle proprie esperienze che hanno segnato la propria vita passata, sia della vita emozionale attuale.
La coppia ha ritrovato nuovi spazi, grazie anche ai momenti in cui i nonni trascorrono più tempo con i bambini, e loro possono dedicarsi al recupero della coppia non solo genitoriale.
Sono aumentate le occasioni in cui tutta la famiglia si sente pronta ad affrontare “l’esterno” che prima sembrava difficile da gestire a causa dei limiti comportamentali di Abyaz e di deambulazione di Chance. Adesso molte barriere sono state superate, sebbene rimanga lo spettro dell’essere diversi, di vivere un’altra normalità, di non essere accettati, o persino abbandonati. Chiudiamo la terapia con l’idea che ogni famiglia ha una propria normalità, fatta di abitudini e di caratteristiche personali e familiari. Anche se lo spettro dell’abbandono li accompagnerà per gran parte della loro vita, prevarrà il desiderio di esorcizzare tale vissuto abbandonico, attraverso scelte di vita che vanno nella direzione di un continuo tentativo di rafforzare il senso di appartenenza al nuovo sistema familiare.
Con la famiglia è stato cruciale recuperare insieme un antico concetto della tradizione culturale sub-sahariana per dare maggior continuità storica ai bambini e per rafforzare il senso della genitorialità di Valerio e Claudia. Il semplice concetto di ubuntu (il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri) definisce molte cose:
• il legame universale fra le persone basato sullo scambio e il riconoscimento dell’altro come persona;
• i ruoli sociali all’interno di una famiglia, di un villaggio e di una comunità;
• il soprannome di una persona come l’elemento che dà più dignità alla persona stessa, per il significato e il valore emotivo di cui è investito;
• nel villaggio non esistono bambini veramente orfani, perché non ci sono figli di sangue, ma solo figli della comunità e di un legame più universale.
Crescere con questa immagine vuol dire arrivare a possedere un’identità nel momento in cui l’altro ci vede, ci rispetta e ci riconosce come persona e crede nelle nostre capacità.
Se per un intero paese quei bambini erano visti come stregoni, nella loro Innocenza hanno trovato l’Opportunità di scoprire un nuovo mondo, un mondo che riesce a vederli come li vedevano le suore del villaggio, come gli angeli di Kinshasa.

Negli archivi del Ministero della Giustizia i ragazzini adottati sono nomi e cognomi senza un passato. Numeri con un’etichetta, materiale indistinto buono per le statistiche ma di scarsa utilità per capire da dove vengono, quali traumi hanno subito, che lingua parlano, se sono figli di mafiosi o di combattenti sudanesi, perché una cicatrice profonda segna loro un ginocchio, se sono geni della fisica o incapaci di sorridere, se sono calmi o aggressivi.
Non esiste una banca dati nazionale che li riguardi, che parli di loro come persone, anche se una legge di quindici anni fa (L.149 del 2001) l’ha inutilmente prevista. Il senso di quello che sono è custodito all’interno dei faldoni raccolti nel Tribunale per i minori che, assieme ai servizi sociali, alla Commissione per le adozioni Internazionali (CAI) e agli enti autorizzati, costituisce la rete di fili invisibili nata per impedire a questi bambini di finire in un abisso fatto di niente. In questa giungla aggrovigliata di liane, vederne l’origine e il finale è mero lavoro di utopia. Il senso, quello più profondo di quello che sono, vive e nidifica all’interno della nuova famiglia; due genitori che hanno avuto il coraggio di mettersi in ginocchio, abbassarsi per guardare meglio questi figli venuti da lontano, con l’obiettivo di accorciare lontananze insanabili, fino a scoprire che le differenze tanto scongiurate diverranno anche i loro più grandi punti di forza.

Umuntu Ngumuntu Ngabantu.
(“Una persona è persona attraverso gli occhi di un’altra”) 
Antico detto africano
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