L’effetto boomerang nel lavoro tra il Centro di Terapia Familiare e gli operatori del Servizio pubblico: tra vincoli e possibilità

Maria Antonietta Gulino1, Giulia Biagini2, Arianna Borsacchi2,
Eleonora Ceccarelli
2, Camilla Copetta2, Giulia Frateschi2, Carlotta Kunz2,
Federica Mangia
2, Maria Lourdes Reboledo2, Francesco Serafino2,
Rosarina Ventura Costa
2



Particolarmente dedicato ai medici e agli operatori della salute, l’articolo col­locato in questa sezione risponde a una domanda fondamentale sulla possibilità di utilizzare, fuori dal campo in cui esso nasce, il sapere che origina dal lavoro degli psicoterapeuti.


Especially adressed to practitioners and other health specialists, the article placed in this section answers to the main question on the possibility to make use of the knowledge resulting from the work of psychoterapists outside the field in which it is born.


Dedicado especialmente a los médicos y demás profesionales de la salud, el artículo presentado en esta sección responde al tema fundamental sobre la posibilidad de utilizar los conocimientos derivados del trabajo de los psicoterapeutas fuera de su campo original.



«Se una comunità tiene ai suoi bambini deve proteggere i suoi genitori».
John Bowlby
«Una vita sociale sana si trova soltanto quando nello specchio di ogni anima la comunità
intera trova il suo riflesso e quando nella comunità intera le virtù di ognuno vivono».
Rudolf Steiner



Riassunto. Questo articolo riprende l’immagine del boomerang per un approfondimento sul lavoro di rete tra il Centro di Terapia Familiare e gli operatori del Servizio pubblico, mettendone in evidenza i vincoli e le possibilità. I vincoli sono quelli relativi alle diverse azioni sanitarie, sociali, educative e psicoterapeutiche che perseguono obiettivi diversi nella logica delle diverse professionalità in campo; le possibilità sono quelle relative ad un modo di operare in rete che sia “integrato” e cioè circolare e reciproco tra le varie figure e tra i vari interventi. La questione complessa che affronteremo in questo articolo è valutare quanto questa sinergia di interventi terapeutici, farmacologici, sociali ed educativi possa essere ridondante rispetto all’utente, alle sue premesse e ai suoi modelli relazionali o quanto invece possa creare differenze e quindi evoluzione e cambiamento, il tutto nel rispetto dei diversi ruoli professionali pubblici e privati coinvolti (neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, educatori, psicologi e psicoterapeuti sistemici). L’articolo propone una serie di casi clinici che hanno come protagonisti famiglie con figli adolescenti per i sintomi di questi ultimi, arrivate al Centro Studi di Prato su invio del Servizio di Neuropsichiatria Infantile.

Parole chiave. Boomerang, lavoro di rete, servizio pubblico, intervento integrato.


Summary. The boomerang effect between Family Therapy Centers and legal public practitioners: constraints and possibilities.
This article deals with the boomerang effect surrounding the work between Family Therapy Centers and legal public practitioners, putting into focus the constraints and possibilities. The constraints vary from health methods, social, educational and psychotherapeutic actions, which are then pursed by educated professionals in the field. The possibility is to create an “integrated”, i.e. circular and reciprocal, network among the different figures involved and the various interventions. The complex question that will be addressed is how to evaluate the synergy of therapeutic, pharmacological, social and educational interventions, without being redundant to the patient. By doing so, we can further develop relational methods in creating differences, turning them into changes, in all respect of legal public and private practitioners involved (child psychiatrists, social workers, educators, psychologists and psychotherapists). The article proposes a series of case reports regarding families with their children and teenagers referred from child neurology services to the Study Center of Prato.

Key words. Boomerang, networking, public service, integrated intervention.
Resumen. La imagen del boomerang en el intercambio entre el Centro de Terapia Familiar y los operadores del Servicio Público: la vinculación y el potencial.
Este trabajo usa la imagen del boomerang para ilustrar la labor de red y de intercambio entre el Centro de Terapia Familiar y los operadores del Servicio Público, subrayando la vinculación y el potencial. Los factores de vinculación residen en las diversas acciones sanitarias, sociales, educativas y psicoterapéuticas que miran a objetivos diversos dependiendo del campo profesional activado; los factores de potencialidad son los relacionados con una manera de trabajar en línea que sea “integrativa e integradora”, es decir circular y recíproca entre las figuras mismas y entre las diferentes intervenciones. La compleja cuestión que afrontaremos en nuestro artículo es la de evaluar cuánto esta sinergia de intervenciones terapéuticas, farmacológicas, sociales y educativas pueda ser excesiva con respecto al usuario, a sus necesidades y a sus modelos relacionales o cuánto, en cambio, pueda crear comportamientos diferentes y en consecuencia evolución y transformaciones, todo ello respetando las diferentes figuras profesionales públicas y privadas implicadas (neuropsiquiatras infantiles, asistentes sociales, educadores, psicólogos y psicoterapeutas sistémicos). El artículo propone una serie de casos clínicos que tienen como protagonistas familias con hijos adolescentes que recurren al Centro de Estudios de Prato para tratar los síntomas de estos chicos, tras haber pasado por el servicio público de Neuropsiquiatría Infantil.

Palabras clave. Boomerang, labor de red, servicio pùblico, intervencion integradora.
INTRODUZIONE
L’immagine del boomerang viene solitamente associata a quella di un maldestro lanciatore che viene colpito dal proprio boomerang che lo raggiunge nei modi più improbabili nonostante i suoi tentativi di fuga; in realtà se lanciato correttamente e se non incontra ostacoli torna precisamente alla persona da cui è partito. Questo strumento traccia la sua traiettoria attraverso variabili aerodinamiche e varie condizioni climatiche, è quindi uno strumento infido, che richiede al lanciatore una buona dose di rischio, tempismo e perizia. Spesso infatti si parla di “effetto boomerang” per riferirsi ad un’azione che si ritorce contro chi l’ha promossa.
In questo articolo usiamo la metafora del boomerang per rappresentare ed approfondire il lavoro di rete tra il Centro Studi di Applicazione della Psicologia Relazionale (CSAPR) e gli operatori del Servizio di Neuropsichiatria Infantile della ASL di Firenze e per metterne in evidenza i vincoli e le possibilità. I vincoli sono quelli relativi alle diverse strategie sanitarie, sociali, educative e psicoterapeutiche che perseguono obiettivi diversi nella logica delle diverse professionalità in campo e dei diversi contesti di azione. Le possibilità sono quelle relative ad un modo di operare in rete tra le varie figure professionali coinvolte che sia più efficiente e più economico anche dal punto di vista della spesa sanitaria.
In linea con quanto Morin dice «...non è soltanto l’idea di inter- e di transdisciplinarietà; dobbiamo ‘ecologizzare’ le discipline, cioè tener conto di tutto ciò che vi è di contestuale, ivi comprese le condizioni culturali e sociali, cioè dobbiamo vedere in quale ambiente nascono, pongono problemi, si sclerotizzano, si metamorfosano. Occorre anche un punto di vista metadisciplinare, dove il termine ‘meta’ significa superare e conservare» [1].
Abbiamo seguito otto famiglie con figli problematici, prevalentemente adolescenti, arrivate al nostro Centro su invio del Servizio di Neuropsichiatria Infantile (NPI) dal 2013 al 2015. Questa collaborazione ha avuto due obiettivi specifici e consecutivi: il primo, mettere “in rete” conoscenze, informazioni, competenze professionali, dubbi e riflessioni per creare uno scambio professionale tra gli operatori tenendo sempre a mente la domanda: “Che interessi hanno o potrebbero avere gli altri attori a collaborare con noi?”; il secondo, “creare una rete” di condivisione di contenuti e di problematiche, di analisi dei rischi, di valutazione di possibilità per avere una definizione comune del problema, tenendo a mente la domanda “Stiamo guardando alla stessa situazione clinica problematica seppure con occhi diversi?”.
Non dobbiamo confondere la definizione del problema con le strategie molteplici di intervento: esistono molti fattori in gioco e altrettanti modi di percepire i fenomeni; ma è altrettanto vero affermare che quando la visione del problema si allarga è più probabile avvicinarsi ad una concertazione di interventi per realizzare intese anche parziali sui significati intorno allo stesso “problema”.
Lavorare con queste famiglie obbliga a riflettere sul contesto nel quale ci si muove, inteso come contesto di apprendimento sociale e culturale: l’offerta terapeutica si inserisce sempre sia nella storia della famiglia sia nella storia delle relazioni tra la famiglia e i Servizi.
Quando un paziente richiede personalmente e privatamente un aiuto psicoterapeutico è orientato nella scelta dalla competenza del terapeuta, dai consigli di un amico, dalle indicazioni di eventuali invianti e il terapeuta a sua volta valuta se esistano le condizioni necessarie e sufficienti per una psicoterapia.
Se la richiesta arriva dai Servizi Pubblici la domanda di aiuto è varia, a volte coatta e spesso con carattere di “ultima spiaggia” e si inserisce in un’organizzazione articolata, già esistente e con una storia di rapporti fra utente e Servizi che poi diventerà tra utente, terapeuta familiare e Servizi [2].
Diventa determinante l’analisi della domanda di questi invii: spesso infatti il focus di attenzione dei Servizi e della famiglia è il “sintomo/problema” e la logica sottostante intende la patologia come emergenza e l’aiuto come risposta immediata, molto spesso solo assistenziale, a stati oggettivi di bisogno. La scarsità crescente di risorse delle strutture sanitarie (mancanza di personale o di alcune professionalità, carenza di strutture e strumentazioni, scarsa disponibilità economica) può contribuire a creare una maggiore disponibilità a “mettersi in rete” per ottimizzare le risorse e raggiungere gli obiettivi più velocemente con un risparmio anche di spesa economica.
Questa sana tendenza alla “concertazione sinergica” di interventi altrettanto spesso si scontra con una tendenza omeostatica all’inerzia, connotata negativamente come resistenza al cambiamento e quindi operativamente come mantenimento di status quo e assistenzialismo.
È necessario prima di ogni altra cosa modificare le premesse su cui si fonda l’invio ovvero spostare l’attenzione dal “sintomo/problema” a ciò che lo sottende, cioè dinamiche familiari dolorosamente bloccate e/o disfunzionali. Nonostante certe dinamiche familiari vengano intuite e percepite, accade di frequente che i professionisti dei Servizi siano poco abituati a riflettere in termini circolari e sistemici. La condivisione in équipe delle dinamiche familiari è stato uno degli aspetti più importanti del nostro “mettere in rete” l’epistemologia relazionale, aggirando il rischio di “rincorrere” le dinamiche sintomatiche, colludendo col contesto che le aveva prodotte.
Proponendo alla famiglia inviata dalla NPI una definizione nuova e alternativa del problema, condivisa con tutti gli operatori pubblici coinvolti, diventa terapeutica la relazione stessa coi Servizi. Se dovessimo immaginare il lavoro psicoterapeutico familiare in rete con i Servizi come un quadro, potremmo affermare che la cornice è determinata dallo scambio tra gli operatori intorno ad una nuova definizione del problema e il quadro al suo interno è dato da una famiglia problematica che si muove nella stanza di terapia verso una nuova speranza di cambiamento, connessa appunto ad un problema letto in un modo differente.
Dunque la famiglia è il “sistema di relazioni primario”, le sue relazioni con il complesso sistema di cura sono il “sistema di relazioni secondario” e la circolarità tra tutti questi interagenti ai fini di una prognosi favorevole è il “sistema di relazioni terziario”.
«Persone coinvolte da anni in una situazione dolorosa non hanno una buona immagine di sé, ed è proprio questo il segreto che cercano così disperatamente di nascondere. Ricordare ciò significa indirizzare la terapia non già verso la sottolineatura di qualcosa che la famiglia già sa (niente funziona, abbiamo oggi come ieri cattivi rapporti), ma verso la riscoperta di quelle parti del Sé migliori, sacrificate e dimenticate da una situazione interpersonale che non ne evidenzia la presenza» [3].
Chi sono questi terapeuti familiari? Che facciamo qui, cosa vogliono da noi? Ovvero la costruzione della relazione con le famiglie: imparare insieme a tirare il boomerang
La domanda di terapia che viene da queste famiglie non è quasi mai spontanea ma richiesta o “forzatamente suggerita” dai Servizi socio-sanitari. In alcune situazioni l’invio è vissuto come “imposizione”, in altre come una confusa opportunità o come ultima possibilità.
Alcune famiglie hanno percepito da subito la “novità” della terapia familiare come un’opportunità, producendo osservazioni pertinenti e mostrando crescente motivazione, risorse queste che non emergevano dalla loro storia ufficiale di delega pressoché totale ai Servizi con conseguente ricerca di assistenzialismo. In alcuni casi l’approccio di queste famiglie alla terapia sistemico-relazionale è stato difensivo: i terapeuti sono percepiti come gli ennesimi indagatori, come “l’ultima spiaggia”, come scomodi “detriangolatori” dalle dinamiche istituzionali/familiari o ancora come “districatori” di interventi vari e spesso inconcludenti protratti negli anni. In questi casi è capitato di ricevere richieste di alleanza contro i Servizi sia esplicite che implicite.
C’era sempre una storia preesistente, che precedeva l’intervento di terapia familiare: quella del funzionamento dei Servizi e dei loro progetti di cura.
“Mettere in rete” è il primo passo per creare un contesto multisistemico di collaborazione terapeutica coi Servizi, per avviare un modo di lavorare che permetta al progetto di cura di essere alternativo alle dinamiche disfunzionali e dunque evolutivo. In questo modo si possono limitare i rischi di maltrattamento istituzionale riscontrati nel trattamento delle famiglie multiproblematiche [4]. Il confronto coi Servizi non è stato solo uno scambio di idee, osservazioni, suggerimenti strategici e proposte di intervento, ma anche di vissuti, di emozioni, di sensibilità e tensioni terapeutiche. In situazioni cliniche drammatiche o gravemente in stallo, come nel caso delle famiglie multiproblematiche, è determinante costruire una relazione terapeutica che sfondi quella diffidenza di base spesso creata dalle precedenti prese in carico e causa di difese rigide e vissuti di colpa.
È così che i pazienti sono arrivati nella stanza di terapia del nostro Centro Studi: guardinghi, offesi, resistenti, sospettosi, pronti a difendere il senso di un’unità familiare che altrove è stata messa in dubbio e che spesso è l’unico valore che vorrebbero conservare, l’unico bene-risorsa su cui continuare a scommettere, anche usando linguaggi incomprensibili agli operatori sanitari e dannosi per i propri familiari. Per istruire le famiglie a lanciare insieme il proprio boomerang è stato necessario sostituire il rapporto di cura al rapporto di potere per sbloccare quelle situazioni di stallo e di braccio di ferro tra famiglia e sistema curante che arrestano ogni forma di cambiamento alimentando il disagio.
Per costruire un percorso terapeutico integrato [5] è fondamentale pretendere che ogni modifica apportata al progetto di salute a cui afferiscono i vari operatori debba essere pensata, compresa e poi metabolizzata nella “pancia” della famiglia: se un intervento del Tribunale, dietro richiesta di un assistente sociale, della Scuola, o altro, viene imposto alla famiglia, agito a volte con violenta determinazione, questo sarà con ogni probabilità rigettato dall’interno dell’organismo familiare perché non riconosciuto come un pezzo di sé, non elaborato al suo interno, determinando un consolidamento della patologia, un irrigidimento relazionale verso i curanti e l’ennesima conferma della cronicità.
Nel suo ultimo lavoro Linares [4] afferma: «Il maltrattamento istituzionale è un pericolo che è in agguato su vari fronti. Per far sì che non si produca è necessario che le diverse istituzioni coincidano nella sensibilità terapeutica, mentre basta che una sola istituzione non partecipi per far sì che il lavoro sensato delle altre possa essere seriamente compromesso. Per questo è davvero importante che le direttive terapeutiche e non solo quelle controllanti derivino dalle istanze politiche responsabili della lotta contro il maltrattamento».
METODOLOGIA
Abbiamo proceduto alla costruzione di un percorso integrato attraverso alcuni passaggi consecutivi:
1) viene chiarito sin da subito con le famiglie e con i Servizi il ruolo della terapia familiare (sistemico-relazionale): la presa in carico avviene dopo il contatto con l’inviante, durante il quale viene richiesta una breve anamnesi telefonica. Si informano sia i Servizi che gli utenti delle modalità di conduzione del percorso terapeutico familiare (fase di valutazione del problema, circa 3 sedute, fase centrale di approfondimento, di ipotizzazione e di intervento mirato per ridurre o addirittura eliminare le disfunzioni che hanno creato il disagio, fase conclusiva dove si tirano le fila della terapia e follow-up, per un totale di sedute che oscilla tra le 10 e le 15, distribuite nell’arco di 1 o 2 anni);
2) nelle varie fasi della terapia familiare vengono attivati con una certa regolarità la comunicazione, lo scambio e il confronto con tutti i professionisti dei Servizi coinvolti al fine di procedere alla concertazione sinergica a cui si è accennato precedentemente. Telefonate, mail, riunioni di équipe hanno segnato di volta in volta passaggi importanti di comprensione e di cambiamento di ciascun operatore verso la famiglia. Abbiamo preferito fare le riunioni di équipe, previo accordo con i neuropsichiatri infantili, presso i locali della NPI, concretamente per ovvie ragioni logistiche di spostamento e simbolicamente per lasciare che gli spazi della terapia familiare fossero vicini con la nostra presenza ma anche lontani e distinti, per demarcare più chiaramente i confini di intervento. Le riunioni di équipe vengono richieste da noi psicoterapeuti del Centro Studi con l’intento di fare il punto della situazione e dai neuro­psichiatri solitamente quando c’è una recidiva o un aumento di tensione a scuola, ai Centri Diurni, nell’ambulatorio del neuropsichiatra. Alle riunioni solitamente sono invitati tutti gli operatori che seguono il caso: neuropsichiatri, assistenti sociali, educatori dei Centri Diurni, psicologi, psicoterapeuti. Gli obiettivi delle riunioni ruotano intorno a queste domande:
– Ci sono ostacoli e quali sono quelli che producono divergenze tra gli operatori e tra gli operatori e la famiglia?
– Secondo i diversi punti di vista, il progetto di cura si sta avvicinando agli obiettivi prefissati?
– Quali operatori si trovano in difficoltà e perché?
– Quali aspetti del progetto di cura si stanno rivelando più utili e quali meno?
– Quali cambiamenti si stanno verificando nel bambino/adolescente problematico, quali nella sua famiglia e quali tra i sistemi curanti coinvolti?
3) Abbiamo fatto un monitoraggio delle famiglie attraverso lo SCORE 15 e in particolare abbiamo analizzato il livello di gradimento/benessere percepito dalla famiglia all’inizio, a metà percorso e a fine terapia. L’uso dello SCORE ci ha consentito di verificare i risultati dell’approccio integrato pur considerando le differenze caso per caso.
LA FAMIGLIA ARCOBALENO
Quando non si sa dove e come lanciare il boomerang: i rischi di un lancio inesperto e senza obiettivi
• Inquadramento diagnostico riferito: disturbo del comportamento con tratti psicotici di Giovanni (7 anni); disturbi di tipo depressivo di Francesco (15 anni).
• Fase del ciclo vitale della famiglia: crescita ed emancipazione dei figli (individuazione e svincolo).
• Numero sedute di terapia familiare: 14.

Il caso della famiglia Arcobaleno è stato il primo della collaborazione con il Servizio di Neuropsichiatria. A inviarli è direttamente la neuropsichiatra che motiva la richiesta di una terapia familiare con i grossi problemi insorti quando i Servizi decidono di allontanare un sotto-nucleo familiare dalla casa dei nonni materni. È in corso infatti la richiesta al Tribunale dei Minori di affidare tale sotto-nucleo ad una Casa Famiglia residenziale.
Il sotto-nucleo da allontanare è costituito da Stella e i suoi due figli minori, tra cui Giovanni. La grande famiglia Arcobaleno è composta dal nonno di 82 anni, la nonna coetanea, il secondogenito single di 40 anni (uomo d’oro tuttofare a cui la famiglia si appoggia da sempre, a cui sono andati falliti i due tentativi di svincolo fatti nel corso della sua vita), Stella di 34 anni insieme ai figli Giovanni di 7 anni e Susi di 5, separata da 2 anni e che ha sempre vissuto con la famiglia d’origine anche durante il matrimonio, e infine Serena di 36 anni, un genio della matematica ma inerme da un punto di vista pratico e relazionale, single anche lei. La primogenita Sonia di 44 anni è l’unica che ha realizzato uno svincolo anche se di compromesso: in una piccola casa poco distante da quella dei genitori vive col marito e i figli adolescenti Francesco e Giusi, che stanno la maggior parte del tempo a casa dei nonni.
Tutti parteciperanno alle sedute di terapia familiare per ribadire e sottolineare la natura geografico-spaziale caotica e invischiata di una famiglia dai confini labili all’interno e rigidi all’esterno, le cui gravi difficoltà si esprimono oggi con le problematiche di crescita della terza generazione. I motivi per cui questa famiglia è assistita dalla NPI e dai Servizi Sociali sono principalmente i sintomi dei cugini Giovanni (disturbi del comportamento con tratti psicotici) e Francesco (disturbi di tipo depressivo). Ci viene presentato il quadro di una famiglia multiproblematica con struttura patriarcale in cui è presente un “padre-nonno tiranno” e i cui membri, figli e nipoti, vivono tutti in una casa di 80 m 2.
Al momento dell’invio i rapporti tra NPI e famiglia sono molto tesi, ognuno è arroccato su posizioni opposte e si è interrotto ogni dialogo: da una parte la famiglia non si sente coinvolta nelle decisioni dei Servizi che sembrano arrivare dall’alto e sono vissuti come giudicanti, dall’altra la NPI si trova ormai da più di 2 anni ad aver avviato una serie di progetti di cura (psicoterapia del bambino, insieme a farmacoterapia, frequenza giornaliera a Centri diurni post-scuola, assistenza domiciliare) senza rilevare miglioramenti di sorta, fino ad arrivare alla richiesta “chirurgica” di allontanamento e solo da ultimo alla proposta della terapia familiare.
Il sentimento di unione familiare, ferreo e generatore di cortocircuiti omeostatici soprattutto a scapito della terza generazione, è visto dai Servizi come una minaccia, pertanto non viene riconosciuta alcuna risorsa interna alla famiglia. Per la famiglia Arcobaleno invece l’unione familiare è l’unico modo per proteggersi dall’esterno, vissuto come minaccia alla propria stabilità affettiva e organizzativa.
Il quadro problematico si presenta sotto forma di una palese e insolubile scissione, che produce una compromissione dell’intervento di cura: i Servizi Sociali, in qualità di “paladini della salute” si ergono a salvatori dei “piccoli” assumendo un atteggiamento espulsivo nei confronti dei “grandi”, soprattutto del patriarca che tiene il comando della famiglia e pertanto avviano anche pratiche di controllo e assistenza domiciliare che vengono puntualmente sabotate; la famiglia sente minacciata la sua sopravvivenza, si difende e boicotta ogni intervento.
Ritroviamo in questa dicotomica descrizione clinica i tre pregiudizi di cui parla Linares [4] quando approfondisce il tema del maltrattamento istituzionale:
1) il pregiudizio religioso: gli adulti di una famiglia non hanno coda o corna ma sono lo stesso pericolosi come mostri, per cui il binomio esorcizzazione/separazione è la conseguenza della satanizzazione del maltrattamento. L’idea di base è che l’unico modo per salvare il bambino maltrattato è separarlo dai genitori maltrattanti, che non meritano altro;
2) il pregiudizio politico: si basa sul binomio protezione della vittima/castigo del maltrattante e non considera il rischio per cui un intervento sul minore basato sulla repressione del genitore e sulla protezione della vittima espone quest’ultima alla minaccia più grande di essere parte di un gioco familiare disperato e senza fine. La repressione e la protezione spesso determinano i fallimenti terapeutici delle istituzioni;
3) il pregiudizio teorico: produce interventi terapeutici di controllo, poiché si fonda sull’ideologia ereditario-biologica dell’adulto maltrattante: un essere umano che maltratta assomiglia più a un felino che divora i suoi cuccioli piuttosto che proteggerli. Allora trattandolo come animale, le istituzioni si comportano di conseguenza e “si animalizzano”, dal momento che non riescono a sintonizzarsi con quelle risorse umane intrinseche che questo nutre, al fine di liberarle. Quindi l’uomo maltrattante viene trattato secondo il binomio classificare/addomesticare, appunto come si fa con le bestie e le istituzioni animalizzando il maltrattatore si animalizzano a loro volta.

Quando conosciamo gli Arcobaleno le posizioni opposte sono proprio queste: per i Servizi il bambino ha problemi psicologici a causa della convivenza nella famiglia patriarcale, dunque è necessario allontanarlo insieme alla mamma e alla sorellina, pena la sua incolumità fisica, psicologica e comportamentale. La NPI cerca nella terapia familiare del Centro Studi una lettura diagnostica e psicoterapeutica che condivida il suo punto di vista. Sembra tutto molto logico, perché la famiglia non capisce? Per la famiglia Giovanni non ha un problema proprio, glielo sta creando il sistema dei Servizi, soprattutto da quando gli hanno paventato la possibilità di un allontanamento, che il bambino dichiaratamente non vuole. La famiglia cerca alleati che certifichino la sua idea. Secondo questa logica, perché i Servizi si ostinano?
Il “terzo occhio” ovvero l’équipe del Centro Studi di Prato, quella terra di mezzo triangolata e contesa, vuole concedersi il dubbio, la possibilità di una lettura dei fenomeni patologici altra e più complessa, dove le dicotomie scompaiono di fronte a una lettura più semplice che ha come obiettivo di cura la conquista di maggior benessere da parte del bambino e del suo sistema di riferimento.
Il boomerang è lanciato da troppe mani, la direzione è confusa, incerta e può far male a qualcuno. Questi sono degli pseudo-lanci perché non si sa bene dove tirare e aumentano il rischio che il boomerang non ritorni senza creare ulteriori disagi. Il tentativo di uscire da questa guerra introduce la terapia familiare come terzo attore: una scommessa, un progetto, una conoscenza reciproca che porta a una collaborazione sempre più intensa. Bisognerà definire una cornice di intervento sistemica dove le due logiche dicotomiche e simmetriche non si annullino a vicenda ma trovino una collocazione plausibile.
Quando la terapia inizia ci si rende conto che l’esacerbazione conflittuale ha fatto sì che nessuno degli operatori coinvolti si accorgesse che quello che si “rimproverava” alla famiglia, ovvero il clima educativo caotico dato dalle troppe figure adulte conviventi, veniva riproposto in maniera speculare dagli stessi Servizi, che a loro volta attivavano tante figure professionali ed interventi per il più piccolo: educatore, comunità, psicologa, neuropsichiatra, tribunale, tutto questo si traduceva in una guerra simmetrica sul controllo dei minori. È quindi necessario all’inizio chiarire il ruolo della terapia familiare: non c’è bisogno di un giudice che decida chi ha ragione e chi no, ma di un promotore di dialogo e di consapevolezza rispetto a ciò che si può e che si deve fare per il benessere dei ragazzi.
Il primo obiettivo del protocollo di un lavoro di rete è di tipo epistemologico. “I cambiamenti avvengono dall’interno”: questo è stato una sorta di mantra che abbiamo ripetuto alla famiglia ma soprattutto agli operatori, inizialmente lontani dal condividere una posizione epistemologica molto diversa dalla loro. In secondo luogo abbiamo cercato di stabilire un rapporto collaborativo con i Servizi attraverso tutte le figure che hanno in carico i vari “pezzi” di famiglia.
Durante l’ultima seduta di follow-up avvenuta a giugno 2015, la situazione familiare era migliorata in quanto il sotto-nucleo appariva più definito: la mamma aveva acquisito capacità di gestire i figli, esercitando il ruolo di adulto genitoriale, meno permeabile alle interferenze del resto della famiglia, dunque più assertiva e sicura di sé. La conquista è stata l’archiviazione della richiesta di separazione forzata. È stato un grande risultato: la NPI ha dovuto constatare che solo in questo modo la famiglia avrebbe tirato giù le barricate; infatti era diventata più accessibile e prestava più ascolto, per esempio, alle richieste della scuola.
Proprio durante una riunione d’équipe è stata messa a frutto un’indicazione fondamentale per la strategia di intervento: la psicoterapeuta individuale di Giovanni ha accolto il nostro suggerimento di lavorare in seduta con la diade madre-bambino, cosa che lei non aveva mai fatto, con l’obiettivo di creare uno spazio neutro e di fiducia in cui rinsaldare il loro rapporto tanto fragile e confuso. La dottoressa in questione ce ne riconoscerà il merito fino alla fine.
Il lavoro di rete ha avuto fasi altalenanti, in cui a periodi bellicosi tra i due capi, il nonno da una parte e la neuropsichiatria dall’altra, si sono succeduti periodi di ascolto e collaborazione. Puntualmente e inevitabilmente nelle fasi più rigide, i sintomi del bambino tornavano con più forza, come prodotti di una distruttiva escalation. Era poi evidente che lo stallo nei rapporti tra famiglia e neuropsichiatria aveva portato, in maniera automatica e più o meno consapevole, all’attivazione da parte della ASL di numerose figure professionali, con il paradosso di circondare il minore di tante persone (educatori, medici, psicologi, neuropsichiatri, insegnanti di sostegno, ecc.) per “difenderlo” dai tanti parenti con i quali viveva. Quando è entrata in scena la terapia familiare, la sua nuova cornice smuove le dinamiche relazionali e di conseguenza riduce la patologia. Il lancio del boomerang dalla terra di mezzo del CSAPR, con il tifo condiviso di tutti i coinvolti, pazienti e curanti, ha potuto centrare l’obiettivo. Ci teniamo a sottolineare che abbassando i livelli di patologia non possono che ridursi anche gli interventi terapeutici, con una riduzione della spesa sanitaria pubblica.
LA FAMIGLIA SMERALDO
E se il boomerang non torna indietro? Un’occasione di crescita per il sistema
• Inquadramento diagnostico riferito: comportamenti a rischio in adolescenza con uso di sostanze di Giorgio (16 anni).
• Fase del ciclo vitale: crescita dei figli (individuazione e svincolo).
• Numero sedute di terapia familiare: 10.

Questa famiglia è composta da 7 persone: il padre 53 anni, la madre 52 anni e i 5 figli di cui il più grande ha 29 anni, è già sposato ed ha 3 figli; il secondo ha 25 anni e si è sposato durante la terapia; poi ci sono gli ultimi 3 figli, due maschi e una femmina, che vivono in casa. È il padre a prendere contatti con il CSAPR su indicazione della neuropsichiatra infantile: negli ultimi mesi l’ultimogenito Giorgio ha iniziato a fare uso di cannabis.
La NPI segue il ragazzo da 2 anni. È arrivato al Servizio pubblico con una diagnosi di iperattività posta da una neuropsichiatra privata, quando aveva circa 10 anni. In quel periodo il rendimento scolastico era pessimo e qualche anno dopo, in terza media, viene anche bocciato. È a seguito di questo accadimento che la famiglia si rivolge alla ASL.
Al momento della consultazione presso il CSAPR il ragazzo sta frequentando il primo anno dell’Istituto Alberghiero ed il suo curriculum scolastico continua a essere disastroso sia sul piano dei risultati sia a livello comportamentale: Giorgio infatti non riesce a stare attento in aula e ha un bisogno continuo di uscire dalla classe per andare alle macchinette degli snack. Il ragazzo è in sovrappeso.
Al primo colloquio di terapia familiare, viene convocata tutta la famiglia, compresi i fratelli più grandi usciti (o quasi) dal sistema. Si presentano sin da subito come una famiglia molto particolare: fanno parte del “Cammino Neocatecumenale” che esibiscono come fosse il proprio biglietto da visita già dal primo contatto telefonico. In effetti tutta la loro vita ruota intorno alla realtà parrocchiale: frequentazioni, amicizie, volontariato e tempo libero. Non solo. Anche i lutti familiari vengono condivisi con i fratelli del Cammino, così come le varie difficoltà legate alla cura e alla crescita dei figli.
Giorgio non è l’unico figlio ad avere avuto problemi in famiglia. I genitori hanno trovato aiuto per gli altri 2 figli nella rete della parrocchia: grazie al sostegno e alle indicazioni ricevute, le loro difficoltà sono rientrate senza ricorrere all’aiuto di alcuno specialista. I sintomi comportamentali di Giorgio invece non solo non sono rientrati ma si fanno progressivamente più gravi e in poco più di un mese la situazione in casa Smeraldo precipita. Il ragazzo comincia portando uno spinello a una gita della parrocchia, per poi concludere con l’episodio clou, che ha sancito l’invio al Centro, in cui viene trovato con una grossa somma di denaro di cui non sa dare spiegazione.
Che cosa sta succedendo in famiglia? Perché le difficoltà del ragazzo stavolta non trovano aiuto nella rete della parrocchia e non si risolvono come quelle degli altri fratelli, anzi si fanno più gravi? Questa volta nella famiglia Smeraldo qualcosa sembra non aver funzionato: il boomerang non è tornato indietro. E adesso? È con questa domanda che la famiglia si affida al Servizio pubblico e che dal Servizio pubblico arriva al Centro Studi di Prato e successivamente, dietro nostro invito, anche ad una Comunità di recupero per adolescenti che fanno uso di sostanze. Non si è trattato di un mero passaggio di responsabilità da un contesto all’altro, che avrebbe potuto mascherare l’idea di una sconfitta sia del sistema famiglia che del Sistema Pubblico, quanto piuttosto di un’apertura verso altri contesti terapeutici. L’interrogativo di uno diventa così la domanda di molti, di tutti gli attori che vengono progressivamente coinvolti nella cura e la risposta diventa un progetto terapeutico integrato.
Alla fiducia dei genitori si aggiunge quella che la NPI ha iniziato a maturare vero la terapia familiare grazie ai positivi risultati ottenuti con la famiglia Arcobaleno, così come la malattia anche la salute si contagia!
La richiesta dei genitori noi la riformuliamo così: «Aiutateci a recuperare il boomerang visto che i nostri riferimenti abituali con Giorgio non funzionano». La neuropsichiatra invece di colludere col sintomo offrendo un boomerang di emergenza, stavolta si attrezza per aiutare la famiglia Smeraldo a capire cosa non ha funzionato nel tiro. Sono tante le variabili che possono influenzare il lancio e solo una loro accurata analisi può riabilitare il lanciatore. È per questo che viene fatto l’invio al CSAPR.
All’esordio del percorso di terapia familiare sia i genitori che i fratelli di Giorgio si mostrano coalizzati tra loro contro colui che ha rotto l’equilibrio domestico, pronti a difendere l’idea di famiglia a cui tutti sembrano aver aderito. Una famiglia unita del tipo “uno per tutti, tutti per uno!” dove le differenze non sono possibili e dove i confini tra genitori e figli non sono affatto chiari. Tutti sono spaesati verso i comportamenti dell’ultimogenito e sperano che quest’ultimo possa essere presto “aggiustato” per tornare a fare parte del gruppo famiglia ma anche di quello della parrocchia che dopo l’episodio dello spinello lo ha espulso.
La paura di intraprendere una terapia familiare è forte in ognuno di loro, addirittura dopo la prima seduta tentano di sabotare l’intero percorso. E se hanno continuato, lo dobbiamo al sostegno della NPI e del Centro Diurno dove Giorgio è stato inserito in parallelo. Le telefonate con l’educatore diventano un appuntamento fisso: prima delle sedute di terapia familiare, al fine di raccogliere informazioni utili per l’incontro, e dopo la terapia per tenere aggiornata l’équipe del minore. Questo scambio sistematico rinforza il progetto di cura e consente alla famiglia di affidarsi a reti di sostegno diverse da quella della parrocchia. Il ragazzo in breve tempo smette di usare sostanze, i genitori recuperano le redini genitoriali e i fratelli si coalizzano tra loro facendo entrare al loro interno anche il piccolo di famiglia.
La parrocchia nel sostegno alle famiglie propone sempre lo stesso lancio del boomerang senza tenere conto dei cambi climatici, delle posizioni differenti, del vento che cambia, quindi propone un lancio rigido e contratto che nel caso di Giorgio non è adeguato ed efficace. Con il nostro lavoro di rete abbiamo permesso una modulazione del lancio del boomerang e abbiamo sostituito le mani dei parrocchiani con le mani dei familiari, unici veri attori del cambiamento.
Il progetto terapeutico realizzato dalle psicoterapeute del CSAPR, dalla neuropsichiatra dell’ASL e dagli operatori del Centro Diurno permette ai genitori/lanciatori di perfezionarsi nella tecnica, di apprenderne di nuove e di tornare a tirare il boomerang davanti agli sguardi fiduciosi dei loro figli. Infatti anche per questi ultimi il percorso terapeutico è stato positivo.
Come sottolinea la Fruggeri [5], il cambiamento è avvenuto. Che cosa lo ha permesso? Una visione diversa della situazione da parte delle varie figure coinvolte nel sistema di cura? Oppure la famiglia ha cambiato il proprio modo di interpretare la situazione e quindi di muoversi in essa?
Tutti gli attori coinvolti hanno contribuito a questo cambiamento; il successo è legato al fatto che il motto “uno per tutti, tutti per uno” della famiglia Smeraldo è diventato anche quello che ha mosso l’intero sistema di cura garantendo un intervento terapeutico integrato in ogni sua fase.
LA FAMIGLIA PORPORA
Gli imprevisti possono condizionare la buona riuscita del lancio del boomerang
• Inquadramento diagnostico riferito: dipendenza da sostanze e disturbi del comportamento di Michele (16 anni).
• Fase del ciclo vitale della famiglia: crescita dei figli (individuazione).
• Numero sedute di terapia familiare: 15.

La famiglia Porpora è composta dal padre di 49 anni, la madre di 43 e Michele di 16. La richiesta di una terapia familiare è motivata dai violenti episodi di rabbia e frequenti comportamenti aggressivi verso i genitori, in particolar modo contro la mamma, e da un avvicinamento all’uso di cannabinoidi.
Dal primo colloquio, in cui viene convocata tutta la famiglia, inizia una stretta collaborazione con i genitori e con la NPI e vengono presi contatti con l’educatore che segue individualmente l’adolescente.
È difficile comunicare in casa Porpora, si tratta di “una famiglia di grandi brontoloni”; l’unico modo che Michele ha per farsi sentire e per farsi vedere da un papà periferico e ansioso e da una mamma poco affettiva ma controllante è quello di mettere in atto comportamenti fuori controllo: calci, pugni, provocazioni ed esplosioni. Le strategie di comportamento inefficaci messe in atto dai genitori hanno prodotto una disperante escalation negativa che il figlio segnala attraverso i sintomi.
A partire dalla quarta seduta Michele decide spontaneamente di non presentarsi più insieme ai genitori e di continuare il suo percorso di autonomia con l’educatore che lo segue da più di un anno e con il quale ha un rapporto di fiducia.
Lavorando con la coppia genitoriale di un figlio adolescente, migliorano nettamente le competenze comunicative della famiglia: meno ansiosi, meno soffocanti ma alleati e partecipi, i genitori costruiscono un fronte unico che li rende più solidali e forti agli occhi del figlio, il quale gradualmente non ha più bisogno di esprimersi con pugni e calci e può dedicare il tempo alla sua adolescenza; tanto che nel corso della terapia familiare la maggiore consapevolezza di se stesso induce Michele a confidare all’educatore che da un anno circa fa uso di MDMA e cocaina. L’educatore giustamente ci informa. Queste informazioni riguardano la persona del minore, il suo educatore, ma soprattutto i genitori e i terapeuti familiari: pertanto concordiamo che i genitori dovranno essere messi al corrente dell’uso di queste sostanze da Michele, con l’aiuto del suo educatore. Non possiamo lasciare inevasa una richiesta di aiuto così importante seppure ancora confusa e lanciata come un SOS nell’oceano dei rapporti tra i Servizi di cura.
Fino a questo momento i contatti con l’educatore e la NPI si erano mantenuti come da protocollo, per lavorare in parallelo e scambiare aggiornamenti ma a partire dall’ottava seduta qualcosa va storto: inizia a venir meno la collaborazione con l’educatore, diminuiscono le telefonate, non si riescono ad avere appuntamenti telefonici. Ipotizziamo che l’educatore si rifiuti di collaborare poiché in difficoltà a usare un linguaggio condiviso chiudendosi in maniera difensiva nella trincea del rapporto con il paziente.
Quali sono state le sfavorevoli condizioni meteorologiche che hanno deviato il lancio del nostro boomerang? Si dice che il vento sia uno dei fattori più importanti affinché il boomerang torni indietro; idealmente c’è bisogno di una giornata senza raffiche e si consiglia di evitare di lanciarlo quando il vento è più che moderato perché le correnti d’aria ne modificano la traiettoria e il percorso... questo è proprio quello che è accaduto.
Intorno alla rivelazione della dipendenza da sostanze, l’educatore collude con la preoccupazione che l’adolescente ha di informare i suoi genitori e si nasconde dietro il paravento del segreto professionale: quindi tiene fuori parzialmente il sistema terapeutico familiare che non può restare all’oscuro [6]. Ci troviamo dentro ad un paradosso terapeutico che per di più riguarda un minore e per uscirne scegliamo la strada della chiarezza e della verità: ovvero ci prendiamo la responsabilità in seduta di informare i genitori.
Non è stato facile sostenere la forza contraria del vento (Michele non ha voluto per lungo tempo incontrarci) e gli scambi con il suo educatore si sono interrotti: il lancio del boomerang rischiava di essere meno preciso e gli obiettivi di cura diventavano più complessi.
Nel lavoro di équipe abbiamo vissuto un senso di solitudine e di abbandono che ha comportato un periodo di elaborazione del lutto: con il sostegno della NPI abbiamo indirizzato famiglia e adolescente a intraprendere un percorso di disintossicazione presso una struttura idonea e parallelamente abbiamo fornito sostegno alla coppia genitoriale.
Durante il follow-up, la situazione familiare era notevolmente migliorata: Michele si sta curando, il suo percorso di disintossicazione ha avuto degli alti e bassi, ma da luglio scorso non fa uso di MDMA e cocaina. Disintossicarsi non è stato uno scherzo, ha avuto diversi effetti collaterali, crisi comportamentali, vari trattamenti farmacologici sbagliati e forti tensioni nei rapporti interpersonali. Ha smesso di prendere farmaci e si è dedicato ad una psicoterapia individuale, mentre i genitori continuano a fare terapia di gruppo con le altre famiglie.
LA FAMIGLIA VIOLA
Se la direzione è quella giusta il boomerang torna sempre indietro
• Inquadramento diagnostico riferito: disturbo ossessivo-compulsivo di Martino (17 anni).
• Fase del ciclo vitale della famiglia: crescita dei figli (individuazione).
• Numero sedute di terapia familiare: 8.

La famiglia Viola è composta dal padre di 49 anni, la madre coetanea e il figlio di 17 anni. Vengono inviati dal Servizio dopo una lunga peregrinazione tra ospedali e professionisti privati (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti) durata circa 15 anni.
A due anni e mezzo Martino ha iniziato a manifestare crisi di malessere con pianti ed urla. Ciò che solitamente è vissuto dai genitori e dai medici di fiducia come il comportamento bizzoso di un bambino viene via via mal interpretato dagli adulti di riferimento e ciò innesca un circolo vizioso di designazione psicopatologica, la cui sintomatologia si accentua e si aggrava inevitabilmente intorno ai 10 anni, quando Martino inizia a manifestare pensieri ossessivo-compulsivi.
I genitori preoccupati si sono adattati e, assuefatti al disagio del figlio, anche dietro consigli sbagliati di pediatri e medici, hanno cambiato alcuni loro normali comportamenti come per esempio evitando di pronunciare parole con certe consonanti che Martino non sopportava, evitando di camminare con le scarpe coi tacchi, evitando di appoggiare il cucchiaino sulla tazzina di caffè, evitando di chiudere rumorosamente i cassetti, evitando di esporlo a qualsiasi situazione che lo potesse impaurire. Una situazione difficile che diventa insostenibile all’ingresso nell’adolescenza, quando il ragazzo si affaccia al mondo dei coetanei della scuola superiore e le sue ossessioni e le sue ansie diventano invalidanti!
Per questo Martino approda a 11 anni ad una psicoterapia individuale fallimentare, con uso di ansiolitici e antidepressivi e alla certificazione di disabilità a scuola. Solo sulla soglia dei 17 anni la famiglia arriva al nostro Centro Studi su indicazione della ASL, dove il ragazzo è seguito dalla neuropsichiatra e dall’educatrice.
Come da protocollo la prima telefonata con la neuropsichiatra ci spiega le problematiche di questa famiglia: la situazione sembra complessa per il coinvolgimento negli anni di un gran numero di figure professionali e di strutture sia pubbliche che private. Ma la famiglia e soprattutto la madre bloccano sul nascere la nostra collaborazione con l’educatrice che segue il figlio da circa un anno: non ci forniscono i contatti; la madre teme che si possano creare ingerenze e interferenze, vuole che rimaniamo fuori dal quel rapporto esclusivo e funzionante. Martino e il padre non si oppongono, il nostro percorso integrato viene “boicottato”. Si tratta di una famiglia chiusa, che chiede aiuto ma che resta sempre sulla difensiva, portavoce di uno slogan: “Aiutateci a cambiare ma senza cambiare nulla!”.
Così ci rassegniamo a lavorare con le risorse che abbiamo. A circa metà della terapia familiare, succede qualcosa di inaspettato: l’educatrice che ha in carico Martino rintraccia i nostri contatti e inizia una comunicazione telefonica molto proficua che ci consente di lavorare nella stessa direzione ovvero il sostegno al percorso di autonomia del ragazzo.
È come se il boomerang che abbiamo lanciato all’inizio a suo modo e col suo tempo fosse tornato indietro prendendo altre strade, grazie alla costruzione di relazioni con il Servizio di Neuropsichiatria di cui l’educatrice è parte. Nel rispetto della volontà dell’educatrice di tutelare la relazione con Martino e per le resistenze proprie della famiglia, si è trattato di una collaborazione “clandestina” legata al segreto professionale, che ha dato proficui frutti: Martino ha intrapreso i suoi passi di autonomia, i sintomi sono diminuiti, ha tirato fuori e iniziato a coltivare le sue passioni ed è partito per un viaggio in Europa con alcuni compagni di scuola (per la prima volta fuori dall’Italia senza mamma e papà).
Nell’ultima seduta di terapia familiare l’effetto boomerang è ancora più evidente: il ragazzo ci autorizza (finalmente!) a contattare telefonicamente la sua educatrice, le cui strategie, ci racconta sono in linea con i nostri progressi in terapia familiare.
Il percorso terapeutico con la famiglia Viola è sicuramente integrato, in quanto la relazione fra il nostro Centro e la NPI è stata reciproca e efficace. Lo scambio tra professionisti, anche se inizialmente limitato dal tentativo di controllo della famiglia, ha portato i suoi frutti ed ha fatto sì che il percorso di terapia familiare e quello educativo condividessero gli stessi obiettivi e lavorassero in collaborazione per raggiungerli. Il monitoraggio, attraverso lo SCORE 15, del livello di benessere percepito dai componenti della famiglia Viola ha rivelato come Martino sia stato il protagonista della terapia anche se non sempre partecipe alle sedute: attore protagonista da Oscar tanto nella patologia quanto nella salute!
Nonostante la sua presenza nella stanza di terapia non sia stata continua, è lui il vero protagonista: è stato lui, con i suoi sintomi, a portare da noi la sua famiglia; è stato lui a lasciare i suoi genitori in terapia; è stato lui a riconoscere i cambiamenti che stavano avvenendo nella sua famiglia; è stato lui a tenersi tutto per sé lo spazio di parola con la sua educatrice; è stato lui a scrivere sul foglio dello SCORE 15 che la terapia è stata utile; è stato lui che, tornando da noi per l’ultima seduta, ci ha concesso di continuare palesemente la collaborazione con la sua educatrice; è stato lui perciò a rendere possibile il lavoro di rete. Il boomerang lo avevamo lanciato tenendo conto della direzione del lancio, era la sua salute il nostro obiettivo e quello della sua famiglia. Il boomerang che abbiamo lanciato è passato nelle mani dei suoi genitori, della sua educatrice ed è arrivato a lui, per poi tornare a noi. Proprio a noi lui ha lasciato il feedback nello SCORE 15, proprio a noi sono arrivate le notizie (attraverso l’educatrice) della sua ripartenza da adolescente in gamba e non da paziente con disturbo ossessivo-compulsivo.
È anche fuori di dubbio che il lavoro psicoterapeutico familiare fatto con i genitori ha permesso al figlio di essere oggi il protagonista della sua salute. Ricordiamo che nessun curante in questi anni di disagio aveva mai proposto una terapia familiare alla famiglia Viola, che per la prima volta si mette in discussione come sa e come può.
E certamente come scrive Stanisław Jerzy Lec in “Pensieri spettinati” (1957) «Più d’un boomerang non torna. Sceglie la libertà».
LO SCORE 15
Da qualche anno al CSAPR usiamo correntemente lo SCORE 15 (Systemic Core Outcomes Routine Evaluation) durante le terapie familiari. Si tratta di uno strumento di valutazione che ha l’obiettivo di misurare, attraverso le risposte dei membri della famiglia in trattamento, alcuni indicatori del funzionamento familiare che possono modificarsi nel corso o al termine di una terapia.
Di seguito le principali caratteristiche dello strumento:
– è un questionario autosomministrato (15 domande) a tutti i membri della famiglia sopra i 12 anni ed è formato da 3 sottoscale di 5 item ciascuna;
– prevede tre somministrazioni: all’inizio, a metà circa (consigliata alla quarta seduta) e alla fine della terapia;
– prevede tre domande su scala Likert sulla definizione del problema, delle modalità di gestione e sulla valutazione della terapia.

È presente infine, separatamente, una scala per il terapeuta, contenente due domande di valutazione della terapia.
Abbiamo ritenuto utile usare i dati dello SCORE che abbiamo somministrato alle famiglie inviate dalla NPI per fare qualche ipotesi sull’efficacia e sull’efficienza del trattamento integrato. I dati sono poco significativi per la scarsa numerosità del campione ma utili per inferire sul lavoro svolto. Avvalendoci di questi risultati abbiamo potuto riflettere sul lancio del boomerang (ovvero l’inizio della terapia familiare con protocollo integrato) e, usando le risposte delle famiglie allo SCORE 15, avere una verifica del ritorno del boomerang (ovvero la remissione della sintomatologia o la risoluzione del problema con aumento di gradi di benessere).
Nel nostro lavoro ci siamo concentrati sull’andamento dei punteggi medi rilevati dai tre quesiti su scala Likert nelle tre somministrazioni ottenendo i seguenti risultati:



Le prime due domande misurano rispettivamente la percezione della gravità del problema e la percezione di come la famiglia lo sta gestendo. In entrambi i casi i punteggi medi subiscono una diminuzione tra la prima e la terza somministrazione, evidenziando un calo nella gravità attribuita al problema e una percezione maggiormente positiva della capacità della famiglia stessa di affrontarlo. Possiamo ipotizzare un collegamento circolare tra queste due variabili, in cui percepire il problema come meno gravoso può far sentire la famiglia più in grado di gestirlo con le proprie risorse. Inoltre un maggior senso di autoefficacia rispetto al problema può far percepire come meno grave il problema stesso e così via in un circolo virtuoso che contrasta positivamente il circolo vizioso della patologia rinforzato da disservizi, ritardi e letture cronicizzanti del disagio familiare. Questi dati esprimono bene il nostro modo di lavorare con le famiglie, dove l’attenzione è sempre diretta alle risorse più che ai limiti della famiglia e dove una definizione chiara e sensata del problema diventa un buon punto di partenza per la sua risoluzione: tutte condizioni necessarie affinché il boomerang torni indietro senza rallentamenti o ostacoli.
La terza domanda dello SCORE 15 rileva la percezione dell’utilità della terapia. Ricordiamo che si tratta prevalentemente di famiglie multiproblematiche, conosciute dai Servizi da anni. L’assistenza e gli interventi plurimi dei Servizi protratti nel tempo e crescenti in maniera proporzionale rispetto all’aumento dei bisogni dell’utente mantengono una situazione clinica che tende a cronicizzarsi. Se da una parte nell’immaginario dei pazienti i peregrinaggi negli ambulatori e i vari tentativi di intervento creano sfiducia nella cura, dall’altra la cura assume i tratti rassicuranti di un’omeostasi conosciuta. Alla luce di queste riflessioni il basso punteggio iniziale alla terza domanda lo abbiamo letto come espressione delle scarse aspettative nei confronti dell’ennesimo tentativo di cura e di una bassa motivazione al trattamento per l’insufficiente speranza riposta nella terapia. Quindi il lieve decremento della percezione dell’utilità tra la seconda e la terza somministrazione lo abbiamo visto come l’effetto positivo della restituzione della delega nelle mani della famiglia che, sentendosi più in grado di gestire il problema, inizia a ridimensionare il ruolo centrale della terapia. Questo è un buon segno di salute poiché si passa da una logica di assistenza sanitaria che tende alla cronicizzazione ad una logica di restituzione della delega che alimenta il potere autotrasformativo del sistema familiare: “Signora Famiglia muovi i tuoi passi, puoi farcela anche da sola”.
Raggiungere gli stessi risultati con minore impegno di risorse o addirittura risultati maggiori con uguali risorse è una sfida per l’efficienza e c’è tanto da lavorare ancora in questa direzione.
CONCLUSIONI
Gli esiti del lavoro incrociato tra CSAPR, Servizi e famiglie permette di fare alcune riflessioni finali.
Il nostro modus operandi si è basato sulla ricerca di un confronto con gli operatori della ASL e con tutti gli altri sistemi coinvolti per far emergere i punti in comune di una sinergia da condividere e per togliere alle differenze professionali quella componente ansiogena con cui spesso si confronta chi fa questo lavoro. Questo è alla base di una fiducia reciproca e di una collaborazione multiprofessionale.
La conseguenza più evidente è stata una riduzione dei tempi di invio della NPI al nostro Centro Studi: abbiamo spiegato questo fenomeno ipotizzando che un intervento tempestivo e sinergico accorci i tempi “patologici” a carico della famiglia, che a sua volta è a carico dei Servizi.
Mettere in rete prima e costruire una rete dopo con la famiglia e con gli enti istituzionali ha permesso di ridurre simmetrie e aggiungere punti di vista. Del resto per dirla alla Haley [6] meglio partire dal più complesso che dal più semplice: il boomerang così facendo è più probabile che torni nel posto giusto!
Il lavoro di équipe del Centro Studi ha assolto alla funzione di “mediatore intersistemico” laddove errori comunicativi e impasse potevano colludere o bloccare il progetto terapeutico dei sistemi curanti. «Se la rete è una serie di collegamenti dove ogni operatore rappresenta un nodo, un intervento di rete diventa una trama che vede ogni volta persone differenti coinvolte. Non possiamo quindi lavorare senza avere un’interconnessione tra Servizi e operatori. È mia esperienza che i Servizi utilizzino l’alibi dell’urgenza per non cercare il coordinamento che, benché faticoso, risulta indispensabile per non costruire la cronicità» [7].
Si è creato così un clima più disteso in cui la famiglia si è accomodata affidandosi ai professionisti e successivamente puntando sulle proprie risorse. Fare leva su questo piuttosto che evidenziare i limiti e le mancanze del sistema familiare, a nostro parere, è il punto fondamentale per ottenere il cambiamento e gradi sempre maggiori di salute. Se la famiglia riesce a percepire il sistema curante come alleato metterà in campo le sue risorse, lavorerà con esso per superare le difficoltà e alla fine del processo terapeutico riconoscerà in se stessa la capacità di uscire dal problema. Una volta rimosso lo spettro della cronica patologizzazione, la famiglia si vedrà riconosciuta la possibilità di “auto guarirsi”. Ciò alimenta un circolo virtuoso per cui, superata una crisi, il sistema familiare si sentirà in grado di superarne altre nel corso del suo ciclo di vita. In questo modo non è difficile immaginare un guadagno socio-sanitario anche di tipo economico, poiché una sinergia di interventi riduce i tempi di cura e il numero di personale coinvolto interrompendo il circolo della cronicità. Inoltre il cambiamento effettuato e l’apprendimento nuovo che ne deriva riducono la possibilità di ricadute.
Nei casi riportati il lancio del boomerang ha avuto caratteristiche diverse, come diverse sono state le nostre famiglie, le loro domande d’aiuto, i rapporti intercorsi con i Servizi. Nella complessa interazione tra i vari fattori, il nostro progetto terapeutico ha avuto queste finalità:
– aumentare il benessere dell’utenza attraverso ipotesi e strategie di intervento ragionate e aspettative di salute realistiche;
– creare modalità comunicative efficaci tra i curanti per uscire dall’idea di assistenza e restituire la delega al sistema familiare, di nuovo in grado di camminare sulle sue gambe piuttosto che farsi assistere.

«Dunque, poiché tutte le cose sono causate e causanti, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte sono legate da un vincolo naturale e insensibile che unisce le più lontane e le più disparate, riteniamo che sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti» [8].
Come sottolinea Morin [1], «(Pascal) invitava, in un certo senso, a una conoscenza in movimento, a una conoscenza a spola che progredisce andando dalle parti al tutto e dal tutto alle parti: ciò è la nostra comune ambizione».
RINGRAZIAMENTI
Ringraziamo il Centro Studi di Prato e il Direttore Gianmarco Manfrida per aver sostenuto questo progetto.
BIBLIOGRAFIA
 1. Morin E. La Tête bien faite. Repenser la réforme, réformer la pensée. Paris: Seuil, 1999.
 2. Malagoli Togliatti M. Dall’individuo al sistema. Manuale di psicopatologia relazionale. Cap. IV. In: Malagoli Togliatti M, Telfner U (a cura di). Dall’individuo al sistema. Torino: Edizioni Bollati Boringhieri, 1991.
 3. Cancrini MG, Harrison L. La trappola della follia. Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1983.
 4. Linares JL. Del abuso y otros desmanes. El maltratato familiar, entre la terapia y el control. Barcellona: Ediciones Paidòs Iberica, 2002.
 5. Fruggeri L. Dall’individuo al sistema. Cap. II. In: Malagoli Togliatti M, Telfner U (a cura di). Dall’individuo al sistema. Torino: Edizioni Bollati Boringhieri, 1991.
 6. Haley J. Problem solving therapy. 2nd edition. New York: Wiley, 1991.
 7. Telfner U. Apprendere i contesti. Strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2011.
 8. Pascal B. Pensées. Folio Classique, frammento 72. Paris: Edition Gallimard, 1977.