Dentro e fuori la stanza: un’esperienza all’interno dei Servizi
Caterina Mangano1



Portiamo avanti con la storia raccontata da Caterina Mangano la sezione dedicata alla migliore delle storie cliniche preparate per l’esame di fine training dagli allievi del Centro Studi. Un gruppo di didatti ha verificato, in un lavoro precedente pubblicato su “Ecologia della mente”, la validità terapeutica di questi interventi.


With the history by Caterina Mangano we continue the section devoted to the best clinical case prepared for the final examination by the students of the Centre. A group of teachers has verified, in a previous work published in “Ecologia della mente”, the validity of these interventions.


En esta sección dedicada a la mejor de las historias clínicas estudiadas para el examen de final de training de los alumnos del Centro Estudios, presentamos la historia escrita por Caterina Mangano. Un grupo de didactas evalúan la efica­cia y validez de estas acciones terapéuticas ya publicadas anteriormente en “Ecologia della mente”.


«Solo dopo aver lottato con noi stessi
avremo la facoltà di portare la nostra persona,
e non solo la nostra uniforme di terapeuta,
nella stanza della terapia».
Whitaker, Bumberry [1]
PREMESSA
La supervisione indiretta rappresenta l’ultimo passo della formazione come psicoterapeuta. Consente a noi allievi di iniziare a muovere i primi passi nella professione avendo però una «base sicura» [2] a cui fare riferimento. Ci impone uno scatto di crescita, perché non abbiamo più i didatti al nostro fianco nel qui e ora e dobbiamo dunque prendere delle decisioni in autonomia, e perché dovremmo essere in grado di rielaborare il materiale delle sedute andando oltre i dettagli dei contenuti per accedere ad una visione d’insieme, di livello meta.
Il primo grande scoglio che ci troviamo ad affrontare è riuscire ad avere dei pazienti: iniziamo dal trovare uno studio, proviamo a pubblicizzarci e ad incrementare la nostra rete di contatti, ma la frustrazione del telefono che non squilla ci accompagna. Sappiamo che all’inizio non è facile, che dobbiamo darci tempo ed impegnarci, ci diciamo che prima o poi raccoglieremo i frutti. Lo speriamo. E nel frattempo magari facciamo altri lavori o lavoriamo come psicologi gratis sperando di ottenere qualcosa di meglio dopo esserci fatti conoscere. Per avere dei casi da portare in supervisione molti di noi fanno volontariato.
Avere maggiore libertà di azione è quello che spesso desideriamo durante i 4 anni di training, quando a volte la supervisione diretta ci sta stretta, ma poi spesso ci spaventa quando la sperimentiamo perché ci sentiamo insicuri, non sappiamo in che direzione andare con i nostri pazienti e sentiamo il peso della responsabilità. Spesso ci sentiamo soli. La supervisione indiretta è un sostegno molto importante in questa fase, ci consente di continuare ad apprendere in maniera diversa rispetto a prima e, ci auguriamo, di riuscire ad «apprendere ad apprendere» [3].
Rielaborare il nostro lavoro in un racconto che possa essere adeguatamente fruibile da chi ci ascolta non è sempre facile, siamo immersi nel percorso terapeutico e nei vissuti emotivi che lo accompagnano e non riusciamo facilmente a vederlo nel suo insieme in una posizione più distaccata. Ci viene quindi in aiuto il nostro supervisore, ci porta a riflettere, a guardarci dall’esterno, a chiederci ciò che non ci siamo ancora chiesti, a vedere le “zone d’ombra”. Ci assolve laddove ci condanniamo, pensando di non aver fatto abbastanza. Ci rimanda un’immagine di noi, dei nostri pazienti e della relazione terapeutica che ci restituisce nuove informazioni. «Conosciamo la realtà interna ed esterna a noi per le notizie di differenza che riusciamo a percepire […] si conosce sempre per differenza, cioè grazie alla doppia descrizione» [4].
Anche il gruppo ci sostiene in questo, ci porta degli spunti ai quali magari non avevamo pensato, ci incoraggia. La maggior parte delle colleghe del mio gruppo le avevo già avute accanto nei 4 anni di training e mi ha fatto piacere condividere anche questa parte della formazione con loro, così come è stato bello interfacciarmi con persone nuove.
Personalmente, sono molto contenta di aver avuto come supervisore il dott. Pelli: la supervisione indiretta mi ha dato modo di conoscerlo ed apprezzarlo ancora di più professionalmente e umanamente. Ho avuto un’ottima esperienza con i miei didatti durante i 4 anni di training ma sono felice di aver avuto un’altra figura di riferimento in questo quinto anno, perché penso che mi abbia arricchito confrontarmi con un altro stile per quanto riguarda la didattica e l’approccio terapeutico. Nella mia vita ho sempre preferito avere una pluralità di maestri, per poter crescere grazie al confronto con punti di vista diversi.
E nella mia valigia da terapeuta metto anche tutto quello che il dott. Pelli mi ha insegnato.
INTRODUZIONE
Ho scelto di parlare in questa tesi del caso di Deborah (questo nome e i successivi sono di fantasia, per tutelare la privacy della paziente e della sua famiglia) perché si è trattato di una situazione complessa, che mi ha messa in difficoltà, facendomi scontrare prima con il pregiudizio e poi con il mio perfezionismo e la conseguente spiacevole sensazione davanti al senso di fallimento. Forse, più semplicemente, mi ha messa davanti ai miei limiti, alcuni assolutamente superabili e superati, altri da accettare come una componente umana ineliminabile e con la quale è inutile lottare.
Il contesto nel quale si è svolto il percorso è quello dello Sportello SOCRI - Servizio Psicologico e di Consulenza Familiare, presso il Municipio XII Roma. Sono entrata a far parte dello Sportello nel novembre 2014 come volontaria dell’AIRES (Associazione Interdisciplinare per la Ricerca sugli EcoSistemi). In quel periodo l’AIRES era soggetto affidatario del Progetto “Sostegno alle criticità familiari e interventi di prevenzione del disagio in età minorile” con fondi della legge 285/97 II Piano territoriale finanziato dal XII Municipio del Comune di Roma. Il progetto aveva attivato un Servizio di sostegno alla famiglia e di consulenza per le attività relative all’Autorità Giudiziaria. Precedentemente, avevo svolto attività di tirocinio dal 2011 al 2014 con l’AIRES. presso il Centro Famiglia Stella Polare - “Progetto di Sostegno alle responsabilità genitoriali e di tutela al minore” finanziato dal X Municipio del Comune di Roma. Sarei rimasta presso il Centro Famiglia Stella Polare come volontaria, al termine del tirocinio, ma l’AIRES non ha più ottenuto il mandato come soggetto affidatario del progetto. Mi sono trovata molto bene al Centro Famiglia e mi è dispiaciuto molto che quell’esperienza si sia dovuta chiudere, ma sono riuscita ad ambientarmi nel nuovo Servizio grazie anche al sostegno della Presidente dell’AIRES. Si è instaurata una buona collaborazione con le colleghe, psicologhe e assistenti sociali. È rimasto comunque per me un senso di estraneità dovuto alla mia presenza limitata come numero di ore e al gran numero di figure presenti all’interno dei Servizi Sociali, per cui c’era sempre qualcuno che non mi conosceva (questo risultava imbarazzante quando qualche paziente chiedeva di me) o che io non conoscevo. A poco a poco però, sempre di più, sono stata identificata come appartenente all’AIRES.
A luglio 2015 decido di trasferirmi a Milano per raggiungere il mio fidanzato e cercare una situazione professionale più soddisfacente. Sempre a luglio, l’AIRES non viene confermato soggetto affidatario del progetto presso il Municipio XII. Nonostante questi due avvenimenti, decido di rimanere come volontaria per portare a termine il caso che stavo seguendo e che è oggetto di questa trattazione.
In un anno di volontariato ho seguito diversi minori, tra i quali c’è stata Deborah, una ragazza di 15 anni di origine Rom. Il percorso è iniziato a giugno 2015 ed è stato interrotto a novembre 2015. Sono stati fatti 11 incontri. Dopo 3 mesi ho effettuato un follow-up telefonico.
PRESENTAZIONE DEL CASO



Invio
Ricordo bene quando l’assistente sociale mi ha telefonato per propormi di seguire Deborah. Fino a quel momento avevo sempre escluso di poter lavorare con una persona appartenente alla comunità Rom. Nutrivo un forte pregiudizio e pensavo che sarebbe stato un ostacolo insormontabile, o semplicemente (e onestamente) non mi andava affatto di avere come paziente uno “zingaro”. Ricordo anche come questa mia resistenza fosse venuta fuori una volta durante un seminario seguito nel corso del training e per questo ero stata affettuosamente presa in giro e bacchettata. La prima reazione alla telefonata, quindi, ammetto essere stata di paura, ma allo stesso tempo non volevo tirarmi indietro. Non ho fatto cenno all’assistente sociale del mio pregiudizio e sono stata disponibile ad incontrarla perché mi illustrasse la situazione.
Ho scelto di presentare il caso di Deborah così come mi è stato descritto durante quell’incontro:
Deborah è una ragazza Rom di quasi 15 anni ma ha appena finito la seconda media. È nata con la sindrome di Poland, una malattia genetica rara che le comporta il mancato sviluppo del seno sinistro, brevità delle dita della mano sinistra per assenza della falange intermedia e sindattilia, per cui ha subìto diversi interventi per separare le dita. È nata a Napoli da genitori Rom, ha una sorella più grande (Sarah) di 19 anni, sposata e madre di un bambino, e una più piccola (Valeria) di 9 anni. Vive con i genitori e le sorelle al campo nomadi di Scampia fino all’età di 13 anni. Nel 2013 la madre (Laura, 32 anni) scappa dal campo insieme alle due figlie minori perché non vuole più subire le violenze del marito (Rufus) e viene a Roma. Inizialmente la madre e le due figlie vengono ospitate in un Centro Antiviolenza, poi vengono accolte in una Casa Famiglia per madre e bambino. Laura denuncia Rufus per maltrattamenti. Viene fatta una valutazione psicodiagnostica a tutte e tre: la madre viene dunque seguita alla ASL per depressione; a Deborah viene diagnosticato un Disturbo della Condotta e riscontrati tratti antisociali e aggressivi e tendenza alla fuga; il Servizio di Neuropsichiatria Infantile ritiene che la Casa Famiglia sia la soluzione ottimale perché può darle un contenimento; Valeria risulta avere un funzionamento migliore della sorella ed è maggiormente adattata rispetto al contesto.
Dopo un periodo di frequenti liti tra Laura e Deborah, Laura scappa dalla Casa Famiglia, le figlie vengono affidate ai Servizi Sociali e trasferite in un’altra Casa Famiglia solo per minori. Laura si rifà viva, comunica di essere andata a vivere con il compagno ma non lavora e non sarebbe in grado di crescere le figlie. Dopo la fuga, il giudice ha stabilito che le può vedere soltanto una volta ogni due settimane insieme ad un operatore della Casa Famiglia. Per quanto riguarda il padre, è un alcolista e tramite Deborah ha cercato di tornare con la moglie. A febbraio di quest’anno la ragazza scappa dalla Casa Famiglia e va dal padre al campo di Scampia. Sembra che sia scappata più per conoscere il bimbo che la sorella ha dato alla luce piuttosto che per stare con il padre. Comunque, dopo un mese Deborah chiama la madre dicendole che vuole tornare a Roma perché il padre l’ha picchiata e perché non vuole più vivere nella situazione di degrado del campo, la madre le risponde che non può andare a prenderla perché non può vedere l’ex marito. Il padre la riporta dunque in Casa Famiglia e il giudice stabilisce che per adesso non la possa vedere. La ragazza in questo momento si rifiuta di avere contatti telefonici con il padre, che invece la chiama di continuo.
Per un anno è stata cercata una famiglia affidataria per Deborah e Valeria ma non è stata trovata. Di recente è stata trovata invece una donna single alla quale potrebbe essere affidata Valeria e sono iniziati gli incontri per conoscersi, anche se le sorelle ovviamente non vorrebbero separarsi. È stato chiesto a Deborah se preferirebbe rimanere in Casa Famiglia fino ai 18 anni o andare in affidamento, ma sembra combattuta.
L’assistente sociale le ha consigliato un supporto psicologico per sostenerla nel momento critico che sta attraversando: la ragazza infatti è combattuta tra la Casa Famiglia e l’eventualità di un affidamento, è molto arrabbiata nei confronti del padre, dovrà separarsi dalla sorella, sta vivendo l’adolescenza con un’immagine femminile mutilata a causa della malattia, inoltre nell’ultimo periodo si sono verificati episodi di auto-lesionismo (cutting). Inizialmente si è mostrata restia ad intraprendere un percorso, dicendo che non ne ha bisogno, poi si è dichiarata disposta a provare.
Questo dunque il quadro che mi viene presentato e le informazioni, forse troppe, che mi vengono fornite. La situazione appare piuttosto complessa e attraverso le parole dell’assistente sociale, che le è molto affezionata, riesco a vedere la persona al di là della sua appartenenza a una categoria.
Contesto e meta-contesto
«Contesto inteso come luogo e come situazione interpersonale in cui si verifica un comportamento; contesto come matrice di significati, che qualifica i messaggi ed è guida nel discriminarli» [3].
«Contesto come cornice che delimita e dà significato a quanto avviene al suo interno e viceversa […]. Se è vero che il contesto è “matrice di significati” [3] noi terapeuti dobbiamo prima di tutto riuscire a capire se con le persone che abbiamo di fronte condividiamo il contesto. Se infatti viviamo un contesto diverso, tutti i significati della nostra comunicazione possono non essere condivisi dalle persone che ci ascoltano» [5].
Come accennavo, il contesto in cui ho seguito questo caso è quello dello Sportello SOCRI - Servizio Psicologico e di Consulenza Familiare, presso il Municipio XII Roma.
Esso offre i seguenti servizi:
• consulenza psicologica: analisi del bisogno, orientamento sulla scelta del percorso da seguire all’interno del Servizio o verso servizi specialistici ASL;
• consulenza familiare: percorso strutturato indicato nei casi di difficoltà nella ricostituzione familiare, nella gestione delle relazioni con i minori, nella dinamica della comunicazione e/o in caso di relazione disfunzionale all’interno del nucleo familiare.

Nello specifico, il mio ruolo, come volontaria dell’AIRES, si inscrive all’interno del Progetto “Sostegno alle criticità familiari e interventi di prevenzione del disagio in età minorile”.
La prassi del lavoro all’interno dello Sportello prevede che ogni situazione sia presa in carico da un’assistente sociale del municipio e da una psicologa dell’AIRES.
La figura dell’assistente sociale fa parte dell’organico dei Servizi Sociali; ha il compito di svolgere una funzione di assistenza economica, nonché la competenza di intervento e di controllo nelle situazioni in cui un minore può essere a rischio. Il suo mandato è quello di occuparsi dell’individuo in relazione ai suoi bisogni psicosociali, prendendosene carico autonomamente o in collaborazione con altri operatori, anche di altri Servizi. Vi sono delle similitudini, così come delle differenze, tra il ruolo dell’assistente sociale e quello dello psicologo. I punti in comune riguardano il fatto che entrambe le figure si occupino del disagio umano con l’obiettivo di produrre cambiamenti, che utilizzino alcune metodiche comuni (come il colloquio clinico) e che siano spesso guidate da criteri teorici analoghi. Gli strumenti utilizzati però sono differenti e specifici per ciascuna delle due professioni. Lo psicologo dispone di reattivi psicodiagnostici e di tecniche terapeutiche, mentre l’assistente sociale può erogare risorse economiche o ricorrere a interventi che possono modificare le concrete condizioni di vita dell’utente [6].
Nello specifico, la famiglia di Deborah è seguita dall’assistente sociale che mi ha fatto l’invio e dalla dott.ssa De Santis.
Esistono già dunque delle figure di supporto del nucleo e di raccordo rispetto ai vari Servizi attivi, mentre io vengo inserita per seguire individualmente la ragazza. Questa è la cornice iniziale, ma come vedremo subirà in seguito delle importanti modifiche. Se, come dice Bateson [3], «la vita è un gioco il cui scopo è di scoprire le regole, regole che cambiano sempre e non si possono mai scoprire», Cirillo [6] continuerebbe dicendo che «come le regole dei giochi, anche le regole dei contesti possono cambiare».
Decido dunque, prima di incontrare la paziente, di sentire anche la dott.ssa De Santis. Anche lei vede Deborah in difficoltà in questo momento e pensa che le gioverebbe un supporto: la ragazza è fortemente delusa nei confronti del padre; se l’affidamento della sorella andrà in porto dovrà affrontare il senso di abbandono e l’invidia; è in conflitto tra la cultura d’origine e il contesto dell’istituzionalizzazione; la sua menomazione fisica investe l’immagine di sé; la sua individualizzazione è difficile perché è stata sempre triangolata dai genitori; infine, è vissuta in un contesto violento. Mi consiglia dunque di partire dal qui e ora per ricostruire poi la storia. «L’osservazione della situazione “qui e ora” e la ricostruzione della storia familiare sono la base di ogni ampliamento della comprensibilità, utile sia al terapeuta, sia al paziente» [5].

Il «luogo sociale» [4] all’interno del quale si svolge questo percorso è un contesto pubblico. Le regole sono dunque diverse rispetto ad un contesto privato. I criteri per iniziare un proficuo rapporto con i pazienti sono in genere legati alla volontarietà della richiesta e alla motivazione al cambiamento. Nel contesto pubblico può accadere che la richiesta d’aiuto non nasca spontaneamente dall’utente ma che sia mediata dall’assistente sociale come in questo caso. Ma «se anche un potenziale utente non chiede alcun tipo d’aiuto, non è detto che non sia in grado di riceverlo, una volta che un organismo che lo ha istituzionalmente in carico chiede un aiuto per lui» [6].
Una tendenza dell’utente del contesto pubblico è spesso quella dell’assistenzialismo, della passività, perché si è troppo abituati all’istituzionalizzazione. Può essere inoltre difficile per l’utente non confondersi tra la molteplicità di contesti e servizi attivi e distinguerli, così come per l’operatore districarsi tra le fila di tale pluralità di sistemi interconnessi e gestirli in un modo che possa essere funzionale all’utente. A questo proposito, Cirillo [6] ci ricorda che, oltre all’importanza del lavoro terapeutico strettamente inteso, sono fondamentali tutti gli interventi giuridici (decreti e prescrizioni) e sociali (affido familiare, inserimento in gruppi-appartamento, ecc.) che devono integrare il lavoro specifico dello psicologo. Il contesto pubblico implica spesso, rispetto al contesto privato, un atteggiamento più flessibile dell’operatore. Ci può essere poi, come in questo caso, la presenza dell’Autorità Giudiziaria. C’è una diversità strutturale tra i due sistemi (il Servizio Sociale e il Tribunale) e una diversità di funzioni. Il Tribunale si viene a collocare in una posizione gerarchicamente superiore a quella del Servizio Sociale, nei confronti del quale esercita un potere prescrittivo [7]. Il Tribunale si configura come un sistema prevalentemente di controllo, ha la finalità di valutare e giudicare fatti e situazioni in merito alla tutela dei minori. Il Servizio Sociale ha come funzioni prevalenti quelle di assistenza e cura, ma anche di vigilanza.
Per concludere, anche in contesti istituzionali “sfavorevoli”, cioè in assenza di un contesto chiaramente definito come terapeutico, di una specifica richiesta d’aiuto, di un contratto preciso, compito dell’operatore dovrebbe essere quello di «trovare, attraverso strategie di intervento congruenti al contesto, possibilità di risoluzione degli aspetti più disfunzionali» [6].

Il metacontesto è la modalità con cui i partecipanti alla relazione vivono il contesto [5].
Per quanto mi riguarda, ho già introdotto il mio vissuto rispetto allo Sportello e alla definizione del mio ruolo in questa specifica situazione.
Rispetto a Deborah, per lei il Servizio Sociale è un luogo importante, che frequenta spesso perché gli incontri con la madre avvengono proprio in questo contesto e perché periodicamente incontra l’assistente sociale e la dott.ssa De Santis. Inizialmente non è molto convinta di intraprendere un percorso di sostegno psicologico, in occasione del primo incontro mi confessa di aver avuto una concezione erronea della figura dello psicologo che aveva confuso con quella dello psichiatra, ma una volta che le hanno chiarito le differenze si è aperta rispetto alla possibilità di avere un suo spazio di ascolto.
Il primo incontro
Le mie perplessità legate al pregiudizio vengono completamente fugate quando conosco Deborah. Mi piace subito. Parla frettolosamente, mangiandosi un po’ le parole, è spontanea, educata, si pone nei miei confronti in maniera aperta e affettuosa. Gesticola parecchio, mettendo in mostra la mano malformata, questa cosa mi sorprende.
Durante la «fase sociale» [8] mi parla della scuola e del suo rapporto con compagni e professori, mi spiega che ha appena concluso la seconda media (nonostante debba compiere 15 anni) per vicissitudini legate al suo trasferimento a Roma e ai vari passaggi tra il Centro Antiviolenza e le due Case Famiglia per cui ha interrotto la scuola, ha finito la quinta elementare da un’altra parte e ha fatto poi la prima media in due scuole diverse.
Rispetto al problema mi riferisce che le hanno fatto notare che in questo periodo è arrabbiata con tutti, in Casa Famiglia litiga parecchio con gli operatori. Confessa di cercare lo scontro così almeno si accorgono di lei, se no si sente poco considerata. Mi mostra i tagli che si è fatta sul braccio e mi dice che così la vedono. Il sintomo assume dunque da subito una valenza relazionale, di cui la paziente è consapevole.
Mi racconta che l’assistente sociale le ha detto che qui potrebbe avere uno spazio dove sfogarsi, visto che tende a farlo su se stessa. Seppure inizialmente restia, ha accettato il consiglio.
Le dico che possiamo stare su questo e in generale su ciò che non la fa stare serena, per trovare modalità più funzionali. La rassicuro sul fatto che questo è il suo spazio e concorderemo insieme cosa fare. Rispetto alle aspettative non mi sa dire nulla.
La scelta di convocare solo Deborah («quale sistema prendere in considerazione» [5]) deriva dal mandato che mi è stato dato, ovvero di fornirle un sostegno individuale, e dal fatto che esisteva già un figura di raccordo tra i diversi Servizi coinvolti. Col senno di poi, però, avrei potuto coinvolgere da subito la Responsabile della Casa Famiglia (così come poi mi ha consigliato di fare il mio supervisore). È anche vero, però, rispetto all’invio, che non era stato definito come nucleo problematico il comportamento litigioso e aggressivo della ragazza all’interno della Casa Famiglia, così come si è evidenziato sempre più successivamente.
IL PERCORSO TERAPEUTICO
Accoglienza e valutazione
Durante i primi 4 colloqui mi sono dedicata alla raccolta delle informazioni rispetto al qui e ora e alla ricostruzione della storia.
I due contesti di riferimento più importanti per Deborah sono la Casa Famiglia e la scuola. Emerge come ci siano delle differenze rispetto al modo in cui la paziente li viva e al comportamento che esercita. Riferisce di stare bene in Casa Famiglia, si è sentita subito accolta, si trova bene con gli operatori e si è affezionata soprattutto ad uno di essi che è quello che le dà più attenzioni, è riuscita a legare con qualcuna delle altre ragazzine. Lamenta però il fatto che venga data più attenzione ai bambini più piccoli, lei vorrebbe qualcuno che si prenda cura esclusivamente di lei (“una famiglia non è come una Casa Famiglia”). Sembra essersi adattata abbastanza bene al contesto, lo preferisce di gran lunga al degrado che ha vissuto al campo Rom, ma risulta un po’ insofferente alle regole. Una volta che le è stata spiegata la differenza tra adozione e affido, si dichiara propensa ad andare in affidamento, le piacerebbe se si trovasse una persona con cui va d’accordo come con l’affidataria della sorella.
Per quanto riguarda la scuola, invece, riferisce di sentirsi accettata dai compagni e non emarginata come quando andava a scuola a Napoli; ammette però di essere molto chiusa nei loro confronti, anche se la cercano lei è restia ad interagirci. Si trova bene con i professori ed è felice che loro elogino il suo comportamento esemplare dicendole che è “l’unica che non dà problemi”, ha paura che se si coinvolgesse di più con i compagni la sua condotta ne risentirebbe.
Per Deborah il problema più grande è non poter stare con la madre. Le dico: “immagina di avere la bacchetta magica ed esprimi tre desideri”, mi risponde che prima di tutto vorrebbe stare con la madre, poi vorrebbe stare con la sorella, rispetto al terzo afferma “diventare una persona importante”, ovvero avere un lavoro, una casa ed un ragazzo. Le dico che per quanto riguarda i primi due purtroppo non dipendono direttamente da lei, mentre il terzo sì, e la rinforzo ed incoraggio rispetto ai suoi obiettivi. Emerge in Deborah un desiderio di riscatto e di rivalsa rispetto al contesto dal quale viene e in cui è cresciuta, ha conosciuto il degrado e la violenza e vuole altro per il suo futuro. Vorrebbe essere indirizzata rispetto all’orientamento degli studi da seguire, perché non sa se andare in una direzione che la porti verso l’università o accedere dopo le medie a dei corsi professionali.
È molto legata ad entrambe le sorelle, soprattutto alla più piccola verso la quale ha un forte spirito di protezione. Razionalmente si dichiara contenta per la possibilità che Valeria ha di andare in affidamento, anche se non vorrebbe mai separarsi da lei.
Parlando dei genitori emerge tutta la sofferenza della paziente, rispetto sia al presente sia al passato. Si delinea il quadro di una famiglia in cui i «confini» [9] non sono mai stati chiari e definiti. Deborah è stata esposta all’altissima conflittualità tra i genitori, alla violenza esercitata dal padre nei confronti della madre, è stata sempre triangolata, utilizzata come confidente dall’uno e dall’altra, messa a conoscenza dei tradimenti del padre, adultizzata. Fino a poco tempo fa si è sempre schiarata in coalizione con il padre contro la madre. Quando la madre ha iniziato ad avere un compagno, la conflittualità con lei è aumentata sempre di più. La ragazza si addossa la colpa della fuga della madre dalla Casa Famiglia e dell’affidamento ai Servizi insieme alla sorella che ne è conseguito. Provo ad iniziare a lavorare su una ricostruzione della storia diversa, per liberarla dai sensi di colpa e farle acquisire una visione dei fatti circolare, ma è difficile smuoverla. In conseguenza di questa sua lettura e dell’esperienza negativa della fuga dal padre (durante quel periodo lui l’ha picchiata per la prima volta), la configurazione relazionale è cambiata e attualmente Deborah è schierata totalmente con la madre contro il padre. Raccogliendo la storia inizio a seminare il dubbio nelle sue certezze, cerco di riequilibrare i conti perché possa acquisire una visione equilibrata dei genitori, nei loro aspetti positivi e in quelli negativi, cerco di de-responsabilizzarla. «[…] tutti i membri vogliono la convalida dei loro punti di vista personali. Benché questo sia il loro desiderio, non è però ciò di cui hanno bisogno. Gli occorre un’esperienza che li liberi dalle prospettive bloccate che essi hanno sviluppato. Gli serve l’opportunità di vedere la propria famiglia sotto una luce più complessa, di lasciar perdere le dicotomie distorcenti buono/cattivo verso le quali sono regrediti» [1]. Mi rendo conto di stressarla troppo presto, mettendo a rischio anche la formazione dell’alleanza terapeutica, ma alla luce di ciò che è accaduto dopo, sono contenta di averlo fatto e penso che questo lavoro possa aver avuto i suoi frutti. Accolgo la sua rabbia riconoscendole i motivi, empatizzo con lei (oltretutto non mi risulta difficile farlo per via delle mie risonanze) sul suo vissuto di figlia triangolata, tirata da una parte e dall’altra, investita di responsabilità che non le competevano rispetto alla sua età. Inizio a lavorare con lei perché possa detriangolarsi [10] e riappropriarsi della sua età.
Diagnosi clinica e relazionale
«L’adolescenza è una fase di passaggio e di crescita, un processo di trasformazione dall’essere bambini al diventare adulti. […] L’adolescente vive una situazione estremamente contraddittoria perché da una parte reclama indipendenza e autonomia dai propri genitori, dall’altra ne è ancora dipendente. […] Il principale compito di sviluppo relativo a questa fase consiste nel realizzare il processo di separazione tra adolescente e genitori e costruire una propria identità separata (individuazione). […] Per la riuscita della “separazione” adolescenziale è necessario che siano raggiunte in maniera soddisfacente le mete dell’affiliazione e dell’individuazione. […] Non ci si può separare se prima non si è appartenuti, e appartenere significa sentirsi parte di quel sapere condiviso che è la cultura familiare e che accompagna l’adolescente nel suo processo di svincolo» [11].
Considerando il modello familiare in cui Deborah è cresciuta, potremmo dire che appartiene alle cosiddette «famiglie multiproblematiche», «caratterizzate dalla presenza di un alto numero di patologie sociali espresse da più di uno dei suoi membri e dalla disorganizzazione profonda della loro struttura. Esse si comportano come sistemi ricorsivi nella misura in cui reagiscono alle difficoltà producendo situazioni di ulteriore difficoltà, […] sviluppando un rapporto di dipendenza dalle istituzioni che intervengono in modo più o meno duramente sostitutivo nei loro confronti e favorendo lo sviluppo di contraddizioni emozionali profonde nei figli divisi tra bisogno di protezione e lealtà nei confronti della famiglia» [13].
La sua, inoltre, è una famiglia «invischiata», caratterizzata dalla presenza di «confini diffusi» e dalla dinamica disfunzionale della «triangolazione» [9]. Ultimamente Deborah è passata dalla coalizione con il padre contro la madre a quella con la madre contro il padre.

Rispetto al modello diagnostico «descrittivo», ovvero quello in cui vengono identificate identità sindromiche [13], il comportamento della paziente potrebbe far pensare ad un Disturbo Oppositivo Provocatorio (DSM-V e ICD-10). Infatti:
• spesso va in collera;
• spesso litiga con gli adulti;
• spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o regole degli adulti;
• è spesso arrabbiata.
Tali comportamenti si manifestano esclusivamente in un contesto significativo quale quello della Casa Famiglia e non in due come richiesto dalla diagnosi; inoltre, il criterio temporale di persistenza del disturbo risulta dubbio per cui non è possibile effettuare la diagnosi.
«Le tendenze all’acting, all’opposizione, alla ribellione, alla sperimentazione e alla messa alla prova di se stessi attraverso gli eccessi, sono manifestazioni utili per lo sviluppo dell’autodefinizione» [14]. «La tendenza ad agire (acting-out e acting-in), fisiologica in adolescenza, può rappresentare una modalità della mente ad elaborare una realtà interna ricca di continui cambiamenti, instabile e, talvolta, inquietante. Attraverso l’agito l’adolescente comunica il proprio disagio e tale forma di comunicazione viene caricata di un valore affettivo e simbolico. L’azione lo aiuta a fronteggiare i conflitti interni» [15]. «Ma l’agire i problemi può creare, talora, uno spunto a condotte rischiose per sé e per gli altri. L’aggressività può essere etero-diretta, sotto forma di attacchi fisici o verbali, o auto-diretta, indirizzata verso il proprio Sé, attraverso la svalutazione, le condotte autolesive come il cutting e/o autodistruttive» [16]. «In certi casi può trattarsi di una vera e propria scarica motoria come risposta immediata ad una situazione di tensione, di conflitto o di frustrazione» [17].

Rispetto al «quando» del sintomo [5], sappiamo che «il comportamento deviante può manifestarsi in coincidenza di alcuni eventi paranormativi stressanti […] e all’interno di una struttura familiare disorganizzata» [11]. Si può ipotizzare che il comportamento di Deborah, già tendente allo scontro e alla provocazione, si sia acutizzato con il rientro in Casa Famiglia dopo la fuga e con l’imminente affidamento della sorella.

Ma «la diagnosi non si fa identificando un sintomo: la si fa contestualizzando nella storia e nella vita attuale della persona» [12]. Il sintomo è un legame, come la sua etimologia ci rivela. E «un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica» [18]. Considerando dunque la diagnosi relazionale, «che riconosce la centralità della relazione come mezzo per rilevare i percorsi e le alterazioni dei percorsi in cui il giovane si muove per raggiungere gli obiettivi evolutivi» [13], possiamo provare a dare un significato al comportamento della ragazza. La provocazione è un comportamento intenzionale che indica comunque un tentativo di dialogo, una richiesta di comunicazione [19]; oltretutto, si manifesta in presenza di persone significative e non di estranei. Sembra che Deborah attraverso lo scontro cerchi la vicinanza da parte degli operatori e della Responsabile della Casa Famiglia. Non riuscendo a chiedere in altri modi, ad esprimere diversamente il suo bisogno di accudimento, il suo desiderio di famiglia, attraverso lo scontro cerca l’incontro e fa di tutto per essere vista, per ottenere attenzioni. La soluzione che ha trovato al problema è però diventata il problema [20].
Articolazione del processo terapeutico e supervisioni
Dopo i primi 4 incontri di accoglienza e valutazione, il percorso è proseguito con altri 5 colloqui, prima del drop-out del decimo incontro. Il percorso della terapia si è incrociato con gli avvenimenti legati alla situazione legale del nucleo familiare della paziente e con gli eventi della vita di questa famiglia, in particolare uno, «paranormativo» ([21], di cui parlerò a breve. Inoltre, è stato attraversato da un cambiamento importante nell’ambito del contesto del Servizio e da un altro determinante nel mio ciclo vitale.
Il lavoro non è stato fatto solo in stanza ma nel pre-seduta e tra una seduta e l’altra, con gli scambi e i feedback tra me, l’assistente sociale e la Responsabile della Casa Famiglia. Due volte la convocazione non ha riguardato solo la ragazza ma anche la Responsabile. Infine, ci sono state le supervisioni, due in questa fase e una alla fine del percorso.
Il quinto incontro viene preceduto da due fatti importanti: una lettera della Responsabile della Casa Famiglia, indirizzata all’assistente sociale, in cui la Responsabile lamenta il comportamento litigioso di Deborah e chiede se non sia il caso di inserirla in un’altra struttura; il decreto del giudice che stabilisce che lei e la sorella possano vedere i genitori una volta al mese con incontri liberi. Se tale provvedimento nei confronti della frequentazione con la madre risulta comprensibile, così non è nei riguardi della frequentazione con il padre e appare anzi piuttosto singolare (alla successiva udienza il giudice ammetterà di non aver letto le ultime comunicazioni dei Servizi). Deborah reagisce molto bene rispetto alla possibilità di vedere la madre senza più la presenza dell’operatore. Mi chiedo però, e ne discuto con lei, se la frequenza mensile, rispetto alla precedente settimanale, non sia troppo esigua, ma sul momento la ragazza è entusiasta di questa parte del decreto e reputa che non sia un problema. Si rifiuta, invece, categoricamente, di incontrare il padre, ma lo sente telefonicamente, anche se con resistenza. Durante il colloquio trovo spiegazioni alla lettera della Responsabile: Deborah mi riferisce che hanno avuto un brutto litigio perché voleva uscire, la Responsabile le avrebbe detto che forse non si trova bene con loro e starebbe meglio da un’altra parte, così lei ha avuto una crisi di pianto e si è tagliata nuovamente. Sembra non ci siano delle regole precise rispetto ai tempi, alla modalità e alla frequenza delle possibili uscite. Le suggerisco dunque di avanzare delle proposte e provare a negoziare, in quanto compito di sviluppo caratteristico della fase adolescenziale che sta attraversando. Infatti, risulta essenziale che l’adolescente eserciti le sue nuove competenze attraverso la negoziazione con gli adulti di riferimento; sta scoprendo le sue capacità di ragionamento e ha bisogno di interlocutori adulti che gli consentano di esercitarle, attraverso anche la conflittualità intellettuale, che ricopre un’importante funzione adattiva [22]. Iniziamo a lavorare anche sul riconoscimento dello stato di tensione prima che arrivi al culmine e sulle strategie per fronteggiarlo, ricorrendo al supporto e alla vicinanza delle figure di riferimento che la paziente ha all’interno della Casa Famiglia.
Infine, Deborah mi porta nuovamente la richiesta di essere aiutata nella scelta tra una scuola superiore che le permetta di accedere all’università e un corso professionale.
La prima supervisione
Il dott. Pelli mi fa ragionare in primo luogo sull’invio che risulta poco chiaro. Esprimo la mia sensazione di dover “tappare un buco”, in quanto se per Valeria è stata trovata la soluzione dell’affidamento, per Deborah ancora no e quindi “nel frattempo le facciamo fare un sostegno”. Per capire meglio il motivo per cui la paziente mi è stata inviata dovrei soffermarmi maggiormente sull’analisi della domanda e sul contesto, e comprendere cosa accade nella Casa Famiglia in cui la ragazza vive. Il dott. Pelli mi mette in guardia rispetto al vedere la situazione «con gli occhi di» Deborah [5] e al considerare il personale della Casa Famiglia poco avvezzo al lavoro con gli adolescenti; mi invita invece ad allearmi con la Responsabile e a convocarla. L’accento viene posto sull’importanza di seguire questo genere di situazioni non esclusivamente in stanza di terapia ma facendo un lavoro di rete.
Comunico, dunque, prima all’assistente sociale e poi direttamente alla Responsabile, la mia intenzione di avere un colloquio con lei per avere un quadro più completo della situazione per poter aiutare meglio la ragazza; l’assistente sociale è d’accordo e la Responsabile si dichiara disponibile a venire.
Al sesto incontro Deborah è più tranquilla, non ci sono stati altri episodi di litigi e di cutting, è molto contenta perché è uscita un paio di volte con delle sue coetanee ospiti della Casa Famiglia e perché c’è stato il primo incontro libero con la madre. È potuta andare a casa sua e in quell’occasione ha incontrato anche dei familiari che non vedeva da tanto. Emerge il forte bisogno di famiglia, di legame con le proprie origini. Da quando la madre ha portato le due figlie a Roma c’è stato uno strappo in questi rapporti e un’istituzionalizzazione forzata. Deborah inoltre sente di dover recuperare la relazione con la nonna materna visto che era stata compromessa dal suo schierarsi in coalizione con il padre. Ricostruisco la storia familiare trigenerazionale per quanto possibile. Si riconferma una famiglia multiproblematica; la paziente sente comunque di aver avuto dei legami significativi. Rispetto alla frequentazione con la madre, spera di poter anche andare a dormire da lei più in là.
Deborah mi informa del suo proposito di legare maggiormente con i compagni di classe una volta che avrà ripreso la scuola: formuliamo dunque questo obiettivo e iniziamo a lavorare sulle strategie per attuarlo.
Infine, le spiego il motivo della convocazione della Responsabile e la rassicuro sulla confidenzialità dei nostri colloqui; la Responsabile però non si presenta, quando la chiamo mi dice che è stata molto impegnata e che proverà a venire la prossima volta.
Il settimo incontro avviene prima della pausa estiva. Ci sono due grandi cambiamenti in atto che intersecano il percorso, che riguardano il contesto e me personalmente. L’AIRES, a seguito del nuovo bando, non viene riconfermato soggetto affidatario del progetto. Dovrebbe subentrare quindi una nuova associazione (in realtà ciò non avverrà subito perché ci sarà di mezzo un ricorso). In quanto volontaria dell’AIRES dovrei lasciare anch’io lo Sportello, inoltre mi sono appena trasferita a Milano, ma per continuare a seguire Deborah faccio richiesta alla Responsabile del Servizio di proseguire il volontariato. La richiesta mi viene accordata. Sarò costretta però, dopo l’estate, a modificare la cadenza degli incontri da settimanale a quindicinale, fissandoli nelle date in cui verrò a Roma per la supervisione indiretta. Sono consapevole che tale scelta non è dettata dalla strategia terapeutica ma è l’unica soluzione logistica per continuare a seguire il caso.
In questo settimo incontro Deborah è sempre entusiasta delle prime uscite che sta facendo insieme alle coetanee, sta sperimentando per la prima volta delle aree di autonomia e lo riporta con soddisfazione. Tocchiamo il tema del rapporto con il suo corpo e della malattia. Mostra di non avere le idee chiare rispetto al perché sia nata con la sindrome di Poland, le hanno dato delle spiegazioni che hanno a che fare con credenze e superstizioni, cerco subito dunque di sfatarle. Il racconto del suo vissuto rispetto alla crescita del suo corpo, che mette in evidenza ancora di più le anomalie, e degli interventi che ha dovuto subire, oltre al senso di diversità rispetto alle coetanee e alle prese in giro che le sono state rivolte, risulta doloroso. Però ha potuto contare sul sostegno dei genitori (soprattutto del padre in occasione degli interventi) e adesso sul supporto dell’équipe della Casa Famiglia, che l’ha aiutata facendole utilizzare degli accorgimenti per dissimulare la malformazione (come una protesi mobile per il seno).
Un motivo di preoccupazione è in questo momento il padre, in quanto la chiama spesso e, sapendo che passerà il giorno del suo compleanno insieme alla madre, la minaccia di venire a Roma e fare del male alla ex moglie. Per questo l’assistente sociale ha consigliato a Deborah di denunciare il padre in forma preventiva e lei è d’accordo. Dopo gli scontri verbali con il padre, la ragazza sta male e anche il padre poi la richiama piangendo, ma ricomincia dopo a minacciare. Accolgo il suo vissuto e ridefinisco l’aggressività del padre come quella di un uomo che non ha ancora accettato la separazione.
In vista della pausa estiva facciamo il punto della situazione sul percorso fatto finora: la paziente si dichiara contenta di aver potuto avere un suo spazio di ascolto, visto che di solito tende a tenersi le cose per sé; riprendiamo quanto emerso negli scorsi incontri, soprattutto il suo essere stata sempre triangolata e l’esigenza che si tiri fuori dalle dinamiche disfunzionali e che si riappropri della sua età e di ciò che naturalmente dovrebbe comportare. Lei accoglie la mia ipotesi che attraverso lo scontro cerchi l’incontro e la vicinanza che non riesce ad ottenere in altro modo; ultimamente sta provando ad essere vista in altri modi che non siano le provocazioni e l’autolesionismo.
Dopo il colloquio, vedo individualmente la Responsabile della Casa Famiglia che mi descrive una Deborah in generale intelligente e piena di risorse ma poco serena, arrabbiata, litigiosa soprattutto con lei e con gli operatori con cui ha una relazione privilegiata; mi riferisce anche che non la vede ben integrata con le altre coetanee della Casa Famiglia (con alcune non regge il confronto) e che anche a scuola ha difficoltà a legare con i compagni; rispetto alla sorella, risente maggiormente della cultura Rom. La definisce molto richiedente e riporta che le “sta continuamente dietro”; in generale, però afferma che non hanno difficoltà a gestirla. Rispetto alla mia ipotesi riguardo la ridefinizione in chiave relazionale del sintomo, le sembra plausibile. Restituisco poi la competenza che hanno avuto nell’aiutare Deborah rispetto alla sua disabilità. Riguardo all’eventualità che la ragazza denunci il padre, la Responsabile si dichiara contraria e non ritiene effettivamente rischiose le minacce del padre.
Durante la pausa estiva, un tragico evento sconvolge la vita di Deborah: il padre muore e, ironia della sorte, il giorno del suo compleanno e il giorno dopo che lei lo aveva denunciato. È l’assistente sociale ad informarmi dell’accaduto. Il padre è morto a Napoli, in ospedale, dove era stato ricoverato d’urgenza per setticemia in quadro di epatite da HCV. Deborah lo ha saputo il giorno dopo. Sento la Responsabile della Casa Famiglia che mi informa che la ragazza, la madre e la sorella sono andate a Napoli. Io mi trovo a Milano e sono in procinto di partire per le vacanze quindi non posso fissare un appuntamento straordinario, ma mi sembra doveroso chiamare Deborah e farle sentire la mia vicinanza.
La seconda supervisione
Avviene al rientro dalla pausa estiva e prima di riprendere i colloqui. Non so come la paziente possa aver reagito alla morte del padre, ma non mi aspetto di vedere un dolore manifesto; probabilmente lo sta esprimendo attraverso altre vie. Potrebbe anche essere che in qualche modo così abbia risolto la lacerante scissione madre/padre pensando “non mi devo più preoccupare di stare dalla parte dell’uno o dell’altro, papà se n’è andato, ora posso essere tutta di mamma”. In ogni caso, attendo di vedere come abbia reagito per poi scegliere come portare avanti il percorso. Se esprimerà una situazione di disagio cercherò di capire come poterla aiutare coinvolgendo la rete sociale che ha intorno. Non credo che spostarla in un’altra struttura o intraprendere un percorso di affidamento possa essere al momento la strada migliore da percorrere. Se, soprattutto a seguito dell’episodio di denuncia, nutrirà dei sensi di colpa verso la figura del padre, o se ci dovessero essere ancora rancore e rabbia nei suoi confronti, si potrebbe portare avanti un lavoro per farci pace, visto che non è riuscita a farlo in vita. È comunque opportuno lavorare in équipe per sostenerla al meglio. Il dott. Pelli mi invita a pensare che il punto centrale è l’accoglienza emotiva della ragazza a prescindere dalla strategia che ha messo in atto per fronteggiare la situazione di lutto. Mi incoraggia rispetto all’iniziativa che ho avuto di convocare la Responsabile della Casa Famiglia, in quanto è necessario sostenere l’alleanza con lei. Si potrebbe ipotizzare un incontro tra la Responsabile e Deborah per far sentire alla ragazza la vicinanza e il supporto che le può dare questa figura, e agevolare la loro relazione: la paziente può avere l’opportunità di capire che può avvicinarsi e comunicare come si sente e la Responsabile può comprendere che quando Deborah si approccia con lo scontro in realtà sta cercando un contatto e vuole comunicare qualcosa. È possibile, a tal proposito, che a seguito di un evento così critico il sintomo si sia riacutizzato. Bisognerà capire cosa stanno facendo in Casa Famiglia per aiutarla. Infine, una collega suggerisce una possibile convocazione della madre, per aiutarla a recuperare un’immagine positiva del padre. Prima di proporlo a Deborah, è opportuno parlarne con l’assistente sociale e con la Responsabile della Casa Famiglia, perché si possa riflettere su tale eventualità.
All’ottavo incontro Deborah è un fiume in piena. Affido alle parole del prof. Cancrini la descrizione del vissuto emotivo che mi sono trovata ad accogliere. «Quando muore una persona amata è naturale essere sopraffatti dal dolore, restare storditi, ritirarsi in se stessi. […] Vi possono essere alcune reazioni emotive che si mettono in moto quando perdiamo una persona cara: 1) stordimento […]; 2) tentativo di recuperare, allontanando l’attenzione da pensieri e ricordi penosi e dirigendoli verso qualcosa di neutro e di piacevole; 3) convinzione delirante che la perdita non sia permanente, ma riparabile: “non è vero”, “non è accaduto”. Dopo la prima fase di stordimento segue la percezione del dolore, un dolore violento, inaccettabile, da cui ci si difende con tentativi più sottili e complessi di negazione. […] A volte capita anche di sentirsi in colpa. I sentimenti di colpa affiorano, più o meno consapevoli, più o meno evidenti, lungo tutto il percorso del lutto, sostenuti, almeno in parte, da una difesa onnipotente. Si cerca un colpevole quando, invece, la perdita si verifica in modo improvviso e inspiegabile» [23]. Un motivo di sofferenza per la paziente è proprio il sentirsi in colpa nei confronti del padre, per non aver voluto vederlo nell’ultimo periodo e per non averlo sentito di più. Avrebbe voluto sapere che stava male e avere la possibilità di andare a trovarlo in ospedale.
Al nono incontro, quando mi riporta questi vissuti, le dico di pensare all’idea di scrivere una lettera al padre per dirgli tutte queste cose. Sul momento le sembra una cosa assurda, ma poi pensa che potrebbe portarla sulla tomba del padre.
Una parte importante del racconto riguarda la ritualità della tradizione culturale Rom nell’affrontare l’evento luttuoso. Sappiamo quanto sia importante l’utilizzo di appositi rituali per rendere meglio gestibili le perdite. Essi nel tempo si trasformano, alcuni vanno in disuso, «ma senza ritualità non può esserci passaggio» [24].
«I riti costituiscono il sistema terapeutico culturale più antico per affrontare le conseguenze della morte per i vivi. Essi incorporano significati simbolici condivisi e propongono un tempo fuori dal tempo per sperimentare, nel modo organizzato delle cerimonie, le emozioni coinvolgenti che la morte evoca. Il loro scopo è iscrivere la scena della morte in coordinate di tempo e di spazio strutturate secondo sequenze socialmente condivise» [25].
Deborah sceglie di aderire ad alcuni aspetti del rituale e non ad altri che sente lontani dal suo modo di pensare e da ciò che ritiene che il padre avrebbe voluto, in ciò viene appoggiata dalla madre. La madre rappresenta un’importante risorsa e sostegno in questo momento per le figlie; è con lei infatti che si recano a Napoli, ricongiungendosi al resto della famiglia e alla collettività del campo.
Un aspetto che mi colpisce positivamente riguarda la descrizione che oggi la paziente fa del padre: se per molto tempo lo aveva idealizzato e negli ultimi tempi demonizzato, adesso gli aspetti positivi e negativi della figura paterna sembrano trovare finalmente ricongiungimento e integrazione nel ricordo. Pur permanendo le criticità che il padre ha sicuramente avuto, Deborah ne è riuscita a recuperare gli aspetti affettivi e di risorsa che ci sono stati, e adesso ha accesso ad un’immagine paterna maggiormente realistica. La sostengo in questo e ripercorriamo insieme alcuni aspetti della sua storia che adesso riesce a vedere in maniera diversa. Per esempio, ridefiniamo l’alcolismo del padre come un sintomo di sofferenza di una persona che aveva i suoi limiti e le sue difficoltà, piuttosto che un vizio.
Nel processo di elaborazione del lutto risulta fondamentale potersi appoggiare a qualcuno che sappia condividere e contenere il dolore, e rivestire un’efficace funzione consolatoria. La famiglia e la comunità di appartenenza costituiscono una risorsa importantissima per l’individuo che si trova ad affrontare una perdita [25].
Scabini e Cigoli parlano di “cura del ricordo”: «La sofferenza per la mancanza si trasforma in un dialogo interiore con chi se n’è andato, dialogo che spinge all’impegno verso i legami significativi presenti. Quanto più tale cura viene coltivata e condivisa all’interno della famiglia, tanto più è possibile connettere passato e futuro e mantenere una peculiare forma di intimità a distanza con chi è ormai lontano. Rievocare insieme fatti ed episodi, anche dopo molto tempo, è di norma un buon metodo per connettere passato e presente e per avvicinare in modo vivo chi è ormai lontano» [24].
Invito dunque Deborah (in questo incontro e nel successivo) a parlare del padre con la madre e le sorelle: la madre si mostra disponibile in questo; Sarah, che è più grande, potrà farglielo conoscere meglio e lei potrà fare altrettanto con Valeria. Rispetto a Sarah, manifesta il desiderio di sentirla di più, lamenta il fatto che la sorella la chiami poco, le suggerisco dunque di cercarla maggiormente lei. Per quanto riguarda Valeria, invece, Deborah evita di parlarle del padre perché ha paura di rattristarla, la faccio riflettere su quanto invece la condivisione del dolore possa alleggerire, facendo sentire meno soli. La esorto anche a farlo nell’ambito della Casa Famiglia, sia durante il colloquio individuale che durante quello congiunto. Le dico, e le faccio dire anche dalla Responsabile, che non è sola, che ha delle persone accanto che si prendono cura di lei e le vogliono bene e alle quali si può rivolgere se si sente triste, sapendo che verrà accolta. La incoraggio anche a trovare un suo modo, privato e personale, di ricordare il padre.
Rispetto al sintomo, la Responsabile mi riferisce che nell’ultimo periodo sono aumentate nuovamente le provocazioni, e Deborah stessa mi racconta di essersi tagliata dopo un litigio con un’amica.
Prima del nono incontro c’è stata l’udienza in cui il giudice ha stabilito l’affidamento di Deborah, nei tempi che il Servizio Sociale riterrà opportuno. Inoltre, è stato aggiunto il pernottamento agli incontri mensili con la madre. Oltre a riprendere il tema della morte del padre (che occupa la maggior parte della seduta), la paziente mi riferisce con soddisfazione che sta mettendo in pratica l’obiettivo di legare maggiormente con i compagni di classe. Appena rientrata a scuola, infatti, si è mostrata disponibile e aperta verso di loro e sta ricevendo feedback positivi dai compagni. Inoltre, ha iniziato a rientrare da scuola da sola (è stata lei a proporlo alla Responsabile). La sostengo e la rinforzo rispetto ai compiti di sviluppo che sta portando avanti. Un altro motivo di felicità è l’aver dormito dalla madre, cosa che desiderava da tanto. Non ci sono stati episodi di cutting e in generale la ragazza appare più serena, forse anche troppo, ricordo infatti di esserne rimasta stupita e non pienamente convinta.
L’INTERRUZIONE DEL PERCORSO E IL FOLLOW-UP
Dopo i primi 4 incontri di accoglienza e valutazione, il percorso è stato portato avanti per altri 5 incontri, durante i quali abbiamo lavorato su:
• cercare di essere vista nell’ambito della Casa Famiglia in un altro modo a parte quello trovato attraverso il sintomo;
• la relazione con i genitori, per permetterle di accedere ad entrambe le figure senza sbilanciamenti e triangolazioni;
• recuperare la sua età uscendo dal ruolo di figlia adultizzata;
• sostegno e rafforzamento di aree di autonomia e di una propria progettualità;
• rapporto con i coetanei.

Si è instaurata una buona alleanza terapeutica e ho cercato di lavorare in rete con l’assistente sociale e la Responsabile della Casa Famiglia, per quanto ho potuto. Il percorso è stato interrotto, però, dopo il nono incontro, per volontà di Deborah, come mi appresto a descrivere.
Il drop-out
L’appuntamento fissato dopo il nono incontro salta perché in Casa Famiglia hanno perso il promemoria con la data, la Responsabile ha provato a contattarmi ma avevano il numero della linea dell’AIRES che però non è più attiva, visto che l’associazione ha dovuto lasciare il Servizio. Lascio dunque alla Responsabile il mio numero personale (prima la regola era di non fornirlo). La chiamo la settimana successiva per un cambio d’orario e così, casualmente, vengo aggiornata rispetto agli ultimi sviluppi che non mi erano stati comunicati né da lei né dall’assistente sociale. La Responsabile mi riferisce che la ragazza ultimamente è molto agitata, tesa, cerca lo scontro e litiga con tutti, nei suoi confronti è molto richiedente, si rifiuta di proseguire gli incontri con me e per questo la Responsabile l’ha portata al Servizio per parlare con l’assistente sociale. La Responsabile ha paura che possa fuggire nuovamente e pensa che il comportamento provocatorio sia un modo per ottenere di vedere maggiormente la madre, ma lei le ha spiegato che finché non si procederà con l’affidamento della sorella non si potranno ridiscutere i tempi di visita della madre. Le rimando che i tempi giuridici non corrispondono a quelli psicologici e che forse la frequenza mensile risulta troppo esigua per Deborah, soprattutto in questo momento in cui sta affrontando il lutto del padre. La recente agitazione potrebbe essere dovuta proprio al lutto, così come all’avvicinarsi del distacco con la sorella. Le dico infine che non può essere costretta a proseguire gli incontri se non vuole, ma è necessario che ci vediamo per chiudere il percorso.
Prima del decimo incontro la Responsabile mi avvisa che Deborah non vuole venire, ma anche questa volta viene contattata prima l’assistente sociale ed è lei a convincerla.
Vedo la paziente insieme alla Responsabile. Mi colpisce subito l’abbigliamento (appariscente e aggressivo) della ragazza e il suo non verbale per cui si pone in maniera dura, chiusa e scorbutica come mai finora. Precisa subito che non ha intenzione di proseguire gli incontri perché non le va più, sta bene e “tanto non serve a niente”. Dietro l’atteggiamento provocatorio di Deborah emerge subito l’esigenza e il desiderio di trascorrere più tempo con la madre. «L’utente, con il suo comportamento inadeguato, sta segnalando l’insostenibilità della sua posizione all’interno di un dato sistema» [26].
«Di solito i sintomi compaiono quando una persona si trova in una situazione impossibile e sta tentando di uscirne […] il sintomo non può essere superato senza produrre nella situazione sociale di una persona un radicale cambiamento che la renda libera di crescere e di svilupparsi» [27].
La ragazza è stufa di aspettare la decisione del giudice e minaccia di fuggire. Mi associo a lei dicendole che comprendo la sua insofferenza, le spiego che purtroppo ci sono dei tempi giuridici ma le assicuro che la direzione in cui ci si muove è quella della sua tutela e della sua protezione. Cerco di capire se la sua irrequietezza sia legata esclusivamente a questo o anche al contesto della Casa Famiglia; Deborah afferma che lì si trova bene però non lo ha scelto lei. È disponibile a rimanere in Casa Famiglia fino a 18 anni se non si trova una persona affidataria, però vuole vedere di più la madre. Comprendo la difficoltà di accettare scelte che vengono dall’alto e in cui non si ha avuto voce in capitolo, ma le rimando che attorno ha delle persone interessate al suo benessere alle quali può esprimere i suoi bisogni. Mi associo a lei rispetto alla sua arrabbiatura, sono tanti i motivi per cui ha tutto il diritto di essere arrabbiata: a partire dalla sua storia, la malattia, la violenza intra-familiare, la triangolazione, l’abbandono della madre, la morte del padre, l’affidamento della sorella, l’istituzionalizzazione. Deborah si commuove.
Le dico che alcune cose purtroppo non dipendono da noi ma altre sì, anche se lei forse si è un po’ abituata che decidano sempre gli altri; una decisione che riguarda lei è quella che riguarda la sua progettualità per esempio.
Accolgo la sua esigenza di vedere di più la madre come assolutamente plausibile, ma non accetto il modo in cui la stia manifestando: non è con il ricatto che otterrà ciò che vuole ma comunicando il suo bisogno agli adulti che possono muoversi per cercare di farle vedere di più la madre. Ipotizzo dunque un incontro tra me, l’assistente sociale e la Responsabile per chiedere al giudice delle modifiche al regime di frequentazione. Deborah si rifiuta anche di andare a scuola, inizialmente dicendo che non le va di studiare, ma poi rivela di aver sentito dei compagni di classe che la criticavano per il suo abbigliamento e a seguito di ciò si è nuovamente chiusa nei confronti di tutti. Con la Responsabile cerchiamo di supportarla rispetto alle sue difficoltà di integrazione, ma mi mostro ferrea sull’importanza e la necessità che continui ad andare a scuola. Le propongo un patto: lei si impegna ad andare a scuola e noi ci impegniamo a farle vedere di più la madre. Accetta.
Le rimando che ha una storia difficile ma che ha dimostrato di avere le risorse per fronteggiarla e ha una rete di persone interessate al suo benessere. Faccio il punto della situazione sulla terapia, su cosa abbiamo lavorato. Deborah afferma che l’esigenza di un sostegno psicologico non è nata da lei e il percorso svolto non cambia il fatto che non vede la madre, le dico che abbiamo dato un senso e un significato diverso ad alcune cose, che ha lavorato tanto ma che certo poi ci sono delle questioni come la frequentazione sulle quali è necessario muoversi in un altro modo. Le propongo di fare altre 2-3 sedute per concludere ma è irremovibile, non vuole neanche più parlare con l’assistente sociale se non ci sono novità concrete, è stufa di parlare “se poi non ci sono i fatti”.
Mi sembra che il rifiuto della scuola e della terapia si configurino come un attacco al sistema, un modo per protestare rispetto alla costrizione di doversi adeguare ad un regime di frequentazione che non la fa stare bene.
La conclusione del percorso
L’ultimo atto di questo percorso è un incontro a tre con l’assistente sociale e la Responsabile. Quando sento l’assistente sociale per concordarlo mi riferisce di aver stabilito lo stesso patto che ho fatto anche io senza che ci fossimo confrontate, e che anche con lei Deborah si è ammorbidita di fronte a questo approccio. Durante l’incontro a tre ho formulato una restituzione sul percorso svolto; risultano molti i punti toccati, per cui proverò a sintetizzarli:
• Tendenza all’agito: cerchiamo innanzitutto di capire quale sia stato il punto di rottura per vedere se ci siano delle analogie con l’episodio della fuga dell’anno scorso e per prevenire agiti futuri. Secondo l’assistente sociale, Deborah è cambiata dopo l’ultima udienza; per la Responsabile ciò che la fa scattare è l’incertezza di non sapere cosa ne sarà di lei, poi ci potrebbe essere il fatto che si è resa conto che vedere la madre una volta al mese non le basta, l’avvicinarsi dell’affidamento della sorella e la sfiducia verso la possibilità di un proprio affidamento. «Allorquando l’ambiente esercita delle costrizioni troppo rigide o troppo in contrasto con il bisogno naturale dell’adolescente, uno dei suoi ultimi appigli è rappresentato dal passaggio all’atto» [17]. Inoltre, la tendenza all’agito, piuttosto che alla «mentalizzazione» [28], ha radici profonde in quanto le sue figure di riferimento ne sono state contraddistinte (tendenza alla fuga presente anche nella madre, nel padre tendenza alla violenza e all’alcol). Però gli adulti di riferimento che ha adesso possono agevolarla nell’esprimere i suoi vissuti in maniera più funzionale. La Responsabile riscontra che la ragazza ha già iniziato un po’ a farlo, comunicando quando c’è qualcosa che non va e cercando di ricucire dopo i litigi. Inoltre, riesce a parlare del padre con lei e a volte ricordano insieme degli episodi.
• Appartenenza e differenziazione [9]: entrambi gli aspetti risultano fondamentali nel percorso di crescita ma nel caso di Deborah si aggiunge anche lo scontro tra due culture. Con l’istituzionalizzazione le si chiede di rinunciare del tutto alla cultura Rom e i legami con la famiglia allargata non vengono facilitati (la Responsabile soprattutto tende ad intervenire su tali aspetti). Risulta importante però riuscire ad integrare componenti della sua cultura d’origine e del contesto in cui vive adesso (per esempio Deborah è molto legata al ballo, elemento che la legava anche al padre). Un altro aspetto da preservare è quello dei legami familiari, la ragazza sente il bisogno di sentire la sorella maggiore e le cugine e non andrebbe ostacolata in questo perché sono le sue radici e non le deve recidere, lei viene da lì, è la sua famiglia e «non può ritrovare le basi della sua identità se non attraverso l’iscrizione nel romanzo familiare» [17]. L’assistente sociale ne riconosce l’importanza.
• Sensi di colpa nei confronti dei genitori: Deborah continua a darsi la colpa per la fuga della madre e a ciò si è aggiunto il vissuto di colpa per avere evitato il padre nell’ultimo periodo. È necessario che riesca ad accedere ad un’immagine più realistica della madre, e che riesca a perdonarsi.
• Integrazione degli aspetti positivi e negativi delle figure genitoriali: il lavoro svolto le sta permettendo di integrarli per quanto riguarda la figura paterna; è auspicabile che ciò avvenga anche nei confronti della madre, a tal proposito la Responsabile riferisce che sta iniziando ad attaccarla e non la protegge più come prima.
• Rapporto con i pari: nel gruppo dei pari l’adolescente può sperimentarsi in diversi ruoli e l’identificazione con il gruppo costituisce un punto di riferimento essenziale [11]. Una parte del lavoro è stata dedicata a questo, ma ha bisogno di continuare ad essere sostenuta e incoraggiata rispetto alle relazioni con i coetanei. La Responsabile riferisce che Deborah ha partecipato per la prima volta ad una festa con i compagni di classe e che ha iniziato a manifestare interesse per un ragazzo; inoltre stanno cercando una palestra per riuscire a farle fare reggaeton. Sono contenta di questa iniziativa perché attraverso il ballo si potrebbe facilitare la socializzazione e l’espressione della sua femminilità.
• Progettualità: Deborah non è abituata a scegliere ma al fatto che siano gli altri a scegliere per lei, deve però iniziare a capire che alcune cose dipendono da lei, come la scelta di cosa fare dopo la terza media. L’assistente sociale sta anche pensando, se non dovesse andare in porto l’affidamento, ad un progetto di permanenza in casa famiglia fino a 22 anni e lo ha già accennato alla ragazza.
• Risorse: Deborah ha una storia difficile ma anche tanta determinazione, spirito critico, forte senso di giustizia e tanto altro ancora, che ha bisogno di scoprire per acquisire sicurezza.

Siamo tutte d’accordo sulla necessità che l’assistente sociale chieda al giudice di rivedere il regime di frequentazione tra Deborah e la madre. L’assistente sociale, inoltre, ha forse trovato una possibile affidataria: lei e Deborah si sono già incontrate una volta. Nel congedarmi da loro riconosco l’ottimo lavoro svolto dalla Casa Famiglia, contesto in cui la ragazza si trova bene e che sente sicuro, e rimango a disposizione rispetto ai successivi sviluppi.
La terza e ultima supervisione
Il dott. Pelli mi fa riflettere sul fatto che, una volta stabilito il patto con Deborah, avrei potuto anche fermarmi e sospendere gli incontri per riprenderli dopo la riunione di équipe, mentre io mi sono avviata alla chiusura facendo una restituzione e un passaggio di consegne. Probabilmente, in ciò ha pesato la mia fatica nel portare avanti il percorso vivendo in un’altra città. Non è stato facile, stando fisicamente da un’altra parte, fare il lavoro di rete che situazioni come questa richiedono. Inoltre, la mancata convocazione della madre può aver inciso sul drop-out. Il mio non essere sempre presente al Servizio ha influenzato probabilmente il percorso. In più, il contesto del Servizio è cambiato quando l’AIRES è dovuta andare via, mi sono ritrovata sola e non ho ricontrattato il mio ruolo nella gestione del caso. Inizialmente infatti c’era la dott.ssa De Santis come psicologa di riferimento del nucleo familiare e come figura di raccordo tra i vari Servizi attivi, mentre il mio intervento era stato richiesto unicamente per fornire a Deborah un sostegno. Non avendo ricalibrato la definizione del mio ruolo, sono rimasta una figura ibrida. È per questo probabilmente che, quando la ragazza ha iniziato a minacciare la fuga e a dire che voleva interrompere il percorso, la Responsabile l’ha portata dall’assistente sociale, mentre io non sono stata avvisata e ho scoperto l’accaduto solo per caso. Il dott. Pelli mi rimanda l’immagine di “un fantasma che si aggirava per il municipio”. Questa metafora mi risuona parecchio e mi permette di tirare fuori il vissuto di solitudine che ho sperimentato. Non essendoci più l’ AIRES mi è mancata una “cornice” all’interno del Servizio, così come nella mia vita con la fine del training e l’allontanamento dalle figure di riferimento professionali e affettive. Accanto a ciò emerge la sensazione di non essere riuscita a dare il massimo in questa situazione. Il dott. Pelli mi rimanda di non aver fatto troppo poco ma anche troppo, avendo dato tanto nella relazione con Deborah ed essendo rimasta come volontaria. Mi invita, inoltre, a non fare interpunzioni solo su me stessa ma a farle anche verso l’esterno, in quanto se c’è qualcosa che non torna in un percorso è sempre buona regola riflettere sul “dove” della Griglia di lettura [5].
L’aggiornamento sulla situazione
Dopo tre mesi dall’ultimo incontro effettuo un follow-up telefonico. Chiamo dunque l’assistente sociale per avere notizie di Deborah.
Il patto è stato mantenuto: l’assistente sociale ha richiesto al giudice una modifica del regime di frequentazione con la madre e la ragazza va regolarmente a scuola. Il giudice ha appoggiato la proposta di vedere la madre ogni 15 giorni e quindi adesso Deborah passa con lei un weekend sì e uno no (con pernottamento). A scuola va bene, i professori riferiscono che è maggiormente integrata nel gruppo-classe rispetto all’anno scorso e che partecipa di più. Le hanno fatto i test sull’orientamento e le è stato consigliato il liceo socio-psico-pedagogico, lei è convinta di questa scelta e pensa che le possa effettivamente piacere. Inoltre, secondo l’assistente sociale, il fatto che sia stata indirizzata ad un liceo e non ad un istituto professionale ha accresciuto la sua autostima. Rispetto ad un suo possibile affidamento, non è andato in porto perché Deborah non era convinta della persona che ha conosciuto e ha deciso di non provare con altre e rimanere in Casa Famiglia. Probabilmente non vuole esporsi a nuove aspettative deluse e non vuole vivere un altro strappo, dopo tutti quelli che ha vissuto finora. Proprio rispetto a questo, con l’avvicinarsi del decreto del giudice che stabilirà l’affidamento della sorella, la ragazza ha ripreso a “fare la matta”. Presto verrà fatta una nuova valutazione a neuropsichiatria infantile visto che la valutazione precedente richiedeva un aggiornamento dopo un anno e ne sono passati più di due. In seguito alla valutazione è probabile che ci possa essere un invio al servizio di Tutela Salute Mentale e Riabilitazione in Età Evolutiva (TSMREE). Nel frattempo, al Servizio il progetto non è ancora ripreso perché il ricorso è stato vinto e bisogna rifare il bando. Infine, Deborah sembra riuscire ad accedere adesso ad una visione più integrata della madre, in quanto si permette di litigare con lei e metterla in discussione, segnale che forse i suoi sensi di colpa si sono allentati.
CONCLUSIONI
Questa esperienza di terapia e il percorso di supervisione indiretta mi hanno lasciato tanto.
Rispetto alla terapia penso che, nonostante la complessità e le difficoltà incontrate, sia stata una bella esperienza sia professionalmente che umanamente, e che mi abbia arricchito. Ho fatto i conti con i miei limiti di persona e di terapeuta, scontrandomi con pregiudizi, difficoltà legate al ciclo di vita e con la complessità di un lavoro svolto all’interno di un contesto ben diverso dallo studio privato. Ma, come direbbe Whitaker, «qualsiasi terapia utile implica un certo grado di sofferenza e di lotta» [1]. Ricordo con piacere il percorso svolto, l’alleanza che si è creata, il clima in stanza piacevole nonostante i temi affrontati fossero difficili. Uno degli obiettivi principali nella conduzione delle sedute è stato la creazione ed il mantenimento di una relazione di fiducia tra me e la paziente, all’interno di una cornice di accettazione empatica, di un atteggiamento di ascolto attivo e curiosità verso la sua storia e la sua realtà. Ho utilizzato le «ridefinizioni in positivo» [29] e le “letture circolari” [3,18], mi sono sentita comoda in stanza e ho potuto accedere a quella «spontaneità terapeutica» di cui parla Minuchin [30]. Lavorare con lei ha fatto emergere le mie risonanze di figlia triangolata e di sorella maggiore. Le risonanze nascono dalle reciproche costruzioni della realtà dei membri del sistema terapeutico: «[…] questi elementi sembrano risuonare come risultato di un fattore comune, nello stesso modo in cui gli oggetti materiali possono cominciare a vibrare sotto l’effetto di una data frequenza» [31].
La supervisione è stata la bussola che mi ha permesso di orientarmi meglio nel “dove” [5] e di farmi comprendere quanto situazioni come questa vadano gestite maggiormente al di fuori dalla stanza di terapia, piuttosto che dentro. Mi porto tale insegnamento come modus operandi di un lavoro di rete che è necessario e doveroso fare, soprattutto in casi e in contesti come questo. Porto con me l’importanza dell’interrogarsi, l’umiltà di mettersi in discussione e il valore aggiunto del confronto e dello scambio con altri punti di vista. Mi propongo di essere maggiormente indulgente, con me stessa e con gli altri, perché spesso ciò che le persone fanno è ciò che di meglio sono riuscite a fare in una data situazione. Un’altra cosa che metto nella mia valigia da terapeuta, grazie al dott. Pelli, è l’attenzione da rivolgere alle varie fasi della terapia a partire dall’accoglienza, dalla costruzione della domanda, dalla definizione degli obiettivi, per far sì che non solo il terapeuta sappia orientarsi nel percorso ed abbia sempre accesso ad un meta-livello ma che i pazienti stessi siano consapevoli del lavoro che stanno facendo con noi. Non un intervento sulla persona ma un intervento con la persona, fianco a fianco, non un paziente passivo nelle mani di un terapeuta esperto, ma un individuo/sistema che ha il diritto-dovere di riappropriarsi del proprio processo di crescita all’interno della cornice di una relazione significativa che possa sostenerlo in questo, come un gesso temporaneo, perché possa poi tornare a camminare con le proprie gambe.
Per dirlo con le parole di Whitaker: «Io ritengo che la guida fondamentale del mio ruolo professionale sia il massimo potenziamento della crescita di tutte le persone coinvolte nel processo terapeutico, compresa la mia crescita. […] le famiglie non crescono perché il terapeuta fa loro qualcosa; la vera crescita deriva da qualcosa che terapeuta e famiglia si fanno reciprocamente. […] Dobbiamo fargli capire che non possiamo mostrargli la strada, che per raggiungere una qualsiasi meta dovranno sporcarsi le mani» [1]. È per questo che Whitaker invita a non addossarsi la responsabilità del paziente, perché ciò varrebbe a non considerarlo competente, e mette in guardia dai tentativi dei pazienti di delegare al terapeuta la responsabilità per la loro vita. “È la loro partita, non la mia”. È compito del terapeuta, invece, “organizzare la partita in favore del cambiamento”, ovvero costruire le condizioni che favoriscano la possibilità di una crescita reale, assumendosi la responsabilità delle decisioni e delle azioni all’interno del contesto terapeutico.
Infine, uno strumento potentissimo nel quale ho imparato a credere profondamente è l’“uso del positivo”. Quando ho iniziato il percorso di training all’interno dell’Istituto Random ero più incline a vedere gli aspetti negativi, le mancanze, le carenze… probabilmente anche a seguito di una storia personale che ho imparato poi a rinarrare e nei confronti della quale il mio vissuto emotivo è cambiato negli ultimi 5 anni. Sentivo di avere un bagaglio che mi appesantiva e ricordo con affetto quando il dott. Costanzo mi regalò il libro “Pollyanna”, che avevo letto durante la mia infanzia e che ho forse compreso veramente da adulta.
Si chiude adesso un cerchio, iniziato con quel ricordo e concluso in questo anno di supervisione con le parole che spesso il dott. Pelli ci ha detto: «Se le persone vengono da noi sanno già che qualcosa non va; sta a noi fargli scoprire e riscoprire le loro risorse e competenze».
È con questo tema che vorrei chiudere la mia tesi e con le parole di due grandi terapeute, ma soprattutto due grandi donne, che purtroppo non ho avuto l’onore di conoscere ma che ci hanno regalato un libro, “Potere in amore”, che per me in questi anni è stato “il libro dei libri”, al quale più volte mi sono rivolta e che ogni volta mi ha donato qualcosa in più: «Tutta la terapia è una ricostruzione attraverso immagini positive (ridefinizioni, sottolineature, metafore, ecc.) dell’immagine del sé […]. Il terapeuta attraverso il proprio atteggiamento, attraverso le proprie emozioni, attiva le parti migliori degli individui che ha di fronte e si propone come uno specchio che rimanda immagini insolite o dimenticate […]. In una coppia, nei singoli, nella storia, nei ricordi, ecc., c’è sempre un’infinità di particolari belli e vitali; sta al terapista coglierli e riproporli come reale scoperta (non invenzione, la sottolineatura del positivo non è un’invenzione né una mistificazione). Si trova quasi sempre quello che si cerca. È assai raro e improbabile trovare qualcosa che non cerchiamo» [29].
Penso di aver trovato tanto, e ringrazio per questo, ma continuo nello stesso tempo a cercare…
BIBLIOGRAFIA
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