L’indiretto interessato: considerazioni
sulla supervisione indiretta e indagine
sulle interviste ai didatti del Centro Studi

Valentina Albertini1, Lisa Rontini2, Gianmarco Manfrida3


Particolarmente dedicato ai medici e agli operatori della salute, l’articolo col­locato in questa sezione risponde a una domanda fondamentale sulla possibilità di utilizzare, fuori dal campo in cui esso nasce, il sapere che origina dal lavoro degli psicoterapeuti.


Especially adressed to practitioners and other health specialists, the article placed in this section answers to the main question on the possibility to make use of the knowledge resulting from the work of psychoterapists outside the field in which it is born.


Dedicado especialmente a los médicos y demás profesionales de la salud, el artículo presentado en esta sección responde al tema fundamental sobre la posibilidad de utilizar los conocimientos derivados del trabajo de los psicoterapeutas fuera de su campo original.



Riassunto. Il 21 e 22 settembre 2012 i didatti del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale si sono incontrati a Prato per riflettere insieme sul tema della supervisione indiretta. Gli autori riportano in questo articolo quanto emerso all’interno del convegno negli interventi dei supervisori ma anche dei giovani terapeuti presenti. Per l’occasione hanno condotto inoltre un’indagine qualitativa fondata sull’esame di 16 interviste, rivolte ad indagare le opinioni dei supervisori su: differenze e somiglianze fra supervisione diretta e indiretta, lo spazio e il tempo della supervisione, aspetti che facilitano e ostacolano la supervisione, responsabilità nella supervisione diretta e indiretta, preferenze personali per le due modalità. I questionari sono stati sottoposti ad analisi qualitativa; i risultati rivelano aspetti condivisi e altri discordanti nell’atteggiamento dei supervisori. Per completare il quadro un supervisore, un’allieva didatta e una terapeuta hanno compilato un doppio decalogo orientativo per coloro che richiedono la supervisione indiretta e per coloro che la forniscono.

Parole chiave. Supervisione indiretta, psicoterapia relazionale, formazione psicoterapeutica, indagine qualitativa, Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma.


Summary. Indirectly interested: some considerations about indirect psychotherapy supervision, with a qualitative investigation of 16 interviews to supervisors.
The origins of this paper are in a meeting in September 2012 in Prato of teachers and clinical supervisors from the Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma (Director: prof. Luigi Cancrini). It was an occasion to discuss theory and practice of indirect supervision, that is supervision done not directly from behind a one-way mirror, but on the therapist’s or student’s verbal presentation of a clinical case of his own. Besides reporting the outcome of the meeting, this paper includes the results of a qualitative investigation conducted by means of a specifically developed interview considering manifold aspects of indirect supervision practice. Cross examination of the interviews, submitted to 16 experienced supervisors and successively elaborated, reveals basic affinities and relevant differences in the way supervisors consider indirect supervision.

Key words. Indirect psychotherapeutic supervision, relational systemic psychotherapy, psychotherapy training, qualitative investigation, Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma.

Resumen. Indirectamente involucrados: algunas reflexiones sobre la supervisiòn indirecta in psicoterapia, y una investigaciòn cualitativa de 16 entrevistas con supervisores.
Este artículo nace del encuentro de los supervisores del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma (director: prof. Luigi Cancrini) organizado en Prato en el mes de septiembre 2012. Objectivo del encuentro era crear una reflexión sobre la práctica de la supervisión indirecta. En esta práctica el terapeuta, después de las sesiones de terapia, pide consejos sobre un caso clínico a un supervisór. Además que hacer el relate de los trabajos de aquellos dias, los autores describen una investigación cualitativa de 16 entrevistas hechas a los supervisores del Centro Studi; el análisis de las entrevistas ha permitido evidenciar opiniones más o menos compartidas por los supervisores sobre el tema de la supervisión indirecta.

Palabras clave. Supervisión indirecta en psicoterapia relacional sistémica, formación en psicoterapia, investigación cualitativa, Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma.
INTRODUZIONE
Il 21 e 22 settembre 2012 i didatti del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale si sono ritrovati a Prato per continuare a riflettere insieme su argomenti di interesse comune; in continuità con Torino 2011 dove si era parlato di supervisione diretta, a Prato l’argomento è stato quello della supervisione indiretta. Riportiamo in questo articolo quanto emerso all’interno del convegno e i risultati di un’indagine qualitativa da noi portata avanti in occasione di questo incontro fra i didatti. Per creare un contesto di riferimento comune, crediamo inoltre utile proporre un breve excursus bibliografico sulla letteratura esistente sul tema della supervisione indiretta.
UNA BREVE REVISIONE BIBLIOGRAFICA
SULLA SUPERVISIONE INDIRETTA IN TERAPIA RELAZIONALE
«Di una cosa possiamo essere certi: la supervisione indiretta non è su qualcosa di solido e reale; può essere solo sulle idee. Niente pazienti, niente famiglie, o coppie o figli. Solo idee di pazienti e idee di famiglia…» [1]. Cotugno ritiene che il testo privilegiato per riflettere sul fare supervisione indiretta sia proprio quello di Bateson “Dove gli angeli esitano”: lì si sottolinea l’importanza di esitare piuttosto che dedurre logicamente. «Conviene esitare e far esitare per sfuggire agli effetti tossici della troppa trasparenza, per condurre allo sguardo e salvaguardare una zona di segretezza e di non comunicazione indispensabile ai processi mentali, per far sì che la parola possa rispondere al compito di essere anche il nome della relazione e non solo il senso degli oggetti» [2].
Haley ritiene [3] che la supervisione indiretta, o meglio “basata sulla conversazione”, può essere utile quando il supervisore ha già istruito il terapeuta in precedenza: i due condividono un approccio e il colloquio clinico in oggetto può essere descritto mediante un linguaggio comune. Il supervisore pensa a delle direttive da dare e può discutere delle analogie con altri casi in modo che possano essere tratte generalizzazioni utili al terapeuta per i casi successivi. Haley invita i supervisori ad accollarsi tutta la responsabilità del caso, guai compresi. Il suo stile pragmatico lo porta a ritenere necessario fornire al terapeuta che chiede aiuto delle indicazioni precise, concrete, nella direzione del cambiamento dei pazienti: bisogna dirgli cosa fare. Limitarsi ad ascoltare, parlare di teoria, esplorare il vissuto del terapeuta, non è utile a nessuno ma resta l’unica strada percorribile quando non si sa da che parte andare. Se il terapeuta chiede “Come posso impedire che quest’uomo continui a picchiare la moglie?”, non c’è per Haley risposta più inutile che “Proviamo a parlare di quanto questo fatto ti turbi”.
Scopo ultimo della supervisione è creare terapeuti che apportino miglioramenti a ciò che imparano [3].
Cancrini considera la supervisione come l’occasione di rimettere ordine tra livelli interdipendenti in cui i fatti si trovano ad essere impropriamente collegati e propone un parallelo tra la supervisione e la psicoterapia, che rappresenta anch’essa il tentativo di ridare spazio e potere alle risorse bloccate dalla confusione [4]. Ritiene inoltre molto importante considerare le circostanze personali del terapeuta perché è proprio dall’interno di esse che egli incontra una certa famiglia: esiste un rapporto verificabile tra errore del terapeuta e circostanze della sua vita personale e professionale. Ecco quindi che l’intervento di supervisione non si configura come intervento sulla famiglia consigliato ad un terapeuta che ha bisogno di informazioni in più; piuttosto in termini di risposte fornite ad una domanda del terapeuta che parla in nome del sistema di cui è parte [4].

Quando si parla di supervisione indiretta si fa riferimento ad allievi che portano casi della loro attività clinica ad un terapeuta con maggiore esperienza. Il supervisore si trova quindi davanti ad un compito complesso che è quello di trovare un equilibrio tra la formazione dell’allievo-terapeuta e quello della cura della famiglia, che resta l’obiettivo privilegiato [5].
Anche per l’allievo la situazione non è semplice: sia che la supervisione si svolga all’interno di un gruppo di training che fuori, la cornice di riferimento cambia e viene richiesto uno scatto di crescita, c’è da gestire l’ansia da prestazione, la paura di sbagliare, la mancanza della protezione del gruppo, del citofono, dello specchio: come in ogni processo di crescita, ci sono perdite e acquisizioni.
È un po’ come quando si impara a guidare: all’inizio non si ha un proprio stile e si fa fatica a prestare attenzione a tutte le cose che ci sono da gestire e che sembrano importanti allo stesso livello. Confessiamolo pure, tanto sarà capitato più o meno a tutti almeno una volta di non capire ciò che il supervisore stesse dicendo: ti affidi, tolleri l’ansia e la frustrazione. Poi via via capisci sempre meglio, le cose cominciano a connettersi, a funzionare magicamente, riesci a stare sempre più comodo con i pazienti nel rispetto di loro e di te stesso. E molto spesso le cose dette in supervisione indiretta si svelano nell’attimo in cui diventano nostre, fino ad un momento nel quale si comincia a prendere un po’ di sicurezza tanto da potersi permettere un timido ma orgoglioso e segretissimo pensiero sul proprio stile personale.
La relazione tra terapeuta e supervisore ha un aspetto evolutivo, non tanto diverso da quello che dovrebbe accadere tra terapeuta e paziente: si va da un massimo di presenza ad una graduale uscita di scena. Nonostante si tratti di un rapporto asimmetrico di iniziale dipendenza, ci si muove per stabilire una relazione di tipo maieutico, tale da permettere l’emergere di idee e stile personali [5].
Nell’articolo di De Bernart e Dobrowolski “La supervisione clinica nel training” vengono analizzati alcuni problemi che possono nascere nel rapporto supervisore-terapeuta durante la supervisione diretta; riteniamo che possano essere situazioni che si possono vivere anche nella supervisione indiretta.
Menghi e Giacometti [6] sottolineano due aspetti necessari al supervisore: la costruzione di un osservatore interno “capace di differenziare parti diverse di sé, di identificarsi e separarsi” e la sospensione dell’azione. Il rischio che talvolta i supervisori possono correre è quello di fare troppo, magari a carattere non solo esibizionistico, ma anche protettivo. Con il rischio però di passivizzare l’allievo-terapeuta e di anteporre le proprie urgenze ai bisogni dell’allievo.
Soffermandoci sulla questione delle emozioni del terapeuta e del supervisore non possiamo non citare le riflessioni proposte da Searles [7]. L’autore parla di “processo di riflessione” facendo riferimento a quella gamma di emozioni che il supervisore può provare nel corso del suo rapporto con il terapeuta come riflessi del rapporto esistente fra terapeuta e paziente e in ultima analisi, del paziente stesso. Non sempre in risalto sulla scena della supervisione, il processo di riflessione, se debitamente utilizzato, può svolgere un ruolo vitale durante la seduta, perchè può offrire degli indizi che mettono in luce le oscurità esistenti nel rapporto paziente-terapeuta [8].
Ci possono essere alcuni problemi nel rapporto supervisore-terapeuta, come ad esempio aspetti di ambivalenza dell’allievo verso il supervisore simili a quelli che i pazienti possono avere per i loro terapeuti. Attraverso il racconto il supervisore entra in un terreno che spesso è sentito di propria appartenenza dal terapeuta: ambiguità inconsapevole nella richiesta di aiuto rispetto alla quale c’è difficoltà ad accettare un nuovo e spesso prestigioso ingresso [8]. Searles sottolinea come gli aspetti di dipendenza dell’allievo vengano più facilmente verbalizzati, mescolati ad una forte rivalità, che invece resta più nascosta: nell’articolo l’autore paragona il rapporto tra terapeuta e supervisore a quello della madre che allatta con il marito. Sono relazioni nelle quali è necessario che coesista una certa quantità di attaccamento insieme ad una certa quantità di separazione, che devono potersi modificare al momento giusto via via che il percorso evolutivo avanza.
Un altro rischio presente nella relazione terapeuta-supervisore è quello della collusione: colludere significa letteralmente giocare insieme, in questo senso non è di per sé un’evenienza negativa. Cardinali e Guidi [9], prendendo a prestito il modello della relazione contenitore-contenuto elaborato da Bion in tema di identificazione proiettiva, hanno proposto un parallelo rispetto alla relazione terapeutica: il paziente evacua gli elementi beta, ossia quelle parti di sé che non tollera e che non ha potuto elaborare e trasformare, in un oggetto esterno, in questo caso il terapeuta. Il quale funge da contenitore qualora ponga in atto la sua capacità di ricevere, elaborare e restituire le proiezioni dei pazienti; può però anche succedere che il terapeuta non sia nella possibilità di contenere, allora sarà molto probabile che faccia sentire al supervisore le stesse emozioni che i pazienti hanno fatto sentire a lui. Il supervisore, collocandosi come contenitore rispetto al terapeuta, può mostrare il fenomeno e aiutare il terapeuta e fungere a sua volta da contenitore rispetto ai suoi pazienti.
La collusione può assumere un valore negativo nel momento in cui si colloca su un piano di rigidità, senza evoluzione. Alcuni modelli collusivi esemplificati nell’articolo di Cardinali e Guidi sono del tipo “come noi non c’è nessuno”, “il creatore e la sua creatura”, “il persecutore e la vittima” , “o con me o contro di me”, “il terapeuta del terapeuta”. In tutte queste modalità che si possono in qualche modo “sottoscrivere” è la capacità del supervisore di porsi in una posizione meta rispetto alla coppia supervisore-terapeuta e a portarvi il terapeuta stesso che viene individuata come potenziale via di risoluzione.
INDAGINE SULLA SUPERVISIONE INDIRETTA
ATTRAVERSO INTERVISTE AI DIDATTI DEL CENTRO STUDI
In occasione del Convegno del Centro Studi, svoltosi a Prato il 21 e 22 settembre 2012, abbiamo pensato di organizzare una breve indagine per raccogliere spunti di riflessione proprio su questo tipo di supervisione. È stata quindi strutturata un’intervista composta da otto domande aperte, inviata per e-mail o raccolta direttamente nei mesi compresi fra giugno e settembre 2012. Le interviste raccolte sono state 16, analizzate poi qualitativamente con l’ausilio del software Atlas.it. Il materiale testuale raccolto è stato inizialmente sottoposto ad un processo di “codifica aperta” con lo scopo di ricondurre i dati a concetti generali che ne riassumessero contenuto e significato, e sviluppare da questi alcuni codici. Successivamente, i codici ottenuti sono stati assegnati ad altri meno numerosi codici di maggiore ampiezza (chiamati Code Families), nel tentativo di sistematizzare i principali temi emersi. Riporteremo inoltre in corsivo in questo testo alcune delle risposte più significative.
Differenze e somiglianze fra supervisione diretta e indiretta
Le prime domande dell’intervista si sono concentrate sugli aspetti di somiglianza e differenza fra la supervisione diretta e quella indiretta.
Secondo quanto riportano gli intervistati, fra la supervisione diretta ed indiretta quello che cambia è sicuramente il rapporto fra il didatta e l’allievo.
La supervisione indiretta presenta come caratteristica peculiare l’aspetto dell’ascolto. La supervisione diretta invece, poiché il supervisore è parte del sistema terapeutico, privilegia l’aspetto dell’osservazione.
Altra specificità segnalata rispetto alla supervisione indiretta riguarda il suo essere centrata sul rapporto diadico fra allievo e didatta. Nella supervisione diretta il didatta è infatti chiamato ad intervenire in prima persona all’interno della terapia e delle dinamiche familiari che si giocano in seduta.
La finalità della supervisione diretta dal punto di vista dell’allievo è imparare; la finalità della supervisione indiretta è imparare ad imparare”.
Inoltre, la lente attraverso la quale si osserva il sistema terapeutico cambia molto e il focus dell’attenzione in supervisione indiretta si sposta dalla famiglia al terapeuta, che diventa il centro dell’intervento. Come poi viene ricordato, la supervisione indiretta è una relazione che va al di là del training, e può essere richiesta da colleghi o altri allievi, che hanno già un loro modo peculiare di fare terapia:
Nella supervisione diretta non è detto che l’allievo/terapeuta si trovi in difficoltà; mentre nella supervisione indiretta, il focus principale gravita sulle difficoltà del terapeuta”.
L’indiretta è più centrata sull’allievo, osservato nel rapporto terapeutico del suo lavoro clinico extratraining; inoltre essa può avvenire durante il training o dopo con ex-allievi del proprio gruppo o altri della scuola, o con terzi (e in contesto individuale o no) e il richiedente ha già una base di stile personale di terapia, che il supervisore deve cercare di capire”.
Essendo il richiedente il focus della supervisione, cambiano anche le modalità di intervento che vengono messe in atto concentrandosi non solo sul contenuto del racconto ma anche sulla relazione e sulla dimensione non-verbale di quanto viene riportato.

Nella supervisione indiretta ascolto il racconto non solo nei contenuti ma nelle modalità con cui i contenuti vengono raccontati : mi accorgo di pensare alla plausibilità e alla coerenza delle sequenze che mi vengono raccontate, mi sorprendo a riflettere su come vengono raccontate, alla forma del racconto: penso che esiste un isomorfismo tra ciò che accade in seduta e il modo in cui viene raccontato. Mi accorgo di far caso a ciò che manca, a ciò che non viene detto, o che non è stato chiesto, o che non è stato fatto e mi sorprendo a constatare come spesso la mancanza è collegata a una collusione del terapeuta, a una sua paura, un disagio, a una esigenza di controllo, alle sue reazioni controtransferali ”.
L’obiettivo è capire quali sono gli elementi di accoppiamento strutturale tra l’allievo e il paziente/famiglia, quali le risonanze emotive che possono interferire col processo terapeutico”.
La supervisione indiretta è sempre chiesta e presentata per cui esiste già un ulteriore livello di pensiero sulla situazione rispetto alla diretta”.
Fra la supervisione diretta ed indiretta vengono sottolineati comunque anche alcuni aspetti comuni: in primis, la ricerca di finalità terapeutica insita in ciascuno dei due interventi. Inoltre, entrambe variano al variare dell’esperienza del supervisore, migliorando con il tempo e con l’accrescersi delle competenze. In entrambe poi viene sottolineata la centralità della famiglia, che è sempre “nella testa” del supervisore, e l’interazione con essa.
Lo spazio e il tempo della supervisione
Un dato molto interessante emerso da tutte le interviste, che ha meritato nella nostra analisi un focus particolare, riguarda il tema del tempo e dello spazio nelle due diverse supervisioni. Intuitivamente, la prima differenza emersa è quella fra una supervisione diretta sincrona, dove il supervisore osserva il sistema in diretta, ne raccoglie istantaneamente i feedback e agisce di rimando, e una supervisione indiretta asincrona.
L’asincronicità della supervisione indiretta, se da un lato impedisce al supervisore di raccogliere gli elementi più immediati e “freschi” della relazione terapeutica, gli lascia il tempo di raccogliere informazioni dettagliate sui vissuti del terapeuta. Il tempo della terapia lascia il passo al tempo della narrazione dei vissuti del terapeuta: questo permette una riflessione più ampia e approfondita. Il tempo dei due tipi di supervisione appare molto diverso nelle parole degli intervistati. Nella supervisione indiretta il tempo di riflessione è maggiore, quindi il coinvolgimento emotivo è dilatato e in qualche forma minore:
[…] c’è più tempo per riflettere e il coinvolgimento emotivo è meno forte, si agisce su un livello di pensiero più squisitamente sistemico ma occorre porsi domande più profonde sulla personalità e la storia del terapeuta e studiare bene come attivare le sue risorse senza attivarne le difese”.

Il “qui e ora” resta infatti uno degli elementi centrali della supervisione diretta, mentre lo spazio dell’indiretta permette un tempo di gestione delle emozioni più dilatato e quindi anche una maggiore capacità di riflessione.
Inoltre, come supervisori, si hanno feedback molto differenti: sono infatti immediati nella diretta, mentre con la indiretta i “ritorni” sono più filtrati.
Con la supervisione diretta possiamo vedere direttamente l’impatto sulla famiglia dell’intervento del terapeuta e viceversa l’impatto della famiglia sul terapeuta. Nessun altro approccio psicoterapeutico permette questo”.

Quando si parla di “tempi diversi” ci si riferisce inoltre al tempo dell’allievo e della sua vita professionale: alla supervisione indiretta si arriva in una fase diversa e con una competenza e maturità diversa, questo permette un lavoro più profondo e maggiormente incentrato sulle dinamiche.
Sono le differenze spazio-temporali, intese non soltanto come spazio e tempo fisico diverso in terapia diretta e indiretta, ma anche come diversa distanza fisico-temporale-emotiva tra allievo e supervisore”.
Inoltre, se la supervisione indiretta viene svolta durante il training, l’allievo si trova in una fase del proprio ciclo formativo particolare, che può incidere sulle differenze fra i due tipi di supervisione: nella diretta il percorso formativo è in fieri, mentre il secondo tipo di supervisione “è in una fase di progressivo distacco dell’allievo e del gruppo”.
Aspetti che facilitano e ostacolano la supervisione
Una delle domande poste ai nostri intervistati ha riguardato gli aspetti che possono facilitare la supervisione indiretta. In termini di frequenze di risposte, notiamo che l’aspetto che maggiormente facilita una buona supervisione indiretta è la capacità di fornire un resoconto chiaro della terapia. Trattandosi di un’analisi qualitativa, ricordiamo che gli elementi che si presentano con maggior frequenza sono quelli intorno ai quali esiste un maggiore accordo fra gli intervistati.
La capacità di relazionare il caso e di poter riconoscere un bisogno”.

Questo resoconto, oltre a esplicitare gli eventi in una forma narrativa, permette anche una rielaborazione del vissuto emotivo del terapeuta che chiede la supervisione:
Un racconto chiaro e coerente dove le emozioni del terapeuta, soprattutto quelle che possono imbarazzare, sono ben evidenziate”.
La distanza dal caso clinico, attraverso il resoconto verbale, facilita una distanza emotiva e quindi una maggiore attenzione del supervisore sia ai contenuti della terapia oggetto della supervisione che alla capacità del terapeuta di raccontarli e di agirli in seduta”.

Altri due aspetti che definiremmo più “relazionali” sono la conoscenza della storia personale dell’allievo e il rapporto di fiducia con il supervisore:
Facilitante è la stima e la fiducia nel supervisore da parte dell’allievo”.

La supervisione indiretta è facilitata da un allievo che si pone senza il bisogno di dimostrare il suo valore come terapeuta (onnipotenza) o, dall’altro lato, da un allievo che non scivola in una mera dipendenza dal supervisore (impotenza), al quale finisce per delegare poi ogni passaggio della terapia.

C’è quindi una serie di aspetti facilitanti che hanno a che fare con la relazione che si instaura: in primis fra supervisore e supervisionato ma, ad esempio se la supervisione avviene dentro al training, anche la relazione fra allievo e gruppo può facilitare o ostacolare.
“In training, che l’allievo possa esporsi davanti al gruppo (in atteggiamento di ascolto) senza sentirsi giudicato, avendo tempo e calma necessari per passare a uno sguardo di 2° livello, emergendo nel procedere del racconto aspetti più profondi e particolari meno evidenti al primo sguardo”.
Rispetto ai casi, in alcune interviste emerge come anche le situazioni cliniche che vengono portate in supervisione possono aiutare. In particolare, viene sottolineato come sia un supporto alla supervisione il portare casi di pazienti non cronicizzati o alla prima esperienza terapeutica, oppure casi gestiti direttamente, senza l’intervento di servizi o altri professionisti che possono complicare la supervisione.

Fra gli aspetti maggiormente di ostacolo, quelli che emergono con maggiore frequenza riguardano la relazione con il supervisore: dipendenza da un lato, opposizione e quindi resistenza alla supervisione dall’altro.
In un’intervista sono ben riassunti gli aspetti dell’allievo che possono ostacolare:
L’allievo che tende alla simmetria, l’allievo troppo dipendente, quello troppo compiacente o seduttivo, l’allievo che di fronte alle proposte del didatta dice l’ho già fatto ma non serve, l’allievo che dice oh, sì è vero e poi non lo fa, l’allievo che ti porta seduta per seduta in modo che la terapia la fa il supervisore, l’allievo che ti porta un fiume di sedute e poi per due mesi ti parla d’altro…”.

Una relazione strettamente dipendente dalla supervisione da un lato e la creazione di aspetti simmetrici dall’altro sono due punti della relazione disfunzionale che può crearsi all’interno della supervisione e quindi ostacolare il rapporto. “Gli ostacoli sono rappresentati dal costituirsi di rigidità su uno dei due poli su cui oscilla sempre una relazione significativa come quella allievo-didatta, ovvero dipendenza e autonomia”.
Penso a due situazioni diverse: la prima in cui l’allievo aveva talmente paura di farmi arrabbiare (di essere disapprovato) da nascondermi gran parte delle informazioni più importanti ed in cui il rischio maggiore per me è stato quello di irritarmi con lui fino a quando sono riuscito a raggiungerlo con l’aiuto (affettuoso) del gruppo. La seconda in cui l’allievo tendeva a presentarmi il suo lavoro come “perfetto”, aspettando che io intervenissi sulla coerenza del racconto per farmi vedere che lui, invece, a quella aveva già pensato: come se non accettasse l’idea di ‘aver bisogno di una supervisione’ ”.
I sentimenti di Fiducia e di Affidamento permettono di mettere in evidenza i punti deboli e le risorse senza attivare troppo le difese narcisistiche; al contrario, un eccesso di confidenza o di sentimento protettivo o un’aspettativa di competenza ‘magica’ può far perdere nel supervisore quel necessario distacco che evidenzia le incongruenze della storia riportata”.

Il coinvolgimento di altri specialisti nella supervisione è un altro aspetto particolarmente di ostacolo, in quanto l’ottica sistemica ci insegna a tenere conto di tutta l’équipe curante, ma a volte i colleghi non risultano troppo collaborativi nella presa in carico condivisa di un caso.
I casi di supervisione indiretta più complessi e quindi difficili sono quelli in cui sono coinvolti altri supervisori. Mi riferisco a quando l’allievo è il terapeuta di una coppia il cui marito, ad esempio, è seguito in individuale da altro terapeuta che chiede altra supervisione. I piani si intrecciano e le variabili di cui tener conto aumentano”.

Anche gli aspetti personali del supervisore, strumento fondamentale per raccogliere i sentimenti di transfert e controtransfert, possono diventare un ostacolo alla supervisione se non individuati e gestiti. La supervisione, come ci viene ricordato nelle interviste, espone per sua natura a “scivolamenti narcisistici” e a sentimenti di onnipotenza: è importante quindi che questi vissuti siano sempre tenuti presenti dal supervisore all’interno della relazione con l’allievo.
Il didatta per il ruolo di prestigio che assume nel processo formativo e per tratti che possono caratterizzare il suo funzionamento è esposto a slittamenti di tipo narcisistico, di tipo seduttivo o autoritario che, se sfuggono alla sua consapevolezza e capacità di controllo, finiscono per ostacolare la funzione trasformativa della supervisione”.

In ogni caso, è bene ricordare come fa qualche intervistato che la supervisione è come uno specchio che riflette all’infinito: di fronte alle difficoltà, anche il supervisore può chiedere aiuto a colleghi: “Alla fine, comunque ho chiesto a mia volta una supervisione ad un supervisore più esperto e l’esperienza si è svolta e poi conclusa in un modo più soddisfacente, senza drop out da parte di nessuno degli attori coinvolti”.
La responsabilità nella supervisione diretta e indiretta
Una delle domande dell’intervista si riferiva al livello di responsabilità sentito dal supervisore, e veniva chiesto se questo cambiasse o meno fra la diretta e la indiretta.
Abbiamo diviso le risposte in quattro macro aree. Una prima sezione riguarda le risposte di coloro che dichiarano di sentire lo stesso livello di responsabilità fra i due diversi tipi di supervisione. In due interviste, viene esplicitato che il carico di responsabilità è lo stesso perché in entrambi i casi si tratta di una richiesta di aiuto. Quello che cambia è il carico emozionale fra i due tipi di supervisione, ma la responsabilità resta la stessa:
Non sento differenza nella gravità di incidere in chi chiede aiuto a dare una svolta, anche se in fasi diverse, della sua vita.” “No il livello di responsabilità è il solito quello che è diverso è il carico emozionale che ti dà un paziente o la famiglia che segui da anni perché sofferente di una grave psicopatologia”.

In alcune interviste emerge la percezione di una minore responsabilità in supervisione indiretta. Questo dipende dalla differenza dei feedback che si ricevono: la diretta mette il supervisore in rapporto immediato con la famiglia, quindi c’è necessità di essere immediatamente reattivi. La supervisione indiretta offre invece uno spazio di riflessione più mediato, e quindi il supervisore può prendere maggiore distanza e agire con più calma: “Meno responsabilità perché più lontani dal dato concreto si può “giocare” con maggiore libertà”.
Alcuni intervistati dichiarano che il senso di responsabilità in supervisione diretta è maggiore. Questo dipende da vari fattori: in primis, la supervisione diretta si esplicita in un contesto di apprendimento in cui “l’allievo è alle prime armi e sta lì per imparare”. Inoltre, la famiglia spesso fa una domanda di terapia direttamente al didatta, quindi il didatta sente direttamente su di sé la responsabilità terapeutica, che è invece, appunto, indiretta nell’altro tipo di supervisione: “spesso la domanda di terapia è inviata al didatta e la famiglia sta lì per il didatta”.
Esistono anche delle dimensioni “personali” del supervisore che amplificano la responsabilità esperita nella supervisione diretta: “le mie esigenze di controllo sono “esaltate” dalla situazione di supervisione diretta”. Inoltre, la responsabilità è maggiore perché è multipla: “il mio compito esplicito è che l’allievo cresca insieme alla famiglia e al gruppo di formazione”.
C’è però anche chi sostiene che la responsabilità è maggiore in supervisione indiretta, perché “si tratta di ‘toccare’ premesse più astratte e profonde dell’allievo”, quindi “alla responsabilità verso il paziente si aggiunge quella di non far perdere al terapeuta un’opportunità, talvolta unica, di confrontarsi con un proprio punto debole e di superarlo”.

Da ultimo, c’è chi sostiene che la differenza fra le due supervisioni non sia nel carico ma nel tipo di responsabilità che si deve gestire. Noi lo abbiamo indicato come una differenza nei livelli di coinvolgimento: “la responsabilità che sento è massima in entrambe le situazioni; cambiano gli obiettivi: nel primo caso sento la responsabilità di aiutare la famiglia attraverso l’allievo, facendolo crescere ed eventualmente (se presente) gestire il gruppo; nel secondo caso la responsabilità è diretta esclusivamente all’aiuto degli utenti”.
Quindi è forse più corretto parlare di “potere” piuttosto che di responsabilità: “posso avvertire un diverso livello di potere sulla terapia, perché c’è un passaggio in più e il mio potere si esprime nel tentativo di aiutare al meglio l’allievo ad agire a sua volta al massimo delle sue capacità. Ma la responsabilità è sempre relativa al livello di ciò che sono tenuta a dare all’interno dei miei ambiti di azione”.
Meglio la diretta o la indiretta?
L’ultima domanda della nostra intervista chiedeva agli intervistati se si sentissero a proprio agio maggiormente nella supervisione diretta o in quella indiretta. Come negli altri casi, anche per questa domande le risposte sono state molto varie e hanno permesso la sistematizzazione attraverso molti codici.
In due interviste emerge la dichiarazione di sentirsi maggiormente a proprio agio nella supervisione diretta. Questo perché la supervisione diretta dà l’accesso ad un riscontro immediato dell’operato del supervisore, quindi mette in una condizione di maggiore controllabilità degli eventi che accadono in seduta. In nove interviste viene invece specificato il sentirsi maggiormente a proprio agio in situazioni di supervisione indiretta.
Per sua caratteristica, la indiretta permette un intervento a livello narrativo di tipo diverso: “Della supervisione indiretta mi fa sentire a mio agio e mi affascina la possibilità di creare una realtà condivisa in cui le caratteristiche della famiglia, della relazione terapeutica instaurata e del processo terapeutico emergono attraverso il racconto”.
Il sentirsi a proprio agio è a volte connesso anche al minor coinvolgimento emotivo in supervisione indiretta, cosa che permette la creazione di uno spazio più “ragionato” e di maggiore riflessione “(mi sento più a mio agio) in quella indiretta perché essendoci un minor coinvolgimento emotivo c’è una maggiore possibilità di ragionare sul processo clinico”. In un’altra intervista, questo stesso elemento viene definito come “pensabilità”: “Lavorare sul racconto della terapia è comunque piuttosto impegnativo, ma non c’è l’urgenza dell’intervenire, c’è più spazio per la “pensabilità, quindi il sentirsi maggiormente a proprio agio in un contesto di co-costruzione narrativa.
Anche la responsabilità viene percepita in maniera diversa, elemento che può essere connesso con una situazione di maggiore agio: “Lentamente, negli anni, in quella indiretta perché il carico di responsabilità mi sembra minore”.
Oggi sento più intrigante ascoltare come l’allievo costruisce il suo racconto , ricostruire le parti mancanti, far emergere le incongruenze e le incoerenze tra il suo racconto e i “fatti” raccontati, scoprire con lui le collusioni, tollerare con lui il ‘buio della mente’…”

Vogliamo comunque specificare, come ci ricorda un collega in un’intervista, che il sentirsi a proprio agio non è direttamente connesso ai risultati ottenuti. Non ne viene fatta una questione di valutazione dell’operato e non viene dato per scontato che, laddove ci si senta più a proprio agio, si raggiungano anche risultati “migliori”: “Al momento, mi sento più a mio agio nella supervisione indiretta, ma questo non significa che i risultati ottenuti siano per questo da considerarsi ”migliori” rispetto a quelli conseguiti attraverso la supervisione diretta”.
ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
In questo paragrafo cercheremo di restituire le considerazioni generali emerse dall’analisi delle interviste e parte del dibattito che ha animato il convegno del Centro Studi di settembre 2012.
In generale possiamo dire, utilizzando la metafora [10; 11] che accosta le diversità delle scuole che compongono il Centro Studi al canto polifonico nel quale più voci eseguono differenti melodie formando un insieme armonico, che quella di Prato è stata un’altra occasione nella quale accordare gli strumenti per cori ancora più intonati. Questa polifonia si percepisce anche nella pratica della gestione della supervisione indiretta, che varia molto fra centro e centro, ma anche fra i singoli didatti.
All’interno del training del Centro Studi la pratica della supervisione indiretta inizia generalmente al terzo anno, anche se poi ogni centro ha un suo spazio di autonomia. Nonostante le differenze, inizia per tutti nel contesto protettivo del training e corrisponde di per sé ad una evoluzione formativa (e ci si augura non solo) del terapeuta. La supervisione indiretta “si colloca in uno spazio d’intersezione tra il dentro e il fuori del training ed è pertanto spazio privilegiato di crescita dell’identità dello psicoterapeuta” [12]. La supervisione indiretta evolve e cambia parallelamente alla crescita dell’allievo: all’inizio le narrazioni vertono in maniera privilegiata su aspetti pratici e le indicazioni riguardano non solo l’andamento generale del processo terapeutico ma anche e soprattutto aspetti che fanno riferimento alla gestione della singola seduta, ai piccoli ma grandi dubbi (le convocazioni, le singole domande da fare e aree da indagare per sopravvivere alla seduta). Il didatta, secondo Cancrini, aiuta l’allievo agli inizi ad organizzare la vita professionale nel tentativo di far acquisire un pensiero terapeutico. Nel tempo invece le narrazioni stesse si diversificano, sono sempre più complesse fino ad includere il rapporto terapeutico, assente inizialmente giustificato: come se lo sguardo del giovane terapeuta si allungasse fino ad un orizzonte più ampio mano a mano che cresce e acquisisce esperienza e sicurezza, tanto da arrivare a poter includere se stesso e la relazione terapeutica nel racconto che porta in analisi. Ed ecco che temi lasciati maggiormente sullo sfondo, inerenti ad esempio il funzionamento della mente del terapeuta, possono acquisire più spazio, fino ad arrivare, nella fase finale della formazione, a favorire il processo di individuazione del giovane terapeuta.
Altro processo che si muove in parallelo con l’introduzione della supervisione indiretta nel training è quello dello svincolo dell’allievo: dal gruppo, dai didatti, dalla scuola. Il giovane terapeuta, che nella grande maggioranza dei casi sta vivendo lo stesso percorso di svincolo dalla sua famiglia d’origine, quando le cose vanno bene comincia a trovarsi via via sempre più solo nella pratica clinica. All’inizio vuole essere condotto per mano per poi acquisire sicurezza e voglia di provare a percorrere la propria strada. Ecco quindi che può succedere che l’allievo si accosti all’esperienza della supervisione indiretta con un intreccio di emozioni contrastanti: così come l’adolescente vuole a tutti i costi conquistare la sua autonomia, scalpita rabbioso al minimo accenno di controllo esercitato dai genitori, ma guai a loro se si allontanano troppo dal campo di battaglia, guai se si rifiutano di combattere; così l’allievo può sentire l’intervento del didatta come un’intrusione, può sentire la paura di confrontarsi con un compito gravoso, la rabbia verso colui che prima era a fianco e ora sembra esserci sempre meno, ma anche il sollievo, la gratificazione, l’idealizzazione. Allo stesso tempo il brivido e l’eccitazione dell’ignoto, dell’azzardo, del piacere di misurarsi con le proprie forze: un insieme di emozioni che certamente investe il didatta, coinvolge e riguarda il gruppo e, non in seconda battuta, il caso per il quale la supervisione è stata richiesta.
Il racconto viene proposto al supervisore così come al gruppo, che rappresenta lo scenario in cui diversi livelli di interconnessione agiscono: è il contesto privilegiato dove formazione didattica e sviluppo personale del sé terapeutico si amalgamano. Il gruppo di training funziona come “base sicura” nell’apprendimento delle diverse tecniche e anche come specchio che permette ad ogni allievo di costruire la propria immagine della relazione tra allievo e supervisore. Dando la possibilità di rispecchiarsi negli altri offre l’occasione di rielaborare la propria immagine in uno spazio di auto-osservazione: permette quel movimento circolare del noi-io-noi che favorisce un processo di individuazione all’interno di uno spazio comune [13].
Visto che una delle principali caratteristiche del Centro Studi è la nota mancanza di ortodossia cui le sedi dovrebbero adeguarsi, quello di Prato è stato anche lo scenario dove confrontare somiglianze e diversità sull’argomento in esame, lasciando ad ognuno la responsabilità e la libertà di esprimere le proprie modalità, facendo ovviamente riferimento a comuni programmi formativi e a solidi punti di riferimento teorici.
Tra le considerazioni condivise da tutti circa la supervisione indiretta vi è l’importanza dell’ascolto, la dimensione del “fare con”, dell’aiutare l’allievo a crescere trovando il proprio modo di fare terapia, del coinvolgimento del gruppo sia come contenitore che come partecipante stesso al processo terapeutico. Così come il richiamo alla pericolosità di atteggiamenti narcisisti del didatta che possano umiliare/scoraggiare l’allievo terapeuta.

Tra gli aspetti che invece sottolineano le diversità dei centri, quelli a nostro avviso più rilevanti e che hanno acceso la discussione fra i partecipanti durante il convegno si sono concentrati sul tempo di introduzione della pratica della supervisione di casi individuali, e come introdurre il tema dell’insegnamento della terapia individuale in un’ottica sistemico-relazionale.
Per quanto riguarda la prima questione, le varianti esistono non solo per la considerazione di quando un allievo venga considerato “pronto”, ma anche per le risposte che ogni scuola sente di dare rispetto alle domande che un esercito di psicologi sta ponendo con sempre maggior urgenza, cioè il bisogno di essere sostenuti per fronteggiare un mercato del lavoro “psico” sempre più complesso.

Per quanto riguarda invece il tema dell’insegnamento della psicoterapia individuale, bisogna partire dall’evidenza per la quale i casi portati dagli allievi in supervisione indiretta sono spesso quelli che incontrano nell’esperienza del tirocinio dove le situazioni possono riguardare famiglie, coppie, individui, come anche sistemi organizzativi complessi. Gli allievi, a cui viene insegnato a coinvolgere le famiglie, sono in linea di massima destinati ad una professione privata nella quale la maggior parte delle richieste saranno di pazienti individuali. Da quello che è emerso durante il Convegno si può dire che ogni sede sta cercando di dare la risposta più adeguata a questa nuova esigenza formativa, tenendo conto delle peculiarità legate al contesto ambientale e al tessuto sociale specifico. Nuova perché, come sappiamo, il Centro Studi è nato come una istituzione che faceva formazione a persone che lavoravano o avrebbero lavorato nel Servizi Pubblici. Oggi la realtà è tale per cui gli allievi non pensano di poter lavorare nel pubblico ed hanno bisogno di essere preparati a condurre anche terapie individuali, o come dice Cancrini, “di essere aiutati a organizzarsi nei confronti di” [11]. Cosa non particolarmente difficile, visto che gli allievi, al termine dell’iter formativo non hanno imparato soltanto o prevalentemente delle tecniche di intervento con la famiglia, ma sono soprattutto portatori di una visione, quella sistemica, che li accompagnerà in tutte le occasioni professionali che da lì in avanti potranno avere [14].
“Prima di insegnare qualcosa a qualcuno bisogna conoscerlo” dice Michel Serres [15]. Quindi vale la pena fermarci a chiederci chi è il venusiano/giovane terapeuta che più frequentemente viene a bussare alla porta dell’esperto supervisore. Possiamo tracciarne un breve identikit segnaletico, che siamo sicuri molti colleghi riconosceranno nel profilo dei loro allievi. Si tratta di una donna, laureata in psicologia, che si affaccia alla formazione post-universitaria con la speranza di fare bene un lavoro che le piace e che vorrebbe iniziare a fare quanto prima, visto che ha 27 anni, vive ancora in casa dei genitori o, nella migliore delle ipotesi, sta pagando un affitto salato o un mutuo trentennale, guadagna poco nonostante si dia un gran da fare. Finito il tempo delle ideologie, svaniscono le appartenenze ed emergono bisogni pragmatici che forse rendono meno sacrali le richieste e le esperienze, ma non per questo meno autentiche e imbevute di personali speranze. Gli allievi hanno sempre più bisogno di iniziare a lavorare il prima possibile, e per farlo e farlo bene hanno bisogno (oltre che di una seria e solida formazione) di tutto l’incoraggiamento, il sostegno, la fiducia dei propri didatti; i quali devono aiutare gli allievi ad essere consapevoli di sé come persone e come terapeuti, per evitare che la presunzione dell’ignoranza faccia danni incalcolabili, ma anche spronarli perché tirino fuori il coraggio necessario a lavorare, ad imparare a farlo. Il nostro essere sistemici ci obbliga a confrontarci con un presente in rapido mutamento: e se lo sballottamento e la velocità che caratterizzano il mondo del lavoro oggi possono farci venire il mal di mare, dobbiamo essere consapevoli che tener conto di queste richieste è l’unica strada per rispondere a bisogni legittimi dei nostri allievi.
Il tema dell’introduzione della supervisione indiretta è ovviamente strettamente connesso a quello dell’insegnamento della psicoterapia. Noi pensiamo che imparare dalla propria azione, in linea con lo stile pragmatico americano ormai adottato anche a livello europeo col motto del “learning by doing”, sia centrale: questo significa che prima si comincia, meglio è.
Haley ritiene che la cosa migliore per insegnare la psicoterapia sia mettere i terapeuti esordienti nella stanza con i pazienti entro le prime due o tre settimane della loro formazione clinica [3]. Dietro di loro c’è il supervisore che protegge il cliente dagli errori del terapeuta. Una visione per noi così estrema, di una guida che prende le decisioni e si assume tutta la responsabilità di ciò che accade, certamente risente dell’importanza che negli Stati Uniti viene data all’individualismo. Sappiamo che invece i terapeuti della famiglia in Giappone hanno un approccio molto diverso dove supervisore e gruppo di formazione dietro lo specchio cercano di trovare un accordo su cosa fare: il supervisore è in questo caso soltanto un rappresentante del gruppo.
Pur ritenendo una distorsione dell’insegnamento della psicoterapia quella che vede il supervisore tenere un atteggiamento arrogante che non incoraggi l’indipendenza di pensiero del terapeuta, riteniamo che sostenere il giovane terapeuta nella costruzione della sua carriera significhi anche accettare di cominciare a fare supervisione indiretta il prima possibile, non appena l’allievo si presenterà con un caso. Questo significa per noi stare nel cambiamento e farlo perché la teoria sistemico-relazionale continui ad essere portata avanti con sempre più psicologi che ci si possano avvicinare.
Per concludere, anche se non per chiudere vista l’ampiezza e la complessità del tema, vi lasciamo con un’ultima suggestione. Essendo i tre autori di questo articolo rispettivamente un didatta-supervisore e due terapeute-supervisionate, è stato naturale che il confronto fra noi si spostasse anche su cosa significhi “fare una “buona” supervisione”. Come esito di questa discussione, vi presentiamo un decalogo, anzi due… e sappiamo che, vista la polifonia che contraddistingue la nostra scuola, i decaloghi potrebbero essere mille. Che dire? Siamo consapevoli di quanto questo nostro sforzo sia parziale, ma consci di avervi presentato l’esecuzione di un terzetto… non quella di un’intera orchestra!



BIBLIOGRAFIA
1. Bateson G, Bateson MC. Dove gli angeli esitano. Milano: Adelphi, 1989.
2. Cotugno A. A proposito di supervisione indiretta: la storia del Vecchio Marinaio. Ecologia della mente 1994; 17: 89-92.
3. Haley J. Formazione e supervisione in psicoterapia. Trento: Ed. Erikson, 1997.
4. Cancrini L. Dell’utilità dell’errore. La supervisione come intervento sul sistema terapeutico. Ecologia della mente 1986; 8: 53-74.
5. De Bernart R, Dobrowolski C. La supervisione clinica nel training. Terapia familiare 1996; 52: 93-106.
6. Andolfi M, Piccone D (a cura di). La formazione relazionale. Roma: Edizioni ITF, 1985.
7. Searles HF. Le esperienze emotive del supervisore come elemento di chiarificazione per il rapporto terapeutico. In: Searles HF. Scritti sulla schizofrenia. Torino: Bollati Boringhieri, 1974.
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10. Bruni F. La polifonia della terapia familiare nell’esperienza dei terapeuti del Centro Studi. Ecologia della mente 2004; 2: 147-62.
11. Vinci G. La polifonia del Centro Studi nell’esperienza delle diverse sedi formative. Ecologia della mente 2004; 2: 163-72.
12. Bruni F, Vinci G, Vittori ML. Lo sguardo riflesso. Psicoterapia e formazione. Roma: Armando Editore, 2010.
13. Bruni F, Defilippi PG. La tela di Penelope. Origini e sviluppi della terapia familiare. Torino: Bollati Boringhieri, 2007.
14. Viaro M. Formazione sistemica e visione professionale. Terapia familiare 2006; 82: 15-45.
15. Vinci G. Formare in psicoterapia nel XXI secolo: suggestioni dal lavoro di Michel Serres. Ecologia della mente 2011; 2: 125-30.