Le Sculture del Tempo Familiare.
Un metodo di “narrazione analogica”
in psicoterapia sistemica

Luigi Onnis1, Marco Bernardini2, Antonella Leonelli2, Angela Maria Mulè2,
Agostino Vietri
2, Carlotta Romano2


Particolarmente dedicato agli psicoterapeuti, l’articolo collocato in questa rubrica risponde all’esigenza di una sottolineatura: caratterizzando in modo diverso forme diverse di psicoterapia, non stiamo perdendo il senso dell’unità possi­bile intorno al concetto di psicoterapia?


Particulary addressed to psychotherapists, the article in this section answers to the need of focusing on the following consideration: by characterizing psychotherapy in different ways aren’t we loosing the sense of unity involved in the concept of psychotherapy?


Este artículo está dedicado a los psicoterapeutas, en él se trata de responder a la cuestión: definiendo de distintas maneras la psicoterapia, non se corre el riesgo de perder la unidad del concepto de psicoterapia?



Riassunto. In questo articolo, gli autori presentano un metodo di intervento, chiamato “Sculture del Tempo Familiare” (STF), basato sull’uso del linguaggio analogico nel lavoro terapeutico con le famiglie. Vengono inizialmente definite le ragioni di questa scelta: l’esplorazione della dimensione dei miti familiari, nel quadro degli sviluppi epistemologici della psicoterapia sistemica; la sintonizzazione col linguaggio del sintomo, specialmente quando esso si esprime attraverso il corpo; le recenti scoperte delle neuroscienze. Viene poi descritto il metodo delle STF che propone a ogni membro della famiglia tre sculture: del “presente”, del “futuro” e del “passato”, permettendo alla famiglia, attraverso la successione di queste rappresentazioni, di costruire una vera e propria “narrazione analogica”; essa non solo consente alla famiglia di “rivelarsi” al terapeuta e a se stessa, ma, mobilitando risorse creative, attiva una forma di “auto-terapia”. Il terapeuta è coinvolto nel processo in ogni momento e partecipa alla “costruzione narrativa” con una restituzione che, riprendendo le metafore proposte dalla famiglia, attribuisce anche al sintomo il significato di metafora del disagio dell’intero nucleo familiare.
Per illustrare meglio il metodo di lavoro, viene presentato il caso clinico di una adolescente con problemi di bulimia. Infine, gli autori descrivono la struttura del processo terapeutico e propongono alcune considerazioni conclusive sull’importanza di collegare sempre l’estetica con l’etica della psicoterapia, che consiste nel rispetto della complessità della realtà umana e nel riconoscimento delle sue autonome risorse di cambiamento e di evoluzione.

Parole chiave. Sculture del Tempo Familiare, narrazione analogica, miti familiari, epistemologia sistemica, neuroscienze, complessità, risorse terapeutiche, etica.
Summary. Family Time Sculptures. An “analogical narrative” method in systemic psychotherapy.
In this papers authors present an intervention method called “Family Time Sculptures”, based on the use of analogical language in the therapeutic work with families. First the reasons of this choice are defined: the exploration of family myths, in the frame of the systemic psychotherapy epistemological developments; the tuning with the language of the symptom, particularly if it is expressed by the body; the recent neuroscientific discoveries. The method of “Family Time Sculptures” is after described: it consists in proposing to each family member three sculptures, of the “present”, the “future” and the “past”, allowing the family, through the sculptures sequence to construct a real “analogical narrative”: it not only allows the family to reveal to the therapist and to itself, but also mobilizes creative resources and activates a form of “self-therapy”. The therapist is continuously involved in the process and participates to the “narrative construction” with a reframing which, taking again the metaphors proposed by the family, gives to the symptom itself the meaning of a metaphor of the entire family distress. A clinical case is then presented to better illustrate the method.
Finally, authors describe the therapeutic process structure and propose some considerations about the importance of always linking aesthetics with ethics of psychotherapy which consists in respecting the human reality complexity and recognizing its autonomous resources of changing and evolving.

Key words. Family Time Sculptures, analogical narrative, family myths, systemic epistemology, neurosciences, complexity, self therapeutic resources, ethics.


Resumen. Las Esculturas del Tiempo Familiar. Un método de “narración analogica” en la psicoterapia sistémica.
En el presente artículo se relatará un método de intervención, llamado “Esculturas del Tiempo Familiar”, que se fundamenta en la utilización del lenguaje analógico con las familias. Se explicarán las razones para elegir este método: la exploración de la vertiente de los mitos familiares, en el ámbito del desenvolvimiento epistemológico de la psicoterapia sistémica; la sintonización con el síntoma, especialmente si se expresa a través del cuerpo; los recentes descubrimientos en las investigaciónes de la neurociencia. A continuación se detallará el método de las “Esculturas del Tiempo Familiar” que propone tres esculturas a cada componente de la familia: del “presente”, del “futuro” y del “pasado”. Por medio de la sucesión de estas representaciones se permite a las familias de crear una verdadera “narración analógica”; no solo esta permite a la familia de “revelarse” al terapeuta y a si misma, sino también, despertando recursos creativos, poner en marcha una forma de “auto-terapia”. Il terapeuta está implicado en cada momento del proceso y toma parte a la “construcción narrativa” a través de una restitución que, utilizando las metáforas sugeridas de parte de la familia, asigna también al síntoma el significado de metáfora del disgusto del entero núcleo familiar.
Se ejemplificará también el caso clínico de una adolescente con bulimia, en el intento de aclarar el método de trabajo. Finalmente se describirá la estructura del proceso terapéutico y se expondrán algunas reflexiónes conclusivas acerca de la importancia de colegar siempre la ética con la estética en psicoterapia, que consiste en el respeto de la complejidad humana y en el reconocimiento de los recursos autónomos para el cambiamento y la evolución.

Palabras clave. Esculturas del Tiempo Familiar, narración analógica, mitos familiares, epistemología sistémica, neurociencia, complejidad, recursos terapéuticos, ética.


PREMESSA

Descriveremo in questo articolo un metodo di lavoro terapeutico, basato sull’uso del linguaggio analogico, che abbiamo chiamato metodo delle “Sculture del Tempo Familiare” (STF). Esso è il risultato di oltre vent’anni di esperienze cliniche [1-11] condotte dai nostri gruppi di ricerca presso l’Unità di Psicoterapia della Sapienza Università di Roma e gli Istituti IEFCOS di Roma e IEFCOSTRE di Cagliari, ma riproposte e sviluppate anche presso molti altri Centri, a livello nazionale e internazionale, che ne hanno verificato l’interesse e documentato l’efficacia.
Il metodo, come vedremo, si basa su un uso originale della “scultura familiare” che è utilizzata essenzialmente in funzione dell’esplorazione della dimensione del tempo: esso trova, dunque, la sua specificità nel consentire alla famiglia e, con essa, al terapeuta, di costruire una trama narrativa che, essendo del tutto non verbale, assume le caratteristiche di una vera e propria “narrazione analogica”.
Il quadro teorico di riferimento a cui questo metodo si ispira coincide con il profondo rinnovamento concettuale che ha interessato la psicoterapia sistemica nell’ultimo quarto di secolo: l’incontro con il paradigma della complessità [12] propone una valutazione del sistema familiare come realtà complessa, in cui individuo e famiglia, dinamiche interattive nel qui e ora e aspetti storico-evolutivi, sono livelli sistemici non in opposizione tra loro, ma complementari e reciprocamente interconnessi; la riscoperta delle soggettività individuali riporta in primo piano le emozioni e la necessità di sintonizzarsi con esse; la reintroduzione del terapeuta nel sistema terapeutico, non solo lo fa uscire dalla sua presunta “neutralità” e gli attribuisce responsabilità “co-costruttive” nel processo terapeutico, ma lo induce anche a sostituire attitudini di tipo prescrittivo, con una disponibilità al dialogo che lascia più spazio alla libera interazione tra famiglia e terapeuta [13-17].
A tutti questi livelli e in tutti questi aspetti, l’utilizzazione del linguaggio analogico è particolarmente preziosa, perché questo come vedremo meglio in seguito, consente, da un lato, di esplorare livelli emozionali più profondi e meno manifesti e, dall’altro, attiva la mutua creatività del sistema familiare e del terapeuta [9,16,18-20].
Scopo di questo articolo è una descrizione dettagliata del metodo delle STF di cui proporremo esemplificazioni cliniche e chiariremo le implicazioni che esso comporta sia per gli sviluppi del processo terapeutico sia per la struttura stessa della terapia.
Ma prima di entrare nella dimensione clinica, vorremmo ulteriormente approfondire la cornice teorica su cui si fonda l’elaborazione di questo metodo e chiarire meglio i presupposti concettuali che hanno orientato il nostro gruppo di ricerca a privilegiare l’uso del linguaggio analogico nel lavoro terapeutico con le famiglie.
LE RAGIONI DI UNA SCELTA
Le ragioni per cui abbiamo scelto di utilizzare il linguaggio analogico nell’affrontare molte situazioni terapeutiche sono essenzialmente tre:
1. il rinnovamento epistemologico della psicoterapia sistemica;
2. la sintonia tra il linguaggio analogico e il linguaggio del sintomo;
3. le recenti scoperti delle neuroscienze.
Prenderemo distintamente in considerazione questi tre aspetti.
Il rinnovamento epistemologico della psicoterapia sistemica
Il processo di profonda revisione epistemologica che ha attraversato la psicoterapia sistemica negli ultimi tre decenni è sostanzialmente caratterizzato dal superamento della cosiddetta “prima cibernetica”, termine con cui, nella storia della terapia familiare, si indica una concezione del sistema familiare prevalentemente centrata sul funzionamento interattivo del sistema nel “qui e ora” e finalizzato al mantenimento dell’equilibrio o omeostasi [21].
Perché parliamo di superamento della prima cibernetica? Perché molti terapeuti familiari cominciarono a sentire fortemente insoddisfacenti metodi di valutazione e di intervento che si limitavano a prendere in considerazione i modelli di interazione familiare e i loro effetti pragmatici sul comportamento dei membri. Diventava irrinunciabile porsi certe domande: come si organizzano nel tempo questi modelli di interazione? E quale significato assumono per la famiglia e per ciascuno dei suoi membri?
È evidente che questi interrogativi sono influenzati dai paradigmi evolutivi che reintroducono la dimensione del tempo nei sistemi che, altrimenti, rischiano di essere appiattiti in uno studio puramente sincronico del “qui e ora”; sono, inoltre, influenzati dagli orientamenti costruttivisti, che sottolineano l’importanza delle attribuzioni di significato che ispirano e guidano l’agire umano; e sono, infine, influenzati dalla cosiddetta “cibernetica di second’ordine”, per usare la terminologia di Von Foester [22], che mette in evidenza come nessuna descrizione della realtà è neutra, perché essa è sempre inseparabilmente influenzata dall’osservatore che la descrive.
E, infatti, al cambiamento degli orientamenti interpretativi e culturali dei terapeuti familiari corrisponde anche un cambiamento delle descrizioni che essi iniziano a proporre delle famiglie [16,23].
E man mano che i terapeuti familiari cominciano a interrogarsi sulle motivazioni ed i significati che gli individui attribuiscono ai loro comportamenti, spostando, dunque, l’attenzione dalla pragmatica delle interazioni osservabili, alla semantica dei comportamenti; man mano che essi cominciano a esplorare il mondo interno, individuale e familiare, tentando di aprire quella “scatola nera” che la prima cibernetica aveva considerato insignificante o insondabile; man mano che i terapeuti familiari propongono questi nuovi orientamenti interpretativi, cominciano a emergere ed a comparire anche nuove “rappresentazioni” della famiglia.
E la famiglia viene descritta come una “realtà complessa”, come una articolazione di una molteplicità di livelli: tra questi livelli ha una importanza particolare un livello più profondo e nascosto rispetto a quello delle interazioni fenomenologicamente osservabili, un livello che potremmo opportunamente chiamare livello “mitico” [24-26].
Ma che significato possiamo dare al mito familiare? Nel quadro di queste nuove rappresentazioni della famiglia, esso è un elemento “fondatore” del sistema familiare senza il quale la famiglia stessa cesserebbe di esistere. Esso è costituito infatti da quell’insieme di rappresentazioni e di valori condivisi che organizza i ruoli essenziali dei membri della famiglia nel corso della vita; è il “cemento emotivo” profondo della famiglia su cui si basa il sentimento di appartenenza familiare.
Ma qui sorge immediatamente una questione. Come è possibile esplorare, nel lavoro terapeutico, questa dimensione mitica così importante ed essenziale per la famiglia? Il mito, infatti, è largamente pre-verbale e inconscio.
Esso, cioè, non è esprimibile attraverso le sole forme del pensiero logico perché rientra in quell’area di esperienze e apprendimenti, di tipo “inconsapevole”, che gli psicologi dello sviluppo, quali Stern [27-29], chiamano “conoscenza relazionale implicita”.
La mediazione della parola non è, perciò, sufficiente a esplorare la dimensione.
Ecco perché, quando si tenti di accedere a questo livello, l’uso del linguaggio analogico e metaforico è particolarmente essenziale.
Ma come funzionano questi linguaggi?
Sono state proposte spiegazioni linguistiche e psicologiche.
Sotto il profilo linguistico, il linguaggio metaforico, come afferma Lotman [30], si colloca in uno spazio di mediazione tra conscio e inconscio, agisce come “punto di congiunzione”, di interfaccia, tra due lingue, quella del pensiero razionale e quella, analogica, dell’immaginazione e dell’affettività e tende, quindi, a far circolare comunicazioni aperte agli affetti e alle emozioni.
Sotto il profilo psicologico, inoltre, come afferma Ricoeur [31], la metafora terapeutica, cogliendo più direttamente le valenze emozionali, si avvicina al piano affettivo, in larga misura inconscio, degli individui; a questo livello affettivo pre-verbale e inconscio il linguaggio metaforico, per il suo potere “evocativo” (e non esplicativo), ha il vantaggio di fare attenzione senza pretendere di spiegarlo e di esplicitarlo: perciò apre spazi perché esso possa emergere in maniera più libera e creativa [2,3].
Queste sono le abituali spiegazioni sul funzionamento del linguaggio analogico e metaforico e, quindi, sull’opportunità di privilegiarne l’uso quando si voglia esplorare la dimensione dei miti familiari.
Ma vedremo, più avanti, che le recenti scoperte neuroscientifiche danno oggi ulteriori indicazioni per la comprensione di questi processi.
La sintonia tra il linguaggio analogico e il linguaggio del sintomo
La seconda ragione per la quale abbiamo valorizzato l’uso del linguaggio analogico in terapia è legata alla frequenza con cui, specialmente nelle fasi iniziali della sperimentazione del metodo, ci è accaduto di affrontare situazioni in cui la sofferenza stessa si esprimeva in forma analogica, e, cioè, attraverso il corpo (come nei disturbi psicosomatici, nei disturbi del comportamento alimentare, nei disturbi d’ansia o di panico, con somatizzazioni e così via).
In questi casi in cui la manifestazione del disagio non utilizza la mediazione della parola, ma segue la via oscura dei segnali del corpo, ci siamo chiesti, alle origini della nostra ricerca, se non fosse più utile ed efficace l’uso di un linguaggio terapeutico più omogeneo al linguaggio del sintomo che, inoltre, attraverso le nostre indagini, sempre più ci appariva essere il linguaggio privilegiato non solo del paziente, ma dell’intero sistema familiare.
Infatti, quando si affrontano disturbi a espressione somatica, un problema prioritario riguarda il significato da attribuire al linguaggio del sintomo.
Ci si è, in particolare, chiesto se la forma tutta non verbale e analogica con cui la sofferenza si esprime non potesse essere legata ad una impossibilità o difficoltà a verbalizzare certi vissuti emozionali. Questa ipotesi ha una sua tradizione tra gli autori ad orientamento psicodinamico ed è stata chiamata in causa per spiegare alcune manifestazioni psicosomatiche col nome, proposto da Sifneos [32], di “Alexitimia”, che etimologicamente significa “mancanza di parole per esprimere le emozioni”. A questo concetto si ricollega quello precedente di “pensée operatoire”, termine con cui gli autori di scuola francese, Marty, De m’Uzan, David [33], avevano voluto indicare un tipo di pensiero utilitaristico e concreto, che caratterizza i pazienti psicosomatici e, contemporaneamente, una apparente povertà di vita fantasmatica e di espressione emotiva.
Ma tutti questi autori, a orientamento individuale, ritennero che tale difficoltà fosse il risultato di una alterazione della struttura di personalità del paziente, una intrinseca “costrizione della sua funzionalità emozionale” (per usare una espressione di Sifneos), per cui, tra l’altro, la difficoltà di verbalizzare le emozioni finì rapidamente per confondersi con la “mancanza di emozioni”.
In tutte queste ricerche, caratterizzate dall’osservazione del solo paziente, il luogo della patologia rimane, dunque, l’individuo.
Ma i risultati dei nostri studi consentono una revisione, in senso sistemico, di questo concetto [34,35]. Se infatti si osserva il paziente all’interno di un contesto più ampio come il sistema familiare, se si ricercano quelle correlazioni che Bateson [36] chiama “patterns which connect”, si può notare che la costrizione della funzionalità emozionale, attribuita al paziente, più che caratteristica della sua personalità è, invece, qualità del sistema: è, cioè, espressione fenomenologicamente più evidente nel membro sintomatico, di modelli interattivi e di miti condivisi che regolano rigidamente le comunicazioni sistemiche, a cui il paziente è “costretto” a conformarsi. Il lavoro pioneristico e ben noto di Minuchin et al. [37] e le nostre ricerche sulla struttura e sulle dinamiche delle famiglie con pazienti psicosomatici [38,39] hanno messo con chiarezza in evidenza che una delle caratteristiche disfunzionali più tipiche di queste famiglie è la tendenza a evitare l’esplicitazione dei conflitti e delle tensioni emozionali.
Si può allora comprendere, e verificare, come le difficoltà di “verbalizzare i vissuti emotivi” sono la conseguenza non di una “assenza” di vita fantasmatica o emozionale, bensì del fatto che le emozioni vengono accuratamente filtrate in modo da evitare tensioni e conflittualità e da mantenere la “pseudo-armonia” del sistema familiare. Ed è possibile rilevare, inoltre, che non solo il paziente, ma tutti i membri del sistema familiare cooperano a questo scopo. Se, ancora, si valuta non soltanto la comunicazione verbale, ma anche la comunicazione non verbale o analogica (ciò che l’osservazione del contesto familiare permette con particolare evidenza), si può constatare che non esiste affatto una “assenza di vita emozionale o affettiva”, ma piuttosto una selezione delle espressioni emotive, finalizzata alla protezione dell’unità familiare.
È allora, forse, possibile affermare che il linguaggio del sintomo, anche se è il paziente che somaticamente lo esprime, non è solo il linguaggio del corpo del paziente, ma dell’intero “corpo familiare”. Ecco perché abbiamo ritenuto utile che anche il linguaggio della terapia potesse “sintonizzarsi” con quello che, per il paziente e per la famiglia, è il linguaggio consueto.
Le recenti scoperte delle neuroscienze
Oltre alle due ragioni precedentemente esposte, una terza ragione si è più recentemente aggiunta nel motivarci alla scelta del linguaggio analogico nel lavoro terapeutico: si tratta delle indicazioni che emergono dalle scoperte realizzate negli ultimi tempi nel campo neuroscientifico. Le neuroscienze che, a lungo, in una concezione dualistica e dicotomica, sono state considerate l’antagonista delle scienze della psiche, mostrano oggi, al contrario, importanti convergenze e integrazioni con la psicologia e la psicoterapia, tanto che diventa possibile parlare di una “nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze” [8].
Ai fini del nostro discorso due sono le scoperte che più direttamente ci interessano.
La prima è quella della esistenza di una memoria implicita, che ha la sua sede neurobiologica nei nuclei sottocorticali e, in particolare, nell’amigdala [40,41], in cui vengono immagazzinati i ricordi emozionali e affettivi, vale a dire quell’ampia area di esperienze e di apprendimenti che, pur essendo uno stimolo importante per i processi mentali, non entra nel registro della coscienza; si tratta di quegli apprendimenti per così dire “inconsapevoli” che gli psicologi dello sviluppo chiamano “conoscenza relazionale implicita”.
Abbiamo visto come anche i miti familiari, sorta di “inconscio familiare condiviso”, rientrano in quest’area e possiamo ipotizzare che sono anch’essi depositati nella “memoria implicita” [42]. Possiamo, allora, meglio comprendere perché i linguaggi impliciti e analogici sono particolarmente adatti ad evocarli.
Oltre alle spiegazioni linguistiche e psicologiche che abbiamo precedentemente citato per chiarire il funzionamento della metafora, il meccanismo neurofisiologico della memoria implicita, che conserva tracce mnesiche fortemente emozionali, affettive, legate alle percezioni corporee, fornisce, ora, una ulteriore chiave interpretativa: si può infatti comprendere che l’attivazione di questa memoria possa essere facilitata dall’uso di linguaggi capaci di sintonizzarsi con le sue caratteristiche, linguaggi che utilizzino, cioè, l’emozionalità e la corporeità.
L’altra scoperta neuroscientifica che assume particolare importanza nel quadro del nostro discorso è quella dei “neuroni specchio”. Scoperti da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma guidati da Giacomo Rizzolatti [43], sono neuroni della corteccia premotoria che hanno una singolare funzione: essi si attivano non solo quando vengono eseguite azioni finalizzate a uno scopo, ma anche quando si osservano le stesse azioni eseguite da altri.
Inoltre dati sperimentali dimostrano che le stesse catene neuronali sono coinvolte, oltre che nel riconoscimento dell’azione dell’altro, anche in quello del “perché” dell’azione, cioè dell’intenzione che l’ha motivata.
Questi processi cognitivi si basano dunque su circuiti “come se”: posso comprendere il senso e le intenzioni di quello che fai [44] solo imitando e riproducendo nel mio corpo la tua azione.
Ecco perché Gallese chiama efficacemente questo processo “simulazione incarnata” (embodied simulation) [45].
È evidente che essa è alla base di fenomeni psicologici e relazionali di grande importanza, quali l’empatia, l’identificazione emozionale con l’altro, la sintonizzazione affettiva.
Possiamo, allora, pensare che il meccanismo neurofisiologico dei “neuroni specchio” possa, da un lato, consentire, attraverso “rispecchiamenti incrociati”, quella condivisione inconsapevole dei miti familiari, cui abbiamo prima accennato a proposito della “memoria implicita”; e che, dall’altro, offra una giustificazione ulteriore dell’efficacia dei linguaggi analogici, quando si tratti di sintonizzarsi con la dimensione implicita dei miti o, più in generale, con i linguaggi del corpo.
Il cervello umano ha la straordinaria capacità, afferma Rizzolatti, «di risuonare alla percezione dei volti e dei gesti altrui e, codificandoli immediatamente in termini viscero-motori fornisce il substrato neurale per una compartecipazione empatica» [44].
Si tratta, dunque, per usare una espressione cara a Stern [46], di una vera e propria “sintonizzazione affettiva”, che è resa possibile, attraverso la funzione dei “neuroni specchio”, da una particolare consonanza di linguaggi. Il linguaggio analogico rivela la dote particolare, anche in questa luce neuroscientifica, di far risuonare il linguaggio dei miti e il linguaggio del corpo.
Chiarite le ragioni della scelta, vediamo ora, più in dettaglio, le caratteristiche del metodo elaborato dal nostro gruppo di ricerca.
IL METODO DELLE Sculture del tempo familiare
Il metodo consiste in una utilizzazione originale e specifica di quella tecnica di lavoro col linguaggio non verbale che va sotto il nome di “Scultura familiare”, introdotta nella psicoterapia sistemica da Virginia Satir [47] e poi riproposta, con modalità particolari, da Duhl e Kantor [48], da Peggy Papp [49], da Philippe Caillé [15,24], da Caillé e Rey [20].
Consiste nella richiesta alla famiglia di dare una rappresentazione visiva e spaziale della propria immagine, attraverso la disposizione dei corpi nello spazio, l’atteggiarsi delle fisionomie e delle posture, il gioco delle vicinanze e delle distanze, la direzione degli sguardi.
Si tratta, dunque, di una rappresentazione del tutto analogica e non verbale che, solo dopo che la scultura è stata realizzata, può eventualmente essere seguita da un commento dei singoli membri sui propri vissuti.
Nel nostro lavoro con le famiglie con disturbi psicosomatici, prima, e, poi con problemi di anoressia e bulimia, abbiamo elaborato un metodo specifico, che abbiamo, perciò, chiamato metodo delle STF, la cui utilità e originalità consistono nell’esplorare, attraverso la scultura, la dimensione del tempo.
Ad ogni membro del sistema familiare viene richiesto di rappresentare la famiglia in tre fasi temporali, attraverso tre sculture:
la prima è una scultura del presente, rappresenta cioè la famiglia come lo “scultore” la vede nel momento attuale della vita familiare; la seconda è una scultura del futuro, rappresenta cioè la famiglia come lo “scultore” immagina che sarà nel futuro, dopo un arco temporale, per esempio, di un decennio di storia futura;  la terza è una scultura del passato, rappresenta, dunque, la famiglia, attraverso la ricostruzione di un episodio rimasto impresso nella memoria, come lo “scultore” lo ricorda in un passato più o meno lontano [6].
Questa terza scultura è una integrazione, rispetto al metodo originario che prevedeva solo le prime due [3,5,9]: è stata introdotta più recentemente nel lavoro terapeutico, a cominciare dalla ricerca con le famiglie con problemi di anoressia e bulimia.
Tentiamo così di esplorare e di reintrodurre la dimensione del tempo in un sistema che sembra averla perduta.
Se si confronta, infatti, la scultura del presente con quella del futuro, ciò che accade frequentemente di notare è che quest’ultima non è una rappresentazione evolutiva e di cambiamento, ma esprime piuttosto una resistenza o una difficoltà di sviluppo e di trasformazione. 
In alcuni casi, interazioni, ruoli, legami, rapporti reciproci rimangono del tutto immodificati, come se la capacità evolutiva di queste famiglie o, comunque, la capacità di “vedersi” in evoluzione, si fosse bloccata. Ed è qui che emergono i “miti di unità” che prevalgono in queste famiglie, in cui la coesione familiare è il bene supremo da difendere a qualsiasi prezzo.
In altre situazioni, la rappresentazione di uno scenario più dinamico e con maggiore potenzialità di sviluppo viene però accompagnata da paure del cambiamento e da timori di perdita, come se la possibile evoluzione della famiglia fosse percepita come una minaccia di dissoluzione del nucleo familiare, piuttosto che come un’esperienza di crescita collettiva e di trasformazione più matura dei legami affettivi. Qui compaiono quelli che abbiamo chiamato i “fantasmi di rottura”, che sono la faccia speculare dei miti di unità e che solitamente li accompagnano.
E, lo scenario del futuro e la difficoltà di rappresentarlo rimandano allora, paradossalmente, alla nostalgia del passato. (È per questo che abbiamo collocato la scultura del passato al termine della sequenza, anziché all’inizio, come sarebbe stato cronologicamente più logico!).
Ma è proprio qui, attraverso queste rappresentazioni metaforiche, che, allora, le emozioni implicitamente, analogicamente vengono espresse: sono emozioni di paura di ogni cambiamento che allontani dalla stabilità dolorosa, ma rassicurante dello status quo; timori angosciosi che ogni movimento di autonomia o di separazione possa rappresentare una disgregazione catastrofica dell’unità familiare; fantasmi di conflitti irrisolvibili, se il distacco e la crescita dei figli mettono i genitori nella necessità di affrontare il problema della relazione di coppia.
Attraverso le sculture emergono quindi i miti e i fantasmi di queste famiglie: miti di unità e fantasmi di rottura, che non trovano accesso diretto alla parola, ma possono essere analogicamente rappresentati.
Essi indicano con estrema chiarezza come questi sistemi familiari siano congelati in una sorta di mitico “arresto del tempo”.
Le STF evidenziano limpidamente questa “sospensione temporale”, questo blocco del ciclo evolutivo.
Permettono alla famiglia di rivelarla e di scoprirla. E, al tempo stesso, consentono al terapeuta, come vedremo meglio in seguito, di entrare in un territorio estremamente ricco di allusioni, disvelamenti ed emozioni, che lo coinvolgono nella costruzione di nuove visioni dei problemi e nella ricerca di nuove possibili soluzioni. Nel rispetto della complessità della realtà umana con cui si confronta [50].
LA COSTRUZIONE TRANSGENERAZIONALE DEI MITI FAMILIARI
Prima di presentare un caso clinico nel quale abbiamo lavorato col metodo delle STF, vorremmo affrontare un’altra questione.
Come si organizzano nel tempo i “miti di unità” che le STF consentono di far emergere?
Da dove provengono i “fantasmi di rottura” che traspaiono dai vissuti individuali e che, nello stesso tempo, costituiscono il tessuto emotivo comune che tiene uniti gli individui?
Non c’è dubbio che i miti familiari si trasmettono attraverso le generazioni, come per una sorta di “filiazione generazionale” [26].
Abbiamo trovato alcune risposte a queste domande, ricostruendo la storia, che rimanda spesso alle famiglie d’origine dei genitori e che rende, dunque, necessaria una esplorazione almeno trigenerazionale.
Siamo rimasti colpiti dalla frequenza con cui è possibile rintracciare nel passato di queste famiglie la presenza di eventi traumatici, quali lutti precoci e non elaborati o separazioni premature o malattie gravi e invalidanti o esperienze di abbandono.
In una parola, il tema della “perdita” sembra spesso dominare queste storie e associarsi a vissuti emozionali profondi di angoscia di separazione.
Ci siamo domandati, allora, se i “miti di unità ad ogni costo”, così frequenti in queste famiglie in cui il disagio si esprime attraverso il corpo, non nascano come costruzioni difensive condivise, che hanno la funzione di proteggere la famiglia dal timore di ripetere esperienze così dolorose, in cui realmente la perdita è stata irreversibile.
Naturalmente in altre situazioni la costruzione transgenerazionale dei miti può seguire percorsi differenti. Ma in generale, pensiamo di poter, comunque, condividere l’opinione di Didier Anzieu [51] quando afferma che “i miti familiari e di gruppo provengono dai fantasmi fondamentali dell’essere umano”.
E questi fantasmi, come sottolinea J. M. Lemaire [52], sono spesso dominio dell’inconscio.
Questo ci conduce ancora all’ipotesi che i miti familiari possano essere considerati come l’equivalente di un inconscio familiare condiviso, ipotesi che, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, trova, oggi, dimostrazioni importanti nelle scoperte delle neuroscienze.
LA STORIA DI FRANCESCA: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA FUSIONE E INDIVIDUAZIONE
Vorremmo ora presentare, sinteticamente, una situazione terapeutica nella quale abbiamo esplorato la dimensione mitica della famiglia e ci siamo “sintonizzati” col linguaggio del sintomo, attraverso l’utilizzazione del linguaggio analogico, nella forma delle STF.
Francesca è una giovane donna di 26 anni, figlia primogenita di una famiglia di 4 persone, che da circa 8 anni soffre di disturbi del comportamento alimentare.
Il sintomo
Dopo una fase iniziale di tipo anoressico, che presenta una temporanea remissione, apparentemente in seguito a una delusione sentimentale, comincia, a 23 anni, una sintomatologia di tipo bulimico con abbuffate frequenti e drammatiche condotte di eliminazione (vomito auto-indotto), cui si accompagna un aumento dell’attività fisica (corse quotidiane con modalità quasi ossessive). Il calo ponderale si fa marcato e compare amenorrea. Inoltre, Francesca, giunta all’ultimo esame universitario, si blocca, non riesce a sostenerlo, né a preparare la tesi. Gli interventi medici di tipo dietetico-nutrizionale danno scarsi risultati. Il tentativo di una psicoterapia individuale s’interrompe dopo tre mesi. Viene allora consigliata una terapia familiare e la famiglia arriva presso il nostro Servizio Universitario.
La famiglia
La famiglia è composta dal padre Giorgio di 58 anni, piccolo imprenditore; la madre, Anna di 56 anni, casalinga; Francesca di 26 anni, e un fratello minore, Alberto, di 23 anni, studente universitario.
Le modalità di interazione sono quelle tipicamente frequenti in queste famiglie: confusione di funzioni e di ruoli, coinvolgimento reciproco e atteggiamenti intrusivi, grande labilità di confini tra gli individui e i sottosistemi generazionali.
La tensione conflittuale tra i genitori viene completamente deviata sul problema della figlia e ogni disaccordo è spostato sulle modalità di gestione dei comportamenti di Francesca, non solo per quel che riguarda la sua condotta alimentare, ma anche per le frequenti manifestazioni di aggressività verbale nei confronti della madre, che si alternano con atteggiamenti di tipo regressivo: continue ed estenuanti richieste di sostegno alla madre, di delega di fronte ad ogni decisione, anche la più banale, o imposizioni di lasciarla dormire con lei nel letto matrimoniale, separandola, quindi, dal marito.
Ciò che colpiva, davanti a questi comportamenti di Francesca, erano le reazioni contrastanti dei genitori: mentre la madre tentava di protestare, di opporsi, di contenere l’aggressività o le richieste infantili di Francesca, il papà pareva, invece, quasi incoraggiarle e sostenerle, con messaggi verbali di sostegno e, soprattutto, con atteggiamenti non verbali estremamente ambivalenti e seduttivi, di vicinanza, di condiscendenza, di approvazione.
Si configuravano, così, all’interno della famiglia due alleanze transgenerazionali disfunzionali: Francesca era la principessa di papà, Alberto (per compenso), il cavaliere della mamma. Ma era soprattutto Francesca a trovarsi nella posizione più delicata e sofferta: chiusa, come era, nella trappola della coalizione intensa con il padre, da cui la madre era sistematicamente esclusa; prigioniera di quella triangolazione rigida che, nel linguaggio sistemico, è indicata come “triangolo perverso”.
Le storie familiari
Ma queste configurazioni relazionali si arricchiscono di significato alla luce delle storie delle famiglie di origine dei genitori.
Il padre, Giorgio, ha alle spalle una storia molto dolorosa: a due anni rimane orfano di padre, morto sotto i bombardamenti; la madre era costretta a lasciarlo con i nonni per andare a lavorare, e lui ricorda ancora, con le lacrime agli occhi, il dolore acuto di quei quotidiani abbandoni.
La vita di quest’uomo sembra segnata dall’insicurezza affettiva e dalla remissività. E ancora adesso egli propone un profondo sentimento di inadeguatezza nel suo ruolo di marito e padre.
La madre, Anna, proviene, al contrario del marito, da una famiglia molto coesa con cinque figli: “ci bastavamo da soli, non avevamo bisogno di altri per essere felici”.
Ma la storia familiare è segnata, anche qui, da una ferita profonda: una malattia cronica e invalidante della madre, durata quasi trent’anni e intorno a cui hanno ruotato le attenzioni e la protezione del marito e dei figli. E la figura della madre è diventata, al tempo stesso, simbolo di coraggio e di fragilità.
Come si vede, entrambe queste storie sono segnate da eventi traumatici e si accompagnano inevitabilmente a vissuti di perdita che, se non elaborati, rappresentano l’eredità profonda che ognuno porta con sé e che influenza l’incontro con il partner, perché ognuno proietta sull’altro l’attesa irrealistica che possa diventare compenso e riparazione dei propri bisogni irrisolti.
Ma si tratta, inevitabilmente, di aspettative illusorie che, nella delusione che le accompagna, provocano insoddisfazioni reciproche e aprono dolorosi vuoti affettivi. È qui, allora, che i “miti coesivi di unità” intervengono come costruzioni difensive e riparative; è qui che, all’insegna di quei miti e per colmare quei vuoti, si mettono in atto processi di triangolazione di uno dei figli.
Francesca sembra essere stata precocemente chiamata a occupare quel ruolo, entrando nel triangolo come alleata di papà, anche qui all’insegna di un’illusione: quella di rappresentare per il padre quella donna idealizzata che la madre non poteva o non sapeva essere.
Ma, con l’avanzare dell’adolescenza, la crisi inevitabilmente esplode, perché accanto alle gratificazioni fusionali, cominciano ad emergere bisogni soggettivi di individuazione e autonomia. E la soluzione sintomatica diventa spesso il modo oscuro e ambivalente di sottrarsi al dilemma della scelta, proponendo il tentativo impossibile di rimanere fedeli al “mito di unità familiare” (bisogno fusionale) e, al tempo stesso, di accogliere un’emergente esigenza di autonomia (bisogno di distanziamento e di individuazione).
Le STF
Abbiamo tentato di far emergere la complessità di questi significati del sintomo, e, insieme, quelle trame mitiche a cui quei significati si legano, attraverso l’utilizzazione delle STF, di cui presenteremo alcune sequenze relative, in particolare, alle immagini proposte dalla paziente, Francesca.
Nella Scultura del Presente, Francesca ci regala una toccante e significativa immagine, in cui emerge tutta la sua ambivalenza emozionale.
Francesca al centro della scena dispone tutta la famiglia intorno a sé: la mamma e il fratello sulla sua sinistra, il papà, un po’ discosto, sulla sua destra.
Francesca richiama lo sguardo di tutti verso di sé e risponde con un doppio gesto ricco di allusioni e di significati: con un braccio, semi flesso, indica un abbraccio con cui sembra voler tenere unita tutta la famiglia; con l’altro, teso davanti a sé, sembra voler esprimere l’esigenza di una distanza, di uno spazio per sé. Per la specifica dinamica delle triangolazioni in cui Francesca è coinvolta (a cui abbiamo accennato), non è certo senza rilievo che il braccio teso sia, in particolare, rivolto dal lato del padre (nei confronti del quale si rende necessario un distanziamento). Ma più in generale, l’immagine proposta da Francesca esprime, con la potenza evocativa del linguaggio metaforico, l’oscillazione emotiva della paziente tra l’adesione al “mito familiare di unità” (i bisogni “fusionali” rappresentati nell’abbraccio) e l’esigenza soggettiva di individuazione (il bisogno di un confine e di uno spazio proprio, rappresentato dal braccio teso che reclama distanza). Ma questa esigenza soggettiva non si può seguire, se il rischio è la perdita del legame (il “fantasma di rottura”). E così si rimane nell’indefinitezza e nell’oscillazione, nella ricerca di un difficile equilibrio tra il “dentro” e il “fuori”.
Ed è suggestivo che questo doppio oscillante movimento emozionale trovi una corrispondenza così perfetta nella doppia caratteristica fenomenologica del sintomo bulimico: inglobare, nell’abbuffata alimentare, ed espellere, nel vomito compensatorio, introiettare e rigettare, mettere “dentro” e mettere “fuori”.
È importante sottolineare che la Scultura del Futuro di Francesca è preceduta dalla “Scultura del Futuro del padre” che, quasi in risposta agli ambivalenti tentativi di distanziamento proposto dalla figlia nella Scultura del Presente, dispone la famiglia in un cerchio in cui tutti si danno la mano: è l’immagine trionfale del “mito di unità”, ma ancora una volta è Francesca che ne è la garante, posta come è a fare da tramite di contatto e di legame tra mamma e papà.
E, allora, nella “Scultura del Futuro”, nonostante sia proiettata 10 anni in avanti, l’immagine della famiglia rappresentata da Francesca non è molto dissimile da quella del presente: è ancora lei al centro della scena e richiama su di sé gli sguardi dei genitori: la principale differenza è la posizione della mamma che ora Francesca avvicina al papà, come se volesse restituirle il proprio posto ma è la convergenza degli sguardi su di lei, che lega i genitori, come Francesca stessa sottolinea: “mi faceva piacere vederli uniti mentre mi guardavano”. Così, anche se Francesca evidenzia la maggiore distanza tra sé e i genitori è ancora lei il centro unificante della famiglia, il vertice del triangolo familiare. E, dunque, l’ambivalenza tra esigenze di autonomia e vincoli di lealtà verso la famiglia, che bloccano l’autonomia, si ripropone.
E nella “Scultura del Passato”, Francesca rievoca e ricostruisce una scena in cui la famiglia si incontra intorno ad un centro di aggregazione emotivo: si tratta di un letto d’ospedale, in cui giace il fratello bambino, ricoverato per una grave malattia. Il protagonista qui è, in apparenza, suo fratello; in realtà è la malattia e la sofferenza che sembrano rappresentare il terreno emotivo in cui la famiglia può trovare condivisione ed unità.
Ma, allora, il significato della scena si dilata a ri-coinvolgere Francesca e la sua più recente malattia, restituendole il senso di punto di equilibrio per la famiglia, che permette di celare le tensioni e di riconfermare i legami.
Attraverso la sequenza delle Sculture emergono, dunque, “miti di unità” e “fantasmi di rottura”: come ci si può staccare da una famiglia di cui si rappresenta il “punto di equilibrio”, senza il rischio che tutto si disgreghi?
La soluzione sintomatica permette, allora, di rimanere nell’ambivalenza e di rinviare la ricerca faticosa e difficile di vie d’uscita possibili.
E intorno ai rigidi miti e fantasmi familiari, il tempo sembra fermarsi. Per tutta la famiglia!
Il corpo di Francesca che non può crescere ne è solo la più eloquente e visibile testimonianza.
IL DIALOGO INTERNO DELLA FAMIGLIA: LA “NARRAZIONE ANALOGICA”
Come è ben evidente dalla descrizione, seppur molto sintetizzata, del caso di Francesca, è sempre sorprendente e suggestivo constatare come la successione delle Sculture attivi un intenso dialogo a vari livelli, che cercheremo ora di analizzare.
Il dialogo tra i membri della famiglia
Un primo livello di dialogo è quello che la famiglia attiva al suo interno tra i suoi membri: nella sequenza delle sculture la famiglia “si racconta”, in un gioco affascinante di domande e di risposte del tutto non verbali, che sono espresse attraverso le immagini, le metafore, i simbolismi, l’affettività.
I membri della famiglia, attraverso il canale analogico della scultura, nelle tre fasi temporali, possono dialogare tra loro, attraverso un disvelamento di messaggi, di vissuti, di emozioni, che il linguaggio verbale non avrebbe probabilmente mai permesso.
La famiglia comincia, così, a costruire una trama narrativa che ha, di fatto, le caratteristiche, la struttura e il valore di una “narrazione analogica” [3].
Riteniamo che tra i vari metodi narrativi utilizzati nel campo della psicoterapia sistemica questo sia probabilmente l’unico che adotti un linguaggio esclusivamente analogico e non verbale e faccia della famiglia, prima ancora che del terapeuta, l’attore principale della produzione della trama narrativa.
Riteniamo, perciò, che questo metodo attivi intensamente potenzialità auto-terapeutiche nella famiglia, perché la famiglia stessa è sollecitata a un lavoro di disvelamento, di ri-elaborazione e di “riscrittura” della storia.
Riteniamo, ancora, e ci sembra utile sottolinearlo, che questo aspetto di “narrazione analogica” che si costruisce in modo diacronico, attraverso le tre fasi temporali del presente, del futuro e del passato, è la caratteristica specifica del nostro metodo delle STF, che le distingue dagli altri modelli di utilizzazione della scultura familiare.
La coerenza della narrazione analogica
Un altro aspetto che è importante mettere in evidenza in questa dimensione dialogica è quanto sia, sempre, sorprendente la coerenza della “narrazione analogica” che si dipana attraverso il succedersi delle varie sculture come se, pur nella singolarità e differenza di ognuna, una profonda “sintonizzazione” affettiva le attraversasse e le accomunasse.
Una possibile chiave interpretativa ci viene ancora dalle scoperte delle neuroscienze e, in particolare, dalla funzione dei “neuroni specchio”.
Come se quella capacità del cervello di “risuonare alla percezione dei gesti e dei volti degli altri”, di cui parla Rizzolatti [44], permettesse una mutua condivisione di affetti (ciò che non esclude naturalmente differenze di immagini) e attivasse quegli stessi “rispecchiamenti incrociati” (“mutual mirroring”) che, in tempi lontani, hanno portato alla formazione, entro la memoria implicita, dei miti familiari.
Ma l’esperienza emozionale intensa e condivisa, resa possibile dai linguaggi impliciti usati in terapia, può, talvolta, permettere anche un salto di livello: e la memoria implicita può aprirsi, almeno per certi aspetti, a una memoria esplicita e più consapevole. Ciò è dimostrato dai commenti verbali sui propri vissuti emotivi che i membri della famiglia sono in grado di proporre dopo la rappresentazione della scultura, quando, come regolarmente avviene nel nostro metodo, chiediamo loro di fare un commento su “come si sono sentiti” nella scena che è stata appena rappresentata.
La capacità di espressione emozionale è spesso sorprendente, come se l’esperienza affettivamente intensa a cui hanno partecipato consentisse un improvviso riemergere di potenzialità “dimenticate” o rimaste latenti. È un fenomeno di grande interesse che merita certamente ulteriori approfondimenti di ricerca, ma che, comunque, getta ancora nuova luce su concetti (o pregiudizi) classici come quello di “alexitimia”.
Il dialogo tra famiglia e terapeuta
L’altro livello di dialogo che viene attivato dalle STF è, naturalmente, quello tra famiglia e terapeuta, riguarda, cioè, la relazione terapeutica. È lo stesso “oggetto metaforico” della scultura che, collocandosi in uno “spazio intermedio” tra famiglia e terapeuta [17], rende possibile uno scambio e promuove un dialogo che si attiva intorno ad esso.
Il terapeuta è sempre presente e partecipe del processo: sostiene, ascolta, supporta, riceve le immagini e i messaggi che provengono dalla rappresentazione delle sculture, ma non interviene in modo diretto, attraverso commenti o ridefinizioni, finché tutta la sequenza delle sculture, nelle tre fasi temporali (ciò che richiede tre sedute), non è stata realizzata. Perché?
Perché, come abbiamo precedentemente accennato, nel nostro metodo, il lavoro con le STF ha, in prima istanza, la funzione di consentire alla famiglia, attraverso il canale analogico, un autonomo processo di disvelamento, di elaborazione e di dialogo tra i membri, verso la ricerca di nuove risorse e soluzioni possibili. È, in un certo modo, la famiglia stessa che, in questa fase, sta mettendo in atto una forma singolare di autoterapia. Perciò riteniamo che, durante tale percorso, è preferibile che il terapeuta si astenga da interventi che potrebbero rappresentare interferenze su un processo narrativo del tutto nuovo che appartiene alla famiglia e di cui è importante che la famiglia si appropri. Questo aspetto, nel nostro metodo, è sottolineato dal commento con cui il terapeuta abitualmente conclude le tre sedute dedicate alle sculture (la prima a quelle del presente, la seconda a quelle del futuro, la terza a quelle del passato).
“Vi ringraziamo perché, attraverso questo linguaggio particolare, ci avete mostrato molto di voi; ma soprattutto pensiamo che molte cose importanti ve le siate ‘dette’ tra di voi! Perciò, per ora, preferiamo non aggiungere nient’altro”.
In questo modo si restituisce e si riconosce alla famiglia e ai suoi membri l’impegno di un lavoro denso di emozioni e di messaggi che li vede nella veste di attori protagonisti.
Solo quando tutto il percorso di rappresentazione delle sculture si è compiuto, e quindi nella seduta successiva alle tre dedicate alle sculture, il terapeuta propone la sua restituzione in forma verbale, quasi a segnalare che ora la famiglia è pronta a compiere quel passaggio dall’ “implicito” all’ “esplicito”, quel salto di livello di cui ha dato prova durante il lavoro con le sculture.
Si tratta, in realtà, di una forma verbale particolare, perché essa mantiene una veste metaforica, recuperando e ritessendo i fili metaforici che provengono dalle immagini proposte dalla famiglia nelle sculture.
Non è certo possibile descrivere qui in dettaglio la costruzione dell’intervento di ridefinizione (per il quale si rimanda ad altri lavori, per es., Onnis [6]).
Ci limiteremo a sottolineare che tre sono gli assi portanti:
• il primo riguarda l’attenzione a recuperare e riproporre le stesse metafore che la famiglia ha presentato nelle sculture, o nei commenti che le hanno seguite, perché questo permette alla famiglia di riconoscersi nella restituzione terapeutica, di “sentire” che si sta parlando di qualcosa che essa stessa ha mostrato;
• il secondo asse consiste nella connessione del materiale che emerge dalle sculture con la specificità del sintomo, in modo che esso acquisti un nuovo significato, diventando esso stesso metafora del disagio familiare. Così, per esempio, il sintomo bulimico di Francesca, nel quadro metaforico delle sculture che abbiamo descritto, viene riproposto come “la difficoltà di crescere di una adolescente che non può ancora trovare l’equilibrio tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, tra i propri bisogni di autonomia e il sentimento generoso di dover fare il perno unificante che garantisce l’unità familiare”. Il materiale proposto dalle sculture viene dunque riorganizzato come i pezzi di un mosaico diversamente ordinati e ricollegato al sintomo, in modo che questo acquisti il significato di una “specifica” metafora della sofferenza non solo dell’individuo ma dell’intera famiglia;
• il terzo asse su cui si costruisce la ridefinizione è l’attivazione delle risorse familiari, verso la ricerca di soluzioni di cambiamento;
• in una cornice complessiva di “connotazioni positive”, in cui la famiglia non è mai colpevolizzata ma compresa nelle sue difficoltà, la ridefinizione tende a mobilizzare risorse e a far riemergere potenzialità, soprattutto sul versante genitoriale, che consentono alla famiglia di superare il blocco evolutivo e di riavviare il proprio ciclo vitale.
L’aspetto suggestivo di questa “costruzione a due” che è l’intervento di restituzione è che l’oggetto metaforico della scultura di cui esso recupera i fili e intorno a cui tesse la sua trama non appartiene più, a quel punto, né alla famiglia, né al terapeuta, ma rimane punto di riferimento, traccia “fluttuante”, ma persistente, intorno a cui continua a dipanarsi il dialogo terapeutico.
LE FASI DEL PROCESSO TERAPEUTICO
Nel nostro metodo di lavoro, le STF occupano una parte rilevante della terapia: almeno quattro sedute, come si è visto, sono dedicate all’utilizzazione del linguaggio analogico. Ma dove e quando collocare le STF nell’arco del processo terapeutico?
Per il significato e le finalità che attribuiamo al nostro metodo, noi non riteniamo, a differenza di quanto proposto da altri autori [19,49], che le sculture possono essere utilizzate agli esordi della terapia. La funzione di disvelamento e di attivazione di un dialogo interno alla famiglia, che noi attribuiamo alle STF, implica infatti che, perché questo diventi possibile, la relazione terapeutica sia sufficientemente affidabile e consolidata.
La fase iniziale: l’esplorazione sul sintomo e sulle storie familiari
La fase iniziale del processo terapeutico è, perciò, dedicata alla costruzione di un’alleanza terapeutica, attraverso l’esplorazione di aree a cui la famiglia è particolarmente sensibile. Innanzitutto quella del sintomo, il problema ufficiale presentato, di cui è utile indagare modi e tempi di insorgenza, capacità di gestione da parte della famiglia, organizzazione di quest’ultima intorno al sintomo, tentando di introdurre, nella raccolta di informazioni, elementi di contesto, di tipo emozionale e relazionale, che comincino a orientare la famiglia verso nuove possibili visioni del problema.
L’altra area a cui la famiglia è immediatamente sensibile è quella della storia familiare, che consente connessioni tra l’insorgenza del sintomo e fasi particolari del ciclo vitale familiare. Si può, già in questa prima fase, avviare anche una ricostruzione delle storie delle famiglie di origine, cominciando a recuperare informazioni, che saranno utili per comprendere sia la dinamica dell’incontro di coppia, sia la formazione dei miti familiari.
Ma, soprattutto, toccare questi temi sensibili con partecipazione e empatia, permette al terapeuta di stabilire con la famiglia una relazione di affidabilità e fiducia.
La fase intermedia: il lavoro con le STF e l’emergenza dei miti
In questa cornice di consolidata alleanza terapeutica, diventa possibile proporre alla famiglia il lavoro con le STF. Esse richiedono alla famiglia un impegno di grande intensità emotiva, che non sarebbe sostenibile in fasi premature (i rarissimi rifiuti a questo lavoro opposti dalle famiglie sono stati sempre legati, nella nostra esperienza, a proposte troppo precoci). La famiglia è chiamata a svelarsi, a mostrare di sé parti nascoste e dolenti ed è ovvio che essa debba essere accompagnata con cautela, con attenzione, con rispetto.
Si è visto quanta straordinaria ricchezza di immagini e di metafore, dense di emozioni e di affetti, si sviluppi nella successione delle sculture, come si costruisca una narrazione analogica in cui trovano posto miti e fantasmi familiari, quale sorprendente creatività sia rivelata anche dalle famiglie apparentemente più disfunzionali; e, infine, come il terapeuta possa fare tesoro del materiale metaforico offerto dalla famiglia per proporre una visione alternativa del problema, restituendogli senso nel contesto di una più ampia sofferenza familiare.
In questo senso, l’uso delle STF e il dialogo che esse attivano a due livelli, tra i membri della famiglia e tra famiglia e terapeuta, rappresentano veramente, nella nostra esperienza, un “punto di svolta” del lavoro terapeutico.
La fase finale: il lavoro con i sottosistemi
Sulla base di una nuova e consolidata visione del problema e del significato delle difficoltà, e nel quadro di una accettata condivisione del disagio, il lavoro della fase conclusiva della terapia può essere più facilmente centrato sui sottosistemi: quello dei genitori e quello dei figli.
Il lavoro terapeutico col sottosistema dei figli è finalizzato a creare tra i fratelli legami di solidarietà nell’affrontare comuni problemi di crescita e di autonomizzazione, se si tratta di adolescenti o di giovani adulti ancora “non svincolati”; è previsto che il paziente designato, nel caso lo si ritenga necessario o venga richiesto, possa beneficiare di spazi individuali.
Il lavoro col sottosistema dei genitori è più impegnativo e richiede molta attenzione nel non scivolare troppo precocemente su tematiche relative alla coniugalità, che sono quelle, abitualmente, più temute e coperte. Il lavoro, perciò, inizialmente verte su quella che è la tonalità emotiva prevalente (il sentimento di unità e la cura del benessere reciproco), sollecitando i genitori a realizzare una migliore coesione genitoriale in funzione delle rassicurazioni da dare ai figli.
Ma parallelamente anche la relazione di coppia di trasforma. Elementi legati a risentimenti nascosti e a conflitti coperti e mai affrontati cominciano ad emergere.
Qui è particolarmente prezioso il ritorno alle storie personali dei due coniugi e al rapporto con le rispettive famiglie d’origine: perché, in questo quadro, possono, ora, essere meglio chiarite le aspettative illusorie e le insoddisfazioni reciproche legate, inconsapevolmente, a una eredità pesante che ognuno portava con sé (come nel caso dei genitori di Francesca, di cui abbiamo parlato).
E allora al risentimento, finalmente espresso, possono sostituirsi una nuova solidarietà e una nuova circolazione di affetti.
Questo rende possibile un miglioramento complessivo dell’atmosfera emozionale della famiglia, a cui, solitamente, si accompagna una più stabile scomparsa dei comportamenti sintomatici, che permette di avviarsi alla conclusione della terapia.
CONCLUSIONI
Abbiamo voluto descrivere in questo articolo, in modo più approfondito e aggiornato rispetto a precedenti lavori, il nostro metodo di lavoro analogico con le STF.
Ci pare superfluo sottolineare che, per i significati e le finalità che gli attribuiamo, esso non è per noi né uno “strumento di valutazione diagnostica”, né un canale brillante di “raccolta di informazioni” (riteniamo che chiunque utilizzi il modello delle STF, di qualsiasi tipo, con questi scopi, ne svilisca profondamente le potenzialità).
Nei nostri intenti e nella nostra esperienza, le STF rappresentano un metodo complesso di lavoro con finalità squisitamente terapeutiche e, anzi, per la famiglia, “auto-terapeutiche”.
Rispondendo alle sollecitazioni che provengono dagli sviluppi recenti dell’epistemologia sistemica, supportati, oggi, anche dalle acquisizioni delle scoperte neuroscientifiche, il metodo si propone di esplorare livelli profondi, “mitici”, della realtà familiare, e di attivare forme feconde di “dialogo terapeutico”.
Utilizzando la dimensione diacronica del tempo, il metodo trova la sua specificità nel permettere, nell’incontro fra famiglia e terapeuta, la costruzione a due di una “narrazione analogica” che si apre alla ricerca di nuove soluzioni e visioni alternative di realtà.
Ci sembra, inoltre, che, nel quadro dell’ottica della complessità che è uno degli sviluppi più maturi dell’orientamento sistemico [16,50,53], il metodo delle STF sia attento alla natura complessa della realtà umana con cui si confronta, perché tocca tutta una serie di livelli, evidenziandone la interconnessione e la complementarietà:
• il livello del corpo, perché il corpo è continuamente al centro della scena terapeutica, proponendosi, ben al di là della dimensione puramente biologica, come veicolo di messaggi, di metafore, di simbolismi: cardine, quindi, di linguaggi e di significati che collegano il corpo a un contesto e una storia;
• il livello psico-emozionale dell’individuo, perché ogni membro della famiglia propone la propria soggettiva rappresentazione della famiglia, esprimendo la propria singolare specificità e identità;
• il livello familiare dei miti condivisi, perché le varie sculture, pur nella singolarità che le rende differenti le une dalle altre, sono, però, attraversate da un linguaggio comune, il linguaggio dei valori e delle emozioni condivise, dei “miti” su cui si fonda l’appartenenza familiare;
• il livello della relazione terapeutica, perché il terapeuta è continuamente coinvolto nella costruzione della “narrazione analogica”: egli riceve e rimanda immagini, come in un gioco di specchi, in cui la famiglia non solo può vedere se stessa attraverso la rappresentazione che dà di sé nelle sculture, ma vede anche la propria immagine riflessa dal terapeuta e rinvia, a sua volta, un’immagine che può essere imprevedibilmente nuova.
È su questo punto che vorremmo attirare l’attenzione per un’ultima considerazione conclusiva: riteniamo che uno degli aspetti più rilevanti del lavoro col metodo delle STF sia quello di permettere alla famiglia una vera e propria forma di “auto-terapia”: sia perché, come si è visto, esso attiva un “dialogo interno” tra i membri della famiglia, sia perché ne promuove le potenzialità e le risorse, rendendo possibile l’emergere autonomo, e spesso imprevedibile, di nuove forme di evoluzione e di cambiamento.
Qui ritroviamo quella “self healing tautology”, quella “capacità di autoguarigione” che Bateson [54] non si stancava di ricordare come una delle qualità essenziali di ogni sistema umano.
E qui ritroviamo anche un aspetto profondamente etico [17,50], a cui attribuiamo la massima importanza.
È vero, infatti, che il lavoro con le STF, per le forme spesso così brillanti e suggestive che evoca, assume una innegabile valenza estetica. Ma questo avrebbe ben poco senso se non si iscrivesse in un’etica.
E l’etica della psicoterapia, come sottolinea Von Foester [55], è, appunto, quella di “permettere agli individui e alle famiglie di aumentare il ventaglio delle scelte possibili”, in modo che possano autonomamente riprendere la guida della propria vita.
Ci auguriamo che il metodo delle STF possa dare un utile contributo soprattutto in questa direzione.
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