La fase della consultazione nella presa in carico di bambini affetti da disturbi psichici
Gaetano Maria Moretti, Patrizia Ascani, Chiara Bargnesi,
Cecilia Collamati, Mara Magnani, Roberta Marzioni, Simonetta Rosa, Franca Santarelli


Riassunto. Spesso i disturbi psichici dell’infanzia si manifestano con ritardi dello sviluppo. Questa peculiarità, quasi sempre, orienta l’attenzione dei genitori, e quindi la loro preoccupazione, verso gli aspetti deficitari del loro bambino, trascurando gli elementi di sofferenza psichica che sottostanno al danno prestazionale. Pertanto il compito dei servizi di età evolutiva è quello di riformulare la domanda iniziale che è quasi sempre diretta verso un intervento esclusivamente riabilitativo. Ciò è possibile evidenziando le difficoltà della sfera emozionale del bambino e del sistema di relazioni del suo contesto di allevamento. Sarà così possibile offrire un progetto d’intervento articolato secondo una duplice dimensione: riabilitativa e psicoterapeutica. In questo articolo tentiamo di descrivere in dettaglio le sedute di consultazione che, nella nostra casistica, spesso conducono ad una ristrutturazione della domanda iniziale.
Parole chiave. Disturbo psichico, infanzia, consultazione, ristrutturazione della domanda, psicoterapia, riabilitazione.


Summary. The phase of the consultation in the treatment of children’s mental disorders.
Often mental disorders of childhood show up with delays in physical development. Most of the times, this peculiarity droves the parents’ attention, and consequently their worries, to the deficiencies of their child, leaving apart the psychological strain that is the cause of those deficiencies. Therefore, the role of Health Services is to reformulate the parents’ request which is nearly always exclusively directed to a rehabilitative intervention. It is possible to do so by pointing out the difficulties of the child’s emotional sphere and the relationships within his context of growth. It would then be possible to offer a project of intervention on a double dimension: rehabilitative and psychotherapeutical. In this paper, our aim is to describe in details the sessions that, from our record of cases, often leads to a reformulation of the parents’ requests.
Key words. Mental disorder, childhood, consultation, reformulation of the request, psychotherapy, rehabilitation.

Resumen. La fase de consulta del tratamiento de los niños con trastornos mentales.
A menudo, los trastornos psíquicos de la infancia se manifiestan con un retraso en el crecimiento. Casi siempre los padres se centran en esta peculiaridad y se preocupan por los aspectos deficitarios del niño, descuidando los elementos de sufrimiento psíquico que son el origen del déficit de desarrollo. Por lo tanto, la tarea de los Servicios Sociales para niños en edad de desarrollo es la de cuestionar la solicitud de terapia inicial, que está casi siempre orientada hacia una intervención exclusivamente de aspectos rehabilitativos. Esto se puede conseguir remarcando las dificultades de la esfera emocional del niño y de los sistemas de relaciones de su contexto educativo y de crecimiento. De esta manera es posible ofrecer un proyecto de intervención planteado sobre una doble dimensión: rehabilitativa y psicoterapéutica. En este artículo intentamos describir en detalle las visitas realizadas que, en nuestra casuística, a menudo conducen a una restructuración de la solicitud de terapia inicial.
introduzione
Gli autori di questo scritto fanno parte di un servizio di età evolutiva territoriale della Regione Marche che si occupa della disabilità in termini di valutazione e presa in carico. Nel 1997, dai flussi informativi costruiti per richiesta dell’Agenzia Regionale Sanitaria, ci rendemmo conto che più della metà dei nostri utenti compresi tra 0-18 anni riconosciuti in condizione di handicap non presentavano una patologia organica accertata ma gravi problemi della sfera emozionale. 
Da qui il nostro intervento si è ampliato alla rilevazione precoce dei disturbi legati a tale sfera per evitare, ove possibile, una segnalazione del minore ai fini di ottenere l’insegnante di sostegno.
In questo scritto ci limiteremo a parlare dei disturbi psichici che possono debordare o meno in una condizione di disabilità conclamata. In un precedente articolo [1] già descrivemmo come dietro ai ritardi dello sviluppo che presentavano i bambini da noi presi in carico, in assenza di una patologia organica accertata, spesso si celassero importanti disturbi emozionali ed un funzionamento inadeguato del contesto in cui venivano allevati. Dichiarammo la nostra convinzione che le difficoltà emozionali potessero essere alla base dei deficit, spesso imponenti, che questi piccoli utenti presentavano. Senza sottovalutare la necessità di interventi riabilitativi per ripristinare o promuovere le abilità perdute o non sviluppate, ci sforzammo di illustrare come la nostra modalità di trattamento si muovesse lungo tre dimensioni di uno stesso modello di riferimento condiviso dalle differenti figure professionali: percorso riabilitativo per il bambino, allestimento di un setting psicoterapeutico per la famiglia e, ove necessario, sostegno sociale per favorire l’integrazione del piccolo utente in attività extrascolastiche. Indicammo allora che il setting riabilitativo, sempre orientato dagli psicoterapeuti, era anche luogo di lettura dei comportamenti e di correzione emozionale del bambino [2]. In quello scritto sottolineammo che la richiesta dei genitori, spontanea o stimolata, non esplicitava quasi mai il bisogno di riflettere sul figlio, sulle sue insicurezze, sui suoi comportamenti spesso difficili da gestire, né tanto meno vi era richiesta di ragionare sul modo in cui i genitori stessi si relazionavano con lui o di parlare delle difficoltà che la famiglia poteva attraversare. Scrivemmo che era nostro compito far esplicitare queste richieste, facendo emergere i nodi problematici, ma illustrammo superficialmente questo passaggio che nel presente lavoro vorremmo mettere a fuoco in dettaglio. Questo sforzo ci appare importante anche sul piano etico. Uno di noi ricorda che durante un corso di aggiornamento una cara e intelligente collega così rifletteva sul nostro operare nel prendere in carico bambini affetti da disturbo di apprendimento: “Diamo l’insegnante di sostegno e poi i problemi emozionali li lasciamo tutti lì”. Questa frase fulminante esplicita esattamente quello che noi pensiamo e ci ha fatto ricordare quanto affermato in un lavoro di S. Cirillo sulla violenza istituzionale: «In un convegno sull’abuso sessuale a Metz, organizzato più di un anno fa dall’Institut d’Etudes Systémiques, al quale partecipavo in veste di relatore, un collega lussemburghese, Gilbert Pregno, ha citato un concetto, la discontinuità delle cure come maltrattamento istituzionale, contenuto in un articolo di Odette Masson» [3]. Nel caso dei nostri servizi di età evolutiva il concetto è analogo: limitarsi alla valutazione del bambino, impattare nella sua sofferenza e in quella dei suoi genitori per poi limitarsi alle disposizioni di legge (valutazione, eventuale individuazione di handicap e successive ottemperanze) significa lasciare quella sofferenza inascoltata e ridurre di molto l’efficacia degli interventi riabilitativi. Nulla ci vieta, accanto alla valutazione dei nostri piccoli utenti, di considerare anche il contesto in cui vengono allevati e capire se questo può essere inadeguato, esponendo il bambino ad esperienze sfavorevoli infantili (ESI) [4] e quindi interferire sul suo sviluppo. Noi allarghiamo il concetto di ESI a tutte quelle situazioni in cui i genitori non riescono a creare le condizioni per un attaccamento sicuro.
IL PRIMO CONTATTO CON I GENITORI
Non vediamo mai i bambini in prima battuta perché non sapremmo che domande fare non avendo chiaro cosa c’è intorno a loro. Inoltre, non iniziamo mai somministrando test individuali perché questo connoterebbe definitivamente che il problema è del piccolo senza più riuscire a collegare le sue difficoltà con il modo di funzionare del suo contesto di allevamento. «Nel lavoro quotidiano come docente della Scuola di Terapia della Famiglia “Mara Selvini Palazzoli” mi sono sempre scontrata, purtroppo, con la prassi consolidata degli allievi di prendere in carico i piccoli pazienti con un approccio testistico, e pertanto individuale, quando sono coinvolti in processi di presa in carico presso i servizi, sia sul tema della tutela minorile, sia su quello più generale del disagio evolutivo che si esprime in disturbi del comportamento, della socializzazione e degli apprendimenti. Le richieste delle istituzioni, quali la scuola, i servizi sociali e il Tribunale dei Minori, li riducono spesso a passivi esecutori di processi di valutazione a loro commissionati, senza che si rendano conto che valutare è squisita attitudine clinica, sempre prerogativa del terapeuta, che non può essere subordinata a forme standardizzate di indagine e di somministrazione che nessuno ha il diritto di prescrivere, violando le libertà tecniche di ogni operatore» [5].
Dunque, trattandosi di bambini, spesso nella fascia di età della prima infanzia (0-6 anni), nel primo colloquio di consultazione, procediamo convocando i soli genitori. Come già detto, diversamente lasceremmo passare il messaggio che il problema è lui ed accetteremmo la deresponsabilizzazione del papà e della mamma acconsentendo che ci deleghino il loro figlio. Questo non deve far credere che nel nostro procedere si dimentichi di ascoltare il punto di vista del bambino e di offrire a lui, quanto ai suoi genitori, una restituzione su quanto abbiamo capito. Il bambino ha diritto di essere informato e trattato come un interlocutore competente anche quando soggettivamente non è il richiedente di una valutazione e questo è un problema non solo deontologico, ma di cura. Tra i nostri obiettivi c’è quello di migliorare, ordinare e strutturare la sua mente, che è un compito terapeutico uguale a quello che abbiamo per i suoi genitori: noi, come terapeuti, ci sentiamo costruttori di senso e quindi costruttori di ordine, per gli adulti, per gli adolescenti e pure per i bambini.
Nel caso di preadolescenti si accetta di convocarli in prima seduta se il richiedente insiste, ma insieme a lui vengono sempre convocati i suoi genitori. In questo caso si dice al richiedente di spiegare al ragazzo che non viene portato in valutazione perché lui è “malato” e qualcuno lo deve curare, ma perché il papà e la mamma sentono che c’è una difficoltà e vogliono capire come poterlo aiutare. Quando il ragazzino è presente gli diamo per primo la parola [6].
Nel caso in cui il richiedente ci comunichi che l’altro genitore non è favorevole alla consultazione, gli offriamo un colloquio e cerchiamo di ottenere almeno il consenso informato dell’altro; se questo consenso non c’è, non vediamo il bambino e valutiamo la possibilità di offrire altri colloqui al genitore che ha fatto richiesta per sostenerlo e consigliarlo, ammesso che il suo interesse per il figlio risulti autentico e non vi siano intenti strumentali contro il coniuge.
Se è un nonno a richiedere la consultazione, di per sé questo fatto ci dice qualcosa sul funzionamento della famiglia; in questo caso lo si invita al primo colloquio insieme ai genitori del bambino perché sicuramente ha informazioni preziose sulla situazione; poi verrà congedato per delineare i confini della famiglia nucleare e, se necessario, riconvocato come nonno durante il percorso terapeutico.
Dato che i nostri utenti sono nella maggior parte dei casi bambini o preadolescenti, quasi mai è un fratello maggiore a richiedere la valutazione. Nella nostra casistica questo fatto si è verificato una sola volta: una giovane di 21 anni ha richiesto la consultazione per sua sorella di 14 anni che presentava un pesantissimo deficit scolastico. In questo caso la sorella maggiore non è stata invitata a partecipare ai colloqui di consultazione con i genitori. La ragazza è stata poi convocata nella seduta di valutazione delle relazioni familiari. Al momento della richiesta però abbiamo potuto acquisire da lei informazioni utili a formarci un primo quadro sul livello di impegno di ciascun genitore, sul grado della loro alleanza, sul ruolo che il richiedente aveva all’interno della famiglia. Nel caso specifico si trattava di un sorella prestigiosa (consulente della madre e valorizzata da suo padre), ma molto sofferente per la difficile condizione di genitore vicariante.
Dunque, questo primo colloquio è dedicato alla raccolta di informazioni sullo sviluppo del bambino e sulle sue problematiche. Iniziare così ci sembra dovuto perché i genitori vengono per il bambino e sono preoccupati per la sua situazione; passi differenti risulterebbero incongrui e non comprensibili. Questo momento, pur essendo standardizzato (definito nella cartella clinica), viene quasi sempre svolto da un operatore clinico. 
La raccolta delle informazioni sul bambino si articola su alcuni punti fondamentali.
1. I genitori vengono spontaneamente o su consiglio di qualcuno (pediatra, scuola, ecc.), perché c’è qualche aspetto del bambino che li preoccupaa. Quindi, iniziamo la consultazione richiedendo di descrivere il problema: come e quando si è manifestato, come si è modificato nel tempo e i tentativi fatti per risolverlo. 
2. Poi si indaga sulle tappe di sviluppo: il controllo della postura e della deambulazione, la comparsa del linguaggio e la sua evoluzione, il controllo dell’evacuazione, la comparsa dell’organizzazione grafica. Anche l’analisi dell’attività ludica a cui si dedica prevalentemente costituisce un’informazione importante; quindi, si raccolgono dati sulla tipologia dei giochi: la mancanza di gioco simbolico o di gioco condiviso costituisce un’informazione clinica importante perché ci può far pensare ad un deficit nello sviluppo del pensiero e ad una chiusura relazionale del bambino; viceversa giochi non strutturati come le costruzioni, giochi di movimento finalizzati ad uno scopo, disegno e manipolazione indicano un buon grado di autonomia e di pensiero perché sono il prodotto di una rappresentazione mentale. Una forte preferenza per la PlayStation, la televisione e i cartoni animati possono essere indicativi di una tendenza all’isolamento (alcuni bambini “cadono dentro” al televisore). Anche le modalità con cui realizza il gioco sono di notevole interesse: con chi gioca (da solo, con la partecipazione di un adulto, con altri bambini), il grado di autonomia nell’organizzare il gioco, la ripetitività, la tendenza a smontare e a distruggere le cose e il grado di impulsività nella realizzazione dell’attività ludica (l’esecuzione frenetica e l’immediato passaggio all’attività successiva, la spericolatezza, l’imprudenza nei giochi di movimento e la tendenza a passare da un gioco ad un altro senza completarlo).
3. Al di là del problema per cui il genitore si rivolge al servizio, dedichiamo attenzione a rilevare la presenza di eventuali comportamenti sintomatici che solitamente hanno un esordio nell’infanzia. Alcuni possono riguardare il “soma” in assenza di condizioni mediche accertate; sono tali, ad esempio, i disturbi della sfera digestiva, respiratoria e cutanea, i disturbi dell’alimentazione, del ritmo sonno-veglia; altri riguardano la fluenza del linguaggio (balbuzie), la presenza di tic e i disturbi d’ansia (tra cui l’ansia da separazione inappropriata ed eccessiva rispetto all’età). Molto significativi sono la presenza di un atteggiamento mutacico o forme regressive in cui il bambino ritorna a comportamenti appartenenti ad una fase di sviluppo precedente (ad esempio la perdita del controllo dell’evacuazione una volta raggiunta).
4. Vi è poi – e questo è un momento cruciale – la raccolta di informazioni sul carattere del bambino (descrizione del figlio da parte di ogni genitore) e sulle sue manifestazioni emotive (controllo emotivo, reazione ai no, tolleranza agli insuccessi, reazioni alla separazione, ricerca del contatto, ecc.). I nostri genitori sono perfettamente in grado di portare il quadro del loro bambino se lo si chiede: questo ci fa risparmiare tempo ed in molti casi ci consente di evitare la somministrazione di test proiettivi per indagare la sfera emozionale. Nel descrivere il proprio figlio, il papà e la mamma ci forniscono indicazioni importantissime sul tipo di attaccamento che egli presenta. Ci sono bambini impulsivi e spericolati che presentano un’elevata imprudenza e propensione agli incidenti, non hanno paura di niente, non piangono e non chiedono aiuto neanche quando si fanno male; hanno una bassa tolleranza alla frustrazione che li spinge a non sopportare di perdere o non arrivare primi. Sono bambini affatto inclini a lasciarsi guidare dall’adulto . «Una manifestazione di questo fenomeno è la tendenza del bambino a lasciare luoghi apparentemente sicuri, allontanandosi dal perimetro psicologico segnato dalla presenza della madre, senza controllare il comportamento del genitore o senza tornare da lui per ricevere rassicurazione» [8]. Variando su questa stessa polarità, vi sono i bambini con una socializzazione indiscriminata, molto autonomi nel fare le cose: non ci si accorge che ci sono perché se ne restano buoni ed evitano di disturbare chiedendo. A questa tipologia può essere attribuito uno stile di attaccamento evitante.
Vi è poi la categoria dei bambini insopportabili: piangono e si lamentano in continuazione in modo non consolabile, sono coercitivi nelle loro richieste, rimangono incollati alla figura di protezione fino a toglierle la pelle, possono avere paura di tutto, con una tolleranza alla frustrazione bassa che esita verso comportamenti di fuga dalla prova. Variando su questo tema troviamo bimbi con comportamenti oppositivo/provocatori, molto fastidiosi. Questa categoria è compatibile con uno stile di attaccamento ansioso-ambivalente.
Vi sono, infine, bambini che presentano uno stile di attaccamento disorganizzato. Le manifestazioni comportamentali possono essere diverse. Alcuni tendono ad isolarsi, ad interagire poco, a presentare un’inibizione dell’esplorazione con una restrizione della gamma affettiva importante (hanno spesso umore serio o neutro, sono resistenti alle coccole e al contatto fisico in genere o lo cercano solo quando decidono loro). Questi bambini sono spesso incoerenti nel relazionarsi agli altri e possono anche mostrare comportamenti palesemente aggressivi o provocatori. Nelle forme estreme tendono ad assumere posture ed espressioni congelate; S. Fraiberg li descrive nel seguente modo: «Il comportamento è di completa immobilizzazione, un congelamento della postura, della mobilità, della voce» [9]. Per quest’ultima tipologia è difficile ottenere un quadro dai genitori perché molto spesso siamo in presenza di persone con gravi patologie e che, per questo, hanno forti difficoltà a cogliere gli stati interni del loro figlio e a riflettere su di essi. Nella categoria dei disorganizzati mettiamo anche i lottatori. Sono bambini ostinati, negativi, provocatori fino a combattere apertamente con il genitore e possono manifestare vere e proprie crisi pantoclastiche che, secondo la Fraiberg, sono stati disintegrativi. I genitori ce li descrivono come piccoli mostri indomabili ed in questi casi l’arrivo al servizio è sempre dovuto a gravi problemi del comportamento.
Per esemplificare riportiamo il caso di Nicholas (5 anni), un bambino molto dotato intellettivamente; la mamma, separata, si è rivolta al servizio per un grave disturbo di encopresi secondaria: il figlio fa la cacca addosso più volte al giorno persino sul divano. Questa giovane donna molto intelligente (nel corso dei colloqui appureremo che ha presentato in passato importanti episodi dissociativi) così ci descrive il suo bambino nella consultazione iniziale: “Ha continui alti e bassi. Ieri è stato agitatissimo, alla sera, dopo tutta una giornata di provocazioni ha tirato un gioco e abbiamo dovuto punirlo. Sembra che se le vada a cercare, che voglia essere punito; era esagitato si buttava per terra… mi faceva degli sguardi che mi facevano paura. Con il fratellino (di pochi mesi) è molto affettuoso, però non riesce a regolare le sue forze; il mio attuale compagno è terrorizzato, ha paura che N. gli possa far male”.
 
5. Infine vengono indagati i rapporti tra fratelli, se vi sono, e con l’occasione cerchiamo anche di ottenere una descrizione del carattere di questi fratelli. La relazione può caratterizzarsi su un versante di forte litigiosità/rivalità che mette a dura prova la pazienza dei genitori, la loro capacità di regolare i figli; ciò è indicativo di uno stile genitoriale incoerente e instabile. In altri casi emerge un attaccamento simbiotico (i fratelli si supportano e si aiutano), compatibile con uno stile genitoriale espulsivo o minimizzante. Nelle situazioni molto gravi la presenza di un disturbo pesante in uno dei fratelli impensierisce l’altro, soprattutto se quest’ultimo è più grande.

Alla fine di questo primo colloquio se dai dati emersi non risultano ritardi prestazionali e i genitori ci portano una domanda autentica sulle difficoltà emotive del figlio non proponiamo la valutazione del bambino. Viceversa, se emergono difficoltà nello sviluppo spieghiamo ai genitori che l’équipe continuerà seguendo un doppio binario.
Binario 1: la valutazione del bambino (4-6 sedute).
• Ci dà informazioni sui suoi livelli prestazionali; ci consente di focalizzare l’attenzione sul suo mondo interno, sui suoi conflitti. È importante sottolineare che gli elementi clinici che emergono dall’osservazione del bambino o dalle prove proiettive, quando utilizzate, sono discussi con i genitori nel tentativo di arrivare ad una lettura condivisa. Questo momento è cruciale perché se si resta ancorati alle difficoltà di sviluppo o prestazionali, se non si riescono a evidenziare bisogni appartenenti ad altre sfere del bambino non vi sono possibilità di riformulare la richiesta.
Binario 2: la valutazione dell’ambiente familiare (2° seduta con i genitori+1 seduta familiare).
• Un altro passaggio cruciale per dare una rilettura al problema inizialmente portato è quello di far emergere le difficoltà nel far fronte ai comportamenti del bambino ed il grado di alleanza genitoriale. A ciascun genitore va riconosciuto l’eventuale stato di affaticamento per la gestione del figlio, di solitudine/conflittualità rispetto al partner o di tensione con le famiglie di origine. Quindi, nella seconda seduta di consultazione psicologica con i genitori si acquisiscono informazioni sulla storia della famiglia nucleare, sui familiari significativi che si interfacciano con il bambino e che possono fornire supporto quali i nonni e gli zii. Spesso chiediamo la disponibilità a convocare i nonni perché abbiamo trovato utile riflettere sulla situazione del bambino anche con loro e, se possibile, ottenere la loro collaborazione.
• È finalizzata a comprendere come il bambino si relaziona con i componenti della sua famiglia (genitori e fratelli).
La messa a fuoco di una gestione emotiva non corretta del figlio e delle difficoltà insite nel suo ambiente familiare sono i due punti cardine che ci consentono di arrivare ad un contratto che preveda anche la presa in carico familiare. Cerchiamo ora di descrivere in dettaglio le fasi sopra elencate.
LA VALUTAZIONE DEL BAMBINO
Quando ci viene rivolta una richiesta di riabilitare ritardi nello sviluppo (difficoltà di linguaggio, deficit nelle prestazioni che la scuola richiede, competenza relazionale inadeguata, ecc.), la valutazione del bambino viene messa in programma parallelamente alla valutazione dell’ambiente familiare. Quando richiedono una consultazione, il papà e la mamma sono in allerta già da tempo; procedendo diversamente ci sembrerebbe di non accogliere i sentimenti di impotenza e di frustrazione ansiosa che li pervadono. A nostro avviso, prendersi carico di questa grave preoccupazione valutando l’entità delle difficoltà del figlio e rassicurandoli sul fatto che la nostra équipe si occuperà di promuovere un miglioramento (oltreché di ricercare, insieme a loro, i fattori che ne sono a monte e di individuare e mettere in campo le azioni riparative) è una risposta rassicurante.
C’è una seconda ragione: nel caso di genitori in grave difficoltà a “sentire” il disagio emotivo del figlio e a collegarlo alle sue difficoltà, occorre non sfidare troppo le loro difese dandogli il tempo di abbandonarle. Bisogna costruire delle evidenze sulle quali riflettere e, come vedremo, la valutazione del bambino è anche luogo dove possono emergere informazioni importanti sui suoi vissuti emotivi, sulla percezione che ha delle relazioni con le figure di riferimento, sulle interazioni tra lui e i suoi genitori, dato che chiediamo loro di essere presenti durante alcune fasi della valutazione.
La presenza di difficoltà prestazionali richiede necessariamente una valutazione per stabilire l’entità del deficit e la sua ampiezza. L’analisi delle abilità in repertorio (linguaggio, lettura, scrittura, calcolo) viene fatta dal logopedista, mentre la misurazione del QI viene fatta dallo psicologo o dal neuropsichiatria infantile.
Quasi sempre, nel primo incontro, l’operatore riabilitativo è affiancato da una figura clinica dato che non iniziamo questa seduta somministrando test o batterie di prove.
Non bisogna dimenticare che questo è spesso il primo contatto con il bambino per cui ci soffermiamo a chiedergli che idea si è fatto del motivo per cui i genitori si sono rivolti a noi, che cosa gli hanno spiegato, se lo hanno fatto. Gli illustriamo che cosa faremo insieme e gli diciamo che alla fine degli incontri saprà per primo quello che abbiamo capito sulla situazione.
Questo avviene anche con bambini molto piccoli perché usando un linguaggio semplice possiamo condurre una conversazione su questi temi. Concludiamo dicendo al bambino che cercheremo di comprendere quali sono le sue difficoltà e soprattutto avremo bisogno del suo aiuto per capire come si sente, che cosa gli passa dentro. Quando avremo capito queste cose potremo riflettere con il papà e la mamma su come possono meglio aiutarlo. Tutto ciò viene detto in presenza dei genitori.
Nel caso di bambini piccoli la valutazione inizia con dei giochi; di solito, ove il livello di sviluppo del funzionamento del piccolo lo permette, usiamo il gioco simbolico che ci consente di instaurare meglio un rapporto con lui. L’osservazione dei comportamenti relazionali del bambino con il genitore presente in seduta e con l’operatore, il gioco simbolico e i disegni che vengono prodotti nel setting riabilitativo ci permettono di avere un accesso diretto ai suoi vissuti interni che il logopedista riporta in équipe per una lettura condivisa dei significati. Questo materiale sarà successivamente discusso con i genitori per suscitare una riflessione. Come afferma M. Klein, «nel gioco il bambino non si limita a superare soltanto la realtà dolorosa: nel gioco egli trova anche il modo di dominare l’angoscia delle forze istintuali e delle minacce interne, proiettandole sul mondo esterno» [10]. La nostra esperienza ci dice che i bambini intuiscono rapidamente che il setting riabilitativo è anche luogo di comprensione dei suoi vissuti emozionali e rispondono congruentemente. 

Andrea è un bambino di 4,10 anni. La scuola ce lo invia perché quando parla non completa la frase e non dice tutte le lettere. In realtà c’è molto di più: il bimbo può essere classificato come disorganizzato con atteggiamento congelato, restrizione degli affetti e tendenza all’isolamento nel rapporto con i coetanei. Quando entra in stanza la prima volta cammina sulla punta dei piedi (comportamento che spesso si associa ai disturbi generalizzati dello sviluppo) e sua madre commenta in modo per nulla preoccupato: “A lui piace ballare e fa come quelle di Striscia la Notizia”. Subito l’operatore coglie l’occasione per avvertire il genitore che il significato è un altro e che lo psicologo l’aiuterà a rileggere questo comportamento. Quando la logopedista introduce il gioco simbolico della casetta, il bambino ha la possibilità di costruire delle scene aiutato da sua madre e subito manda in onda il suo mondo interiore, costituito prevalentemente da affetti di angoscia; mimando con i gesti, dice: “Per prima cosa butto via i mostri, li faccio uscire dalla finestra”. La mamma ancora una volta giustifica questa sua paura dicendo che il figlio pensa ai mostri perché li ha visti nel programma prima citato. I sentimenti drammatici del bambino emergono ancora quando rappresenta la scena catastrofica di lui e i suoi genitori che viaggiando in auto hanno un incidente e stanno per cadere da un burrone; poi arrivano all’aeroporto, s’imbarcano sull’aereo e mentre sono in volo si aprono le porte e cadono tutti i personaggi nel vuoto.
Come si vede, non occorre aspettare la somministrazione di test proiettivi da parte del clinico, cosa che in questo caso non è avvenuta. Nella seduta riabilitativa la logopedista assiste attonita alla drammaticità che il bambino mette in scena e avverte il genitore che sarà importante riflettere su questi elementi che lei riporterà in équipe con lo psicologo e la neuropsichiatra per condividerli.
Un altro caso può essere esemplificativo. Quando abbiamo l’impressione che i genitori siano gravemente incompetenti, vuoi perché siamo in presenza di un sintomo di area psicotica, vuoi perché i genitori sono presi da urgenze drammatiche come nel caso sotto riportato, offriamo delle sedute di valutazione del bambino con un terapista riabilitativo anche quando non ci sono abilità da riabilitare. Il momento della valutazione del bambino non serve solo per esplorare i suoi conflitti interni, ma anche per fornirgli un’esperienza emozionale correttiva e per orientare i genitori su come contenere e regolare il loro figlio. Esemplificare a loro come guidare il bambino ci permette di osservare come essi utilizzano questa esperienza: accolgono il “modello”? Lo rifiutano? Rimangono stupiti? Si mettono in gioco facendo delle riflessioni? (Questi elementi sono utilissimi per formulare una ipotesi prognostica!). Come abbiamo ampiamente ripetuto è chiaro che l’operatore riabilitativo dovrà essere relazionalmente orientato dal clinico che potrà essere presente nel setting riabilitativo o supervisionare quanto gli viene riportato.

Michele è un bambino di 4 anni che viene in valutazione per una grave forma di balbuzie. La situazione ci appare subito complessa: il papà del bambino è tossicodipendente e attualmente ricoverato presso una comunità terapeutica, la mamma è una giovane donna affranta che proviene da 2 anni di convivenza con un compagno ricaduto nell’eroina e da una situazione gravemente conflittuale con i propri genitori separati. Accanto agli incontri di consultazione con la mamma decidiamo quindi di procedere ad alcune sedute di osservazione del bambino in cui solo alla prima sarà presente lo psicologo, le altre saranno condotte dalla logopedista e videoregistrate. Durante lo Sceno-Test Michele prende le tavolette di legno e chiede alla mamma di aiutarlo a costruire un albero. Fa il tronco e intorno vi costruisce un recinto con molte barriere per non farlo cadere. Poi prende il treno e alla domanda dell’operatore: “Chi ci sale su questo treno? Dove va?”, lui risponde che non ci fa salire nessuno. Successivamente, prende la sdraietta e il tavolino e vi dispone il pupazzo del Power Ranger che ha portato da casa, commentando che è buono perché combatte contro i cattivi. Poi si rivolge alla mamma Romina; le chiede più volte di farsi aiutare a preparare il pranzo al Power Ranger e infine la mette seduta vicino all’eroe, affermando nuovamente che è buono e difende tutti, compresa la mamma. Quando R. gli chiede chi possono invitare a mangiare con loro, lui risponde “la mucca”. Questa mucca è arrabbiata e distrugge tutto. Poi aggiunge che anche il Power Ranger a volte si arrabbia e così lo mette a cavallo della mucca e distruggono tutto. Nessuno riesce a calmare il Power Ranger, né le coccole della mamma né la tisana del papà. Si calma da solo con il latte della mucca. Quando si continua con il gioco della casetta, Michele, al posto di personaggi umani prende solo degli animali feroci che assalgono la casa entrando dal tetto, dalle porte e dalle finestre. Dentro la casa ci sono altri mostri che combattono gli invasori. Lontano c’è la sua mamma. I mostri assalgono e distruggono anche lei in una lotta in cui nessuno sopravvive.

Le situazioni di gioco non servono solo a valutare la sfera emozionale, ma anche ad acquisire informazioni sulle capacità linguistiche e cognitive. Del linguaggio ci interessa annotare il vocabolario posseduto oltre che lo sviluppo morfo-sintattico della frase.
L’analisi della capacità narrativa del bambino è un indicatore significativo della sua capacità comunicazionale e del suo sviluppo cognitivo. Andrea, il bambino prima citato, quando l’operatore parlava con il genitore, diceva molte frasi decontestualizzate, imitate da film o da programmi televisivi che aveva visto; il che significa che in assenza di contenimento da parte dell’adulto il pensiero del piccolo perdeva il contatto con la realtà. Nelle sedute successive, la valutazione del linguaggio procede con alcuni test specifici: Schema d’azione con oggetto, Donna Thaller, Axia, Rustioni, Test di Valutazione del Linguaggio (TVL), Fanzago, Brizzolata, Besta. La valutazione cognitiva viene fatta ove si ritiene necessario somministrando un test intellettivo da parte dello psicologo o del neuropschiatra; allo scopo utilizziamo la Leiter International Performance Scale-Revised (LEITER-R) per i più piccoli e la Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence (WPPSI) o la Wechsler Intelligence Scale for Children-III (WISC-III) via via per i più grandi.
Con i bambini più deficitari che non sono in grado di parlare, di partecipare ad un gioco, di rispondere a semplici richieste (o lo sono in modo molto limitato) e che presentano comportamenti di rifiuto difficilmente contenibili, le sedute di valutazione sono dedicate a promuovere un gioco condiviso con schemi molto semplici (bolle di sapone, palloncini gonfiabili, ecc.), per stimolarli a rispondere in modo reciproco a qualche azione dell’adulto (ad esempio afferrare un palloncino sospinto verso di lui o prendere la bolla di sapone).
In questa seduta i genitori possono osservare che il loro piccolo non è un gigante incontenibile e si può aiutarli a riflettere sul fatto che la prima necessità non è promuovere il linguaggio, ma aiutare il bambino ad accettare di condividere un’attività. Ovviamente le difficoltà di contenimento sono presenti anche in casa e ciò consente di introdurre da subito l’importante tema della regolazione del figlio. Questo lo facciamo solo nei casi in cui abbiamo la sensazione che non vi siano da parte dei genitori atteggiamenti espulsivi o aggressivi perché significherebbe sfidare la loro personalità rischiando di procurare un danno al bambino; quando ciò accade, è meglio aspettare di averli agganciati con una forte presa in carico terapeutica che possa mitigare e controllare questi loro sentimenti prima di proporre una regolazione del bambino quando sono da soli in casa.
Nel caso di bambini in età scolare, che vengono per difficoltà di apprendimento, si procede con maggiore rapidità all’esame delle difficoltà scolastiche segnalate; lettura, scrittura, calcolo vengono valutati dal logopedista mentre il QI viene misurato dallo psicologo o dal neuropsichiatra. Prima di iniziare, in presenza dei genitori, si procede sempre, come abbiamo già detto, con il chiedere al bambino perché è venuto qui e come vede il suo problema; durante la valutazione prestazionale, prima o dopo le prove, si propone al bambino, come momento distensivo, di fare qualche disegno che possa dare informazioni sui suoi vissuti. 

Fabrizio (9,9 anni) viene inviato dalla scuola per difficoltà di apprendimento e la richiesta comprende anche l’insegnante di sostegno. È stato già in trattamento da un logopedista privato, ma ora i genitori preferiscono rivolgersi al servizio pubblico anche perché l’accertamento della disabilità lo rende necessario. I genitori lo descrivono come un bambino ansioso, possessivo, agitato; fa pianti e scenate molto lunghe e cerca il fratello con cui però è in continuo conflitto. Viene sottolineato che i problemi nascono con l’inizio della scuola, ma in realtà il bambino era sofferente da prima: ha avuto un importante disturbo del sonno con risvegli inconsolabili ed è sempre stato piuttosto agitato (la mamma dice che anche da piccolo aveva un pianto esagerato, tanto da sembrare isterico). Anche il fratello Paolo, 13,6 anni, ha presentato importanti segnali di difficoltà (disturbo del linguaggio, encopresi fino a 6 anni, enuresi notturna fino a 7, disturbo del sonno). Dalle informazioni raccolte risulta che entrambi i figli trattano la mamma in modo offensivo e non sembrano riconoscerle valore. Paolo da piccolo era una peste, ma ora si è molto calmato. Sempre nel primo colloquio emergono importanti tensioni nella vita di coppia che non sempre riguardano la gestione dei figli. Parlando della scuola F. riferisce di sentirsi una “merda”. Durante la valutazione del bambino, accanto alle prove di apprendimento e alla valutazione del repertorio intellettivo, viene fatto qualche intermezzo in cui gli si chiede di disegnare. Il primo disegno, a piacere, è molto solare: un prato, dei fiori colorati, degli alberi e un sole sorridente dietro le colline. Colpita dalla dimensione bucolica del disegno la logopedista commenta: “È strano che un bambino agitato come te faccia un disegno così sereno”, e il bambino le risponde: ”Disegno così perché la mia maestra non vuole vederci arrabbiati”; quando l’operatore lo invita a fare un disegno che rispecchia i suoi veri sentimenti appare subito una differenza stupefacente: il bambino disegna due cannoni potenti ben piantati su un terreno rosso fuoco, uno di fronte all’altro che sparano palle attraversando un cielo tutto grigio squarciato da lampi gialli. Lasciamo al lettore ogni commento.

Quando ci rendiamo conto che da parte dei genitori può esserci una resistenza a riflettere sulla componente emozionale del figlio e su come questa possa interferire pesantemente sulle sue prestazioni, proponiamo la somministrazione di test proiettivi per meglio indagare gli affetti del bambino, per poi analizzarli con il papà e la mamma. 
Quando giunge in consultazione da noi, Marco (7,8 anni) è già stato valutato da un servizio di neuropsichiatria infantile ospedaliero dove è stata fatta diagnosi di di­sturbo specifico d’apprendimento; dalla valutazione psicodiagnostica effettuata presso tale centro, il repertorio intellettivo risulta superiore alla norma (QI 129) e vengono sottolineati aspetti disfunzionali della sfera emozionale del bambino e della coppia genitoriale. Tuttavia, l’unica indicazione che viene data è di training riabilitativo per le difficoltà di letto/scrittura. La riabilitazione è quanto i genitori ci chiedono sulla base di una prescrizione autorevole. Dalle informazioni che riportano dal servizio ospedaliero e da quelle da noi raccolte nel primo colloquio con i genitori risulta che la madre ha molti timori per la salute del bambino: in particolare per possibili attacchi di asma e reazioni anafilattiche violente ad alcuni alimenti (uovo e graminacee). In realtà scopriamo che il bambino ha avuto nella sua vita un solo attacco di asma, durato qualche minuto, e che le allergie alimentari non sono mai state dimostrate, non essendo state fatte prove allergiche; questa paura della madre era scaturita quando il figlio era piccolo, in seguito ad un episodio in cui aveva manifestato reazioni cutanee dopo aver mangiato. M. non viene portato al parco e nelle poche volte che ci capita, la mamma porta sempre con sé il “Ventolin”; analogamente la signora passa ore a cucinare i cibi per il figlio allo scopo di eliminare le sostanze che secondo lei possono nuocergli. Dunque questo bambino viene vissuto nella mente della madre come fragile e malato. Nel descrivere il figlio, il papà ci riporta alcuni comportamenti che nella nostra mente fanno pensare ad un bambino con uno stile evitante: quando era più piccolo, mentre erano al supermercato, si è allontanato da lui e si è perso, fa tutto da solo, non chiede mai aiuto, vuole fare i compiti per conto suo e piange poco. Sospettando importanti difficoltà emozionali del bambino, già nella prima consultazione con i genitori anticipiamo che, oltre a ripetere le prove prestazionali, per meglio renderci conto del livello delle sue difficoltà, somministreremo anche qualche test proiettivo per valutare il suo mondo interiore. Quando incontriamo per la prima volta M. ci appare come un bambino ipercompetente, un piccolo adulto; mostra un sorriso stampato sulla bocca anche quando parla delle sue difficoltà: è come se non appartenessero a lui, elaborate razionalmente, ma senza investimento emozionale congruente. Inoltre, tende a dare all’altro un’immagine di sé efficiente, raccontando spesso episodi che sono inventati. Questo comportamento di M. va letto come un tentativo di manipolare i dati di realtà che appaiono insoddisfacenti: un alto ideale di sé, frutto probabilmente delle aspettative dei genitori, che per lui risulta irraggiungibile. Alla domanda “Come mai siamo qui e come vedi il tuo problema?” ci risponde facendo autodiagnosi: “Perché sono dislessico e ho dei problemi che gli altri non hanno; tipo sul leggere, faccio tanta fatica, anche i numeri non mi ricordo come si dicono e li salto; nello scrivere faccio un po’ di errori, salto le doppie”. Quando gli si chiede di leggere, il bambino risponde che non si sente forte e che ha paura di sbagliare. Cogliamo così l’occasione per spiegargli che abbiamo l’impressione che sia molto bloccato dalla paura, dalle sue insicurezze, e che per questo faremo qualche test dove lui potrà aiutarci a capire cosa gli passa dentro. La produzione dei test grafici è angosciante: nel disegno della sua famiglia riproduce una casa su tre piani dove lui e i suoi genitori stanno in solitudine, separati in piani diversi, con l’unica compagnia di macchine robotizzate. Al terzo piano sta il papà: una figurina stilizzata seduta al computer; al secondo sta la mamma, che non viene nemmeno disegnata ma immaginata dietro ad una cucina, nella stanza passeggia un robot gigante con le ruote al posto delle gambe; M. si disegna dentro ad una macchina robot, simile ad una gabbia che viene imbarcata dentro una navicella per un lungo viaggio. Nel resto della produzione grafica compaiono mostri, armi e personaggi magici; tutti i disegni sono in bianco e nero. L’operatore che ha somministrato le favole della Düss sintetizza con queste parole il risultato al test: “Solo, arrabbiato, paura del cambiamento, rifugio in un mondo fantastico, i genitori non sono sentiti come riferimento”. È ovvio che il materiale che emerge dovrà essere occasione per una riflessione insieme ai genitori nel tentativo di motivarli a dare delle spiegazioni a questi affetti così negativi.

In alcuni casi, quando i genitori si mostrano da subito interessati a riflettere sulle difficoltà emotive del proprio figlio, la valutazione del bambino si limita agli aspetti prestazionali. Il quadro del funzionamento emozionale, assieme a quello del suo sviluppo, ci viene descritto da loro; queste informazioni sono poi discusse con il figlio e confrontate con le sue percezioni; quando si raggiunge un riconoscimento di queste difficoltà, gli si offre di aiutarlo non solo sul piano scolastico, ma anche sul piano della sicurezza personale con l’aiuto dei suoi genitori.
Roberto (11,9 anni) arriva da noi inviato dalla neuropsichiatra di un servizio ospedaliero con diagnosi di deficit attentivo associato a disturbo specifico di apprendimento; la prescrizione del medico indica esclusivamente la necessità di una valutazione psicodiagnostica finalizzata ad approntare un progetto riabilitativo mirato al recupero delle difficoltà scolastiche. Quando chiediamo ai genitori di descriverci il figlio, emerge un quadro ansioso; R. manifesta forte agitazione e rifiuto quando si parla di scuola, non vuole dedicarsi ai compiti e ciò è motivo di conflitto con i genitori. Il ragazzo ha una percezione molto limitata delle sue difficoltà scolastiche. Risulta deficitario nei rapporti con i coetanei e sceglie solo compagni più piccoli di lui, con i quali può fare il capo; non sopporta la competizione e non regge in nessuno sport. Mostra poca autonomia nelle azioni di vita quotidiana rispetto alla sua età: al mattino, la mamma deve chiamarlo ripetutamente per farlo alzare dal letto in modo da non far tardi a scuola; nonostante questo ritarda e lei si trova costretta a vestirlo. Presenta un sonno molto agitato e una volta si è verificato un episodio di sonnambulismo. In occasione della prima partecipazione al campo-scuola è stato colto da attacchi di panico a causa della situazione nuova e della lontananza dalle figure di riferimento.
In questa situazione, il quadro emerso ci sembrava più che sufficiente per prescrivere di aiutare il ragazzo ad evolvere anche sul piano emozionale, oltre che su quello prestazionale. I genitori hanno aderito senza difficoltà alla nostra indicazione, accettando un percorso in cui riflettere su come mai il loro figlio presentava queste caratteristiche, che cosa poteva averle promosse e che cosa potevano fare per correggerle. Oltre a ciò viene suggerita una persona esterna alla famiglia per seguirlo nei compiti, disposta a rapportarsi con il nostro servizio. Non restava che coinvolgere Roberto su questo aspetto e proseguire.
SECONDA SEDUTA DI CONSULTAZIONE CON I GENITORI: STORIA FAMILIARE
E RELAZIONI TRIGENERAZIONALI
«Le domande di consultazione per un bambino richiedono infatti un periodo di preparazione attraverso colloqui preliminari in cui i genitori possano descrivere le proprie preoccupazioni per la crescita del figlio ed analizzare i propri dubbi sulle ipotesi circa l’origine del problema, esprimendo liberamente i loro conflitti, le loro ansie, le loro difficoltà ed esasperazioni, i loro tentativi falliti di porvi rimedio. Tutto ciò in assenza dei figli, esprimendo così il proprio ruolo genitoriale: proprio come caregiver essi chiedono consulenza, si fanno portatori di una domanda che deve essere accolta e sottolineata come legittima, ponendo le basi corrette per il futuro trattamento, che passerà necessariamente per un lavoro su di loro come persone, nonché sulla loro coniugalità e che quindi libererà la loro genitorialità dai vincoli che stimolano risposte disadattive nei loro figli.
Solo successivamente, al fine di verificare le ipotesi che si sono abbozzate, sarà utile convocare il bambino stesso con i suoi fratelli e/o sorelle» [5].
Il bambino non è un “pacco” che ci viene consegnato; prima bisogna formarsi una griglia di comprensione correlando il suo comportamento alla rete dei rapporti familiari; non siamo in grado di far ciò in prima istanza. Il bambino dipende totalmente dalla rete relazionale e quel bambino, che successivamente viene ad essere valutato, è la cristallizzazione del sistema di relazioni; pertanto, se non si è definita questa rete non si può leggere tale cristallizzazione. Quindi è necessario fare delle sedute con i genitori cercando di mettere in chiaro quello che c’è intorno a lui.
Nella seconda seduta di consultazione con i genitori, per prima cosa cerchiamo di ricostruire la storia familiare, mettendo a fuoco i processi (l’evoluzione della famiglia, i cambiamenti nel tempo) e individuando i nessi tra questa storia e le problematiche di sviluppo del bambino o l’insorgenza di sintomi.
Nel caso di Michele, l’analisi della storia familiare ci porta a comprendere che nei primi due anni di vita del bambino il papà fa un uso molto saltuario di stupefacenti ed è molto dedito al figlio, più della sua compagna che preferisce occuparsi della casa. Quando il bambino ha 2 anni, il papà ha una ricaduta massiccia nella tossicodipendenza, finché, un anno dopo, si ricovera in una comunità terapeutica da cui poi scappa. È un momento di gravissimo travaglio familiare. La madre del bambino decide di separarsi dovendo dar ragione alla propria madre e ammettendo che l’unione con un uomo del genere è stata un fallimento. In concomitanza di queste vicende, Michele inizia a balbettare e diventa molto provocatorio e arrabbiato verso sua madre: quando lei cerca di guidarlo, lui le dice “non me ne importa niente”; diventa molto testardo quando si mette in testa di fare una cosa e se la madre cerca di correggerlo entra in crisi; esibisce molti capricci.

La presa in carico di questo caso coincide con la segnalazione della situazione presso il Tribunale per i Minorenni per l’affido al Servizio Sociale. Perciò la componente sociale diventa il terzo polo su cui si articola la nostra presa in carico in alcune situazioni 
In altri casi non c’è un inizio, una datazione, tra le vicende familiari e l’insorgenza di un problema del figlio, ma una continuità.
Nel caso del bambino che abbiamo chiamato Marco le angosce della mamma per possibili malattie sono presenti fin dalla nascita del figlio. Queste angosce materne sono uno dei motivi di conflitto nella coppia genitoriale: secondo il padre l’ansia della moglie è scattata nel momento in cui è nato il bambino (“Lei è sempre in ansia e ha paura di tutto. Sono io in casa che tranquillizzo”). La signora ammette di essere molto ansiosa, di avere parecchie paure e si rende conto che il bambino le avverte, ma rimane rigidamente ancorata ai suoi rituali che proietta sul figlio. Le richieste del marito (portare il figlio al parco, fargli assaggiare l’uovo, ecc.) cadono nel vuoto. Il padre di M. critica la moglie, svalutandola, ma poi asseconda i suoi comportamenti patologici. Oltre a questo aspetto, la signora ha in mente un figlio idealizzato che riesca a realizzarsi nello studio, quello che lei non è riuscita a fare deludendo le aspettative della propria madre. Questo diventa chiaro con l’inizio della scuola elementare quando il bambino presenta le prime difficoltà nell’apprendimento della letto/scrittura e la madre lo forza a fare esercizi, ingaggiando una vera e propria battaglia con lui. Ovviamente, il bambino ha perfettamente compreso questo ideale della madre, come ci riporta la signora: “M. mi chiede sempre se ero brava, se conoscevo le tabelline, se sono soddisfatta di lui”. Nello stesso tempo sente questo ideale come non raggiungibile per lui “dice spesso che si sente diverso dagli altri, che si sente scemo!”.
Questo bisogno di realizzazione della signora attraverso il figlio diventa comprensibile quando lei ci racconta i rapporti con i suoi genitori: “Mia madre ci teneva tantissimo che io fossi brava a scuola. Ora darò la tesi di giurisprudenza (cosa che non riuscirà mai a fare) e le darò questa gioia! In casa ho sempre respirato un’aria intellettuale. Anche mio padre teneva tantissimo che io e mio fratello studiassimo. Mio fratello non si è laureato, però è entrato in politica. Solo io non mi sono realizzata. Avevo M. piccolo e con gli esami ero rimasta un po’ indietro. Ho recuperato, ma la tesi non l’ho più fatta. Mia madre vuole che mi laurei durante questa seconda gravidanza (la signora è incinta del secondo figlio) perché non ho problemi! Io alla sera non ci dormo per non essermi laureata e penso che sono proprio una ‘capra’!” La nonna, invece di essere presa dalla nascita di un nuovo nipote, pensa alla laurea della figlia!!!
Come si vede da quest’ultimo caso, lo scopo della seduta di consultazione è anche quello di costruire dei nessi tra le relazioni attuali con la storia che ogni genitore ha vissuto e vive con la propria famiglia di origine. A tal fine la teoria dell’attaccamento ci fornisce una base per ipotizzare cosa ogni genitore si porta dentro lo “zaino” della propria esperienza e come questo si trasmetta a livello intergenerazionale ricadendo sui figli [11]. Proponiamo ai lettori un’altra storia che ci sembra illuminante per esemplificare come una consultazione ben condotta possa fornirci informazioni per ipotizzare la connessione tra le aspettative che i genitori hanno verso la loro prole e la loro storia personale. Se lasciate agire in modo inconsapevole, queste spinte non controllate possono ricadere sui figli arrivando ad interferire pesantemente sul loro sviluppo e/o creando un falso sé [12].
Il bambino che chiameremo Giuseppe (9,1 anni) ci viene inviato dalla scuola che richiede l’insegnante di sostegno per difficoltà scolastiche generalizzate; vengono segnalate anche difficoltà relazionali ed emozionali: il bambino si isola rispetto ai coetanei e cerca la guida dell’adulto. La tendenza all’isolamento era già presente alla scuola materna. La valutazione funzionale conferma la presenza di severe difficoltà negli apprendimenti, associate ad un livello cognitivo nel medio inferiore della norma. Tuttavia, le informazioni raccolte dai genitori sulle difficoltà del bambino e sul suo sviluppo fanno emergere dati che stridono per la loro contraddittorietà: il papà descrive il figlio come un bambino molto intelligente, uno scacchista nato che è riuscito a battere anche l’istruttore, e questo è poco compatibile con un deficit cognitivo; piuttosto ci fa subito pensare ad un funzionamento prestazionale altalenante, interferito dalla componente emozionale. In direzione di questa ipotesi va il fatto, riportato sia dai genitori che dalle maestre, che il bambino ha forti difficoltà se lasciato solo, mentre riesce piuttosto bene se seguito individualmente. Le difficoltà sono nate alla scuola materna dove l’organizzazione grafica è comparsa in ritardo; alle elementari si sono manifestate le difficoltà nella scrittura, soprattutto per quanto riguarda il corsivo, e da qui in poi è stato un calvario. Anche adesso il disegno è deficitario, il bambino deve essere guidato passo passo nell’esecuzione perché non sa da dove iniziare; questi elementi possono far propendere per una diagnosi di disprassia, ma suggeriscono anche un deficit nell’organizzazione simbolica del pensiero (alla Wechsler Intelligence Scale for Children-Revised/WISC-R la ricostruzione delle figure risulta particolarmente deficitaria; il bambino dice di non riuscire a rappresentarsi nella mente le figure che deve costruire, asserisce di non riuscire ad immaginarsi com’è fatto un cavallo o un’automobile). L’insicurezza è visibile anche in altri settori: nel rapporto con gli altri il papà lo descrive come poco competitivo, un bambino che non sa difendersi; a pallavolo va molto volentieri e gioca anche bene, ma si rifiuta di fare le partite per timore di non riuscire; la paura di non riuscire sembra essere il punto centrale che interferisce pesantemente sui risultati che ottiene. L’indagine sulle famiglie d’origine evidenzia subito una peculiarità sul versante paterno. La madre di lui era una donna dominante e molto ambiziosa verso i risultati dei figli, suo padre era un uomo sottomesso. Sul versante materno di lui emerge una linearità femminile: la madre proviene da una famiglia dove le donne erano molto forti (le sorelle di lei erano ugualmente dominanti) ed ha sempre avuto una chiara predilezione verso la figlia femmina che è stata molto apprezzata; la sorella si è sempre mostrata molto competitiva verso il fratello e tra loro c’è sempre stata un’accesa rivalità; attualmente, la competizione prosegue vantando il grado di realizzazione dei loro figli: infatti, il cugino di G. è bravo in tutto e sua mamma, la zia del nostro piccolo utente, non perde occasione per metterlo in mostra e gloriarsi di lui. Nella famiglia della madre di G. troviamo una situazione invertita; l’elemento dominante era il padre della signora, ma non ci risulta un grande investimento sul grado di riuscita dei figli: infatti, la nonna materna riconosce e accetta le difficoltà del nipote, diversamente dalla nonna paterna che le nega e non comprende perché venga condotto al nostro Servizio. Da questi dati la mente clinica del terapeuta è stimolata ad ipotizzare che il papà di G. abbia rifiutato l’idea di avere un figlio deficitario e gli abbia “tolto la pelle” pur di renderlo competitivo nei confronti del figlio di sua sorella, creando un trauma. Comportamenti di questa natura da parte di un genitore non sono riconosciuti come maltrattamento, ma di fatto lo sono. Conferme parziali a questa ipotesi vengono dai comportamenti del bambino che già a 4 anni chiedeva al papà se si sentiva deluso da lui. Oltre a ciò G. dirà apertamente che non vuole fare i compiti con suo padre perché: “Papà ci va troppo in ansia e in apprensione e io ci sto male”. Un’ulteriore prova l’abbiamo il giorno della restituzione, quando il papà si presenta scuro in volto; ci riferisce di aver preso un giorno di ferie per assistere alla partita di basket del figlio organizzata dalla scuola; con espressione piena di delusione e di rabbia prosegue che G. si è rifiutato di entrare in campo e per questo lo ha rimproverato (il tono è gelido); a seguito di ciò il bambino si è diretto in macchina con la testa china, gli occhi bassi e non ha più parlato per tutto il viaggio di ritorno. Al Blacky Pictures, G. mostra un sentimento di rabbia verso entrambi i genitori (la parola rabbia è più volte ripetuta) e soprattutto alla prima tavola non fa nessun accenno all’allattamento, cosa che ci fa ipotizzare un attaccamento disfunzionale.

L’ipotesi descritta in questo caso da sola non fornisce certo una spiegazione esaustiva della complessa situazione del bambino: altri nessi saranno da esplorare successivamente. Tuttavia la sua insicurezza, la sua paura di sbagliare, il timore di affidarsi a suo papà nonostante lui urli meno della mamma sono elementi che ci permettono di proporre ai genitori un percorso di riflessione su questi aspetti, accanto alla richiesta dell’insegnante di sostegno a scuola e all’offerta di un percorso di riabilitazione per il bambino per le difficoltà di letto/scrittura.
La ricerca di informazioni sulle famiglie di origine ci consente di ipotizzare il tipo di attaccamento che i genitori hanno avuto e come questo possa trasferirsi sulle modalità di attaccamento con la propria creatura.
Nicholas, uno dei piccoli utenti prima citati, in uno dei magistrali disegni che l’intelligenza dotata gli consente, rappresenta se stesso nel corridoio mentre, attraverso una porta, guarda con un senso di solitudine infinito la mamma in cucina che porta nel pancione il suo fratellino. Cosa può essere accaduto a questa giovane donna che stimiamo per la sua intelligenza e resilienza per rendere questo figlio un lottatore così arrabbiato verso di lei?! Un figlio così terribile nelle sue provocazioni?! Una madre che adesso ci appare sollecita e giustamente preoccupata per lui! Questa giovane donna è figlia unica di una madre bambina, paziente psichiatrica conclamata, alla quale non si è mai potuta appoggiare, e di un padre, paziente psichiatrico non riconosciuto, che l’ha sempre lasciata sola ad affrontare le crisi psicotiche della moglie: ricorda che quando aveva 8 anni chiamava l’autoambulanza per soccorrere sua madre in preda ai deliri, mentre suo padre era in viaggio a Lecce. Ci colpisce constatare che il padre del bambino non riconosce i problemi del figlio e che il suo attuale compagno considera N. un bimbo maleducato. Dunque N. non ha un padre e lei si trova sola ad affrontare i problemi, per di più è oggetto di critiche dall’attuale compagno che la considera incapace di educarlo. Questa mamma alterna momenti in cui è preda dei suoi pensieri a momenti in cui è estremamente reattiva verso le provocazioni del bimbo.

L’analisi delle relazioni trigenerazionali fornisce altri motivi d’interesse. I nonni possono costituire un’interferenza che deve essere risolta, ma, in molti casi, sono una risorsa importante per l’evoluzione della situazione. Sempre più spesso procediamo coinvolgendoli nel percorso terapeutico familiare con sedute che li vedono convocati in alcuni casi come testimoni autorevoli e di sostegno alla famiglia nucleare, in altri direttamente coinvolti in un’articolazione del formato terapeutico che prevede la diade nonno/genitore del bambino per un’evoluzione migliorativa dei loro rapporti. Dunque la valutazione delle risorse presenti intorno alla famiglia nucleare è un tema che consideriamo fondamentale per procedere successivamente nel nostro lavoro e decidere quale formato proporre ai genitori.
Nel caso di Michele decidiamo di tenerci stretta la diade nonna materna/madre del bambino. Promuovere nella nonna una riflessione sul perché ha sempre avuto un’immagine così negativa della figlia sta producendo grandi risultati. Riconoscere che questa ragazza, a fronte delle scelte provocatorie (come quella di un compagno che si sapeva problematico), motivate più dal desiderio di una nuova affiliazione che da un interesse per il proprio uomo, si è dimostrata una madre responsabile e una donna lavoratrice ha prodotto miglioramenti.
 
Le difficoltà nella coppia sono un altro aspetto da far emergere; ricadono sui figli e possono costituire un motivo di ingaggio terapeutico. Quando parliamo di problemi nella coppia, ci riferiamo nella maggior parte dei casi a profonde insoddisfazioni nei bisogni reciproci che nella nostra casistica difficilmente sfociano in una conflittualità aperta ed esasperata. Nei bambini che si situano in uno spettro di disturbo generalizzato dello sviluppo ci capita molto spesso di rilevare che la madre ha un collasso depressivo nella fase neonatale del figlio o nel primo anno di vita. Questo avviene, frequentemente, per le richieste del marito che ha bisogni filiali nei confronti della moglie/madre e una rabbia furiosa per le attenzioni che la sua donna gli sottrae dovendo pensare al piccolo; a ciò si associano quasi sempre problematiche irrisolte con la propria famiglia di origine che possono essere più o meno attive e, quindi, interferenti nel momento della presa in carico. Si tratta di fragili madri che hanno il compito di accudire un figlio nato da poco, con un marito che, nei suoi bisogni regressivi, fa richieste impossibili o si sottrae ai suoi compiti di genitore; non hanno aiuti dalle famiglie di origine e se ne hanno sono significativamente frustranti. Nella nostra esperienza clinica queste madri si distinguono da quelle irrisolte per effetto di un trauma subito in passato o che presentano un di­sturbo psichiatrico riconosciuto. Questa tipologia di mamme dà al figlio risposte angosciate, incongruenti, non sincronizzate [13]; frequentemente guarderà «il proprio figlio con un’espressione rigida, o assente e spaventata; e lo spavento della madre che emerge dalla fissità dei suoi occhi spaventa il figlio» [14, p. 75]. Dunque l’effetto di questo trauma produce una grave angoscia nel bambino con conseguente disorganizzazione, agitazione o congelamento che può evolvere «in pattern coercitivi e controllanti intorno ai 2 anni» [14, p. 82]. Tuttavia questi bambini, sul piano dello sviluppo, per quanto grave possa essere la loro situazione patologica, non arrivano a quei livelli di chiusura relazionale, comunicazionale e di deficit intellettivo che raggiungono invece i figli di madri collassate. Possiamo provare ad ipotizzare che le madri irrisolte o psichiatriche presentino al bambino un quadro più chiaro in quanto la loro condizione patologica è spesso conclamata e riconosciuta. Inoltre, queste donne sono solitamente supportate dai parenti, che si prendono carico del bambino vicariando il genitore malato; questi bimbi, una volta contenuti, in un rapporto individuale con l’operatore, in sede di valutazione mostrano delle interazioni almeno sufficienti. I bambini delle madri collassate finiscono per caratterizzarsi con disturbi generalizzati dello sviluppo, che hanno il loro limite più grande proprio sul piano della relazione e della comunicazione. Queste madri che non hanno un disturbo riconosciuto e sono spesso sole ad affrontare il compito della crescita del proprio figlio che rimane totalmente in carico a loro in un’età in cui il neonato non può comprendere che sua madre è depressa.
Quando giunge da noi Lina ha 2,10 anni. La bambina presenta un blocco relazionale molto grave, sfugge al contatto oculare, non comunica né verbalmente né con i gesti e tende a rifiutare la guida fisica dell’operatore anche se in maniera non così imponente come in un autismo vero e proprio; il gioco simbolico è assente, ma dopo vari tentativi si riesce a catturare la bambina con qualche gioco che richiede una condivisione (bolle di sapone, palloncino, ecc.).
Durante la consultazione, la mamma ci fa subito presenti le difficoltà di convivenza con il marito, che nei brevi momenti in cui è presente in famiglia è stanco e non sopporta richieste di collaborazione; preferisce riposarsi davanti alla tv o parlare dei suoi problemi sul lavoro. Lina ha un fratello di 4 anni. Nella stessa seduta, la signora ci dà un quadro della propria madre molto deficitario; è una donna che da sempre ha chiesto e tuttora chiede alla figlia un’inversione di ruoli: si appoggia a lei per qualsiasi cosa, si lamenta per le sue malattie e oltre tutto non fornisce nessun tipo di aiuto nel seguire i nipoti. Lina non è stata una figlia desiderata perché la signora non si sentiva pronta per un secondo figlio e nel raccontarlo si lascia sfuggire una frase che l’operatore raccoglie con un senso di stupore: “Mio marito mi ha messo incinta”. Questo dà il senso di come una donna può subordinare la propria volontà ai desideri del partner, accettando di avere rapporti senza prendere precauzioni. Subordinando i propri bisogni alle richieste di suo marito, ai lamenti della propria madre, che nel periodo della nascita di Lina era venuta a stare in casa con loro perché non stava bene, ai bisogni del primogenito che all’epoca aveva due anni, la signora non trova le forze per dedicarsi alla bambina che diventa molto agitata e dorme pochissimo. La mamma ci racconta che non riusciva più ad uscire, cercava solo di stare a letto, faceva fatica a camminare, a fare le cose e di notte, quando la bambina si svegliava, per rabbia la prendeva a morsi. Riportiamo le parole con cui ci racconta il periodo della nascita di Lina perché sono toccanti: “Che periodo devono aver vissuto i miei figli! Io non riuscivo a dar niente a loro, perché non ne avevo a sufficienza neanche per me. Solo adesso mi rendo conto che ho sempre dato a tutti, arrivando da tutte le parti senza chiedere niente; solo adesso mi rendo conto di quanto sono stata male e dei motivi che mi ci hanno portato, in quel periodo ero in confusione e basta. Mia madre e mia suocera non se ne sono accorte perché io maschero molto o forse perché faceva comodo non vedere. Mio marito se ne è accorto alla fine, quando ha avuto paura di perdersi la moglie”.

La storia della famiglia nucleare e l’analisi delle relazioni con le rispettive famiglie di origine dei genitori del bambino costituiscono uno studio diacronico (ci si sposta avanti e indietro lungo una dimensione temporale) per rendere evidenti i processi; ciò significa comprendere come erano le relazioni in passato e come si sono evolute nel tempo, interagendo con eventi significativi che sono capitati nella vita di queste famiglie.
Vi è poi da parlare dei fratelli. I genitori porgono una domanda per i problemi di un figlio, ma sta a noi valutare come stanno gli altri figli, se ve ne sono. Nel caso sopra esposto di Lina, il fratello, di poco più grande, mostrava un forte atteggiamento evitante: era molto preoccupato per le condizioni di ritardo di questa sorellina, ma rimaneva appartato e cercava di non far sentire il peso delle sue giuste richieste di bimbo. Questa difficoltà del bambino è stata subito fatta presente ai genitori in fase di consultazione e, nel corso della terapia, non appena la sorella è migliorata e sua madre è diventata più forte, ha presentato un conto che suonava come un risarcimento danni, esibendo difficili comportamenti oppositivo-provocatori. In molti casi riscontriamo che i fratelli dei nostri piccoli utenti non sono esenti da problemi e lo indichiamo ai genitori avvertendoli che l’attenzione dovrà essere, a tempo debito, indirizzata anche su di loro. Ad esempio, possiamo riscontrare che i genitori hanno percezioni rigide dei figli dipingendoli come “il bravo/il cattivo”, “il lupo/l’agnellino”, oppure possiamo evidenziare dinamiche relazionali di stallo come “il maschio” della mamma e “la femmina” del papà che nascondono una sofferenza diversamente palesata o inespressa nei fratelli non sintomatici. 
LA DIAGNOSI DELLE RELAZIONI FAMILIARI
Dobbiamo confessare che pressati dalla necessità di procedere con rapidità non sempre mettiamo in programma la seduta familiare per la valutazione delle relazioni in fase di consultazione, quando queste ci appaiono già abbastanza chiare. Infatti, abbiamo dati che ci provengono dalle sedute individuali con il bambino che ci permettono di osservare come i genitori presenti interagiscono con lui o come sono in grado di partecipare ai giochi simbolici che mette in atto. Tuttavia decidiamo di procedere con questa seduta di valutazione quando abbiamo bisogno di:
• approfondire la relazione del figlio con ciascun genitore e con i fratelli;
• valutare come si sente il bambino all’interno di queste relazioni, come le percepisce;
• avere un quadro più chiaro della condizione in cui versano i suoi fratelli.
Procediamo in questo modo nella convinzione che i bambini possano offrire importanti informazioni che gli adulti hanno tralasciato, diventando i nostri coterapeuti.
A differenza della precedente seduta di consultazione con i genitori, questo incontro si caratterizza per uno studio sincronico: come elencato nei punti sopra esposti si tratta di uno spaccato della situazione, “qui ed ora”.
In queste sedute, nel caso di bambini piccoli, utilizziamo lo Sceno-test come strumento per osservare in diretta l’interazione genitori-bambini e chiediamo sia al papà che alla mamma di aiutare i figli a costruire. La produzione simbolica che ne emerge, come abbiamo già detto, è informativa del loro mondo interno e dei loro conflitti. Con i bambini più grandi utilizziamo molto anche il piano conversazionale e cerchiamo di appurare che grado di sostegno avvertono dai loro genitori e come li percepiscono: “Quanto sono bravi papà o mamma nel consolarti/tranquillizzarti?”, “Chi di loro due riesce di più a incoraggiarti quando non riesci a fare le cose?”, “Secondo te quante paure hanno i tuoi genitori per se stessi?”, ecc.
Altre due tecniche molto efficaci per mettere a fuoco le relazioni familiari sono il Disegno Congiunto e il Lausanne Trilogue Play Clinico.
Nel Disegno Congiunto, ai genitori ed ai figli viene chiesto di fare insieme un disegno che li rappresenti nei loro ruoli come sono ora, mentre stanno facendo qualcosa; ognuno di loro può rappresentare se stesso o gli altri come preferisce, le persone possono essere disegnate in qualsiasi parte del foglio. Con questa tecnica si può osservare come la coppia genitoriale affronta il compito e come esercita la funzione di guida nei confronti dei figli e come si vengono a creare delle alleanze o coalizioni; poi si osserva il disegno analizzandolo e cogliendo il livello simbolico. Alla fine del disegno si dedica del tempo a commentare con tutta la famiglia quanto è avvenuto, raccogliendo informazioni sul modo di funzionare degli individui in presenza degli altri familiari.
Il Lausanne Trilogue Play Clinico è un metodo di osservazione e valutazione diretta della cooperazione nella triade genitori-figli, centrata su un compito strutturato, usato con figli da 2 a 17 anni. Alla famiglia viene proposto un gioco strutturato con le costruzioni composto di quattro parti seguendo due diverse consegne. L’obiettivo è quello di giocare tutti insieme come una squadra, condividendo il piacere ed il divertimento; ai genitori (sub-unità strutturante) si chiede di cooperare e coordinarsi per aiutare il bambino nel portare avanti il compito condiviso; al bambino (sub-unità evolutiva) si chiede di giocare lasciandosi guidare dai genitori.
Il gioco è articolato nei seguenti momenti:
1) due + uno: uno dei due genitori inizia a giocare con il bambino mentre l’altro genitore riveste il ruolo di osservatore partecipante, senza interferire con l’attività della diade in azione. È importante osservare come il genitore attivo gestisce il proprio ruolo di guida e di facilitazione stimolando ed aiutando il bambino. È anche di grande interesse vedere come il bambino gestisce lo scambio interattivo con il genitore attivo e se accetta la posizione più periferica dell’altro genitore. Inoltre, si annota come si comporta il genitore nel ruolo di terzo, se rispetta il gioco degli altri o se interrompe (un’intromissione del genitore osservatore partecipante può essere molto informativa del grado di rispetto tra partner e della coordinazione della cogenitorialità in presenza del figlio);
2) due + uno: i genitori si danno il cambio, quindi il genitore attivo diventa osservatore partecipante;
3) tre insieme: tutti giocano insieme, questo momento ci dice molto del grado di coordinazione tra i partecipanti al gioco che devono coregolare i propri interventi con quelli degli altri;
4) due + uno: si chiede ai genitori di parlare tra loro dell’attività svolta, mentre il bambino ricopre il ruolo di osservatore partecipante; questa configurazione dà molte informazioni sulla capacità del bambino, nel ruolo di terzo, di accettare l’esclusione dall’interazione e sulla capacità dei genitori di consentire questa esclusione stabilendo un’interazione diretta tra di loro.
Tutto il gioco ha una durata di 20 minuti e liberamente il genitore sceglie quando iniziare.
Infine nel caso di genitori separati preferiamo utilizzare il Test La Doppia Luna per la cui illustrazione rimandiamo alla pubblicazione dell’autrice [15].
Come si intuisce, in questa seduta è presente anche il momento dell’interpretazione e questo è già un atto terapeutico in quanto aumenta la comprensione del bambino e dei suoi genitori, porta chiarezza e riorganizza la mente dando senso alle cose.
La seduta di valutazione familiare non viene mai fatta quando il suo livello funzionale è molto compromesso e vi è assenza di gioco simbolico e di linguaggio. Al contrario la facciamo sempre nei casi in cui non vi è un deficit prestazionale e, quindi, il bambino non è stato visto nelle sedute di valutazione individuale.
Portiamo alcuni esempi di questo livello di valutazione.

La mamma di Maria (9,8 anni) ci chiede un consultazione perché la figlia ha problemi di sonno. M. non presenta deficit prestazionali, anzi è molto brava a scuola, ma vuol essere seguita in ogni passo e poi non accetta consigli. Il problema del sonno compare da sempre e ultimamente si è notevolmente accentuato. Colpiscono le informazioni che i genitori ci portano nel descriverla; il papà la vede come una bambina fragile che non accetta di essere criticata: “Se non primeggia e non fa la leader non sta bene, poi però è triste e si mette in disparte”; la mamma aggiunge alcune note che illuminano: “Con me non è mai la Maria vera. Fa una parte che deve piacere a me. Non vedo una cosa che le piace davvero, chiede sempre a me. Mi telefona di continuo mentre sono al lavoro per sapere se va bene quello che ha fatto. Mi vede come una figura irraggiungibile, più brava di lei”. Da subito scatta nella mente dell’operatore l’ipotesi di una bambina che vuole compiacere sua madre con la conseguente nefasta costruzione di un falso sé. Inoltre, emerge che la mamma ha nella sua mente una bambina da sempre problematica e questo non le permette un accesso alla sofferenza della sua creatura: “Lei è stata da sempre una bambina arrabbiata. Non dormiva mai, aspettavamo che si spegnesse. Penso che è stata sempre così per carattere. Non mi ricordo una volta che la portavo in passeggino e non piangeva. Con questa figlia non la imbroccavi mai”. Una figlia che nella mente della sua mamma è nata sbagliata è gravemente a rischio!!! Dai suoi racconti veniamo a sapere che la signora è stata una figlia discriminata; suo fratello è stato da sempre messo su un piedistallo da sua madre, nonostante lei sia sempre stata una figlia modello: brava a scuola e a casa. Inoltre, è lei ad occuparsi della vecchiaia dei genitori, a differenza di suo fratello. Storia personale che le causa una grande sofferenza. Il figlio minore, Matteo, viene descritto come un bambino tranquillo senza problemi. Nella seduta di valutazione familiare ci appare quanto segue: i bambini costruiscono allo Sceno-Test storie separate, entrambe molto belle e articolate. Maria mette in scena una colazione sul prato dove ci sono le nonne, i nonni sono distanti, mancano i genitori. Con fatica si riuscirà a farle mettere la madre: “Non ci sono più sedie” dirà per giustificarsi. Il fratello, invece, costruisce uno zoo con tanti animali, molti domestici, alcuni aggressivi come il coccodrillo. I genitori mostrano differenze nella capacità di collaborare alla costruzione: entrambi non sono intrusivi, ma il papà è molto più collaborativo. Quello che colpisce è che si sono divisi i figli: il papà si dedica al maschietto, la femmina è di competenza della mamma, la quale peraltro collabora a fatica. In un solo momento Matteo chiede alla madre “ti piace” e lei lo guarda sorridendo, ma non risponde. Anche Maria, per quanto si rivolga esclusivamente alla madre, in realtà non chiede molta collaborazione.
Come si vede, la presenza dei bambini in seduta consente di raccogliere importanti informazioni: una divisione netta nella gestione dei figli, una madre in difficoltà nel partecipare ai giochi di entrambi, nel sostenerli, un fratello minore che non trova spazio nella mente della madre e che viene visto semplicemente come non richiedente; il papà ci appare affettuoso e bravo nei comportamenti di cura e di guida del maschietto (si alza per pulire il naso al piccolo, gioca molto con lui), ma si astiene dal partecipare al gioco che la figlia sta costruendo, lasciando la competenza a sua moglie. È come se la seduta fosse una lente di ingrandimento che ci consente di mettere a fuoco cose che avevamo intravisto in modo superficiale. Oltre a ciò attiva riflessioni: l’operatore in seduta commenta che Matteo non mette in scena personaggi umani, non dà problemi, ma fatica ad affidarsi agli adulti. Nella seduta successiva sarà la prima cosa che la mamma ci porta. Dal canto suo Maria riesce a dirci, non senza fatica, che lei si alza al mattino presto per fare i compiti, non per finire prima possibile come dice sua mamma, ma perché teme che lei non sia soddisfatta, che possa pensare che non faccia bene le cose.
Nel caso del bimbo che abbiamo chiamato Michele si è deciso di fare una seduta di valutazione padre/figlio (i genitori sono separati) con la finalità dichiarata di mettere a fuoco la relazione con il genitore. La seduta fornisce l’occasione al papà per spiegare al figlio come mai recentemente è stato per un lungo periodo senza farsi vedere, mentre ora ha ripreso i contatti con lui, venendolo a trovare solo sporadicamente. Al bambino non è stato detto nulla della tossicodipendenza del padre, gli è stato solo raccontato che il papà è fuori per lavoro. Sottolineiamo nuovamente che la seduta di valutazione familiare può da subito contenere elementi terapeutici. In questo caso c’è da ristabilire una verità al bambino e rimediare ad una menzogna che gli è stata introdotta dai nonni paterni nella vana speranza di presentargli una figura paterna che non corrisponde alla realtà. Il padre del bimbo ha concordato con l’intento di mettere il bambino al corrente di che cosa è accaduto e, sotto la guida del terapeuta, ha utilizzato l’incontro per spiegare al figlio che lui ha lasciato la mamma non perché litigavano, ma perché è stato male: prendeva delle medicine cattive che lo facevano star male, ma non riusciva a farne a meno. Allora è andato in un ospedale dove aiutano le persone a non prendere più medicine che fanno star male. Come si vede, si può spiegare benissimo ad un bambino di soli 3 anni cosa è accaduto ai suoi genitori, utilizzando parole molto semplici.
In seduta, oltre allo Sceno-Test sono state utilizzate due case delle bambole: la prima, più piccola, rappresentava la casa di Michele, la seconda, molto più grande, l’ospedale dove andava a curarsi il padre quando era lontano da lui.

A differenza della seduta con la mamma, Michele non mette in scena solo mostri orrendi che si azzannano in una lotta mortale; prende subito il pupazzo di un giovane uomo e lo mette nella casa dove vive lui, poi sceglie un neonato e dice che è lui quando era piccolo. Mette il bimbo sulle gambe del papà, mentre la mamma è di sopra in camera che dorme; questa scena permette al papà di spiegare al figlio che questo succedeva quando lui era piccolo, quando il papà abitava con loro, ma poi è dovuto andare in un ospedale per curarsi dalle medicine che prendeva; quindi invita il figlio a modificare la scena portando il pupazzo del padre all’interno della casa-ospedale e proponendogli di rappresentare se stesso con un pupazzo diverso da quello di un neonato. A questo punto Michele prende il pupazzo di un uomo adulto, vestito da medico, e dice: “Sono io”; poi si reca a trovare suo padre nella casa dove si sta curando, dimostrando di aver ben capito ciò che il genitore gli ha spiegato. Quindi prende i nonni paterni mettendoli in una casa vicina all’ospedale, mentre posiziona la nonna materna in una casa vicina a quella dove abita lui. Proseguendo nella storia trasforma la mamma in una bambina. Mentre suo padre sottolinea divertito la scena, il terapeuta chiede a Michele se intende far crescere sua mamma. Sollecitato prende il pupazzo di una ragazzina e commenta: “È ancora piccoletta perché è nata dopo di io” (lui continuerà a rappresentarsi per tutta la storia come un adulto vestito da medico). Finalmente decide di prendere una giovane donna a rappresentare sua madre e sottolinea il cambiamento dicendo: “Adesso sono tutti grandi”; quindi la manda presso la casa che rappresenta l’ospedale dicendo: “È andata a curarsi”. Lasciata in ospedale sua madre, si mette nella casetta della nonna materna, dormendo insieme a lei. Nella stessa seduta il bambino avrà modo di esternare la preoccupazione per suo padre, fornendo al terapeuta la possibilità di contenere la sua ansia: “Tuo padre è un grande lottatore che combatte con la sua malattia e chi lotta ce la può fare”; lo rassicura poiché d’ora in poi lui sarà sempre informato di come sta suo papà.

I significati simbolici che il bambino di questa storia manda in scena sono numerosi. Sorprendentemente, suo padre, nella condizione di compenso, è un genitore che non lo agita, con cui mostra un buon attaccamento affettivo; la mamma viene percepita come una bambina che non riesce a divenire adulta. Nel complesso gli adulti che lo circondano non riescono a garantirgli una dimensione da bambino: all’età di 4 anni deve sopportare l’immenso sforzo di essere già uomo e prendersi cura dei suoi genitori. All’interno dell’ entourage dei parenti, solo la nonna materna sembra costituire una possibile risorsa. Dunque, i molti motivi emersi, oltre ad attivare riflessioni nei genitori, ci hanno permesso di offrire al papà degli incontri mensili centrati sul rapporto con il figlio e su come seguirlo. Ovviamente, per il suo problema di tossicodipendenza continuerà ad essere preso in carico dal SERT. La seduta videoregistrata è stata poi vista con la mamma del bambino per poterla commentare insieme e sottolinearne i significati emersi; ciò ha fornito al terapeuta l’occasione per suggerire importanti riflessioni a questa giovane donna: quali comportamenti di lei evocano nel figlio l’immagine di una madre bambina, bisognosa di cure?
LA SEDUTA DI RESTITUZIONE E LA STIPULA DEL CONTRATTO
Alla seduta di restituzione, oltre al papà e alla mamma, sarà presente anche il bambino perché riteniamo indispensabile che anche lui sia messo al corrente dell’esito della valutazione e conosca il progetto che viene offerto ai genitori per il suo problema e quale decisione prenderanno i suoi genitori. Come abbiamo detto, tale progetto potrà articolarsi su più dimensioni: lavoro familiare, il cui formato iniziale sarà deciso sulla base dei dati emersi dalla valutazione, e percorso riabilitativo per il piccolo per promuovere o consolidare le abilità deficitarie. Dunque sostanzialmente in questa seduta facciamo una sintesi di quanto è emerso nei precedenti incontri. Quello che ci preme sottolineare è che l’aggancio terapeutico con la coppia genitoriale è già stato costruito in precedenza; la possibilità che condividano il percorso che gli offriamo a nostro giudizio dipende da quanto siamo riusciti a comprendere il loro “film” proiettandolo in modo esplicito; se siamo riusciti a mettere in luce i vari aspetti di sofferenza del bambino, le difficoltà che i genitori attraversano con i figli, ma anche tra loro e con le famiglie di origine, se siamo riusciti a focalizzare i nessi, condividendoli con loro, che possono fornire una spiegazione convincente sul perché il bambino adesso è così in difficoltà, è molto probabile che accetteranno il progetto che viene loro offerto.
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