Dettagli Gennaio-Giugno 2010, Vol. 33, N. 1 doi 10.1712/514.6137 Scarica il PDF(106,0 kb) Citazione Canevaro A. I cormorani secondo Canevaro. . doi 10.1712/514.6137 Scarica la citazione: BibTex EndNote Ris Altro dagli autori Articoli di Alfredo Canevaro I cormorani secondo Canevaro titolo - split_articolo,controlla_titolo - art_titolo I cormorani secondo Canevaro autori - vau_aut_id Alfredo Canevaro riassunto - art_riassunto Riassunto. I cormorani sono uccelli marini che prima di abbandonare il nido regrediscono a comportamenti appresi nelle prime ore di vita: dondolano, pigolano, per poi spiccare il volo. Fanno un passo indietro per farne due in avanti, in una sorta di “reprogressione”» biologica. Quest’immagine, che vede una regressione finalizzata al progresso, viene ripresa dall’autore al fine di illustrare la propria filosofia terapeutica nel trattamento individuale dei pazienti con il coinvolgimento dei partner e dei familiari significativi. Dopo un breve periodo dedicato a stabilire una relazione di fiducia nel terapeuta e dopo aver individuato i nodi irrisolti nel seno della famiglia di origine, «ritornare per rifare le valigie e ripartire di nuovo» significa approfittare di un incontro emozionale che permetta il nutrimento affettivo e la conferma del Sé dei pazienti per poi spontaneamente ripartire, più forti, nella prosecuzione della psicoterapia e della ricerca di un progetto esistenziale autonomo. In tal modo, il paziente è aiutato a riconoscere la funzione fondamentale della famiglia e a trovare una propria collocazione nella società come protagonista attivo. Il raggiungimento di questo compito evolutivo è infatti spesso impedito dalla mancanza dell’incontro affettivo necessario, e soprattutto dalla sua infruttuosa ricerca. parolechiave - lingua - vke_key_id Parole chiave. Terapia individuale sistemica, coinvolgimento dei familiari significativi in seduta, nutrimento. abstract - art_abstract Summary. When the cormorants fly. Cormorants are seabirds that before leaving the nest they regress to behaviors they learned in early life: first they swing, they cheep, and then fly. They make one step back to make two forward, in a sort of biological “backwards progression”. This image, which sees a regression designed for progression, is taken by the author to illustrate his therapeutic philosophy on the individual treatment of patients with the involvement of their partners and significant others. After a short period involved in establishing a relationship of trust with the therapist and after having identified the unresolved problems deep in the family of origin, “to come back to remake your baggage and leave again” means that it takes advantage of an emotional encounter that allows the emotional nourishment and the confirmation of the self of the patients for then spontaneously restart, stronger, the psychotherapy and the search for an autonomous life project. In this way the patient is helped to recognize the essential role of the family and to find their place in society as an active member. Reaching this evolutive task is often obstructed by the lack of the necessary emotional encounter and most of all by its fruitless searching. keyword - lingua - vke_key_id Key words. Individual systemic therapy, involvement of significant others in psychotherapy, emotional encounter and Self’s confirmation. resumen - ignora Resumen. Los cormoranes son pájaros marinos que antes de abandonar el nido, hacen una regresión a comportamientos habidos en sus primeros tiempos de vida: pían, se balancean antes de levantar el vuelo. Dan así un paso atrás para dar dos adelante en una suerte de “reprogresión biológica”. Esta imagen, que ve una regresión orientada a una sucesiva progresión, viene retomada por el autor al fin de ilustrar su propia filosofía terapéutica en el tratamiento individual de los pacientes con la inclusión en sesión de sus familiares significativos y de su partner. Luego de algunas sesiones dedicadas al establecimiento de una relación de confianza en el terapeuta y luego de haber individualizado los nudos no resueltos en el seno de la familia de origen.”retornar para rehacer las valijas y volver a partir” significa aprovechar de un encuentro emocional que permita la nutrición afectiva y la confirmación del Self de los pacientes para luego volver a partir, espontáneamente en la prosecución de la psicoterapía y de la búsqueda de un proyecto existencial propio. De ese modo, el paciente es ayudado a reconocer la función fundamental de la familia y a encontrar su propia colocación en la sociedad como protagonista activo. Conseguir este objetivo evolutivo es a veces impedido por la falta del encuentro afectivo necesario y sobre todo por su búsqueda infructuosa. testo - art_testo FILOSOFIA TERAPEUTICA Un modello, per essere efficace, deve rendere conto di determinate condizioni: a) deve esporre una teoria comprensibile del disagio individuale e delle strade percorribili per un suo superamento; b) deve applicare un metodo d’intervento che sia allo stesso tempo diagnostico e terapeutico; c) deve applicare un insieme di tecniche terapeutiche; d) deve possedere una filosofia terapeutica, ossia esplicitare una teoria del cambiamento applicata a obiettivi terapeutici, etici e possibili. Studiando i processi terapeutici di soggetti giovani adulti (e anche meno giovani) si potrebbe dire che il 70-80% dei contenuti delle sedute individuali gira intorno a problemi riguardanti la difficile differenziazione dalla famiglia di origine e il conseguente difficile inserimento nella società in un progetto esistenziale soddisfacente. Seguendo la linea di autori come Bowen [1] che per primo insistette sull’importanza della differenziazione dell’individuo dalla sua famiglia di origine, facendo ritornare i suoi pazienti a casa dei parenti per parlare loro da una “ I position”, per cercare di detriangolarsi emotivamente da loro, rimanendo però nel campo psicologico della stessa famiglia. E anche quella di Boszormenyi-Nagy [2] che insisteva sui meriti e demeriti accumulati nella storia multigenerazionale degli individui e delle loro “lealtà familiari”; e anche quella di Framo [3], che invitava i membri delle famiglie di origine ad assistere a sedute che facilitavano il processo terapeutico: “D’altra parte, sono convinto che un’unica seduta fatta con un adulto e i suoi genitori, fratelli e sorelle, possa a volte avere effetti più vantaggiosi di quanti si osservano dopo un ciclo completo di psicoterapia”. L’essere umano adulto si dibatte permanentemente in un asse che oscilla tra due grandi bisogni: il bisogno di appartenenza a un sistema familiare che ci ha dato la vita e il nome e con cui abbiamo accumulato migliaia e migliaia d’interazioni, e il bisogno di differenziazione, spinta spontanea che ci porta a esplorare il mondo e disegnare un progetto esistenziale autonomo per inserirci creativamente nella cultura circostante e, eventualmente, riciclarci con la nostra discendenza in un meccanismo transgenerazionale di sopravvivenza dei valori positivi ereditati. In questo asse più o meno tormentato, più o meno facilitato dalle famiglie di origine e dalla società in cui viviamo, si inscrivono le disfunzionalità più frequenti che portano un cliente in terapia. È per agevolare questo processo di differenziazione che da anni convoco sistematicamente i familiari significativi in seduta, chiedendo il loro contributo e cercando di metterli a favore di un processo terapeutico, non contro. Ribadiamo che uno dei miti più pervasivi della psicoterapia è quello di pensare che un soggetto anagraficamente adulto debba destreggiarsi in quel difficile periodo senza ricorrere all’aiuto della famiglia di origine, soprattutto se non è un soggetto psicotico, con una chiara dipendenza emozionale e fattiva dai suoi familiari. Questo pregiudizio è una delle cause di parecchie impasse terapeutiche e drop-out, mettendosi il terapeuta, consapevolmente o inconsapevolmente, in un “braccio di ferro” micidiale con le famiglie di origine, con conseguente perdita di tempo, energia e – soprattutto – con l’impoverimento qualitativo di una psicoterapia. Convocare le famiglie di origine, chiedere il loro contributo, chiarire i malintesi e, quando possibile, favorire un incontro emozionale intenso che aiuti la differenziazione, può essere il modo più veloce per aiutare un individuo a disegnare un progetto esistenziale percorribile per l’inserimento creativo nella società e non contro una famiglia, vissuta come ostile e poco collaborativa. I pregiudizi dei terapeuti nascono, secondo me, da un’inadeguata comprensione delle dinamiche familiari che formano parte della vita relazionale di un individuo, ed anche dalle difficoltà non risolte con le proprie famiglie dei terapeuti. I terapeuti che ascoltano i lamenti dei loro pazienti senza prendere in considerazione la loro ambivalenza sono come coloro (amici o parenti) che ascoltano i membri di una coppia separatamente, senza vederli in interazione. Tutti alla fine diranno: se il tuo partner è così inaffidabile e disattento, che ti maltratta e non ti vuole bene, sepàrati, sarà la cosa migliore per te! Vedendoli in interazione capiranno che la relazione è quella che conta, circolarmente, nella spiegazione delle loro sofferenze (e piaceri) e che mai una lettura individuale potrà spiegare la complessità del loro legame. Quanti terapeuti sentono che hanno dato il loro sangue per alcuni pazienti, che dopo una vita di lamenti e discorsi intorno alla malvagità o follia dei loro parenti significativi, per un evento fortuito che modifica la loro interazione familiare (una malattia improvvisa o morte di un genitore, un incontro emozionale chiarificatore, un’improvvisa conferma delle loro capacità, ecc.) fanno un voltagabbana incomprensibile nella loro terapia, o un drop-out che lascia sgomenti i terapeuti, che non hanno sufficientemente considerato le lealtà familiari o hanno creduto nel parziale transfert idealizzato dei loro pazienti, senza capire la loro insita ambivalenza. Noi terapeuti siamo sempre più deboli di un sistema familiare, e solo la consapevolezza di questa nostra debolezza ci può dare la forza d’intervenire in modo, a volte intrepido, nelle dinamiche familiari, favorendo un incontro chiarificatore che possa servire da spinta alla realizzazione personale autonoma, fuori dal contesto familiare. Il sentimento di appartenenza, che non si esaurisce mai, ma che viene riciclato con i nostri figli in un legame biologico, fortemente endogamico come il vincolo di filiazione, che ci unisce sia ai nostri avi che ai nostri figli, cambia col tempo, ma non si perde mai. Avremo sempre bisogno di essere in relazione con i nostri genitori e fratelli, fino all’ultimo giorno della loro o della nostra vita, solo che ci si dovrà adeguare al momento del ciclo vitale della famiglia e degli individui che la compongono. Portare dentro di noi l’odio per un genitore con cui non abbiamo potuto chiarire la nostra relazione, farà sì che odieremo per sempre una parte di noi stessi o, peggio ancora, vedremo dei nemici dappertutto, nei nostri partner o nei nostri figli, in un illusorio tentativo di sollevarci da questa sofferenza. Mentre i genitori sono in vita, e non importa a quale età, un incontro terapeutico che possa affrontare i nodi irrisolti e possa eventualmente scioglierli può cambiare una vita. Ho visto delle situazioni trascinate per anni senza risoluzione, che tramite un adeguato chiarimento, e quando possibile ascoltando la richiesta sincera di perdono di un genitore anziano, che riconosce i suoi torti, possono cambiare completamente i vissuti di un paziente. Ho lavorato con molti pazienti che dopo un taglio emotivo (cut-off di Bowen [1]) dall’adolescenza e per forse 20-25 anni cercavano di farcela da soli anche tramite uno o più trattamenti individuali incompleti, per poi approdare a una richiesta di aiuto. Li ho visti molte volte cambiare completamente dopo un approccio familiare che abbia chiarito i malintesi e permesso di capire situazioni apparentemente incomprensibili. Molte volte questi tagli emotivi si producono attraverso una scelta per opposizione di un partner non accettato dalla famiglia di origine, cosa che rende più difficile la comprensione di quell’allontanamento parziale, giacché un’eventuale separazione da costui può essere vissuta come un fallimento, o l’avvicinarsi alla famiglia di origine come una capitolazione delle genuine proteste di una volta. Chiarito questo, nella misura del possibile, può agevolare un incontro positivo che non potrà purtroppo recuperare gli anni persi nella creazione di un vero Sé (Winnicott), ma che solo attraverso questo recupero della dimensione familiare potrà essere integrato adeguatamente. Questi due miti, correlati tra di loro (il paziente che essendo anagraficamente adulto deve prescindere dall’apporto familiare, e allontanare fisicamente ed emozionalmente i pazienti dalle loro famiglie di origine per aiutarli a differenziarsi), sono i più pervasivi delle terapie individuali, sia psicodinamiche che cognitive e individuali sistemiche. Riuscire a porre in atto le condizioni di un incontro emozionale che possa ricreare le condizioni di un nutrimento affettivo e di una conferma di sé stessi, aiuta i pazienti a trovare la spinta spontanea per la realizzazione dei loro progetti autonomi, e l’aiuto terapeutico sarà più facile dopo questo percorso. I nostri genitori, oltre che darci la vita e l’amore necessario per la nostra crescita, devono darci la conferma di noi stessi (riconoscere l’autonomia e il disegno del progetto esistenziale in libertà, le nostre valenze come persone originali e non solo prodotto dei desideri o del modellamento della famiglia di origine, ecc.). Solo che quanto appartiene a noi ce l’hanno loro, e non sempre ce lo vogliono dare, per paura di perderci. Se ti siedi a tavola e ti sazi, la cosa più frequente che potrebbe succedere è alzarti e andartene per la tua strada. La reticenza emozionale e il “non dare soddisfazione” possono essere strategie frustranti che hanno come senso trattenere i figli per non sentire il vuoto esistenziale o l’adeguamento del rapporto, con minore dipendenza. Chiarire queste dinamiche e favorire l’incontro emozionale - come vedremo più avanti - possono essere la base di partenza per una ricerca spontanea del proprio progetto esistenziale (a meno che si pensi a una tara genetica o ad una mancanza di enzimi o neurotrasmettitori cerebrali che lo impediscano). Come si vede, il “ritornare per ripartire meglio” è una strategia assolutamente paradossale e molto più effettiva per assicurare la differenziazione che farà sì che molti sintomi non abbiano più ragion d’essere. Attacchi di panico, frustrazioni sentimentali reiterate, depressioni ingiustificate, abbandono di carriere, ecc., non sono a volte che tentativi magici di fermare il tempo, o andare a ritroso per cercare di elaborare lo “svincolo” mancato. Questa chiave di lettura dei problemi individuali presuppone la fase del processo terapeutico in cui l’invito all’allargamento alle sedute con i familiari significativi diventa indispensabile per passare poi a una fase diversa, più centrata stavolta verso l’incontro con sé stessi e il disegno di un progetto esistenziale autonomo, rispetto al quale il terapeuta sarà più un facilitatore che non un mediatore come nella fase precedente. I CORMORANI E LA REPROGRESSIONE BIOLOGICA Juan Rof Carballo, psicosomatologo spagnolo, nel suo più bel libro Ordito affettivo e malattia [4], enfatizza la capacità plastica dell’organismo di reagire alla malattia o al trauma facendo regredire i tessuti a fasi meno differenziate di sviluppo per ritrovare una capacità rigenerativa. “Se i sistemi biologici non fossero capaci di regredire a una fase primaria dello sviluppo, cioè a una fase embrionale della loro struttura, meno differenziata, l’organismo perderebbe uno dei suoi più importanti meccanismi di sicurezza” [4, p. 40]. E aggiunge: “Se a un dato momento subentra una situazione che l’individuo non è capace di tollerare, la struttura umana crolla e cade in depressione o nevrosi. Allora, se l’ordito della personalità umana fosse definitivo, il problema non avrebbe soluzione. Gli uomini sarebbero inclusi dentro quel tipo umano sclerosato, pieni di anchilosi spirituali, rigido e inerte, che tante volte troviamo nella vita, esercitando intorno a loro un’influenza nefasta, tante volte mascherata di falsa morale. Ma la natura, anche nella sfera psichica, ha disposto le sue strutture in forma che possano rifarsi. Il gran mistero della physis ippocratrica forse radica in questa disposizione della vita a ricreare di nuovo quello che è stato distrutto dal trauma o dalla malattia. La personalità dell’uomo, come la sua biologia, conserva plasticità, cioè è capace anche di rifarsi, riformarsi fino alla sua profondità” [4, p. 41]. Descrive poi le ricerche di Kortland [5], zoologo di Amsterdam, con i cormorani, uccelli marini che prima di spiccare il volo fanno una regressione a fasi precedenti dello sviluppo. Il cormorano, come l’uomo, aspira ad essere indipendente, a maturare come soggetto autonomo. Questo riesce a farlo dopo cinque tappe, cinque “salti”. All’inizio di ogni salto, il cormorano regredisce a modi di agire più infantili, cioè, meno organizzati di condotta, per poi progredire, cioè diventare più indipendente e autonomo. Kortland parla di manifestazioni reprogressive: “Ci sono occasioni in cui il cormorano rimane qualche tempo senza territorio, come un vagabondo; c’è tuttora una quarta crisi, anche con assenza dalla colonia per qualche giorno, finché torna e gode dell’alimentazione dei suoi genitori. Dopo due o tre giorni, già maturo, scompare per non essere più visto fino alla prossima primavera. Questa ultima fase gli ha procurato piena indipendenza e, libero, vola, senza fare caso ai cinguettii di chiamata dei genitori, verso le coste della Tunisia, Francia o Spagna”. È commovente la similitudine di questa descrizione con i racconti di molti genitori, disperati di fronte a comportamenti erratici e incomprensibili dei loro figli, accusati tante volte di crudeltà o indifferenza, quando in realtà tentano, a volte in modo disperato, di trovare il loro cammino. Carballo paragona questo concetto di Kortland della reprogressione alle vicissitudini della psicoterapia analitica, quando il paziente entra in regressione per tornare a fasi più primitive della vita umana, per poi sotto la tutela dell’analista, dare vita ad un’integrazione della persona umana più salda e armoniosa. Più resistente alle diverse circostanze della vita. Michael Balint parla di questo fenomeno nel suo libro La regressione, dicendo che è importante accompagnare la regressione del paziente fino ad un nuovo inizio. “Il nuovo inizio significa: a) ritornare a qualcosa di primitivo, ad un punto precedente l’inizio dello sviluppo difettoso che potrebbe essere descritto come regressione; e, b) nel contempo scoprire una modalità nuova, più adeguata, che equivale a un progresso. Ho chiamato il sommarsi di questi due fenomeni fondamentali regredire per progredire” [6, p. 260]. Carballo continua, dicendo: “Si dimentica spesso che probabilmente ogni progressione, cioè ogni passo a una struttura più integrata, complessa e autonoma richiede per arrivare a buon fine una regressione previa. ‘Reculer pour mieux sauter’ è un precetto che ha un’evidente realtà biologica come ha comprovato Kortland con i cormorani”. E finisce con una frase profonda e piena di suggerimenti: “Acaso la función biológica de la emoción sea la de mantener al hombre en sempiterna posibilidad de immadurez, es decir, de reprogresión…” (“Forse la funzione biologica dell’emozione è quella di mantenere l’uomo in permanente possibilità d’immaturità, cioè di reprogressione…”) [6, p. 42]. Questa metafora della reprogressione possiamo applicarla molto bene a situazioni della vita dei giovani adulti che, non sentendosi sufficientemente forti per spingersi in un progetto autonomo, si deprimono o cambiano professione inspiegabilmente, per regredire in un modo incomprensibile ai loro parenti. Manuel, studente brillante, era cresciuto nella sua famiglia di origine con una prematura autonomia, forgiando un carattere autosufficiente, arrangiandosi sempre da solo senza chiedere aiuto, finché una volta laureato con i massimi voti, decide di abbandonare la sua carriera, rifiutando un sistema lavorativo e sociale che non appagava i suoi bisogni di libertà. Entrando in depressione, cerca un terapeuta individuale che lo possa aiutare. Il suo terapeuta convoca i genitori in seduta, prima separatamente e, poi, insieme con Manuel. Nella seduta con la madre, giovane e bella signora, questa racconta come Manuel, già da piccolo (il primo di tre fratelli) organizzava la sua vita e i suoi giochi senza chiedere mai aiuto, nascondendo una personalità ipersensibile sotto una corazza di autosufficienza. Lo invita ad avere pazienza e cercare un lavoro dipendente per fare un’esperienza necessaria per la sua formazione. Nell’incontro col padre, affermato professionista che aveva sempre dato a Manuel un modello d’identificazione, costui racconta che nella sua storia, una volta affermato nella sua professione, abbandona inspiegabilmente questa posizione di successo, e attraversa un periodo di smarrimento che gli permette di ricontattarsi col padre, dopo anni di allontanamento emozionale per discrepanze familiari. Questo nonno di Manuel aiutò molto il figlio e gli permise una nuova scelta professionale, più autonoma e soddisfacente, avvicinandosi molto al figlio e godendo, fino alla morte del nonno, di una relazione emozionalmente più soddisfacente per entrambi. Il padre di Manuel offrì al figlio aiuto economico per permettergli un anno di ricerca più libera di una strada più soddisfacente. Manuel, che per anni era stato razionale e autosufficiente, durante l’incontro pianse come un bambino spaesato di fronte a quello che vedeva come un fallimento. L’approccio affettuoso e comprensivo di questi genitori e dei suoi fratelli, più l’esperienza dello zaino (sarà spiegata più avanti), permisero a Manuel di ripartire più rinfrancato verso una nuova scelta di lavoro, questa volta più appagante. L’incontro casuale con una ragazza conosciuta con un gruppo di amici fece nascere un rapporto sentimentale positivo, e Manuel ripartì verso il suo progetto esistenziale, questa volta più “umanizzato” dall’esperienza avuta. Durante il percorso terapeutico, quando si incontrano situazioni poco chiare, la “reprogressione biologica” ci può spiegare come, stranamente, un paziente che sta migliorando sorprendentemente peggiora, con la conseguente sfiducia nella terapia e con sorpresa del paziente, della sua famiglia di origine e, a volte, anche del terapeuta. Paradossalmente, questo peggioramento è un miglioramento, giacché il paziente, grazie anche alla sua terapia ha adesso la forza di affrontare temi o situazioni lasciate in disparte per mancanza di forza nell’affrontarle. Questo ritornare indietro per ripartire meglio lo ritroviamo in molte situazioni familiari, coinvolge figure significative e rappresenta (come il caso di Manuel) il bisogno di ridefinire la relazione con le sue figure genitoriali di riferimento: “congedarsi” da loro e da tappe pregresse della vita e ripartire, aiutato dal consenso familiare e dal nutrimento affettivo ricevuto per un avanzamento a fasi o tappe della vita mai raggiunte prima. Questo prendere forze per affrontare sviluppi qualitativi nuovi, non si può e non si deve intendere come peggioramento, bensì come oscillazione necessaria del processo terapeutico che non avviene mai in linea retta ascendente, bensì a zig zag (Figura 1). biblio_titolo - ignora Bibliografia bibliografia - art_bibliografia 1. Bowen M. Storia del movimento familiare. Terapia Familiare 1978; n. 3. 2. Boszormeny-Nagy I. Una teoría de relaciones: experiencia y transacción. In: Boszormenyi-Nagy I, Framo J. Terapia Familiar Intensiva. Mexico: Editorial Trillas, 1976, pp. 56-116. 3. Framo JL. Terapia intergenerazionale. Milano: Raffaello Cortina, 1996. 4. Carballo JR. Urdimbre afectiva y enfermedad. Barcellona: Labor, 1961. 5. Kortland A. Aspects and prospects of the concept of instinct (Vicissitudes of the hierarchy theory). Leiden: EJ Brill, 1955. 6. Balint M. La regressione. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1983.