La nostra famiglia non esiste più

Ilaria Carosi

La nostra famiglia non esiste più. Questo ho pensato oggi sfogliando alcune fotografie che ci ritraevano tutti e quattro insieme, a coppie oppure in trio. Noi al mare da bambine tra le braccia di mamma e papà, noi sulle piste da sci, noi sul letto della nostra cameretta, mano nella mano, noi al compleanno di 50 anni di mamma. È un dolore sordo che pulsa dentro in ogni istante. A volte penso solo che sei in vacanza o al lavoro o a fare shopping, mi fa soffrire meno, mi anestetizza. Poi improvvisa e casuale la realtà, quella canzone che ti piaceva tanto suona nella radio e le lacrime sciolgono il mio rimmel nuovo, quello che non mi hai regalato tu, cadono sugli occhiali da sole che ho scelto senza di te incapace di capire, orfana del tuo parere, se mi stessero bene oppure no. La nostra famiglia non esiste più, è come una sedia senza una gamba, come un’automobile senza una ruota, come il gatto di Marcello che si trascina sulle sue tre zampe. Lui sembra felice, noi ci trasciniamo e basta: dal letto alla doccia, dalla cucina al divano, dal lavoro al supermercato, al cimitero. Il mio momento peggiore è il risveglio, forse è per questo che sono tentata di prolungarlo ogni giorno di più, tenere gli occhi chiusi su una realtà che non piace, dormire e dimenticare per qualche breve momento tutto quello che è accaduto. Non posso. Le giornate trascorrono prima diverse poi sempre uguali ma questa resta una costante, il desiderio di prolungare quell’intontimento che ti fa sentire la testa come una palla di ovatta imbevuta di acqua, fai fatica ad aprire gli occhi, non sai nemmeno come ti chiami, figuriamoci pensare che tu non ci sei più! L’odore del caffè arriva dalla cucina e prepotentemente invade le mie narici non richiesto e non desiderato, e sì che mi piaceva tanto! Apro gli occhi, la vitalità innata in me vorrebbe prendere il sopravvento poi, arrivi nella mente e non permetto alla vita di coinvolgermi, tu sei morta, null’altro conta. È come un lampo che illumina il buio in cui vagoliamo, la luce che mi fa sussultare in quei rari momenti di amnesia ed offuscamento, come un display luminoso che lampeggia nel cervello con la solita stessa scritta: “lei è morta”.
Ridevamo salendo le scale il 5 aprile, ti avevo raggiunta in garage e ti avevo detto che era meglio se salivo insieme a te, visto che con mamma ci avevo già discusso dal terrazzo. Tu avevi acquistato dei regali per la piccola Giorgia che stava per nascere ed eri ansiosa di farmeli vedere. Ci vedo entrare in casa, vedo il recipiente in cui mamma ha messo ravioli e sugo, ti vedo Claudia, in un soggiorno inondato di sole, mentre estrai dal sacchetto un cestino di vimini con dentro degli abitini minuscoli, vedo il tulle e il fiocco rosa che sciogli per infilare nel cesto il bavaglino con il muso di una mucca. Vedo le tue mani ripiegare tutto con quella cura che io non ho e non so usare e, come accade spesso, ti dico che ti devi sbrigare a farmi un nipotino, te lo dico sempre che la prima a partorire sarai tu! Arriva anche mamma, ride con noi… io penso che ha funzionato, meno male che sono salita insieme a te! Dopo pranzo vi chiamo per il gelato e il caffè, non lo faccio mai. Tu snobbi i gusti di gelato che ti propongo e aspetti il caffè. Nel frattempo, mi chiedi di prestarti un mio vestito per un matrimonio, “No, quello non te lo do, è nuovo, non l’ho mai indossato!” e provo a rifilartene un altro… “Magari provalo, vedrai che ti sta bene!”. Insomma, le cose delle sorelle, non sai quanto mi mancano! Ti bacio, porti via il vestito che non ti convince e che non hai voglia di provare subito. Non ti vedrò mai più in vita.
Mille anni dopo, appena qualche ora più tardi, i nostri occhi si aprono sul terrore. Il rumore, una specie di urlo sordo, il risveglio convulso, accendo la luce, gli oggetti intorno a noi cadono, i cassetti e le ante dell’armadio si aprono da soli, mi alzo al volo, mi metto a raccogliere qualcosa che cade di nuovo, non capisco.
Nico urla ma è come se non lo sentissi, infilo i pantaloni della tuta sopra il pigiama, faccio una serie di cose senza senso, cammino scalza su vetri e cd rotti raggiungo la stanza in cui tengo le scarpe e me ne infilo un paio, torno in camera da letto, afferro una felpa e metto un paio di calzini in tasca, avrò tempo fuori di infilarmeli - penso. Prendo il cordless ma non il cellulare, il cellulare l’avevo messo in carica qualche ora prima, in cucina e “il viaggio” in un’altra stanza non lo posso “affrontare” perché tutto continua ad oscillare e Nico mi urla di mettermi almeno sotto ad una porta: “ci ammazza tutti!” – urla – “ci ammazza tutti!”. Io non penso a nulla, non capisco cosa o chi ci dovrebbe ammazzare. Apriamo la porta di casa, il rumore degli allarmi che suonano ci invade le orecchie. Mamma e papà stanno scendendo dalla scalinata del loro appartamento ma non capisco perché papà prenda la macchina: lo sai, la prende solo per andare a lavoro. Chiedo a mamma: “Che è successo? Dimmi che è successo!” “Non risponde, non risponde!”. Apriamo il cancello elettrico, corriamo da te, ognuno con la sua macchina. Per strada manca la luce e non c’è nessuno. Solo all’altezza del ristorante cinese qualcuno ci attraversa davanti urlando; mentre andiamo, vediamo l’interno di alcuni appartamenti, non capisco, non capiamo, urlo solo a Nico di correre, solo questo devi fare, “corri Nico, corri!”. Arriviamo in Via XX Settembre, la casa di nonna non c’è più. La casa di nonna, con mia sorella dentro, non c’è più. Ti cerco con gli occhi, vedo un inquilino sporco di sangue e penso che siate riusciti a scendere prima di quello scempio ma non c’è nessuno. Solo silenzio e polvere. Guardo in alto, cercando con lo sguardo un terzo piano che non c’è. Non riesco a piangere non riesco ad urlare non so nemmeno se parlo è come se fossi diventata sorda. Poi arriva papà e rompe il silenzio, cammina sui vetri, urla il tuo nome, inizia a smuovere i sassi. Allora penso che qualcosa si può fare. Fermo dei ragazzi che scappano dalle finestre di altre abitazioni e passano davanti a casa tua, urlo loro di fare qualcosa, “lì sotto c’è mia sorella”. Chiamo i Vigili del Fuoco, in continuazione, ma il telefono è muto. Quando circa un’ora dopo mi rispondono, dicono solo: “la mettiamo in lista, signora”. “In lista?”. È crollato un intero palazzo, in via XX Settembre 123 è crollato un intero palazzo!”, non capisco cosa ci sia di più grave, non posso capire, non posso immaginare quello che immaginabile non era. Papà scava senza tregua per tredici ore, a mani nude, nel buio nero di quella notte, nel nauseabondo odore di gas che invade tutto, nel sole rovente del mattino, nella polvere. Si ferma solo quando finalmente ti trovano, lui smette di scavare, si siede in un angolo e si tiene la testa tra le mani. Resterà così per due giorni. Ti tirano fuori nel pomeriggio, fa caldo, un’altra splendida giornata di sole in una città fredda come la nostra. Addormentata. Addormentata nella gioia dell’ultimo giorno d’amore passato con Daniele, nella tenerezza di Giorgia che avevi conosciuto solo qualche ora prima in ospedale, nelle ansie del lunedì che incombeva e che ci avrebbe trovato stanchi, considerate tutte le scosse della notte.
La corsa in obitorio, correvamo anche se non c’era nulla da correre, io volevo solo vederti. Ti hanno distesa per terra, in un sacco bianco, in mezzo a tutti gli altri poveretti. Io pensavo a quanto si deve star scomodi distesi sul pavimento di cemento di un hangar. Pensavo che in quell’involucro bianco saresti soffocata, anche se da soffocare non c’era, ormai non più. E comunque non avrei potuto fare niente, non c’erano abbastanza bare, pallina mia, non c’erano abbastanza bare per tutti. Ho dovuto lasciarti lì, nel sacco. Ti hanno scritto sopra un numero, il 68, una numerazione progressiva che rispettava l’ordine di arrivo in quel posto dimenticato da qualunque Dio avessimo mai deciso di invocare. E la numerazione della morte si sarebbe moltiplicata di oltre quattro volte, prima della fine della settimana. Dopo qualche ora di attesa mi hanno scortata da te: la crocerossina, lo psicologo, un paio di Finanzieri o Carabinieri. Volevano essere sicuri che ce l’avrei fatta, mi tenevano per le braccia con mani intrusive ma io ero ben salda, non ne avevo bisogno, volevo solo inginocchiarmi vicino a te, tenerti la mano. Ricordo di aver dettato a qualcuno la tua data di nascita prima di inginocchiarmi, per starti più vicina. Mi hanno chiesto se potevano tirare giù la cerniera, non aspettavo altro. Tutto il resto per me non c’era più, eravamo solo io e te. Ti ho presa per mano amore mio, ho stupidamente controllato se avessi le unghie laccate con lo smalto, le cose stupide delle donne, poi ti ho scoperta fino alle gambe, che giacevano piegate e girate da una parte, come le mettevi sempre quando dormivi. Ti ricordi quante volte da bambine ci siamo date la manina prima di prendere sonno? Una delle due stava sempre più scomoda dell’altra a causa della disposizione dei letti ma era una “sofferenza” che sopportavamo con piacere. Quando la mattina aprivo gli occhi mi dispiacevo ogni volta a constatare come le mani si fossero lasciate nell’arco della notte, le avrei volute mantenere sempre attaccate. È che sei cresciuta in fretta.
Quando vedevamo arrivare ambulanze con il lampeggiante spento o qualche carro funebre sapevamo già che ne avevano trovato un altro.
I parenti degli altri svenivano, vomitavano, urlavano, pregavano. Noi eravamo così increduli da non riuscire a far nulla di tutto questo. Ciononostante avevamo la consapevolezza di quanto accaduto, la consapevolezza che la nostra famiglia felice era ormai finita: urlare, piangere o vomitare non ci avrebbe fornito alcun giovamento. Non so neppure come mamma facesse a stare in piedi.
Sono andata a dormire qualche ora in macchina, poi, nella notte, sono tornata da te. Gli ufficiali della Guardia di Finanza stavano distribuendo del tè caldo, la prima cosa che bevevamo dopo ore di digiuno. Ho visto che avevano attaccato sulla porta un foglietto con i nomi dei deceduti, serviva per i giornalisti, credo. Intanto mi sono messa in fila per sbrigare le pratiche ufficiali del riconoscimento. L’ho fatto da sola, per proteggere mamma e papà e Nico da qualunque cosa avessi mai potuto proteggerli. I Carabinieri che compilavano il verbale, non sapevano neppure come impostare il documento word che dovevano riempire. Mentre uno dei due ci provava, l’altro mi riaccompagnava da te. Dal lato sinistro dell’hangar, ti avevano spostato su quello destro ma la bara non ce l’avevi ancora. Ti ho vista di nuovo e a distanza di ore, di nuovo ancora, avevo paura che qualcuno potesse confondere i corpi, i sacchi bianchi con i numeri e tu dovevi restare “nostra”. I documenti non ce li avevo e questo era un problema. I documenti, figùrati che non avevo preso neppure un giaccone e loro volevano i documenti! Aggirato con un escamotage tale problema di rilevanza essenziale, se ne poneva un altro: volevano sapere come facessi ad essere sicura che fossi proprio tu, erano insistenti fino alla nausea. Avrei potuto descriver loro l’esatta forma delle tue unghie “a tavoletta” (come dicevamo noi), l’esatto color castano dei tuoi capelli, la posizione che il tuo corpo assume mentre dormi, i tuoi nei, la linea delle nostre labbra gemelle e troppo sottili, quello spazio concavo tra il naso e la bocca su cui ti era restata un po’ di polvere grigia, l’esatta sfumatura di fucsia della tua vecchia felpa Champion, quella che usavi, tipo coperta di Linus, da quando andavi alle elementari. Quella che mettevi per studiare o per restare in casa quando eri malata e non andavi a scuola. Sicura. Dannatamente e disperatamente sicura. 



Per giorni e giorni ho aperto gli occhi su giornate che non volevo guardare, ho maledetto quell’istante, quello in cui gli occhi si aprono pian piano su un nuovo giorno che non sai, che ti sorprende con il sole o con la pioggia ma finché dormi non lo sai. Ho maledetto quell’istante in cui, sospeso tra il sonno e la veglia, non ricordi ancora nulla di ciò che è stato né di quello che dovrai fare durante la tua giornata, quell’istante di gioia effimera in cui potresti posare il mondo su una bolla di sapone. Per giorni interi ho pensato a tutti quelli che, come te, hanno chiuso gli occhi pieni di fiducia per non riaprirli mai più. Ricorderò per sempre quell’istante di scissione in cui, nell’hangar, circondata da quei corpi incartati “come caramelle”, ho visto voi, vivi intorno a me, ed io morta ed “incartata” al posto vostro. Ho capito subito che è stato solo un caso, che sarebbe potuto toccare a me. Nulla sarà più come prima e non lo si può pretendere ma so che nei riflessi dei miei occhi c’è la stessa luce che c’era nei tuoi, so che ho il dovere di tenerli aperti, nonostante il dolore, il sole, la pioggia, il freddo, la paura, il terremoto, la precarietà, la stanchezza, nonostante la gioia della vita che in certi momenti mi vergogno di avere perché mi sento in colpa per tutti quelli che non ci sono più. Per il fatto che stavolta non sia toccato a me.