Il trauma infantile. Il passato che ritorna*

Claudio Foti

LETTERA 1

Perché gli operatori non capiscono che il trauma deve essere curato?

Dopo la consulenza che abbiamo fatto, le abbiamo inviato, come lei ci ha chiesto, tutta la documentazione della vicenda di nostro figlio e siamo disponibili ad un nuovo incontro. Ciò che ci turba e su cui insistiamo in attesa del nostro ritorno a Torino è lo sconcerto misto a rabbia per il comportamento degli operatori. Vogliamo pensare che ci sia un’arretratezza maggiore dei servizi nella nostra regione. Forse da noi rispetto ad altre regioni è maggiore lo scarto tra i bisogni di cura a cui i servizi devono far fronte e le risorse a loro disposizione. La stessa preparazione degli assistenti sociali e degli psicologi sembra una risorsa scarsa.

Le abbiamo raccontato che la crisi adottiva di nostro figlio Romeo di 11 anni, di origine filippina, è iniziata dopo circa un anno di inserimento, tutto sommato positivo, nella nostra famiglia.

Le sue crisi con esplosioni di rabbia incontenibili sono sempre nate da situazioni impreviste e spiacevoli che Romeo ha vissuto (episodi di bullismo avvenuti a scuola, percepiti come motivati dal razzismo, un’esperienza in cui si è smarrito, non ritrovando più la strada di casa, altre disattenzioni o mancanza di rispetto patite).

Sappiamo per certo che Romeo ha patito fatti molto gravi di violenza, quando era nelle Filippine, è stato in istituti dove è stato maltrattato, è scappato da questi luoghi, è sopravvissuto in ambienti terribili dove la violenza e l’illegalità erano all’ordine del giorno.

Il ragazzo non ha mai conosciuto la propria madre, è scappato dalla casa del padre che lo maltrattava, ha collezionato abbandoni e tradimenti ed è cresciuto in strada sopravvivendo per lunghi anni a mille stenti, mille pericoli e mille situazioni che sarebbe riduttivo definire difficili.

Qualche mese fa un episodio ha aggravato la situazione: il ragazzo ha tentato una sorta di aggressione anche sessualizzata nei miei confronti.

Noi abbiamo chiesto ai Servizi, consigliati dalla persona che poi ci ha fatto il suo nome, l’avvio di una psicoterapia del trauma per Romeo, ma non ci sembra proprio che psicologi e assistenti sociali del Servizio siano su questa lunghezza d’onda. Abbiamo sperato che un aiuto arrivasse dall’intervento di un educatore, ma non si è creato alcun rapporto tra lui e Romeo, che alla fine ha rifiutato l’educatore.

È prevalso negli operatori un forte allarme per i rischi insiti in quell’isolato comportamento sessualizzato di Romeo: “Dovete subito allertare la scuola… e se lo facesse lì con una ragazzina?!?” Fino a quel momento l’adattamento di Romeo nell’ambiente scolastico è stato ottimale e peraltro abbiamo sempre provveduto ad avvisare la scuola sulla situazione di nostro figlio e di tutti i suoi comportamenti preoccupanti. Noi abbiamo chiesto aiuto per trovare un modo per aiutare Romeo e non un consiglio su come generare allarme su di lui nel resto del mondo!

A me gli operatori hanno detto innanzitutto che io non dovevo rimanere da sola con lui, ma in realtà io ho cercato spesso di sedermi accanto a Romeo (è successo anche dopo l’episodio in cui mi ha messo le mani addosso) per farlo parlare e quando è riuscito a raccontarmi qualcosa di come sta nei momenti in cui diventa violento e di cosa gli è successo quando era nelle Filippine, ho notato che questi sfoghi lo fanno stare meglio e almeno per un po’ riescono a calmarlo. Peraltro quando gli sono stata vicino è riuscito ad accennarmi a tante violenze che ha subito, quando per es. gli facevano delle ferite, così poteva chiedere l’elemosina, fare più pena e raccogliere più soldi.

Noi siamo disponibili anche ad un lavoro di psicoterapia familiare, come lei ci ha suggerito, se questo fosse utile. Abbiamo cercato di impegnarci al massimo per accoglierlo in famiglia. Se abbiamo fatto degli errori siamo disposti a riconoscerli, ma dai servizi riceviamo prevalentemente colpevolizzazioni.

Abbiamo la forte sensazione di non essere compresi dagli operatori nelle nostre difficoltà, mentre prevalgono le critiche ed il consiglio al padre di essere più duro ed anche di ricorrere a qualche schiaffone.

L’assistente sociale ha rimproverato anche Romeo per il suo comportamento: “Se fai così e ti arrabbi tanto, devono avvisare l’Ospedale e poi viene l’ambulanza”, “Ma se fai così con tua mamma, poi resti solo…”, discorsi e ammonimenti che scatenano in Romeo cariche d’ansia a mille e producono paura e sfiducia nei servizi.

Le esplosioni di rabbia che tanto ci preoccupano sono state interpretate da una psicologa come “episodi teatralizzati” su cui il ragazzo “ci marcia su”, ma l’ipotesi che lei ha fatto ci convince di più: la collera si scatena quando c’è qualcosa che gli ricorda il passato.

I servizi sociali colpevolizzano il ragazzo per la sua incapacità di adeguarsi alle persone: “Non può pretendere che tutti gli vadano a genio, si deve adeguare”, “Non è che il mondo può girare intorno a lui e se l’educatore non va bene bisogna cambiarlo ecc…”. I concetti sono giusti, perché Romeo ha atteggiamenti di pretesa, ma non è che punendolo o dicendogli che deve controllarsi risolviamo il problema. O lo aiutiamo con una cura o da solo non ce la fa.

Adesso sta emergendo l’idea di inserire il ragazzo in comunità. L’unica persona che comprende Romeo è una suora filippina che si avvicina a lui con comprensione e accoglienza nei confronti del suo dolore.

L’assistente sociale, da parte sua, spiega il tentativo di aggressione verso di me come un’eredità della sua cultura d’origine, in cui le donne sono considerate inferiori e sottomesse. Aggrava la sua analisi, inoltre, raccontando di essersi sentita a disagio quando ha incontrato il ragazzo e si è sentita guardata come oggetto: ha sentito paura e allarme, sostenendo che in quel caso in lei l’essere “donna” ha prevalso sull’essere “professionista e assistente sociale”. Dunque la colpa sarebbe della cultura maschilista delle Filippine…

Perché gli operatori non capiscono che il ragazzo da circa due anni sta chiedendo di essere curato e aiutato a raccontare la sua storia nella quale ha collezionato traumi?

Risposta

L’evitamento della sofferenza post-traumatica e l’avversione verso chi la vive

Cara Alberta, affronteremo le questioni che più direttamente coinvolgono il rapporto con suo figlio quando ci vedremo.

Qui provo ad intervenire sulla questione generale della cura del trauma e della trascuratezza da parte delle istituzioni e degli operatori verso questa cura.

Le cose che lei racconta – e che mi paiono coerenti sulla base della documentazione fornita e della conoscenza personale – sono una drammatica testimonianza di come gli operatori dei servizi e i professionisti spesso non siano affatto attrezzati emotivamente e cognitivamente ad affrontare le problematiche del trauma e i bisogni dei minori traumatizzati. Non credo affatto che sia una questione che si può ricondurre ad un particolare contesto regionale o che può essere limitata ad una specifica situazione istituzionale. La carenza è più generale.

Il trauma è una dimensione scombussolante e penosa dell’esistenza, con cui la mente umana fatica a confrontarsi e a rapportarsi. La stessa comunità scientifica evidenzia reazioni difensive e forme di amnesia di fronte alle conoscenze relative al trauma. Non è un caso che si sia dovuto aspettare gli anni ’80 del secolo scorso per poter disporre di uno strumento diagnostico, quello del disturbo post-traumatico da stress, per poter inquadrare e comprendere la sofferenza dei soggetti traumatizzati.

C’è una reazione psicologica e comportamentale di paura, di rifiuto e di diniego nei confronti del trauma, radicata nella popolazione e diffusa anche tra gli operatori e tra i professionisti, una reazione profonda di evitamento e di fastidio nei confronti di chi soffre per aver patito eventi estremi, bruschi e lesivi: una reazione che ci aiuta a comprendere le resistenze sociali e culturali al riconoscimento del trauma e alla sua cura.

Mi colpisce la reazione dell’assistente sociale che preferisce interpretare il tentativo di aggressione a sfondo sessuale di Romeo nei confronti della mamma come conseguenza della sua cultura di appartenenza piuttosto che del suo passato traumatico. E contestualmente compare un significativo disagio della stessa assistente sociale ad incrociare lo sguardo del ragazzo, proiettando su di lui con sconcertante pregiudizio lo stigma dello stupratore.

A me pare ci sia stato un dilagante allarme da parte dei servizi per un singolo comportamento evocativo di violenza sessuale e una scarsa preoccupazione per l’assetto post-traumatico dell’intera personalità del ragazzo.

I servizi, da quel che ho capito, sembrano proporre una psicoterapia di tipo farmacologico prima ancora di fornire al ragazzo uno spazio di ascolto e di cura. Non capiscono che il ragazzo, con tutti i suoi comportamenti, con tutte le sue esplosioni di rabbia e non solo con la sua isolata aggressione verso la madre, ha messo in scena un’esperienza traumatica prolungata e sta chiedendo, come avete intuito lucidamente, di essere aiutato a raccontare e ad elaborare quell’esperienza.

Sembra che l’intervento dei servizi si connoti con grandi carenze sia sul fronte della comprensione cognitiva, sia sul fronte della comprensione emotiva delle radici della sofferenza di Romeo. Una psicoterapia centrata sul trauma è certamente la risposta più efficace per rispondere ai bisogni del ragazzo e per evitare che sia inseguito dal suo passato e che il deficit di controllo degli impulsi possa aggravarsi.

Romeo, da quello che ho letto, viene etichettato come portatore di un disturbo della condotta, ma non si considerano le cause profonde, la situazione storica e psicologica che ha generato questo disturbo.

È impressionante percepire come nell’azione dei servizi compaiano in embrione i comportamenti e gli atteggiamenti più rischiosi e stigmatizzanti nei confronti dei soggetti traumatizzati [1]:

• disinteresse per le esperienze sfavorevoli e traumatiche della storia della vittima;

• tendenza a colpevolizzare, giudicare, stigmatizzare e minacciare il ragazzo, pretendendo l’autocontrollo in modo volontaristico, senza offrire una prospettiva di cura e di responsabilizzazione;

• incomprensione e critica verso chi compie uno sforzo in una direzione diversa da quella del contenimento repressivo e della stigmatizzazione;

• sospetto sulla tendenza della vittima a fantasticare, mentire, strumentalizzare pretestuosamente la propria sofferenza;

• incomprensione del significato dei sintomi e accusa di teatralizzare le emozioni di disagio e di rabbia;

• fretta nel pensare ad un progetto di istituzionalizzazione (inserimento in comunità), al posto di un progetto per aiutare e curare il ragazzo in famiglia e con la famiglia.

È un atteggiamento emotivo e relazionale che Judith Herman definisce “controtrasfert traumatico” e che potremmo più semplicemente definire “antipatia e avversione verso chi ha patito un trauma e ne continua a portare dentro le conseguenze”, un’incapacità di mettersi dal punto di vista di chi ha dovuto crescere tra eventi sconvolgenti e destabilizzanti, a seguito dei quali mostra ancor oggi di aver perso autostima, consapevolezza e capacità di autocontrollo.

LETTERA 2

Nessuno si è mosso: come è possibile questa omertà?

Egr. Dott. Foti, non può immaginare che sollievo è stato per me vedere l’apertura di questo forum. Sono una ragazza di 25 anni, per 10 dei quali ho subito abusi sessuali all’interno del mio nucleo familiare, prima da mio nonno, poi da uno dei miei fratelli e infine da mio padre.

È stato lì che mi sono ribellata, denunciando i fatti, sebbene solamente in casa, ed è stato terribile vedere come delle sette persone che fanno parte della mia famiglia nessuno si sia mosso, come nessuno mi abbia creduto… l’unico fatto positivo è stato quello di porre fine a quello che stava succedendo…

Come è possibile questa omertà? Fortunatamente sono stata aiutata da persone esterne molto in gamba, che hanno creduto in me… ma temo che sia compromesso il mio rapporto con gli uomini e le persone in generale… non mi fido più. Pensa che riacquisterò un po’ di fiducia?

Risposta

La “normalità” della violenza e dell’omertà che la circonda e la perpetua

In poche battute lei riassume una storia familiare terribile. Affrontando quasi quotidianamente situazioni di abuso, mi sono abituato ad ascoltare storie sempre diverse e sempre sconvolgenti. Ho imparato a fare entrare nella mia mente le vicende più penose e più insolite e a ridurre, senza mai ovviamente esaurirla, l’area della violenza impensabile. Ho imparato che la normalità, sì la normalità, è fatta anche di vicende familiari come la sua.

Mi ha colpito il riferimento a sette familiari omertosi, a sette testimoni potenziali che hanno disertato il ruolo che spetta ad ogni essere umano: quello di sentire che la propria umanità e la propria dignità esigono la protezione del più piccolo e del più debole, almeno nel contesto familiare.

Questo riferimento numerico mi ha spinto ad una fantasia, una fantasia statistica. Ho ipotizzato di poter stabilire attraverso una ricerca – sul piano di realtà troppo complessa per essere impostata e realizzata – il numero medio di testimoni potenziali di una violenza ai danni di un bambino al fine di precisare quanti tra costoro potrebbero risultare testimoni soccorrevoli di fronte ai segnali di quella violenza in corso di svolgimento e quanti invece potrebbero manifestare risposte di indifferenza o di insensibilità.

Lei parla di sette componenti della famiglia che avrebbero potuto e dovuto cogliere nella frequentazione quotidiana gli indicatori di un abuso ai suoi danni durato il tempo infinito di dieci anni. Prima non hanno visto o hanno rimosso ciò che hanno percepito, poi non hanno creduto.

È straziante. Per forza si rischia di perdere la fiducia nella sensibilità del genere umano…

Non si potrà mai effettuare una ricerca statistica del numero dei testimoni, che avrebbero potuto percepire indicatori allarmanti (espliciti o impliciti, attivi o passivi) di un abuso in corso di svolgimento e non l’hanno fatto, ma, se mai si potesse realizzare, questo numero sarebbe probabilmente superiore al 7 e forse più vicino al 70.

Lei si chiede se questa omertà è possibile. Non solo la sua vicenda, ma anche l’esperienza clinica di tanti psicoterapeuti dimostrano che questo tipo di omertà è purtroppo possibilissimo. Mi sono spesso occupato di questo aspetto nei miei interventi e nei miei scritti [2]. Il silenzio, l’indifferenza, l’insensibilità dei potenziali testimoni sono ingredienti costitutivi della perpetuazione e della riproduzione della violenza non solo nella famiglia, ma più in generale nella società e nella storia.

Senza l’insensibilità della popolazione germanica, senza l’atteggiamento diffuso di diniego e di rimozione di fronte alla distruttività nazista, non si sarebbero sviluppati i lager. Senza la tendenza della comunità internazionale a voltarsi dall’altra parte di fronte al nazionalismo espansionista cinese non ci sarebbe stato il massacro della popolazione e della cultura tibetana. Senza la scelta collusiva delle gerarchie ecclesiastiche, durata decenni, di garantire l’impunità ai religiosi pedofili, pur di proteggere l’istituzione dallo scandalo, gli abusi sessuali all’interno della Chiesa non si sarebbero riprodotti nell’impunità per un tempo infinito.

Senza le gravi carenze di attenzione e di ascolto empatico da parte di buona parte della comunità adulta nei confronti dei bambini non ci sarebbero violenze intrafamiliari che durano per decenni, non ci sarebbero coinvolgimenti di centinaia di bambini da parte di organizzazioni criminali pedofile senza che nessuno sia capace di risposte efficaci.

Trovo comunque che la parte più significativa della sua mail sia quella finale: mi chiede se le sue relazioni con gli uomini e con le persone in generale siano state compromesse definitivamente dalla sua vicenda traumatica infantile. Se lei riesce a scrivere una mail come questa non c’è nulla di compromesso irrimediabilmente.

Se lei pone con tanta ansia questa domanda vuol dire che c’è un anelito all’interazione con gli altri e con il maschile: non si è spenta dentro di lei un’implicita speranza, c’è in lei un’aspirazione ad una dimensione di relazioni interpersonali, nella quale sia possibile fidarsi.

I semi dell’apertura al mondo e della fiducia dovranno certamente essere innaffiati. Bisogna crederci, senza per questo illudersi di poter cancellare le ragioni storiche e psicologiche che la spingono ad una legittima diffidenza verso le persone e verso gli uomini. Tutto dipenderà dal lavoro di analisi e consapevolezza su se stessa e dagli incontri amorevoli e costruttivi che potrà fare: il primo aspetto, che è decisivo, influenzerà fortemente il secondo. La cura di sé la aiuterà ad aprirsi a relazioni positive. Le auguro di farcela.

Perché non odio la mia famiglia?

Egr. Dott. Foti, grazie infinite per avermi risposto.

Mi permetto di riscriverle nuovamente perché pensando a quanto ha scritto mi è venuto spontaneo domandarmi: “perché non odio la mia famiglia?”. Spesso e volentieri mi trovo ad essere arrabbiata con loro, ma in fondo non sono mai riuscita a mettere in discussione il loro amore per me… per ogni terribile male fatto mi trovo a mettere sulla bilancia un altrettanto importante gesto di amore… e questo mi disarma perché a volte penso che se riuscissi ad odiarli e basta forse mi sentirei meno confusa, ma proprio non ci riesco… Provo a mettermi a guardare le cose dall’esterno e penso che alla fine chi non ha coraggio sono proprio loro, e spesso ho pena per loro perché non vogliono vedere la realtà, hanno più paura di quanta ne abbia io.

Pensavo a quanto mi ha detto circa la speranza… forse la speranza sta nel fatto che le cose non devono essere per sempre come sono state, ma che possono cambiare. Françoise Dolto diceva che per ogni cosa c’è una via di uscita, e forse è proprio così. Il fatto di non odiarli a volte mi fa sentire complice, penso che forse la mia rabbia dovrebbe essere maggiore per quanto successo, ma non riesco. Continuo a pensare che sono fortunata perché posso vedere la vita e perché lentamente sto riuscendo a cambiarla, perché in qualche modo mi è stata data la possibilità di cambiarla. Come è possibile che un bambino o una bambina abusati riescano a provare pena per chi ha fatto loro del male? Perché si finisce per accettare il passato? Forse la pena è la più forte forma di disprezzo.

Mi chiamo Costanza, e la ringrazio per le parole belle che ha scritto.

Risposta

Le vittime degli abusi devono integrare la rabbia

Cara Costanza, l’odio, inteso come sentimento avversivo stabile e immodificabile, non è mai un traguardo a cui aspirare. L’odio verso gli abusanti, per quanto sia comprensibile e per quanto si debba accettare quando compare, è tuttavia simmetrico, speculare alla loro distruttività. L’odio finisce per logorare chi lo sente. In questo senso è positivo che lei non riesca ad odiare i suoi familiari.

Diverso è il discorso per la rabbia, che può risultare uno stato emotivo realistico e adeguato in risposta ad una situazione di ingiustizia tremenda quale quella da lei patita. La rabbia può essere una reazione liberatoria che consente l’espressione sana di tensioni e insoddisfazioni pressanti, magari avvertite confusamente dentro di sé. La rabbia, a differenza dell’odio, è un’emozione capace di evolversi a seconda delle situazioni e di trasformarsi in energia positiva.

Le vittime degli abusi e dei traumi devono essere aiutate ad integrare ed esprimere la propria sacrosanta rabbia, che altrimenti rimane a circolare nel loro corpo e nella loro mente, andando a generare disturbi somatici e ad alimentare il senso di colpa e l’odio di sé.

La rabbia è l’esito che ci attendiamo di un percorso di maturazione e di individuazione, attraverso cui una persona raggiunge una piena e sana consapevolezza del valore ingiustamente calpestato della propria soggettività.

L’integrazione consapevole della rabbia non sfocia necessariamente nell’odio, ma talvolta, all’opposto, in un sentimento di pena o di compassione. Oppure – più spesso – nell’indifferenza.

La capacità di espressione della rabbia presuppone la consapevolezza della propria dignità ferita. Ma spesso nelle famiglie abusanti la futura vittima è cresciuta sin da piccolina senza imparare a regolare positivamente la propria autostima, senza interiorizzare il senso della propria dignità. L’abuso a cui poi va incontro finisce per risultare un’esperienza che ulteriormente comporta svalutazione e disprezzo del Sé.

Forse è questo il suo problema, Costanza: non avvertire il valore della sua persona, non sentire la legittimità della propria rabbia. Forse sta qui la causa della difficoltà a reagire con adeguata forza ed aggressività verso i componenti della sua famiglia.

Provare pena nei confronti dei suoi familiari non è deprecabile. Anzi, la pena può essere un vissuto adeguato ed apprezzabile, se la intendiamo come espressione della consapevolezza che, dietro la meschinità e la perversione dei suoi familiari, è sottesa una grande sofferenza.

Il sentimento della pena, tuttavia, si può accompagnare ad un processo di distanziamento emotivo e relazionale dalle persone che le hanno fatto del male e che potrebbero continuare a fargliene, se continuano a negare quanto lei ha subìto e quanto lei ha sofferto.

Il vissuto di pena dunque non deve essere la giustificazione del comportamento dei suoi familiari, che richiede invece una critica lucida e senza sconti e merita la giusta rabbia dei giusti.

LETTERA 3

Come è potuta succedere una cosa del genere a qualche metro di distanza da dove ero io, sua madre? 

Il mio nome è Maria e quello di mia figlia Isabella. Ora lei ha quasi 20 anni. Solo adesso lei è riuscita a tirare fuori di sé quello che le era successo quando aveva 7, 8, 9 anni. Un abuso che si è ripetuto nel tempo. L’autore di questo è un conoscente, proprietario della casa dove abitavamo, un uomo che mentre si avvicinava alla nostra fiducia senza dare sospetti, ha abusato della mia bambina con toccamenti, masturbazione, sottoponendola a forti pressioni come “vi lascio senza casa o faccio lo stesso al tuo fratellino”.

Come è potuta succedere una cosa del genere a qualche metro di distanza dove ero IO, sua madre?? Io per tanto tempo ho ascoltato la mia bambina, la sua tristezza, rabbia, ansia, era una bambina tanto ansiosa. Lei mandava dei segnali, Dott. Foti.

Sono boliviana, vissuta a Torino per tanti anni. Adesso vivo nel mio Paese. Ho divorziato dal padre dei miei figli. Lui ha sempre rifiutato questa bambina. Nel suo essere padre c’è stata sempre una grande debolezza d’amore e una grande incoerenza. Quando lei aveva 10 anni e frequentava le medie, suo padre nel mezzo di una furia incontrollata le strillò che non era una figlia ma una disgrazia. Erano loro due nel bagno, le 7 del mattino, io ero a letto, mi alzai e ricordo solo Isabella prendere il suo zainetto, stringere i denti, le labbra, lottare contro l’emergere del suo dolore.

Ricordo i suoi pianti di notte, all’improvviso… come non ascoltare il suo dolore? Ma io trovavo la causa di tutto questo nel disamore di suo padre.

E io soffrivo tanto, mio padre è stato un padre meraviglioso. Non conoscevo questa perversione, adesso do un nome a tutto questo. Cercai aiuto nella scuola, con lo psicologo. Un appuntamento che mi lasciò svuotata, piena di dolore. Mi disse “lei signora si metta da parte… lasci suo marito e sua figlia…”. Com’è possibile?, mi chiedo oggi.

Oltre quella perversione di padre, c’era un uomo più perverso ancora…

Che ingiustizia! Certo che mi do le colpe: non ho visto più in là di quel dolore… C’era un uomo che entrava in casa e abusava di questa bambina già provata. Lei silenziosa, addolorata, ansiosa, dava i segnali di un grande disagio, ma chi poteva sentirla, ascoltarla, con un padre assente di cuore e con una madre che non vedeva più in là di quel dolore?

Mia figlia, una ragazza intelligentissima, ha dovuto affrontare un’adolescenza terribile, è esplosa come una bomba: droga, rifiuto... tutto, lasciò l’Università, tirò fuori tutta la sua rabbia, con una violenza… ma sua madre era lì con lei, a fare da punching ball (come nella boxe).

Andò in Inghilterra, e lì, in un altro luogo, con altre persone, distante da tutto e da tutti, tirò fuori quell’anima ferita e spezzata.

È tornata da me, da sua sorella e stiamo cercando di cucire le ferite; lei è tanto giovane, vitale...

Mi dia Lei dottore, per piacere, una parola per trovare pace alla mia anima, al mio cuore.

La ringrazio

Maria

Risposta

Il coraggio della verità

Cara Maria, la sua lettera è commovente. E molto coraggiosa. Ha il coraggio della verità. La verità della violenza che Isabella ha subìto e che è emersa dopo oltre dieci anni.

Questo abuso poteva restare compresso dentro la mente di Isabella, come spesso succede, e invece, pur tardivamente, è venuto fuori, evitando così di aggiungere, con l’ulteriore trascorrere del tempo e del silenzio, altre pene a sua figlia.

Un’infinità di persone passa l’intera esistenza con segreti terribili e con silenzi stressanti dentro il proprio cuore, senza l’opportunità di rompere quel mutismo, senza la possibilità di comunicare o condividere quei segreti. Questo è l’aspetto positivo su cui la invito a riflettere, per non farsi trascinare dallo sconforto e dal senso di colpa: sua figlia in qualche modo è riuscita a parlare!

Sono convinto che in qualche misura è anche merito di ciò che ha ricevuto affettivamente dalla propria madre.

In effetti, a pochi metri di distanza da dove viviamo, si possono consumare violenze terribili ai danni dei bambini e delle bambine senza che ce ne accorgiamo, perché quella violenza tende a circondarsi di omertà, di segretezza, di minaccia e di inganno.

Inoltre la nostra mente è troppo impreparata a sopportare il dolore, si volta dall’altra parte di fronte alle informazioni che ci disturbano. Sappiamo che certi cibi o certe abitudini ci fanno male, ma fingiamo di non saperlo: preferiamo allontanarci mentalmente dai dati spiacevoli. Così capita molto spesso che gli adulti non riescano a soffermarsi adeguatamente sui segnali del malessere dei bambini e delle bambine, che i genitori facciano fatica a mettersi in posizione di ascolto e ad esplorare con il dialogo le radici del disagio dei figli e delle figlie.

Quel che è avvenuto a lei è comprensibile, vorrei dire, paradossalmente, è normale.

Ho ascoltato centinaia e centinaia di storie come la sua. Costituiscono un aspetto della normalità della violenza sessuale sui piccoli. Le madri possono essere distratte per migliaia di ragioni, possono non essere preparate o non disponibili a pensare al peggio, possono autorassicurarsi di fronte a dati che andrebbero invece approfonditi con la vicinanza e con la comunicazione. Possono non essere pronte o attrezzate ad ipotizzare che l’abuso sessuale possa scatenarsi ovunque e comunque, che la tentazione di usare il corpo dei bambini e delle bambine possa manifestarsi in ogni luogo e in ogni contesto da parte di adulti perversi.

E gli adulti perversi sono più numerosi di quanto pensiamo e più distruttivi e capaci di nascondersi di quanto non ci piaccia.

Ma non perdiamo la fiducia, perché non c’è solo perversione attorno a noi, anche se dobbiamo imparare a diventare più vigili, più attenti, più diffidenti, senza perdere la fiducia nelle risorse di amore, di comprensione e di ascolto presenti nella mente umana.

Ho sentito tante, tantissime madri come lei. Ho pensato anche alla possibilità di costruire un’aggregazione di madri che hanno vissuto un’esperienza drammatica come la sua per favorire una comunicazione tra donne sfortunate che non hanno potuto e saputo avere gli occhi più aperti, le orecchie più sensibili.

Quando in effetti queste madri si ritrovano in gruppo possono capirsi reciprocamente, possono comprendere ed affrontare due compiti estremamente impegnativi, talvolta addirittura schiaccianti, a cui queste donne devono far fronte: accettare di aver dato fiducia a un uomo non solo inadeguato, ma addirittura perverso; accettare di non essere riuscite a proteggere il figlio o la figlia dalla violenza. Accettare senza crollare, senza perdere la speranza di una riparazione…

Lei si sente terribilmente in colpa. La capisco. Ha bisogno di riflettere sui propri comportamenti, con qualcuno che la comprenda e la aiuti. Ha necessità di prendersi le proprie responsabilità per poter ascoltare sua figlia, per poter accettare la rabbia di Isabella, per poterle chiedere sinceramente scusa. Ma è inutile torturarsi. Lei ha fatto ciò che ha potuto fare e non ha fatto ciò che non ha potuto fare. Autodistruggersi con i sensi di colpa è dannoso per lei e non serve in alcun modo ad Isabella.

Lei, Maria, certamente non ha saputo ascoltare sua figlia bambina, ma sicuramente l’ha rifornita di una quota rilevante di amore, se dopo diversi anni è ritornata da lei. Per fortuna l’“anima ferita e spezzata” di sua figlia s’è aperta alla mamma e la mamma, a giudicare dall’email che mi ha inviato, è in grado di aprire la propria mente al dolore e al cambiamento, alla riflessione sul passato e sul presente.

Lei è in grado di accettare di essersi voltata dall’altra parte di fronte al malessere di Isabella bambina, lei è in grado di riconoscere con sofferenza di non aver saputo garantire a sua figlia una vigile attenzione. Tenga conto che la mente umana, e dunque non solo la sua, tende abitualmente a fuggire dalla consapevolezza.

Per questo la gente è attratta molto di più dalla ricerca dello sballo in tutte le sue varianti che non dall’impegno a comprendere i problemi e a guardare la realtà; preferisce di gran lunga gli stimoli del più banale consumismo o delle più stupide trasmissioni televisive alla consapevolezza delle sofferenze che circolano nella nostra comunità e in ciascuno di noi.

Ammetta con sua figlia francamente la sua mancanza, senza giustificarsi ma chiarendo le ragioni della sua grave disattenzione. Eviti tuttavia di tormentarsi. Un sincero riconoscimento delle nostre mancanze come genitori può trovare talvolta la comprensione dei figli verso i quali abbiamo mancato.

Che lei abbia incontrato uno psicologo che non ha preso in considerazione l’ipotesi dell’abuso, che non ha saputo approfondire i segnali di malessere di Isabella bambina, per me non fa notizia. Un numero consistente di psicologi non ha alcuna preparazione all’ascolto e al trattamento del trauma. Anche questo dato purtroppo è ricorrente e rientra, ahinoi, nella sconcertante normalità della violenza, la cui ripetizione è direttamente proporzionale all’indifferenza e all’insensibilità di coloro che si sottraggono all’ascolto, invece di agire da testimoni consapevoli ed essere capaci di offrire soccorso.

La saluto e auguri per tutto.

Ora sto con lei, la stringo forte e mi sento forte

Dott. Foti,

ho riletto tante volte la sua lettera, non so quante, ma mi rendo conto che è un modo mio di trovare un significato a tutto questo, per uscire di questo sconforto che mi prende ad ogni momento. Avevo bisogno delle sue parole piene di comprensione. Ascoltare questa rivelazione dalla bocca di mia figlia è stato uno shock, ma il peggio è venuto dopo, col passare dei giorni, con la riflessione stessa.

Sono passata dall’incredulità alla disperazione… perche è vero, Dott. Foti, ho messo anche in dubbio le parole di mia figlia, e questo mi ha addolorata ancora di più. Dopo ho cominciato a mettere ogni ricordo, ogni pezzo al posto giusto, certi atteggiamenti di Isabella bambina rispondevano ai segnali da voi descritti, ho trovato risposte a tante cose… per poi, finalmente, cadere in un’angoscia senza fine.

Lei mi rincuora quando dice “Lei ha fatto ciò che ha potuto fare e non ha fatto ciò che non ha potuto fare”. Ma tutti i giorni, quando mi guardo allo specchio prima di andare al lavoro, ho a che fare con le mie responsabilità.

Mesi fa, quando Isabella era ancora in California, mi scrisse una mail di riflessione in cui mi diceva: “Mamma mi manchi tanto… avevo bisogno di allontanarmi di te per capire quanto sei importante”. Ed io le risposi che ciò che più desideravo era che lei tornasse ad essere bambina per poter avere più cura di lei, molto di più di quello che sono riuscita a fare. Dott. Foti, non sapevo ancora niente ma sempre in cuor mio ho sentito che non avevo protetto Isabella nel modo giusto.

Ora sto con lei, la stringo forte e mi sento forte per aiutarla come mamma, ma mi rendo conto che non sono in grado di aiutarla a superare certe cose… Isabella ha dentro di sé una parte molto autodistruttiva che credo solo facendo psicoanalisi riuscirà a superare… e sarà lei a decidere quando farlo.

Dott. Foti. la ringrazio di cuore della sua pronta risposta, della sua generosità.

Se si realizzerà il suo progetto circa un’associazione di madri, mi faccia sapere. Sarò lieta di poter partecipare.

Eternamente grata a Lei. La saluto.

Maria

LETTERA 4

Non oso parlare a mia figlia perché temo di fare danni

Sono un’educatrice, madre di una bambina, Giovanna, che all’età di 5 anni è stata a lungo abusata sessualmente da un amico di famiglia. La stiamo curando, ma la psicologa riferisce che la bambina non è ancora riuscita a raccontare quello che è avvenuto, per il senso di vergogna. A Giovanna non oso parlare perché temo di fare danni. So che è mia figlia che deve fare il cammino, ma io vorrei capire come aiutarla. La psicologa mi ha spiegato che c’è una difficoltà di tutti i piccoli abusati a raccontare quello che è successo e che bisogna avere pazienza. Per me non è stato semplice accettare che mia figlia abbia ricevuto una diagnosi di abuso sessuale.

È duro diventare consapevole che l’abuso sessuale, siccome ostacola il racconto del trauma, può essere la forma più distruttiva della violenza sui minori. Sono tormentata dalle domande… Perché è così decisivo che mia figlia riesca a ricordare? Secondo lei cosa posso fare? Come si fa ad accertare un danno? Si può affermare con certezza che l’abuso sessuale sia più dannoso rispetto ad altre forme di esperienza traumatica?

Alessandra

Risposta

Se una bambina non può parlare del suo trauma con la mamma, il danno è maggiore

Cara Alessandra, comprendo il suo malessere e la sua ansia. Ma non comprendo bene l’intera situazione e non capisco proprio perché lei non sia maggiormente coinvolta nel lavoro con sua figlia.

Mi auguro che lei abbia o possa avere uno spazio di riflessione personale su quanto è successo.

Sua figlia ha bisogno, per attraversare positivamente questa crisi, del dialogo con i suoi familiari e ha bisogno di una mamma che sia in grado di accettare e comprendere l’accaduto e che abbia la possibilità di essere aiutata a governare l’ansia.

Le questioni sono tante. Vorrei innanzitutto precisarle che l’abuso sessuale su una bambina è un’esperienza che risulta traumatica e che va definita, a seconda delle situazioni, nella sua specifica gravità e nei suoi effetti, ma in senso tecnico non è una diagnosi, non esaurisce affatto la conoscenza di un minore, di come funziona la sua mente, delle difficoltà e dei problemi che incontra e, d’altra parte, delle capacità psicologiche che possiede. Se confondiamo il riconoscimento di un abuso con una diagnosi rischiamo di inchiodare una bambina che sta crescendo ad una valutazione essa stessa stigmatizzante, perché non consente di comprendere il funzionamento psicologico complessivo e le qualità mentali della bambina.

Alessandra, si ricordi che l’abuso sessuale di sua figlia, qualsiasi forma abbia avuto, non esaurisce affatto la conoscenza di Giovanna e delle sue risorse per crescere.

In secondo luogo sostenere che sempre e comunque l’abuso sessuale sia un’esperienza più distruttiva e dannosa rispetto ad altre forme di violenza è un’affermazione ideologica. Occorre spostare la messa a fuoco dalla categoria dell’abuso sessuale alla categoria del trauma. Non va considerato solo l’evento esterno, ma anche e soprattutto la ferita psichica subita dalla vittima, a come ciascun soggetto può aver vissuto una situazione scombussolante ed imprevedibile e alle modalità con cui ha saputo reagire.

Trauma deriva dal greco antico e vuol dire appunto ferita. Il concetto di trauma ci invita a riflettere sulla dimensione non solo oggettiva, ma anche soggettiva dell’esperienza vissuta.

Per valutare il danno inferto in una bambina da un evento brusco, estremo, lesivo o da più eventi di questo tipo bisogna ascoltare con un’attenzione partecipe il soggetto traumatizzato, la sua personalità precedente al trauma, le modalità con cui ha affrontato l’evento, i suoi vissuti emotivi e la sua storia. Non è stata ancora inventata la classifica per valutare la gravità della sofferenza traumatica, senza prima aprirsi all’accoglienza, all’ascolto e alla conoscenza delle diverse persone.

Lei riferisce un’affermazione della psicologa che sostiene “che c’è una difficoltà di tutti i piccoli abusati a raccontare quello che è successo”. Ora la categoria dei “piccoli abusati”, pur comprensibile per inquadrare il fenomeno, dal punto di vista clinico va relativizzata. Dal punto di vista clinico non esistono i “piccoli abusati”, esistono personcine che vanno comprese, ciascuna nella propria individualità, nelle dinamiche relazionali che le coinvolgono, che vanno ascoltate con empatia e benevolenza, che vanno diagnosticate a partire dalla loro storia particolare e dal loro funzionamento psicologico soggettivo.

Si tratta dunque di considerare caso per caso un’infinità di variabili per accertare il danno e per poter prospettare una cura. Occorre valutare la struttura di personalità precedente l’evento o gli eventi traumatici, le esperienze sfavorevoli eventualmente già presenti prima del trauma, l’età in cui tali eventi si sono registrati, come l’evento traumatico viene inquadrato e vissuto dalla vittima, le risorse cognitive ed emotive, individuali e familiari di cui ciascun soggetto traumatizzato dispone ed altro ancora.

Che l’abuso sessuale sia un fenomeno particolarmente sommerso e particolarmente difficile da mentalizzare e da rivelare, è indubbio. Altrettanto indubbio è che tutti i sopravvissuti a qualsiasi esperienza traumatica subìta mostrano un insopprimibile bisogno di parlare.

Sarà molto liberante e salutare per una bambina come sua figlia riuscire a raccontare anche alla mamma che cosa ha patito e soprattutto, contestualmente, a comunicare le emozioni che ha vissuto nel corso della sua esperienza di vittima, quando si trovava in condizione di impotenza e di isolamento.

«Gli attivisti – scrive van der Kolk – nei primi tempi della campagna di sensibilizzazione per l’AIDS crearono un potente slogan “Silenzio = Morte”. Anche il silenzio sul trauma porta alla morte: la morte dell’anima. Il silenzio rinforza l’isolamento maligno del trauma» [3].

Qualsiasi sia la natura del trauma, qualsiasi sia l’età in cui è stata sperimentata una vittimizzazione, poter raccontare ad altri ciò che si è patito in solitudine, poter mettere in parola le emozioni penose vissute, intense e confusive, favorisce in modo straordinario l’integrazione della mente e il percorso della cura.

Ovviamente la narrazione della vittima deve avvenire di fronte a qualcuno che capisce e che sostiene, che accoglie e non giudica.

La componente sessuale della violenza può senza dubbio generare nella vittima, in forme nocive, vissuti di colpa, autodeprecazione, vergogna, che possono inibire la narrazione degli eventi patiti. Ma tutti i soggetti traumatizzati, e non solo quelli abusati sessualmente, incontrano in maggiore o minore misura ostacoli di varia natura che impediscono loro di ricordare, di rimettere in parola e di rielaborare il trauma.

Le difficoltà della narrazione e dell’elaborazione dell’abuso di una bambina di cinque anni non sono la conseguenza ineluttabile del carattere sessuale del trauma.

I bambini possono superare l’inibizione derivante dal rapporto tra violenza e sessualità che ostacola la loro narrazione in base a diversi fattori non solo individuali, ma anche e soprattutto contestuali, riguardanti la comunicazione terapeutica, familiare, educativa, sociale. In altri termini dipende molto da ciò che succede attorno. Anche la madre può essere determinante e deve essere aiutata in questa prospettiva. Possono essere decisive le interazioni con l’ambiente familiare e con l’ambiente protettivo circostante, perché possono aiutare i bambini a scoprire e a far venir fuori le loro risorse.

L’attivazione della capacità del nucleo familiare di tollerare ciò che è accaduto, dando un nome ai vissuti emotivi intensi sperimentati da tutti i componenti del nucleo, può aiutare efficacemente il bambino a sbloccarsi, a superare le difese che lo portano a censurare informazioni ed emozioni sul trauma patito, temendo magari di andare incontro a giudizi o a colpevolizzazioni.

Alessandra, il suo desiderio di mamma di voler aiutare sua figlia può essere valido. La sua preoccupazione di evitare danni è apprezzabile, ma il dialogo madre-figlia, opportunamente sostenuto da uno psicoterapeuta esperto, può essere straordinariamente utile, in qualche caso indispensabile.

LETTERA 5.

Tagliare le radici dei ricordi?

Mi è capitato di leggere su una rivista, Riza psicosomatica, un articolo che mi ha disorientato e anche fatto arrabbiare. Sono stata attirata da un titolo in copertina: “Come superare i traumi del passato”. Poi ho letto in una pagina interna: “Taglia a poco a poco le radici dei ricordi. Non parlarne più.” Ho subìto un lungo abuso da mio zio quando ero bambina e sto portando avanti da oltre due anni una psicoterapia con tanta fatica economica e di testa. All’interno di questa terapia sono riuscita a guardare in faccia il ricordo della violenza che ho subìto e che non ho mai dimenticato, ma che avevo in qualche modo messo da parte e minimizzato, perché non riuscivo a collegare tanti problemi, tante insicurezze e tante paure che si manifestavano dentro di me all’abuso di cui sono stata vittima.

Ho impiegato parecchio tempo per trovare la forza e il coraggio per parlare ai miei genitori di quello che mi è successo, ed è stata una grande liberazione accorgermi che soprattutto mia madre ha reagito bene a questa comunicazione: non solo non si è suicidata né è impazzita, come temevo in qualche angolo della mia mente, ma mi è stata in qualche modo vicina.

Ma la scelta più importante e faticosa che sto maturando è stata quella di parlare del mio abuso con il mio fidanzato, conosciuto da appena un anno, ma capace di farmi vivere un sentimento che non avevo mai conosciuto. La mia terapeuta mi ha incoraggiato molto a muovermi in questa direzione.

Ora leggo che bisognerebbe tagliare le radici dei ricordi, non parlandone più. Il testo così proseguiva “Non coinvolgere in questa atmosfera il tuo mondo esterno alla famiglia (ad esempio un nuovo partner, amici appena conosciuti, colleghi), sia fisicamente che attraverso le tue confidenze. Ciò ti consentirà di viverti più liberamente, di mostrarti diverso rispetto al solito ruolo familiare e di non sentirti giudicato da chi non può capire”. Allora sarebbe tutto sbagliato il mio percorso? Mi chiedo come è possibile che degli psicologi possano suggerire di non parlare più dei traumi del passato.

Antonia

Risposta

Sarebbe come tagliare se stessi…

Cara Antonia, lei avuto tanta fortuna a trovare una terapeuta capace di vicinanza e di sostegno e che l’ha incoraggiata ad esplicitare ai suoi familiari e al partner la propria vicenda. Se ci sono le condizioni di rispetto, di affettività e di disponibilità all’ascolto, vale la pena provarci. La famiglia e la coppia nascono anche per contenere la sofferenza mentale dei suoi componenti.

Ci saranno magari alcuni psicologi convinti che le esperienze traumatiche non vadano mai comunicate neppure in contesti di intimità “sufficientemente buoni” per non guastare un malinteso spirito positivo orientato al futuro. Ma questi psicologi non comprendono – forse non l’hanno mai sperimentatopersonalmente, né con i propri pazienti – che comunicare ed affrontare in contesti affettivi il trauma subìto significa pensare in modo realistico al futuro, imparando ad assumere la responsabilità della propria storia di fronte alle persone care, fornendo loro in modo autentico informazioni preziose sulla propria vita e costruendo così una rete di sostegno e di comprensione emotiva, particolarmente utile nei momenti di crisi.

Ora, se lei avesse intenzione di parlare con il suo nuovo partner della propria vicenda infantile per attirare l’attenzione su di sé in modo vittimistico o manipolativo, non sarebbe una scelta corretta. Ma se invece gliene vuol parlare, come sembra, per aprire un terreno di comunicazione autentica sulle vostre storie, per poter imparare a condividere meglio i problemi e per potenziare la comprensione reciproca, è una scelta semplicemente straordinaria, di cui non deve dubitare.

Comunicare le proprie esperienze traumatiche all’interno della coppia diventa in questo caso un modo per ottenere conforto, per farsi conoscere e nel contempo per conoscere il suo partner, per verificare se dispone di quella vicinanza emotiva che sarà così indispensabile nel cammino futuro della coppia di fronte ai problemi del presente e alle eventuali difficoltà riemergenti del passato.

Ovviamente, come si suol dire, a buon rendere… Siccome anche il suo partner viene da questo mondo e non certo da un pianeta dove l’infanzia scorre priva di problemi e disagi, toccherà a lei assumere il medesimo atteggiamento di ascolto benevolo quando emergeranno punti di ferita dalla storia del suo fidanzato.

Cara Antonia, le persone che come lei sono state vittima di un abuso infantile e con grande impegno e coraggio hanno incominciato a scalare la montagna dell’elaborazione del trauma per liberarsi dai danni che hanno subìto devono imparare a procedere sulla propria strada senza troppo curarsi delle aree di indifferenza, di insensibilità e di ignoranza che circondano il fenomeno della violenza sui bambini e che si estendono alle problematiche dei soggetti traumatizzati.

Queste aree purtroppo sono diffuse anche nel mondo della psicologia e della psicoterapia. Se così non fosse le violenze fisiche, psicologiche e sessuali ai danni dell’infanzia non sarebbero destinate, come purtroppo accade, a trovare spesso risposte terapeutiche insufficienti.

Con un progresso culturale e scientifico molto lento e faticoso, ma inarrestabile, sta crescendo la consapevolezza che le esperienze sfavorevoli e traumatiche, subìte nell’infanzia e nell’adolescenza, producono conseguenze deleterie tanto più se non possono essere messe in parola e condivise all’interno di relazioni con persone capaci di comprensione e di empatia.

Le resistenze a questa consapevolezza sono tuttavia molto forti: la tentazione di fronte alle sofferenze traumatiche di ricorrere al vecchio adagio “mettiamoci una pietra sopra” è molto forte. È la strada immediatamente più semplice e meno gravosa: sia per chi ha subìto l’esperienza traumatica ed avversiva – che si protegge dal dolore di riviverla e di accettare di averla subìta –, sia per chi è chiamato ad ascoltarla (magari in quanto psicologo), che si risparmia così la fatica di condividerla e di aiutarne la rielaborazione.

Dunque, Antonia, non si stupisca se trova affermazioni come quelle da lei riportate in campo psicologico. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, scriveva Dante Alighieri (Inf. III, 51). Tocca a lei diventare più convinta della strada intrapresa e nel contempo imparare ad accettare (che non significa condividere!) e comprendere le ragioni per cui la maggior parte delle persone (tra cui un numero notevole di psicologi) preferisce mantenere l’illusione che di fronte al trauma la soluzione migliore sia seguire la strada difensiva più facile, cioè rendere non accaduto quanto invece è accaduto e quanto rimane iscritto nella mente della vittima. In effetti la strada difensiva più immediata è illudersi che sia possibile sforzarsi di dimenticare, non parlandone più e tagliando le radici del ricordo.

Le dico poi che per curiosità sono andato a cercarmi la rivista da lei citata. Riza psicosomatica ha avuto una funzione storica in Italia nel sensibilizzare alla conoscenza dei disturbi psicosomatici. Non condivido tuttavia la scelta di confondere il messaggio della psicoterapia e della cura di sé con il messaggio seduttivo della pubblicità. Il numero in questione è dedicato all’autostima con un titolo forse un po’ troppo accattivante: “L’autostima. Trovarla è semplice. Così realizzi ciò che vuoi”.

Ma regolare la propria autostima in senso positivo non è facile come fare un click. Lei lo sa, perché è riuscita a comunicare a sua madre ignara un incesto subìto nella propria infanzia. Per compiere questa scelta lei ha dovuto acquisire una nuova più positiva immagine di sé, ha dovuto maturare una migliore autostima rispetto a quella che ha accompagnato la lunga fase del silenzio e del segreto. Lei sa che è stato indispensabile un lungo e faticoso percorso di consapevolezza all’interno della sua psicoterapia.

Dunque è illusorio e pericoloso far credere che imparare a definire positivamente la propria immagine di sé sia un atto semplice ed immediato. Che cosa si vuole suggerire? Che basti dire a se stessi: “Da oggi mi devo voler bene”? Che sia semplice trovare l’autostima come talvolta si riesce a trovare le chiavi momentaneamente smarrite? Che basti ascoltare la pubblicità della Oreal quando suggerisce: “Voi valete”?

È già perfin troppo diffusa l’idea che si possa migliorare l’autostima con lo sforzo di volontà… Se qualcuno ci prova, inevitabilmente non ci riuscirà. Finirà allora per sentirsi più incapace… e così la sua autostima si abbasserà ulteriormente!

“L’autostima. Trovarla è semplice. Così realizzi ciò che vuoi”. Ma non è assolutamente realistico il messaggio “Così realizzi ciò che vuoi”. Non credo che poi acquisendo una valida autostima si possa soddisfare ogni desiderio. Peraltro con una sana e positiva percezione di me stesso non ho bisogno di avere tutto. Piuttosto posso riconoscere meglio, oltre alle risorse, anche i limiti della mia persona e i limiti del mio desiderio soggettivo e posso così riuscire a confrontarmi meglio con il desiderio dell’altro e con la realtà.

Ad onor del vero, l’articolo che l’ha colpita ed infastidita fa riferimento a traumi del passato che non hanno nulla a che fare con i traumi che riportano la stragrande maggioranza dei pazienti in psicoterapia: abusi fisici e sessuali patiti nell’infanzia, atteggiamenti di rifiuto, disprezzo, umiliazione, colpevolizzazione sperimentati nella famiglia di origine, messaggi angoscianti, compiti impossibili, legami confusivi e vincolanti un tempo interiorizzati, maltrattamenti psicologici e morali, forme varie di violenza assistita, ecc…

L’articolo, più che ai traumi nell’infanzia e nell’adolescenza che ritornano insistentemente nella vita adulta e che chiedono di essere ricordati e rielaborati, si riferisce alla questione specifica dei traumi che gli adulti cercano di scaricare sui bambini. Alcuni passaggi sono interessanti: «Ci sono famiglie in cui […] una grave malattia di uno, seppur superata, tiene tutti i familiari in uno stato di allerta da molti anni; oppure c’è un gran segreto, qualcosa di grosso avvenuto tanti anni fa (tradimenti, rotture parentali, guai con la giustizia) di cui non si può parlare, ma di cui tutti sentono l’inquietante presenza […] la vita della famiglia è bloccata da questo evento ed ogni membro sembra dover pagare un prezzo per quanto accaduto: ad es. un figlio non riesce a concedersi ciò che i genitori non hanno avuto perché gli sembra di far loro un torto». Il titolo dell’articolo avrebbe dovuto coerentemente essere: “Non fatevi condizionare dai ricatti del passato familiare!”.

In queste situazioni certamente il figlio deve rompere con il passato, nel senso di rompere con i vincoli di dipendenza dai propri genitori, ma anche in questo caso egli ha esigenza di ricordare e non di dimenticare quanto ha sofferto per il clima familiare opprimente, ha bisogno di parlare e di essere ascoltato, magari anche dal suo partner, oltre che dal suo psicoterapeuta, ha necessità di un impegno di comunicazione e di consapevolezza prima ancora che di uno sforzo di volontà.

L’articolo è comunque molto confusivo. I due titoli che compaiono sono molto contraddittori: da un lato “Non farti più frenare dai traumi del passato”, dall’altro “Taglia a poco a poco le radici dei ricordi. Non parlarne più”. Quest’ultimo messaggio molto netto sembra proporre la dimenticanza, la negazione, l’atto volontaristico per risolvere i problemi piuttosto che l’elaborazione.

È vero dunque che esistono traumi familiari antichi che sono usati dagli adulti per scaricare sui figli il costo di una loro incapacità a ricordarli e ad affrontarli. Ed in queste situazioni i figli in effetti devono cercare di prendere le distanze da quel passato, perché i traumi in questione non sono i loro e perché rischiano di restarne invischiati. È vero inoltre che in qualche paziente può manifestarsi una modalità di parlare del passato non per far emergere le emozioni bloccate e farle fluire, bensì per alimentare un atteggiamento depressivo, vittimistico o rivendicativo.

Ma il messaggio dell’articolo, così come il messaggio di molta cultura psicologica, rimane molto disorientante, perché nasconde e mistifica una verità fondamentale, quella che è ben sintetizzata da Cermak e Brown: «Nessun dolore è tanto intenso quanto il dolore che si rifiuta di affrontare, nessuna sofferenza è tanto duratura quanto la sofferenza che ci si rifiuta di riconoscere» [٤] con la parola autentica, con la rielaborazione della memoria, con la consapevolezza.

Forse sono ancora come una bambina …

Mi sono sentita molto compresa da lei, dott. Foti. La ringrazio. Mi ha aiutato a superare lo sbandamento che mi viene quando vedo che ci sono psicologi che dovrebbero fare riferimento ad un’unica disciplina scientifica e invece non è così.

Ne ho parlato nella mia psicoterapia… È stato molto interessante. Forse sono ancora come una bambina che vorrebbe che papà e mamma dicessero la stessa cosa e non cose diverse. Vorrei tanto che gli psicologi dicessero le stesse cose, a cui appoggiarmi.

Sono ancora una persona che fa fatica a pensare con la propria testa, ad avere stima del lavoro terapeutico che sta svolgendo, dei progressi compiuti… e della sua stessa psicoterapeuta. Forse, dott. Foti, le ho scritto perché non mi sono fidata pienamente della mia dottoressa.

Talvolta concludo che la mia autostima è ancora molto bassa, perché tendo a non fidarmi di me. Devo in effetti migliorare il senso delle mie capacità di pensiero e il riconoscimento del lavoro percorso che sto portato avanti.

Antonia

Risposta

Un percorso terapeutico di cui fidarsi

Bellissima riflessione! Se lei sta considerando la possibilità di parlare del suo abuso al suo fidanzato, questo è già il risultato di un processo di acquisizione di nuova idea della propria storia e di se stessa. Vuol dire che si sta liberando da quel senso di indegnità e di colpa che obbliga a considerare impresentabile il proprio passato anche alle persone più care. C’è già stato un passo nella crescita della sua autostima. Se avrà poi una risposta di comprensione, la sua autostima crescerà ulteriormente. L’autostima infatti non è il frutto di un impegno volontaristico, ma di un processo relazionale.

La regolazione della nostra autostima è il risultato di come abbiamo interiorizzato le nostre relazioni più significative, è l’esito di processi psichici profondi. L’esperienza traumatica per esempio genera immagini o aspettative negative relative a sé stessi: la vittima si sente inadeguata, cattiva e colpevole, destinata all’insuccesso nella vita.

Non si possono superare quelle immagini di sé senza in qualche modo rielaborare l’esperienza traumatica, senza riattraversare i vissuti emotivi, le rappresentazioni, le reazioni, associate ai ricordi traumatici, senza un processo di trasformazione, di riscrittura, di risignificazione mentale di quell’esperienza.

Per un soggetto che ha vissuto una o più esperienze sfavorevoli o traumatiche infantili (parliamo certamente di più della metà della popolazione) la crescita dell’autostima può essere il risultato di un percorso di maturazione, può essere talvolta l’obiettivo a cui tendere per anni o per un’intera esistenza.

In conclusione, per ripristinare l’immagine di sé danneggiata ed inquinata, non mi pare ci siano alternative alla ricerca di una strada che consenta di tornare con il pensiero e con la parola al passato, assieme a qualcuno che sappia assumere il punto di vista della vittima e sia in grado di incoraggiare e non di scoraggiare il recupero e l’integrazione della memoria.

Ho l’impressione che lei stia facendo con la sua psicoterapeuta un percorso trasformativo che merita grande apprezzamento.

LETTERA 6

Cancellare il passato, come se non fosse mai avvenuto, non va bene

Buongiorno, io non ho letto la rivista a cui Antonia si riferisce ma una cosa la devo dire.

Anch’io ho subìto nell’infanzia da un cugino più grande di me e credo che il mio problema più grosso è proprio quello di non averlo mai detto a nessuno, mi rendo conto che ciò che è successo mi blocca e che mi pesa addosso ma non riesco ad affrontarlo. Ho cercato proprio di fare ciò che dice l’articolo lasciarmi alle spalle il passato, ma non va bene.

Per quel che scrivi, Antonia, stai facendo un bel percorso, vorrei riuscir a farlo anch’io… prosegui e fallo convinta perché vivere con questo peso facendo finta di nulla fa male…

Scusate se mi son intromessa…

Bianca

Risposta

Una divisione della mente

Non deve scusarsi, Bianca. La sua non è un’intromissione, è un contributo utilissimo. Ci serve a riaffermare che non fa bene tentare di lasciare alle spalle il passato traumatico, come se questo non fosse mai avvenuto. Finiremmo infatti per restare angosciati, bloccati, inseguiti da quel passato che continua a pesarci addosso.

Sarebbe un’operazione di finzione, di manipolazione, non di verità. Dopo un trauma la mente rimane divisa in due: una parte cerca, com’è giusto, di impegnarsi a riprendere a vivere nel presente, accantonando ciò che è successo, ma non riuscendo a eliminare il ricordo del passato impresso nella memoria, mentre un’altra parte continua a restare inchiodata al momento della situazione traumatica. Il cervello non riesce a smaltire pienamente l’esperienza traumatica, che ritorna continuamente nella mente delle persone traumatizzate. I ricordi del trauma vengono così riattivati nel presente quando le vittime s’imbattono in situazioni, luoghi o persone che assomigliano o rievocano quegli antichi ricordi.

Questa divisione della mente, è bene sottolinearlo, non è il frutto di una scelta volontaria, stupida o sbagliata, ma è il risultato di meccanismi psichici automatici, non controllati razionalmente. La mente inconsciamente si protegge, relegando in una parte del cervello le informazioni, le emozioni e le reazioni penose associate al ricordo traumatico, che tuttavia continueranno a condizionare e a risultare ingombranti.

La causa della sofferenza delle persone traumatizzate deriva proprio dai ricordi disturbanti del passato che sono stati immagazzinati in una parte del cervello lontana dalle aree più evolute, preposte alla consapevolezza.

Così può capitare che un individuo con un evento traumatico infantile alle spalle che l’ha fatto sentire colpevole, incapace, pieno di vergogna, può conservare in qualche misura questa immagine di sé, anche se le esperienze della sua vita attuale risultano di successo e capaci di trasmettergli nuove emozioni e nuove percezioni positive. Questo avviene perché le nuove sensazioni, le nuove informazioni vengono immagazzinate in un’area del cervello più evoluta, che tuttavia non riesce a contattare e a modificare l’area più arcaica in cui sono depositate le immagini negative di sé prodotte del trauma [5].

Occorrerà allora attraverso la psicoterapia ricontattare, rivivere e rielaborare le informazioni provenienti dal passato. Quando gli eventi sconvolgenti trascorsi non saranno più accantonati e taciuti, quando il passato traumatico, invece di continuare ad essere zittito, potrà essere ascoltato nei sentimenti che vuole esprimere e nelle indicazioni che può offrire, si creeranno le premesse e le condizioni per poter “lasciare il passato al passato”, come suggerisce il titolo di un libro molto interessante [6].

LETTERA 7

Il trauma e la voglia di tornare ad essere piccoli

Sono la madre di una bambina che è stata abusata dal proprio padre quando aveva tre anni. Adesso mia figlia è stata definitivamente allontanata dal padre e tutta la sua vita è migliorata, il suo comportamento è cambiato in meglio e ha superato molti problemi, anche se non tutti.

Spesso mia figlia, che adesso ha sei anni, nel gioco dice che vuole tornare ad essere piccola. Cosa significa? Devo preoccuparmi? Come può essere che voglia tornare ad essere piccola, quando proprio da bambina molto piccola ha incontrato una grande sofferenza? Se, come ci hanno detto, c’è stato un trauma, perché vuole ritornare ad un’età dove ha vissuto quel trauma?

Risposta

Quali possibilità ha avuto la bambina di raccontare e di rielaborare l’accaduto?

Voler tornare ad essere piccoli è un desiderio diffuso in maggiore o minore misura in moltissimi bambini di diverse età, perché diventare grandi è spesso molto impegnativo ed ansiogeno: il bambino incontra nella sua crescita situazioni problematiche e talvolta pesanti, perde certezze e punti di riferimento affettivi, senza acquistare facilmente ed immediatamente nuove sicurezze e nuovi sostegni adeguati ai compiti di sviluppo che ha di fronte. Il desiderio di un bambino di tornare ad essere piccolo è del tutto fisiologico, se si manifesta moderatamente.

Se invece si manifesta insistentemente e in varie modalità può essere l’espressione di una qualche rilevante ansia ad affrontare le situazioni attuali o può indicare un qualche pesante ostacolo che il bambino trova davanti a sé. Un bambino abusato sessualmente dal proprio genitore ha avuto un impatto con un evento inimmaginabile e destrutturante: un evento che gli ha fatto perdere fiducia negli adulti attorno a lui ed in se stesso in quanto si è sentito impotente, abbandonato, tradito, incapace di evitare la sconfitta – esterna ed interna – rappresentata dall’abuso.

È comprensibile dunque che la piccola vittima di un incesto possa sviluppare in certi momenti una forte ansia per il proprio futuro, soprattutto se non viene aiutata ad elaborare la propria vicenda traumatica. In genere un trauma può comportare, sia in un adulto che in un bambino, la perdita di fiducia nelle prospettive future e un qualche atteggiamento di regressione, soprattutto se non trova sostegni emotivi, cognitivi e pratici in risposta al trauma subito.

La regressione è la voglia di camminare a ritroso. Si contrappone alla progressione che è la voglia di guardare e di procedere in avanti. In conclusione il bisogno emotivo di sua figlia di tornare ad essere piccola potrebbe non smentire, bensì confermare il fatto di avere subìto un trauma da piccola. Questa voglia potrebbe in ipotesi esprimere il desiderio di tornare ad un periodo precedente all’abuso e segnalare la tendenza ad evitare il confronto con un mondo adulto, con il quale ha avuto un impatto confusivo e violento.

Ma la regressione può esprimere il bisogno evolutivo della vittima di tornare al momento del trauma per poter parlare a fondo di ciò che è successo e di ciò che ha vissuto. La regressione può essere vista come i passi indietro che l’atleta del salto in alto compie per prendere meglio la rincorsa per saltare l’asticella.

Quale possibilità ha avuto la bambina di raccontare pienamente e di rielaborare l’accaduto sia da sola che assieme alla mamma?

LETTERA 8

Le resistenze degli psicologi di fronte all’abuso

Ho partecipato ad una formazione nella quale lei ha parlato dell’importanza della nuova classificazione diagnostica delle Esperienze Sfavorevoli Infantili e della necessità di centrare l’attenzione sul concetto di trauma. Ma non crede che l’attenzione al tema dell’abuso sessuale debba restare fondamentale e non vada messa in discussione, per evitare di diventare complici di coloro che tengono a minimizzare la consistenza del fenomeno dell’abuso sessuale sui bambini?

Sono uno psicologo, allievo di una scuola di psicoterapia, tirocinante in un servizio. Non ho una grande esperienza e talvolta faccio fatica a tollerare la situazione a cui assisto nel servizio.

Ho seguito un esame diagnostico di un ragazzino di 12 anni, che è stato coinvolto in una rete pedofila familiare ed extrafamiliare e che avrebbe bisogno di effettuare una psicoterapia, sulla base di tanti parametri (disturbi d’identità di genere, personalità con polarità opposte oscillanti per esempio fra inibizione e scoppi di aggressività, interruzione della frequenza scolastica, sintomi invalidanti, fra cui alcuni ricoveri ospedalieri).

Il bisogno appare urgente e indispensabile, ma il ragazzo dovrà restare almeno una decina di mesi in lista d’attesa, prima che uno psicoterapeuta (privato) si renda eventualmente disponibile ad avviare con lui un percorso di psicoterapia.

Lei lavora con l’intelligenza emotiva e allora le dico che sento molta rabbia e un’infinita tristezza quando percepisco che attorno a me il tema dell’abuso sessuale produce reazioni allergiche. In questo caso per esempio gli psicoterapeuti che lavorano nella mia struttura, ma anche tanti psicoterapeuti privati interpellati, si sono rifiutati di accettare questa ed altre richieste di presa in carico di minori sessualmente abusati, con la motivazione dichiarata di un eccesso di carichi di lavoro. Ma la motivazione più vera è la paura di affrontare l’abuso ed entrare in una vicenda che ha implicazioni giudiziarie.

Il ragazzino è psicologicamente disastrato, avrebbe un’urgente bisogno di cura. Peraltro cominciava ad avere qualche interesse per la prospettiva di avvio della psicoterapia. Spero che possa sopravvivere ad un altro anno di attesa…

Luigi

Risposta

Le resistenze degli psicologi di fronte al trauma

Caro Luigi, mi viene da darti del tu perché saremo colleghi e perché avverto nella tua lettera un atteggiamento di sensibilità emotiva, di disponibilità professionale ad identificarti con la sofferenza delle persone e coerentemente ad indignarti, qualità mentali che mi auguro tu possa conservare nella tua crescita professionale, magari impegnandoti sul terreno dell’aiuto terapeutico ai minori più sfortunati e sofferenti.

La considerazione del fenomeno dell’abuso – hai perfettamente ragione – non deve essere ridimensionata, ma va sviluppata all’interno di un’attenzione, teorica e clinica, più approfondita verso la problematica complessiva del trauma, particolarmente diffusa in tutte le sue molteplici varianti, anche non sessuali, nella popolazione. Non c’è alcuna contraddizione fra l’attenzione al tema dell’abuso e l’attenzione al tema del trauma e delle esperienze sfavorevoli infantili.

A dire il vero le Esperienze Sfavorevoli Infantili non costituiscono una nuova classificazione nosografica: la definizione risale agli anni ’90 del secolo scorso. Si tratta di una categoria che può aiutarci ad allargare il nostro sguardo clinico e ad accrescere la nostra sensibilità compassionevole verso la sofferenza dei più piccoli e dei più fragili, a comprendere l’impatto cumulativo di maltrattamenti, abusi, separazioni conflittuali, violenza assistita, abbandoni, fallimenti dell’attaccamento, lutti precoci, condizioni sociali di emarginazione e povertà e altri eventi avversi che possono piovere sulla testa dei bambini. Chi sa quante esperienze sfavorevoli ha collezionato il povero ragazzino di dodici anni che ti sta a cuore?

Vorrei aggiungere, Luigi, che la diserzione dei clinici dall’aiuto terapeutico non riguarda solo le vittime di abuso coinvolte in vicende giudiziarie, anche se quest’ultimo aspetto può certamente scoraggiare la scelta della presa in carico.

Le resistenze degli psicoterapeuti, su cui richiami l’attenzione, a curare pazienti vittime di abuso sessuale non si spiegano soltanto con la paura di avvicinarsi all’ambito conflittuale dei processi giudiziari o al tema ansiogeno dell’intreccio tra violenza e sessualità. In realtà c’è molta difficoltà tra i clinici ad incontrare i sentimenti di orrore, impotenza e confusione presenti in tutte le vittime di traumi, c’è molta paura ad affrontare le reazioni dissociative dei pazienti e gli atteggiamenti di ostilità dell’ambiente di fronte alla sofferenza dei soggetti traumatizzati.

Per fortuna la formazione sulle tecniche e lo sviluppo delle conoscenze degli psicologi sul tema del trauma sta crescendo. Ma non altrettanto, a mio parere, la disponibilità emotiva, e non solo cognitiva, a farsi carico del dolore e dell’impotenza dei pazienti.

Ora, per poter comprendere bene sul piano diagnostico e sul piano terapeutico un soggetto che ha patito un abuso sessuale, occorre essere pienamente a conoscenza di cosa è il trauma e di cosa sono i suoi effetti dissociativi. Come si farà per esempio a comprendere e a trattare un ragazzino, come quello di cui hai parlato, che ha una personalità con polarità contrapposte, senza padroneggiare il funzionamento traumatico della sua personalità? Scrive il Direttivo dell’Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione (AISTED).

«È necessario e fondamentale avere chiaro che di fronte a esperienze di vita traumatiche come una violenza subìta, la mente umana, per garantire la sopravvivenza, debba o possa dissociarsi. Essere a conoscenza di come la dissociazione possa avvenire e di come, anche all’interno di un percorso terapeutico, il dolore intenso che può riaffiorare può terrorizzare nuovamente; riconoscere e accettare l’orrore subìto possono essere esperienze che continuano a spaventare e da cui voler prendere le distanze anche nel qui ed ora. Il terapeuta che lavora con trauma e dissociazione entra a contatto con tutto questo orrore. 

È necessario diffondere ed assumere a tutti i livelli una cultura allargata “trauma dissociative informed”, che attraverso un linguaggio accessibile possa fornire delle lenti per osservare e riflettere su quanto accade, per dare dignità alla sofferenza e voce a chi non può parlare e difendersi (i minori), a chi spesso ancora non viene creduto perché piccolo e troppo suggestionabile o perché le istituzioni, ad esempio la scuola in questo momento, non riescono a tenere nella mente la complessità di ciò che accade» [7].

Del resto le resistenze, le ambivalenze e le ansie degli psicoterapeuti ad avvicinarsi al lavoro con le vittime di abuso sono analoghe a quelle che si manifestano di fronte all’impegno di cura nei confronti di tutte le vittime di “trauma complesso”, di fronte al trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e dei Disturbi Dissociativi di origine post-traumatica.

«I clinici che lavorano con pazienti con Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) complesso/Disturbi Dissociativi – scrivono Loewenstein e Welzant – possono incontrare da parte dei colleghi perplessità, scetticismo, ostilità, con chiari tentativi di interferenza nel trattamento. Le reazioni possono andare dallo sconcerto di coloro che dubitano dell’esistenza del PTSD complesso o dei Disturbi Dissociativi, alle opinioni intensamente negative di altri riguardo a questi costrutti. Altri hanno l’idea che i clinici che diagnosticano e trattano questi pazienti dovrebbero venire censurati o citati in giudizio per presunte pratiche di cura al disotto degli standard di cura. Di conseguenza, i terapeuti che lavorano con pazienti con PTSD complesso o con Disturbi Dissociativi devono riconoscere che ci sono degli aspetti socio-politici che caratterizzano le controversie con questa popolazione clinica: esse sono molto più profonde, e spesso più virulente, delle abituali controversie professionali ed accademiche» [8].

Sono campi clinici minati e bisognerà lavorare molto per ridurre i pregiudizi, le diffidenze e le paure che tendono ad isolare ed anche a stigmatizzare i soggetti traumatizzati e gli stessi clinici che se ne occupano.

LETTERA 9

Li incontro tutti io gli abusi?

Sono un’educatrice di una comunità per ragazze adolescenti. Abbiamo tre ospiti in comunità con una storia di violenza sessuale alle spalle. Un’altra, Vanessa, che non ha ancora 15 anni e che fisicamente sembra ancora una bambina, adesso ci racconta che quando va a casa dalla zia il cugino che ha dieci anni più di lei le ha fatto vedere dei film pornografici e voleva farsi “abbracciare”. Ho l’impressione che non ci abbia ancora raccontato tutto…

Ho lavorato in ambito psichiatrico e mi è capitato di conoscere storie familiari dove situazioni di incesto e di abuso si presentavano frequentemente. Come se non bastasse, il fatto che più mi ha turbato: un mio amico, che aveva voglia di parlare, mi ha confidato di aver subito un abuso da bambino, ed anche sua madre e sua zia sono state abusate dal nonno. Mi ha sconvolto, non me l’aspettavo.

Durante la discussione in équipe sul caso di Vanessa abbiamo aperto una discussione: ma quanti sono gli abusi in Italia? In una sua conferenza lei ha detto che una su quattro ragazze italiane ha subìto una qualche forma di abuso sessuale. Sono confusa: sulla base della mia esperienza il dato potrebbe essere plausibile, ma d’altra parte mi chiedo: possibile che siano così frequenti? Siamo in una società così malata? C’era invece in équipe chi diceva che una gran parte degli abusi sono false denunce (ma io, devo dire, in comunità ho sempre sentito racconti e percepito manifestazioni di grande sofferenza che non possono essere recitate!) e dunque concludeva che gli abusi sessuali nella nostra società non sono poi così tanti. Cosa devo pensare allora? Li mandano tutti nella nostra comunità? Li incontro tutti io?

Marina

Risposta

Un elefante nella stanza… che non si vuole vedere

Cara Marina, si fidi della propria esperienza e delle proprie percezioni! La capacità riflessiva e critica non può prescindere da ciò che vediamo, ascoltiamo e sentiamo. Lei ha già acquisito dalla propria esperienza personale e professionale dei dati che la informano per lo meno sul fatto che gli abusi sessuali non sono un fenomeno residuale o marginale nella nostra società. Il fenomeno dell’abuso è assai diffuso e difforme, tende strutturalmente a restare sommerso, avvolto dall’ingiunzione al silenzio, dall’imbroglio dell’abusante, dalla segretezza e dalla collusione imposte alla vittima.

«Li incontro tutti io gli abusi?» È un interrogativo che si accompagna ad una reazione di sconcerto di fronte al fatto che l’evidenza dell’abuso sui minori continua ad essere negata. Ci si rifiuta di vedere un elefante in una stanza e chi invece lo riconosce paradossalmente viene giudicato male.

È un interrogativo che si sono poste molte persone che lavorano in certe aree sociali e istituzionali, nelle quali magari la probabilità di impattare con situazioni di violenza sui minori è più alta, ma dove comunque si può avere un osservatorio significativo su cosa capita ai bambini nella nostra “civiltà” evoluta.

Gli studi più rigorosi sono quelli retrospettivi, nei quali un campione della popolazione adulta viene intervistato con la garanzia dell’anonimato per conoscere eventuali ricordi di violenze patite nell’infanzia e nell’adolescenza. Una ricerca, compiuta nel 2006 dall’Istituto degli Innocenti di Firenze su un campione di 2.200 donne, ha permesso di stimare che il 18,1% delle intervistate ha subìto sia abuso sessuale che maltrattamenti e il 5,9% è stata vittima di qualche forma di abuso sessuale [9]. Dunque il 24%, circa un quarto della popolazione femminile, ha patito, prima dei diciotto anni, una qualche forma di abuso sessuale.

Peraltro la ricerca citata fa emergere un ulteriore dato, altrettanto sconvolgente, un dato che ci invita ad andar al di là di un’attenzione esclusivamente concentrata sul problema dell’abuso sessuale: il 49,6%, la metà del campione delle donne intervistate, riferisce di esperienze sfavorevoli molto variegate avvenute prima dei 18 anni (conflitti gravi e prolungati fra i genitori, violenza assistita, esperienze di abbandono e lutto precoce, noncuranza emotiva, gravi difficoltà economiche, presenza all’interno del nucleo familiare di una persona con dipendenza da alcool o da sostanze, con disturbi mentali conclamati o con comportamenti dissociali).

Dunque ne ricaviamo che sia indispensabile un ascolto a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le forme di sofferenza che possono attraversare i soggetti in età evolutiva, perché di una cosa possiamo essere certi: non si può affermare certo che l’infanzia e l’adolescenza siano età esclusivamente felici per la maggior parte dei bambini e degli adolescenti.

Ma torniamo al tema della diffusione dell’abuso sessuale sui minori, su cui mi interroga,

Significativi i dati forniti dai Centers for Desease Control and Prevention (CDC) – la principale organizzazione USA di servizi, che protegge nel paese la salute pubblica. Ritorna il dato per cui un quarto della popolazione femminile è colpita prima dei 18 anni da varie forme di abuso sessuale:

«Molti bambini esitano a denunciare o non denunciano mai abusi sessuali su minori. Pertanto, i numeri seguenti probabilmente sottostimano il vero impatto del problema. Sebbene le stime varino tra gli studi, la ricerca mostra:

• circa 1 ragazza su 4 e 1 ragazzo su 13 negli Stati Uniti subiscono abusi sessuali su minori […].

Ciò può comportare conseguenze sulla salute fisica, mentale e comportamentale a breve e lungo termine.

Esempi di conseguenze sulla salute fisica includono:

• lesioni fisiche;

• condizioni croniche successive nella vita, come malattie cardiache, obesità e cancro.

Esempi di conseguenze sulla salute mentale includono:

• depressione;

• sintomi del disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

Esempi di conseguenze comportamentali includono:

• uso/abuso di sostanze, compreso l’abuso di oppiacei;

• comportamenti sessuali a rischio, vale a dire rapporti sessuali con più partner o comportamenti che potrebbero portare a gravidanze o malattie sessualmente trasmissibili;

• aumento del rischio di perpetrazione di violenza sessuale;

• aumento del rischio di suicidio o tentativi di suicidio» [10].

Le ricerche retrospettive, al di là dei risultati talvolta non coincidenti per la disomogeneità metodologica dei criteri utilizzati, pervengono tutte alla conclusione che una fetta rilevante della popolazione, molto superiore comunque a quanto si tenda ad immaginare, ha subìto una qualche forma di violenza o molestia sessuale prima della maggiore età. Le conclusioni convergenti sono due. La prima: gli abusi sessuali sui minori sono tantissimi e tendono a restare sommersi. La seconda: questi abusi producono nel tempo tanta sofferenza ai bambini fino alla vita adulta.

Ovviamente c’è sempre qualcuno che dice che non è vero, che queste ricerche esagerano e sono pericolose, sostenendo che chi prende in considerazione questi dati andrà a cercare gli abusi per forza, anche quando non ci sono.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella sola Europa 18 milioni (milioni!) di persone sono state abusate sessualmente nell’infanzia e nell’adolescenza [11]. Si tratta evidentemente di numeri grezzi, che comprendono una varietà differenziata di molestie ed abusi, dalle forme senza contatto fisico, quali l’impatto con gli esibizionisti o l’esposizione forzata a materiale pornografico, fino alle forme di abuso con penetrazione.

Quando conosci i risultati di questi studi, il pensiero non ti segue, la mente si rifiuta di credere, perché l’informazione è troppo disturbante, si contrappone alle reti cognitive con cui guardiamo il mondo. I numeri provengono dall’OMS, dall’Istat e da vari istituti pubblici e privati, ma la verità offende, disturba, toglie la tranquillità a chi vorrebbe mantenere l’idea che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che l’infanzia sia una condizione dell’esistenza sempre e comunque felice.

Oltre alle ricerche retrospettive, esiste un’informazione sociale che si scontra con la negazione e con il negazionismo: psicologi, psichiatri, assistenti sociali, educatori che si occupano di tossicodipendenti, prostitute, carcerati, alcolisti, pazienti con disturbi psichiatrici (quali per es. il disturbo borderline di personalità, il disturbo di somatizzazione, i disturbi dissociativi, i disturbi alimentari) si imbattono quotidianamente, quanto maggiore è la loro sensibilità emotiva, in casi dove il trauma infantile in tutte le sue forme, anche sessuale, è un’evidenza ricorrente.

I clinici attrezzati all’ascolto empatico dei loro pazienti ben conoscono la diffusione del trauma infantile, essendo abituati ad accogliere, magari dopo anni di psicoterapia, penosi ricordi di violenze avvenute nell’infanzia dei loro pazienti e a verificare gli effetti di integrazione e benessere prodotti dalla narrazione e dall’elaborazione terapeutica di questi ricordi.

Gli psicoterapeuti che non si sono trincerati dietro barriere difensive all’ascolto e dietro atteggiamenti di distanziamento emotivo dai loro pazienti hanno raccolto numerose narrazioni dove le situazioni più disparate di abuso e di violenza sessuale, magari a lungo negate e soffocate, hanno contaminato numerose costellazioni familiari con ricadute intergenerazionali complesse e intrecci drammatici.

Si liberi dunque, Marina, dall’idea di essere personalmente inseguita dagli abusi. Non è certamente lei ad esserne inseguita. È la comunità sociale ad esserlo, attraversata e tormentata dal problema. La società si difende dal riconoscimento del fenomeno, fa finta che l’epidemia subdola e rovinosa non esista, ma non può cancellarne gli effetti. Tutto ciò che è rimosso purtroppo ritorna! Ritorna sotto forma di sofferenza che si prolunga nella mente, nella sessualità e nel corpo delle persone, sotto forma di sintomi che si manifestano anche a distanza di decenni, sotto forma di patologia psichica, ospedalizzazioni, perversione, prostituzione, criminalità, e varia devianza, sotto forma di comportamenti disturbati e disturbanti, dannosi per la vittima e per chi gli sta vicino.

LETTERA 10

I dati sugli abusi sono veramente seri e incontestabili?

Dott. Foti, ho letto la sua risposta all’educatrice Marina.

Sono un pediatra che ha visto solo due-tre casi di abuso nella sua carriera. Mi chiedo se questa mia percezione non sia il risultato di una mia carente capacità di percezione diagnostica.

Mi farebbe piacere sapere se ci sono dei dati più precisi sull’abuso sessuale sui minori e, soprattutto, capire perché, se i dati sono realistici e sono oggettivi, il problema continua ad essere sottovalutato.

Mi dico: ma se queste ricerche e questi studi fossero seri e veramente incontestabili, i risultati dovrebbero colpire l’opinione pubblica e non dovrebbero passare inosservati come se non esistessero.

Risposta

Non solo abusi sessuali. Una sofferenza sommersa e non ascoltata

Mi viene innanzitutto da risponderle che, a differenza del morbillo, l’abuso sessuale, e più in generale il trauma infantile, molto spesso non manifesta segnali specifici inequivocabili e tende piuttosto a celarsi all’interno di una visita medica.

D’altra parte è anche giusto – ed è molto apprezzabile da parte sua – interrogarsi sempre sulla qualità dell’esame clinico, sulla sua durata, sul tempo dedicato all’ascolto diretto del bambino, sulla disponibilità del medico a soffermarsi sui segnali di malessere fisico e psicologico del minore, sull’impegno a mettere quest’ultimo nelle condizioni di comunicare le ragioni del proprio disagio.

Che l’abuso sessuale sia un problema fondamentale di salute pubblica è una conclusione a cui pervengono studiosi, ricercatori, uomini politici che hanno analizzato seriamente il fenomeno.

«L’abuso sessuale sui bambini continua ad essere uno dei più importanti problemi di salute pubblica in tutte le società nelle quali è stato misurato». È quanto concludono nel 2009 le autrici di una rassegna di ben 39 studi sulla violenza sessuale sommersa, portati a termine in ben 21 nazioni diverse [12].

Un gruppo multidisciplinare dell’Università di Ginevra ha svolto nel 1999 uno studio epidemiologico sulla violenza sessuale a danno dei bambini [13]. Furono compilati, da adolescenti con un’età fra i 13 e i 16 anni, 1116 questionari anonimi. Conclusione: «Gli abusi sessuali costituiscono a Ginevra un reale problema di salute pubblica» [14].

L’ex premier australiano Malcolm Turnbull ha affermato che la commissione governativa d’indagine sulla pedofilia «ha rivelato una tragedia nazionale» [15]: oltre 15 mila persone ascoltate a porte chiuse, oltre 8.000 vittime di abusi sessuali, in gran parte subìti in istituzioni religiose, con il 7% dei sacerdoti coinvolti.

“L’abuso infantile: una questione prioritaria di sanità pubblica” è il titolo di un paragrafo del libro “Il corpo accusa il colpo” del grande studioso del trauma Bessel van der Kolk. L’autore intende per abuso infantile non solo l’abuso sessuale, ma anche quelle che da oltre vent’anni a questa parte sono state riconosciute e definite come Adverse Childhood Experiences (ACEs), Esperienze Sfavorevoli Infantili [3], classificazione che può comprendere maltrattamento fisico e psicologico ricorrenti, abuso sessuale, trascuratezza fisica, noncuranza emotiva, violenza assistita, separazioni aspramente conflittuali, instabilità abitativa, povertà, crescita in nuclei familiari con genitori o parenti alcolisti, tossicodipendenti, malati mentali, prostitute o detenuti.

Insisto con lei che è pediatra su questa realtà sfaccettata della sofferenza infantile, che è capace di generare stress prolungato e di determinare conseguenze molto negative, non solo sullo sviluppo psicosociale (autostima, capacità di autocontrollo e di relazione interpersonale, valori, condotte sociali…), ma anche sul neurosviluppo (crescita fisica e biologica del cervello, del sistema nervoso ed endocrino).

In un lavoro di diagnosi e prevenzione sanitaria l’impegno all’ascolto del bambino deve tener conto della presenza di questa vasta gamma di esperienze avversive. Dagli anni ’90 del secolo scorso sono stati condotti studi e ricerche che hanno messo in evidenza le pesanti ricadute sulla salute fisica e psicologica di queste situazioni sfavorevoli e stressanti sui soggetti in età evolutiva [16], tanto più nocive quanto più bambini ed adolescenti vengono lasciati da soli ad affrontarle, senza ascolto e senza vicinanza emotiva.

Tornando al fenomeno specifico dell’abuso, in base ad una ricerca Istat del 2006 [17] le donne che hanno subìto prima dei sedici anni una qualche forma di violenza sessuale – in Italia, non in uno sperduto angolo di Africa – sono un milione e quattrocentomila. Di questo milione e quattrocentomila vittime (val la pena ripetere il numero!) più della metà, il 53%, ha dichiarato di non aver mai parlato con nessuno dell’accaduto [17]. Centinaia di migliaia di bambine e di giovanissime adolescenti sono rimaste non solo insozzate nella loro innocenza, ma anche penosamente sole nel corso della vittimizzazione subìta e successivamente nell’esistenza che ne è seguita. Non hanno potuto confidarsi con nessuno. Disperatamente impossibilitate a trovare conforto e condivisione. Per questo l’abuso rimane muto: le vittime si ritrovano inevitabilmente un peso indigesto che è difficile da mettere in parola.

Dati dell’OMS riportano che 1 donna su 5 (il 20%) e 1 uomo su 10 circa (5-10%) hanno subìto violenza sessuale da bambini. Il Consiglio d’Europa dal 2010 al 2015 ha lanciato una campagna di prevenzione e contrasto dell’abuso con uno slogan che parla da sé “One in five”: 1 vittima di abuso sessuale su 5 bambini [18]. La campagna è stata sostenuta in Italia dal Ministero per le pari opportunità.

Le ricerche retrospettive di un ventennio fa, realizzate da enti di ricerca, studiosi accreditati ed università, accertavano che dal 10 al 30% della popolazione femminile è stata oggetto di abusi prima dei 18 anni, con una media attestata attorno al 15-20%. Per la popolazione maschile i dati oscillavano tra il 7 e il 15% [19,20].

Dati più recenti consentono di affermare che l’emergenza sociale e l’estensione del fenomeno rimangono ancor oggi gravi e sconcertanti, stimando che tra l’8% e il 31% delle donne e tra il 3 e il 17% dei maschi nel mondo abbia patito una qualche forma di abuso sessuale durante l’infanzia [21].

Una recente ricerca retrospettiva di autovalutazione condotta su giovani adulti italiani [22] ha fatto emergere che circa il 18% ha subìto in qualche modalità un abuso sessuale nell’infanzia e nell’adolescenza, con un’incidenza maggiore delle femmine rispetto ai maschi.

Nella ricerca retrospettiva del 2006 dell’Istituto degli Innocenti di Firenze [9] solo una ridottissima percentuale (2,9%) delle donne intervistate che ha ricordato un abuso sessuale ha denunciato all’autorità giudiziaria la violenza patita. Anche le indagini retrospettive più recenti confermano le ricerche degli anni precedenti, dimostrando che un’ampia percentuale di casi continua tuttora a rimanere sommersa [23] e a sfuggire allo sguardo delle istituzioni sociali e giudiziarie.

Certamente i dati esposti parlano di un fenomeno disomogeneo. Non tutti gli abusi rilevati hanno la medesima gravità: per es. gli abusi sessuali con penetrazione, nella ricerca appena citata, costituiscono solo l’8% dei soggetti vittimizzati. Ogni caso ovviamente è diverso dall’altro e va valutato con attenzione al di fuori di qualsiasi approccio ideologico.

Veniamo alla seconda parte della domanda. Il monitoraggio sociale del fenomeno dell’abuso sessuale sui bambini e, più in generale, della violenza sui minori è senza dubbio ancora insoddisfacente. Gli strumenti di indagine possono avere limiti metodologici e le ricerche non risultano sempre tra loro omogenee per la diversità dei criteri utilizzati: variano a seconda di come si definisce l’abuso, se comprende o meno forme di molestia senza contatto (per es. l’esibizionismo), se comprende o meno l’essere costretti alla visione di materiale pornografico, se si considera l’età delle vittime fino ai 16 o ai 18 anni, ecc.

Ma indubbiamente queste ricerche affermano con forza due cose: 1) gli abusi sui bambini hanno un’estensione massiva ed endemica; 2) esiste una tendenza della comunità ad allontanare il fenomeno dalla consapevolezza sociale ed istituzionale.

D’altra parte, se gli abusi sessuali che si registrano nell’infanzia e nell’adolescenza riguardano un quarto oppure un quinto o magari “solo” un decimo della popolazione, rimane il fatto che queste violenze pongono una questione drammatica di salute pubblica, oggi non affrontata.

È importante che si affinino sempre di più le valutazioni quantitative del fenomeno, per rinforzare la persuasività dei dati e per contrastare le difficoltà emotive, sociali, istituzionali a prenderli in considerazione, ma le ricerche, serie ed incontestabili, di cui disponiamo forniscono già oggi informazioni “oggettive”, per usare un suo termine. Il problema è che si scontrano con resistenze “soggettive” possenti: analogamente a quel che succede di fronte al compito sociale di utilizzare le informazioni drammatiche sul cambiamento climatico e sul degrado ambientale, compaiono analoghe tendenze a voltarsi dall’altra parte di fronte ai dati quantitativi emergenti sull’abuso e sul maltrattamento ai danni dei minori. Tenere conto di questi dati infatti significherebbe:

1. rinunciare dolorosamente alla rappresentazione idealizzata (a cui siamo attaccati) della società, della famiglia e della stessa mente umana, tollerando il dolore connesso ad una visione più realistica dei rapporti tra adulti e bambini;

2. essere sollecitati ad un cambiamento sociale impegnativo e scomodo, in termini di cambiamenti istituzionali e normativi per la tutela dei bambini ed in termini di investimenti economici nell’educazione sessuale, nella prevenzione, nel contrasto al fenomeno e nella cura…;

3. intaccare il forte potere degli adulti coinvolti nelle violenze e dei loro supporter legali, professionali, mediatici.

In conclusione i dati quantitativi sugli abusi si riferiscono ad un fenomeno che rimane ancora in gran parte socialmente invisibile e psicologicamente impensabile.

I numeri degli abusi, per quanto insopprimibili, risultano insopportabili, ovvero oggetto di un diniego sociale e culturale. La consapevolezza sulla gravità e sulla diffusione del fenomeno viene tenacemente contrastata in questa fase storica dal negazionismo inconscio della comunità sociale e dal negazionismo ideologico di alcuni esperti.

LETTERA 11

Se si afferma che ci sono tanti abusi, si finisce necessariamente per cercarli dove non ci sono?

Sono la mamma di una bambina di 8 anni che, subito dopo la separazione, ha rivelato un abuso sessuale da parte del padre. Un perito del tribunale per i minorenni (la dott.ssa Maria) aveva ascoltato bene mia figlia, che con lei si era trovata bene, a proprio agio. Questa psicologa aveva concluso che la bambina diceva il vero e non era manipolata, perché presentava troppi segni coerenti con la violenza denunciata. Non capisco come si possa non crederle. Ho visto con i miei occhi e con il mio cuore straziato quanto mia figlia è stata male. Le allego la relazione della dottoressa.

Quando poi siamo andati nel penale un altro perito, il dott. Y, che sembra molto autorevole ed importante agli occhi del giudice, ha affermato invece che le dichiarazioni di mia figlia non erano sufficientemente affidabili.

A suo parere anche il perito precedente, la dott.ssa Maria, non era da prendere in considerazione, perché secondo lui era “fissata”, aveva gli occhi puntati sugli abusi infantili e infatti lavorava con il CISMAI, per il quale – dice il dott. Y – il numero degli abusi sessuali sommersi sui bambini è infinito.

Dunque mia figlia non sarebbe credibile, la dott.ssa Maria non sarebbe credibile e neppure il CISMAI. Solo lui stesso sarebbe credibile. Ma con che cuore il dott. Y non crede a mia figlia? Come è possibile che ci siano divergenze di opinione così grandi sulla pelle dei bambini? E in ogni caso mia figlia non dovrebbe pagare il costo di un dibattito ideologico.

Secondo il dott. Y, chi afferma che esistono tanti abusi può essere portato a fare diagnosi di abuso in maniera avventata ed anche a suggestionare i bambini per fare venir fuori a tutti i costi anche violenze sessuali inesistenti. Ma se si afferma che ci sono tanti abusi, si finisce necessariamente per cercarli dove non ci sono?

Lei che cosa ne pensa?

Vera

Risposta

Aprirsi all’ascolto di ciò che porta il bambino

Cara Vera, capisco il suo sconcerto. Lei probabilmente ha incontrato come consulente del giudice uno psicologo appartenente a quella corrente di psicologi molto agguerrita, che si è affermata nelle università, nei corsi di formazione e nelle aule giudiziarie con la finalità di contrastare sul piano professionale e culturale il pericolo delle false accuse e dunque il rischio che le dichiarazioni dei bambini, concernenti presunte violenze, possano risultare condizionate o indotte.

Alcune preoccupazioni di questi specialisti sono condivisibili, perché in queste casistiche non si può mai escludere a priori la presenza di una bugia, di un’azione suggestiva o di una manipolazione sul bambino.

Alcuni di questi esperti hanno avuto il merito di segnalare, pur in modo unilaterale, il rischio di interventi suggestivi o induttivi nell’approccio ai minori presuntamene abusati, una preoccupazione che non può essere estranea a chi ha a cuore le esigenze dei più piccoli: infatti se i bambini non sono stati abusati, eventuali domande induttive rischierebbero di contrastare il loro irrinunciabile bisogno di poter esprimere la specifica verità della propria vicenda, qualsiasi essa sia; se invece si tratta di bambini effettivamente vittime di violenza, hanno comunque interesse a che non vengano loro rivolte domande induttive, affinché possano essere loro a raccontare con la massima spontaneità e senza intromissioni la violenza subita.

Tuttavia molti di questi esperti, proponendo l’ideologia della negazione dell’abuso, sono incapaci di ascolto emotivo e rispettoso dei minori e risultano profondamente diffidenti verso le rivelazioni relative a possibili violenze. Con il loro atteggiamento aprioristico questi psicologi non riescono ad aprirsi all’accoglienza delle comunicazioni del bambino, che pertanto tende a reagire nei loro confronti con la chiusura e con l’inibizione.

Questi specialisti esprimono pesanti pregiudizi nei confronti delle madri, guardate con sospetto e valutate a priori come madri alienanti e malevole verso i padri. Scelgono molto spesso di lavorare per la difesa, sul piano psicologico-forense, di padri accusati di maltrattamenti sui figli o di violenza domestica nel conflitto coniugale e più in generale per la difesa di indagati e imputati di abuso sui minori. Il loro committente tende ad essere l’adulto.

Questa corrente di psicologi attacca i colleghi che la pensano diversamente e che cercano caso per caso di comprendere le problematiche specifiche di ciascun bambino e che possono pervenire, su basi cliniche oggettive, al riconoscimento di un trauma infantile causato da una violenza.

L’accusa che viene formulata è spesso analoga a quella rivolta alla dott.ssa Maria. Gli psicologi che con competenza e sensibilità ascoltano i bambini sono tacciati di essere “abusologi”, cioè orientati ad un’attenzione malata e concentrata a senso unico sull’abuso. “Abusologo” diventa un vero e proprio insulto con cui squalificare i clinici impegnati con serietà nella prevenzione e nel contrasto dell’abuso sessuale sui minori.

È paradossale che la conoscenza specialistica di questo fenomeno debba meritare uno stigma. È assurdo che in una società attraversata da dinamiche di sessualizzazione perversa (nella rete, nei media, nelle istituzioni e perfino nella Chiesa) debba essere osteggiato e stigmatizzato chi cerca di approfondire l’analisi e la ricerca sul fenomeno dell’abuso e del maltrattamento sui minori e chi è disponibile ad ascoltare con rigore e nel contempo con vicinanza emotiva le possibili vittime.

Per di più è inevitabile che il medico o lo psicoterapeuta che non conosce a fondo una patologia rischi di non riconoscerne i segni in un paziente, anche nel caso la malattia sia presente, tanto più se si tratta di un fenomeno patologico che tende per mille ragioni a restare nascosto. A ben vedere essere esperto nel campo dell’abuso sui minori significa avere maggiori possibilità di fare emergere la violenza in un bambino eventualmente abusato, senza per questo rischiare di vederla laddove non c’è, così come un medico oncologo non rischia di diagnosticare un numero maggiore di tumori inesistenti, ma di avere maggiori probabilità di diagnosticare e curare il tumore laddove c’è.

La consapevolezza della gravità e dell’estensione del trauma infantile non porta necessariamente ad un atteggiamento ideologico, di “partito preso”. Se lo psicologo ha come committente il minore, come soggetto che chiede di essere compreso ed aiutato, nel caso in cui quest’ultimo abbia patito un abuso, l’ascolto sostenitivo consentirà al bambino di confidare il proprio abuso; nel caso in cui il minore abbia patito un’altra forma di disagio, l’ascolto empatico aiuterà il bambino ad esprimere quella forma particolare di disagio; se invece il bambino è stato manipolato, l’ascolto del bambino farà emergere quella manipolazione, da cui il bambino dovrà essere aiutato a difendersi. A partire dalla propria situazione particolare il bambino potrà esprimere le proprie specifiche esigenze.

Se nella mente dell’esperto, indipendentemente da chi paga il suo lavoro, il cliente a cui prestare attenzione è il minore, se sono i bisogni del bambino quelli che devono essere prioritariamente tenuti a mente, se è l’interesse del minore a risultare prevalente nella mente del clinico, la risposta dell’esperto non potrà essere sempre la stessa, perché ogni caso dovrà essere riferito alla sua particolare vicenda e studiato con l’attenzione dovuta all’irripetibile problematica individuale di ciascun bambino o bambina.

Se invece per uno specialista il committente è sempre l’adulto, accusato di violenza, è ovvio che il mandato, avvertito dal consulente di parte, è sempre quello: che venga affermata, a ragione o torto, l’innocenza del proprio cliente, indagato o imputato di reati sessuali sui minori e che, a questo fine, venga comunque dimostrata l’inattendibilità della testimonianza del minore.

Lo psicologo, aperto all’ascolto empatico, pronto ad accogliere ed approfondire ciò che porta il bambino stesso, non ha in mano come unico strumento un martello, con cui trattare ogni casistica come un chiodo da colpire [24]. Chi ha a cuore un bambino sa che il suo disagio ha mille irrepetibili varianti ed è indispensabile una vasta gamma di strumenti diagnostici per comprendere e dare una risposta alla variegata sofferenza dei bambini.

Quando gli specialisti della negazione dell’abuso assumono il ruolo di consulenti del giudice, le loro valutazioni finiscono quasi sempre per concludere che i bambini nei loro racconti sarebbero stati indotti dalle madri, coinvolte nel conflitto genitoriale o che nelle loro rivelazioni sarebbero stati condizionati da precedenti interviste o da precedenti interventi di psicologi.

Così i minori non vengono ascoltati come soggetti capaci di dare un apporto decisivo alla comprensione del problema. I maltrattamenti e gli abusi che emergono dalle parole dei bambini dovrebbero essere almeno meritevoli di essere approfonditi. Invece sono visti con sospetto e senza autentica disponibilità all’ascolto e voglia di comprendere.

Secondo questa corrente di pensiero, la propensione della mente dello specialista è sempre verificazionista. Detto in altri termini il professionista esperto di abuso sarebbe portato a riscontrare nel paziente ciò che già conosce, ciò che lui ha studiato e dunque sempre e comunque l’abuso.

Ma in realtà di fronte ad un trauma infantile compare anche in un esperto la propensione opposta, quella negazionista [25,26], cioè la propensione a non riconoscere l’esistenza di qualcosa di violento e penoso, qualcosa che si fa fatica a riconoscere ed ascoltare in quanto profondamente disturbante per la mente umana, qualcosa che non si vorrebbe mai che fosse accaduto ad un bambino.

Per uno psicologo sano di mente, l’ipotesi che in un minore si sia verificato un abuso non è mai la scoperta gioiosa di un contenuto che ci si attendeva, bensì il risultato della percezione diagnostica di una verità amara da metabolizzare, una verità sempre sofferta e conflittuale per chi si accosta al caso.

Suppongo che nella mente della dott.ssa Maria la considerazione che il racconto di sua figlia fosse psicologicamente credibile sia emersa con fatica e con dolore e non già con la soddisfazione di chi verifica un proprio assunto.

Ho letto ed apprezzato la relazione che mi ha inviato. Al di là delle contese tra psicologi, mantenga comunque sempre, come madre, la barra del timone orientata alla verità emotiva e narrativa che sua figlia esprime. Ascolti i propri sentimenti e quelli di sua figlia, non perda mai il contatto con i segnali che la bambina manifesta e che provengono dal suo cuoricino e dal suo corpo.

LETTERA 12

Ora qualcuno si convincerà che la pedofilia è diffusa?

In un passaggio di una docu-serie che vede protagonisti Chiara Ferragni e Fedez, quest’ultimo ha rivelato che da ragazzino ha subìto una molestia.

«Il cantante racconta che da piccolo si è imbattuto in un dentista che ha poi scoperto essere un pedofilo. Nessuna violenza per lui, ma la notizia lo sconvolse. “Io avevo un dentista pedofilo. Andavo alle elementari. Sai quando vai dal dentista e ti deve fare le lastre, solitamente mettono una coperta sopra le mutande dei bambini. A me la metteva dentro. A un certo punto è sparito. I miei cercavano di prendere appuntamento col dentista. E lui non c’era”. Lo scoprirono i genitori di Federico che quel medico fosse un pedofilo, seguendo il telegiornale» (da Il mattino, 10 dicembre 2021).

Ora che anche Fedez ha raccontato di aver subìto molestie da un dentista quando era bambino, dite che forse qualcuno si convincerà che la pedofilia è un fenomeno piuttosto diffuso?

Risposta

Un ricordo di Fedez non fa primavera

No, purtroppo, cara Silvia, non è così.

Certamente rivelazioni di questo genere dovrebbero far riflettere. La pedofilia è in agguato ovunque e Fedez ha avuto indubbiamente coraggio nel parlare di sé. Ma confidenze di questo genere non modificano la dinamica culturale della nostra società. Nella fase storica in cui siamo, l’abuso sessuale sui bambini non è riconosciuto in quanto fenomeno diffuso e difforme. La percezione della gravità e dell’estensione del fenomeno non è all’ordine del giorno.

Negli Stati Uniti le storie degli uomini famosi che rivelano traumi sessuali infantili suscitano l’interesse dei media e tendono a stimolare una forte curiosità della gente, ma si tratta di un interesse proiettato sulla narrazione delle vicende personali delle star. Un interesse che non attenua la rimozione massiccia e la negazione diffusa della realtà sommersa di questo fenomeno, che ci riguarda tutti da vicino. In Italia non si manifesta neppure una grande attenzione per i traumi infantili, peraltro molto meno esplicitati, subìti da gente dello spettacolo.

Qualcosa sta cambiando per ciò che concerne i temi del femminicidio o della violenza, sessuale e domestica, sulle donne, temi che per decenni sono stati oscurati e accantonati e che oggi sono al centro di un nuovo emergente interesse. Tuttavia, anche su questo terreno il processo di trasformazione è lento ed insufficiente. Le radici profonde della persistenza della cultura patriarcale e dell’oggettivazione del corpo femminile restano tutte da affrontare e contrastare.

Per ciò che riguarda l’abuso sessuale sui bambini, dobbiamo constatare che il tema resta al di fuori dall’agenda culturale e sociale delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Rimane un’attenzione focalizzata sulla pedofilia nella Chiesa, come se questa istituzione religiosa fosse l’unica realtà (attraversata da dinamiche di potere e capace di costruire cortine di silenzio e di omertà sugli abusi) e non esistessero altre istituzioni, come per esempio la stessa famiglia, in grado di fare altrettanto.

Il dramma dell’abuso sessuale infantile rimane saldamente escluso dall’attenzione sociale, culturale e mediatica. Emerge magari come episodio isolato riguardante sordide e marginali periferie, come nel caso delle bambine di Caivano, diventato oggetto recentemente di attenzione mediatica e politica. Ma il fenomeno è assai più esteso e può riguardare i funzionamenti perversi di molte famiglie apparentemente normali.

La strumentalizzazione giudiziaria, politica e giornalistica del “caso Bibbiano” ha contribuito ad associare in maniera confusiva questo dramma al rischio delle false accuse e al dubbio sulla credibilità dei bambini, un dubbio che sul piano clinico va sempre posto, ma che certamente è stato enfatizzato sul piano mediatico.

La rivelazione di Fedez passerà inosservata e non sarà affatto risolutiva.

Si dovrà ancora lavorare molto a lungo e trovare nuovi percorsi per toccare la sensibilità, la coscienza ed anche la memoria di tante persone, contrastando non solo i muri, ma le muraglie cinesi di indifferenza, di negazione e di negazionismo.

*Si tratta del primo capitolo del libro “Lettere dal trauma” di Claudio Foti in corso di pubblicazione presso le Edizioni Alpes nella collana “(Bi)sogno di di psicoterapia” diretta da Luigi Cancrini. Il capitolo è riprodotto con il permesso dell’Editore.

Contiene scambi di mail e comunicazioni con pazienti e persone coinvolte da diverse esperienze traumatiche, domande di aiuto e risposte, richieste di chiarimento e riflessioni raccolte in tanti anni di lavoro. Una parte di questo carteggio è ricavato da un forum che si è svolto sul sito del Centro Studi Hansel e Gretel alcuni anni fa prima della tempesta; un’altra parte invece deriva da altri contesti comunicativi più recenti. Le tematiche sono: il trauma infantile, le vittime, gli osservatori e gli operatori, i genitori e le famiglie, le emozioni, le psicoterapie e gli abusanti.

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