Carlos

Gianluca Di Gregorio1

1IPRA - Istituto di Psicologia Relazionale Abruzzese, Pescara; Anno Accademico 2021-2022; Tesi di Specializzazione di fine Training; Supervisione Indiretta. Supervisore: Dott.ssa Gabriella Monti.

INTRODUZIONE

Terminate le lunghe pratiche per l’adozione nel 2008, Rossana e Maurizio si imbarcarono su un volo intercontinentale diretto in Sud America. Avevano quarantuno e quarantatré anni. Novemila chilometri dopo, in una casa famiglia, incontrano per la prima volta tre fratelli, Sebastian di otto, Carlos di sette e Luisa Fernanda di quattro anni. C’era un interprete che alla bene e meglio mediava le parole e conteneva le emozioni di quella che a breve sarebbe diventata una famiglia adottiva. Due velocissimi giorni dopo, fecero di nuovo quei novemila chilometri al contrario, questa volta in cinque, fino a un paese dell’entroterra abruzzese di quasi seimila abitanti.

Rossana lavora come parrucchiera, da sempre, e Maurizio ricopre un ruolo importante in polizia.

Si rivolgono storditi a una collega, una terapeuta familiare, che li convocherà entrambi per una consulenza, dopo che la madre di un’adolescente scopre che sua figlia Roberta, di tredici anni, ha avuto rapporti sessuali con Carlos, il loro secondo figlio adottivo. Lo scopre dal cellulare di Roberta, dalle chat, dalle parole e dalle foto. Chiama Carlos per insultarlo, lo minaccia e va al negozio di Rossana non per tagliarsi i capelli questa volta, ma per fare una scenata. C’era anche Maurizio che non disse una parola, ascoltò quella scenata in silenzio.

Dopo la consulenza ci fu una seduta familiare, dove c’erano tutti, Rossana preoccupata, Maurizio mutacico, Sebastian fratello maggiore, Carlos con la testa china, Luisa Fernanda incerta.

La collega mi parlò del caso, mi descrisse quelle sedute, quella famiglia, e la restituzione che fece la lessi dai suoi appunti: «Una famiglia adottiva che funziona, dove emerge una problematica che attraversa l’aspetto giudiziario e personale e che può essere utile affrontare attraverso un percorso individuale di conoscenza di sé». Diede il mio numero alla famiglia che accolse quelle parole, e Carlos mi chiamò il giorno dopo per fissare un appuntamento.

PRIMA SEDUTA

Carlos ha quasi vent’anni, è iscritto all’ultimo anno di un istituto tecnico agrario che non frequenta da quasi tre settimane. Da quando la madre di Roberta fece quella scenata.

Arrivo in studio in anticipo, trenta minuti prima dell’appuntamento. Sistemo le sedie e il tavolo che le divide. Seduto, mi sforzo di ricordare la voce di Carlos al telefono, quando mi chiamò per l’appuntamento. Era una voce ambivalente, celava insicurezza nelle poche parole di un tono determinato.

Pensai a un adolescente sofferente, che agli occhi degli altri appariva cattivo e arrogante. Uno da cui stare alla larga. Un adolescente straniero in un paese che bisbiglia luoghi comuni e facili etichette. Mi piace immaginare i pazienti prima di incontrarli. Delinearli con le mie proiezioni su di loro. Disegnarli con le matite colorate delle mie aspettative.

Aspettative che verranno più o meno confermate o disattese nell’incontro con la persona che a breve mi troverò davanti. E che comunque produrranno differenze che a loro volta produrranno informazione [1].

Intuitivamente registro le differenze, cercando di cogliere gli aspetti contraddittori rispetto alle attese, per catalogarli come qualcosa che può essere connesso alla mia scarsa preparazione sul caso o piuttosto a una contraddizione iscritta proprio nella storia del soggetto, qualcosa che rappresenta informazione sul suo funzionamento [2]. Il citofono suonò il presente, uscii da me stesso e mi concentrai.

Apro il portone con un tasto e la porta con la maniglia. Sbircio il pianerottolo e dalle scale, la camminata spedita di Carlos lo annuncia, anticipando i passi di sua madre che lo segue, lentamente.

Saluto presentandomi e faccio accomodare la madre in sala d’attesa mentre penso che fisicamente era proprio come me la immaginavo, vestiti modesti e occhi impegnati, sopra il celeste della mascherina.

Faccio strada a Carlos che mi segue senza dire una parola dopo il ciao all’ingresso. Nel tragitto di pochi metri, nel corridoio che unisce la sala d’attesa alla stanza di terapia, camminiamo insieme, soli, io davanti, Carlos dietro, il silenzio tutt’intorno.

In quei pochi passi penso che non spiccicherà una parola oggi, che si senta costretto, obbligato a rivolgersi a uno psicologo per una svista, una ragazzata amplificata dalla cassa di risonanza familiare. E questo mi attiva. Mi siedo, convinto che starà scomodo dall’altra parte. “Ho sempre pensato di fare un percorso, perché mi tengo tutto dentro”, dice.

Quella frase destruttura le mie aspettative definendo le sue, rende chiaro come quel senso di costrizione presunto non era altro che il retaggio della mia di adolescenza, dove vivevo la maggior parte delle cose come dettate da qualcun altro. Era anche plasmato da tutte quelle terapie coatte con i minori della comunità che in quel momento stavo portando avanti nel training (nell’ambito di un progetto di collaborazione tra comunità educative del territorio abruzzese e l’IPRA di Pescara. Nello specifico il progetto prevede attività di sostegno psicoterapeutico presso la sede dell’IPRA – durante il training – ed è rivolto ai minori inseriti nelle comunità. Le psicoterapie con i minori vengono prese in carico dall’allievo in formazione con la supervisione diretta della didatta), con le quali avevo costruito senza accorgermene quel metacontesto di diffidenza degli e negli adolescenti. Che non erano diffidenti ma solo sofferenti in maniera complessa.

Ma Carlos mi stupisce. Lontano dalla madre era nettamente diverso. Non guardava in basso ma davanti a sé. La prima cosa che fece, ancor prima di quella frase che mi mise in discussione, fu poggiare sul tavolo che ci separava, una sigaretta di tabacco arrotolata. La mise lì. Tra di noi. Con un gesto quasi di sfida o di autenticità. Come se fosse una pistola in uno di quei film in cui si stava per prendere una decisione importante. Io, te e una pistola.

“Dopo quello che è successo mi sento diverso, sento che è cambiato qualcosa dentro di me” aggiunge Carlos confuso. Io lo conosco ancora troppo poco e cerco di allearmi con lui, con l’obiettivo di iniziare a costruire una relazione sana, che possa farlo sentire a proprio agio, che possa accompagnarlo.

Provo a maneggiare con cura il sintomo di Carlos, i rapporti sessuali con una ragazza tredicenne, con il pensiero che starci troppo possa essere vissuto come colpevolizzante, starci troppo poco possa non farlo sentire riconosciuto. Mi adeguo ai suoi tempi e accolgo le sue parole. “Non è un reato fare sesso” e “solo dopo ho capito di aver sbagliato”. Mi preme capire la consapevolezza di Carlos relativa all’età del consenso e alla punibilità del comportamento commesso prima di tutto, perché l’aspetto legale, in questo caso, marca il contesto in maniera indelebile.

Mi dice che il padre è preoccupato per un’ipotetica denuncia che potrebbe portare avanti la madre di Roberta e rimane in silenzio, controlla la situazione muto e spera che non lo faccia. L’agitazione materna sembra essere maggiormente concentrata su chi sia o cosa possa essere Carlos, l’ipotesi che faccio confrontandomi con le terapeute della famiglia è che nella secret agenda materna ci possa essere la domanda “mio figlio è un pedofilo?”.

“Ma è lei che ha insistito, non è un reato fare sesso” aggiunge sconsolato e confuso. A casa, Sebastian lo ha giudicato, Luisa Fernanda si è dispiaciuta.

Esplicito la legge perché voglio chiarirla e metterla al lato della terapia. Spiego a Carlos che un maggiorenne può compiere atti sessuali consenzienti con minori, se questi hanno compiuto 14 anni. Cerco di farlo con delicatezza e chiarezza allo stesso tempo, come per dire io non sono il giudice o la madre di Roberta, qui puoi dire ciò che vuoi.

Ma sembra che a Carlos la legge non spaventi, forse perché immagina che il padre poliziotto possa proteggerlo in tal senso o forse perché non è ancora del tutto consapevole o forse ancora perché pensa che ci sia qualcosa di più importante da capire, di cui discutere.

È preoccupato perché in paese è sempre più difficile uscire, racconta, perché viene dipinto come uno che minaccia le bambine. Si sente giudicato dagli altri e non riesce a tornare a scuola, dove dice di non trovarsi bene né con i compagni né con i professori, è titubante se riprenderla o lasciarla del tutto.

Carlos ha pochi amici, tutti più piccoli di lui, fa fatica a fidarsi degli altri e mi dice che è riuscito a parlare di quello che è successo solo con un certo Dimitri, una delle pochissime relazioni positive che sta coltivando e con il quale si sente a suo agio. Dimitri gli consiglia di cancellare tutti i messaggi che gli ha mandato Roberta e anche la madre che gli ha inviato dei messaggi vocali di insulti e minacce. Carlos non riesce a cancellarli così come a dormire perché la notte li riascolta quei messaggi vocali, e piange.

Mi racconta dei rapporti sessuali con Roberta, consumati di nascosto a casa di lei, quando i suoi genitori non c’erano. “Sarà successo quattro, massimo cinque volte”, “dopo la prima volta lei pensava solo a quello, a rifarlo, me lo chiedeva di continuo” suonano alle mie orecchie come frasi sincere, dette da un ragazzo che sembra sentirsi vittima della situazione, arrabbiato in maniera velata. “Mi rendo conto che in quel periodo facevo quello che mi diceva la testa, non ragionavo” o “adesso ho capito, non lo vado a rifare, non sono scemo” poco riflessive, veicolo di una sbrigativa messa in discussione personale.

Carlos era più basso e più loquace di come me lo immaginavo prima di incontrarlo. Lo salutai con una restituzione “di pancia”, rimandandogli la sua sensibilità percepita tra le pieghe delle sue parole prima di accompagnarlo in sala d’attesa, dove c’era la madre. Notai di nuovo quel cambiamento di Carlos, riabbassò la testa e smise di parlare, immaginai fosse scandito da un enorme senso di colpa nei confronti di chi lo aveva adottato, sembrava dirle mi dispiace averti deluso.

Ma Rossana non ce l’aveva con lui, lo accudiva con lo sguardo e con i gesti come a dire non è colpa tua. Mi guardò mentre Carlos aveva gli occhi sul pavimento come per sapere se poteva fidarsi di me, prima di pagare. Mi chiese “com’era andata?”, risposi in maniera diplomatica spiegandole che lo avrei visto una volta a settimana. Li accompagnai all’uscita e Carlos mi salutò guardandomi negli occhi.

LA QUESTIONE DELL’ETÀ

L’impressione prima della restituzione era quella di una seduta molto ricca: l’interruzione scolastica, la difficoltà a fidarsi dei suoi pari, il rapporto con il fratello, la storia celata dell’adozione, il cambio netto a pochi metri dalla madre, il sentirsi giudicato. Ma allo stesso tempo mi arrivava un forte grido di aiuto, autentico, da parte di un ragazzo sensibile, schiacciato dal peso della sofferenza che ancora non vedevo.

Un ragazzo che aveva commesso un reato. O perlomeno se lo avessero denunciato.

Il legislatore, infatti, riconosce al minorenne il legittimo esercizio del diritto alla libertà sessuale solo al compimento dei 14 anni (art. 609/1-quater, n. 1, c.p.) […]. Alla luce di questa premessa consegue che ogni atto sessuale, non connotato da violenze, minacce o abuso d’autorità o non indotto dall’abuso delle condizioni di inferiorità psichica e fisica, commesso in danno di una persona che ha un’età che per legge non è sufficiente per manifestare un consenso giuridicamente valido, viene punito con la stessa pena prevista per la violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e cioè con la reclusione nel minimo a cinque anni e nel massimo a dieci anni.

Ove l’atto sessuale in danno di minorenne sia invece accompagnato da violenza, minaccia, abuso di autorità o sia invece indotto mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisio-psichica, verrà posto in essere il reato di violenza sessuale aggravata dall’età della persona offesa (art. 609-bis) e la pena aumentata nel minimo a sei anni e nel massimo a dodici anni [3]. In quel periodo mi occupavo di consulenze tecniche di parte per cause civili e lavoravo come psicologo in un centro diurno psichiatrico, e la mia attenzione professionale aveva confluito con il caso di Carlos da un punto di vista giuridico e psichiatrico. Tra i disturbi parafilici, il DSM-5 definisce il disturbo pedofilico in base ai seguenti criteri diagnostici:

A. Eccitazione sessuale ricorrente e intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età).

B. L’individuo ha messo in atto questi desideri sessuali, oppure i desideri o le fantasie sessuali causano marcato disagio o difficoltà interpersonali.

C. L’individuo ha almeno16 anni di età ed è di almeno 5 anni maggiore del bambino o dei bambini di cui al criterio A.

Nota: Non comprende un individuo in tarda adolescenza coinvolto in una relazione sessuale con un individuo di 12-13 anni [4].

Facevo ipotesi diagnostiche che non mi convincevano per cercare una chiave di lettura che non trovavo ancora. L’unica cosa certa, allora, era la legge. Perché se Roberta denuncia Carlos, Carlos è punibile penalmente e questo lo tengo a lato, ma ben presente. Però non so fino a che punto aiuta Carlos e il processo terapeutico. Non mi fa andare oltre, mi impedisce quasi di capire. Inizio a convincermi che avrei bisogno di vedere una foto di Roberta, mi aiuterebbe. Ma perché? Perché se non dimostra 13 anni allora Carlos è innocente e se invece li dimostra Carlos è un mostro? Il rischio di colludere o incolpare Carlos è troppo alto. Non vedrò mai una foto di Roberta.

Ipotizzo che nella famiglia di Carlos, tutto andò bene fino a un certo punto, fino a quando Carlos non ebbe rapporti sessuali con Roberta di 13 anni (definire Roberta una bambina, una ragazzina, una ragazza o un’adolescente fa la differenza perché definisce la relazione). È un’adolescente sul filo del rasoio, da un anno e mezzo, sei mesi prima dell’età del consenso. È una situazione delicata, da tener ben presente, in tutti i suoi aspetti anagrafici, legali ed emotivi.

Quindi. Tutto andò bene fino a quando non si verificò il fatto inatteso.

Apparentemente incomprensibile il sintomo [5].

ADOZIONE, LA VITTORIA, LA PAURA. [Sedute 2-5]

Carlos è del Sud America, lo dice la sua carta d’identità, il suo viso, la sua pelle, non ancora la sua voce. È un mondo che non vuole scoprire, è ancora troppo presto e forse è doloroso ancor di più. Sento che si porta un macigno, e lo sforzo di sorreggerne il peso. È stanco. Penso che mi sta mettendo alla prova, sta valutando se posso sostenerlo, se sono la persona giusta a cui svelare la storia, quella vissuta, quella dove si nasconde il dolore.

Del suo passato, l’unica cosa che disse, riferendosi al fratello maggiore, era stata “non mi può comandare sempre lui, prima sì, quando non avevamo i genitori”. La usai come gancio per esplorare la sua storia e per valutare la sua capacità di narrazione autobiografica. Mi raccontò che aveva sette anni quando vide Rossana e Maurizio per la prima volta, insieme a Sebastian di otto e Luisa Fernanda di quattro anni. Erano in una comunità e dice che tutto quello che era successo prima non lo ricorda. “Ho come un vuoto” dice. A me è chiaro dal tono e dall’espressione che parlano le sue difese. Le accolgo e penso che non è ancora pronto. Racconta con felicità il giorno in cui conobbe quella che a breve sarebbe diventata la sua famiglia adottiva. L’arrivo a Roma dove c’era lo zio con un pulmino preso a noleggio ad aspettarli tutti e cinque. Il viaggio verso casa vissuto con trepidazione e l’arrivo in una villa con numerosi parenti ad accoglierli e festeggiarli. Come una vittoria. Parla di sé come di un bambino curioso, che non ha fatto fatica a imparare la lingua e ad ambientarsi. Lo racconta con gli occhi che sorridono al di sopra della mascherina, con un tono emozionato al ricordo di quei momenti.

Le prime cinque sedute sono puntuali, a cadenza settimanale, come lui, che se fa qualche minuto di ritardo me lo comunica con un messaggio o se arriva cinque minuti prima mi chiede se può suonare. Io sono affettivamente ben disposto nei suoi confronti, non vedevo l’ora di lavorare con lui dall’inizio, gli adolescenti mi attivano. Da sempre. Retro-pensiero dell’allievo in formazione che ricorda bene che durante il training ha appreso consapevolmente la personale tendenza a volerli adottare gli adolescenti e, si sa, che anche se non c’è più il citofono in stanza, il citofono ronza nella testa.

Continua a venire con la madre e io devo fare i conti con la mia con la quale quando avevo l’età di Carlos avevo costruito un muro di silenzi che ci divideva. Io soffrivo in silenzio al di qua dandole la colpa di tutto e crocifiggendola con i chiodi dei suoi errori. Lei, dall’altra parte della barricata si preoccupava, avendone il diritto e la necessità, di controllare un figlio che le stava sfuggendo dalle mani.

Le risonanze controllanti della mamma di Carlos mi hanno aiutato a comprendere come ormai ero riuscito a elaborare la mia storia e il mio dolore e come una mamma rompipalle, controllante, era diventata per me una mamma che si preoccupava e io non la respingevo ma l’accoglievo, come avevo imparato a fare con la mia.

Dopo un mese e mezzo dal primo incontro, Carlos aveva ripreso ad andare a scuola, usciva con i pochi amici che gli erano rimasti vicino dopo che l’onda d’urto si era amplificata in paese tra i suoi pari che si erano allontanati e stava diventando maggiormente consapevole e introspettivo rispetto alle relazioni significative che aveva coltivato da quando era in Italia, dall’età di sette anni.

Le mie priorità in stanza in quel periodo erano mantenere un focus sulla scuola, comprendere il sintomo e favorire l’accesso alle sue origini.

Era stato per quasi due anni con una ragazza della sua età, Ludovica, relazione terminata un anno prima dell’inizio della terapia e della conoscenza con Roberta. Ludovica è una ragazza ipoacusica, con l’impianto cocleare nascosto dai capelli e io ho imparato che i ragazzi con l’apparecchio acustico o l’impianto cocleare preferiscono essere chiamati sordi. Ipoacusici lo percepiscono come distacco. L’ho imparato in sette anni di lavoro con loro e le loro famiglie, in un’associazione dove ho ricoperto tutti i ruoli, dall’assistente educativo didattico domiciliare al consulente psicopedagogico, allo psicologo, al coordinatore didattico, con un breve e triste cameo nell’amministrazione dove, accreditando gli stipendi attraverso la tastiera sgangherata di un vecchio pc, ho tentato senza volerlo – e per fortuna senza riuscirci – di fare un bonifico a una collaboratrice di 100.000 euro, due zeri in più del previsto.

L’età anagrafica di Ludovica era la stessa di Carlos, ma quella linguistica aveva qualche anno in meno. Lo sviluppo del linguaggio procede di pari passo con la rappresentazione del mondo con cui si influenzano a vicenda; i ragazzi sordi, semplificando, hanno un’età anagrafica maggiore di quella che dimostrano linguisticamente. Dai racconti e dalle descrizioni di Carlos ipotizzo che Ludovica dimostri meno anni di quelli che realmente aveva quando stavano insieme. Poi la relazione con Roberta, di 13 anni.

Ogni volta che Carlos mi parlava dei rapporti con Roberta, sentivo che era autentico, percepivo dispiacere e insicurezza. Il dispiacere lo rivolgeva ai genitori, la vergogna ai fratelli, l’insicurezza era verso di sé. E cresceva nelle prime sedute. Era un’evoluzione della rabbia velata dell’inizio. Si stava mettendo in discussione e questo gli faceva paura. Aveva paura di essere un altro. Aveva paura di essere quello che gli dicevano in paese, un mostro. Ma la paura non era ancora tangibile, era impalpabile come lo zucchero a velo e allo stesso tempo necessaria.

E mentre c’era tutto questo, questa cortina di incertezza a riempire la stanza, io intravedevo Carlos come una vittima, del suo passato nascosto ancora chissà dove e del suo presente così maldestro nonché pericoloso, incerto, instabile. Stavo iniziando a pensare – in maniera ancora più pericolosa – che quei rapporti sessuali con una tredicenne fossero stata una svista, una ragazzata di un’adolescente con una ragazza che dimostrava più dei suoi tredici anni. E poi si sa le ragazzine di oggi non sono più quelle di una volta, come dice distrattamente il signore al bar mentre legge il giornale del giorno prima. Ma Carlos mi stupì. E io indietreggiai.

Mi disse che da quando la madre di Roberta lo aveva scoperto si stava frequentando con la cugina di Roberta. Una certa Anna. Anna aveva 14 anni. Ragionai su quanto pochi mesi possono rendere un rapporto legale e quanto pochi mesi possano renderlo punibile penalmente, perverso, pedofilico, mostruoso. Ragionai anche su me stesso, sul mio controtrasfert. Sfiorai in maniera tangibile la paura. La sentii. Per un attimo mi spaventai. Avevo paura di avere davanti un pedofilo? Un ragazzo quasi uomo a cui piacevano le ragazzine? No. Forse quello che mi aveva spaventato di più era aver sentito una parte di me che non voleva più ascoltarlo, voleva crocifiggerlo.

Reputo tali riflessioni necessarie per illuminare i miei punti ciechi, perché nelle stanze di terapia la preparazione personale riguarda gli approfondimenti teorici e personali che si contaminano, si influenzano e si fondono. Siamo noi l’unico strumento.

Cercavo di dare un senso a quella paura, chiedendomi che rischi potevo correre nel pensare determinate cose e quali nel non pensarle. Non fu immediata la comprensione e nel frattempo andai avanti accogliendo la frustrazione che tutto quello mi provocava, insieme all’ansia dell’ignoto e alla paura del fallimento.

Notavo come era dirompente l’aspetto dell’accudimento (che durante le sedute prese le sembianze verbali simboliche di “grande-piccolo”) di Carlos nelle sue relazioni significative. Prendersi cura di Ludovica, ragazza sorda con le sue difficoltà linguistiche e di integrazione, chi stava curando chi? Cura era la parola giusta? Stare con Roberta era accudimento o perversione? O entrambe le cose? Stare con Anna? Che significato aveva? Perché? E come mai proprio con la cugina? Stare con Anna per Carlos era necessario. Me lo diceva lui “non riesco a stare da solo e stare con lei, parlarci, mi fa stare bene”. Si sentivano e si vedevano di nascosto. Di nascosto dagli altri e dai genitori. Me la descriveva come un’ancora di salvezza, un appiglio per non sprofondare. Ci stava bene ma soffriva perché doveva farlo di nascosto. Poi si iniziarono a vedere a casa della madre di Anna, complice di entrambi nel custodire il loro segreto. La madre di Anna era divorziata e viveva con il nuovo compagno e il loro figlio appena nato, in una casa distante da dove Anna viveva, con suo padre. Anna non aveva un buon rapporto con sua madre prima di stare con Carlos, e sembrava che la signora custodisse il segreto della figlia come strumento per starle vicino, per riconquistarla. Contro il suo ex marito. Sembrava una strumentalizzazione, un triangolo bello e buono. E Carlos in mezzo.

A quel punto dissi una frase di cui mi pentii “certo che a te le storie complicate piacciono”. Pensavo che fosse stata una frase non terapeutica, un commento popolare sfuggitomi in un momento in cui non riuscii, evidentemente, a controllarlo.

Sedute dopo Carlos mi disse che quella frase gli servì a capire che forse stava sbagliando.

Nel frattempo la scuola stava andando avanti. A fatica Carlos studiava. Lo gratificavo ogni volta che riusciva a sistemare dei voti. Lo spronavo a continuare così. In un contesto classe favorevole, con degli insegnanti che gli davano una mano e uno solo contro il quale si scontrava, simmetrico.

Vedevo che le cose stavano andando meglio, c’era della luce. Ma per Carlos era ancora buio pesto. La scuola, una montagna di nebbia insuperabile. Il paese, una palude di pregiudizi. Gli amici, dei traditori. La notte, un luogo scomodo e doloroso. Mi disse che non riusciva a dormire perché nel letto riascoltava ancora i messaggi vocali della madre di Roberta che lo minacciava e lui piangeva in un incubo a occhi aperti.

Alla fine della quarta seduta mi chiese un farmaco per dormire, quando il suo “ti volevo fare una domanda” mi spiazzò. Era la prima volta che ci fu un movimento in tale direzione. Da lui a me, spontaneamente. Ne aveva parlato con la madre prima, perché lei entrò – come era solita fare per pagare la seduta – e gli chiese se me lo aveva chiesto.

Dopo aver accolto la richiesta di Carlos, sconsigliandola, ne parlai anche con la madre in sua presenza. Dissi che secondo me non era il caso, di aspettare ancora un po’ e che se non fosse migliorata la situazione poteva o rivolgersi al suo medico di base o contattarmi e gli avrei consigliato uno psichiatra. Mi mostrai molto in disaccordo sul farmaco. La madre sembrava sollevata dalla mia risposta. Da allora non accompagnò più Carlos alle sedute.

SUI MECCANISMI DI DIFESA

Quel “ho come un vuoto” di Carlos rispetto ai suoi primi anni di vita, mi lasciava presumere una dissociazione dalle proprie esperienze traumatiche facendomi chiedere – se così fosse stato – il grado di dissociazione e il tipo di esperienze traumatiche.

Secondo il modello classico, i meccanismi di difesa proteggono da eccessivi stati di angoscia che la persona non è in grado di fronteggiare direttamente, con l’idea sottostante che interventi che “forzassero” le difese avrebbero l’effetto di rinforzarle. Una concezione diversa dei meccanismi di difesa viene riformulata all’interno dei sistemi motivazionali, descrivendoli come un pattern di risposta avversiva, relativa a quanto viene percepito dal soggetto come un ostacolo; si tratterebbe quindi di una risposta alla percezione di ostilità e fonte di ansia. Le persone si sentono tanto più o meno adeguate in riferimento alla percezione che il contesto sociale rimanda loro. Pertanto, le difese potrebbero essere considerate come espressioni comunicative e trattate come un qualunque altro messaggio. Un paziente che non comunica determinati vissuti ci sta comunicando non solo che quella tematica è per lui fonte di ansia, ma anche che non esiste (secondo lui) lo spazio nella mente del genitore o del terapeuta che ne legittimi l’espressione [6].

La possibilità della “creazione” di questo spazio, che non esiste secondo il paziente, passa sicuramente per la qualità della relazione terapeutica che è l’elemento curativo più importante, e la qualità della relazione terapeutica deve tener conto dell’attaccamento del paziente. A tal proposito, M. Selvini sottolinea l’importanza di una classificazione precoce della matrice di attaccamento del paziente che rimanda a una immediata linea guida da seguire: il paziente ambivalente richiederà soprattutto guida e contenimento (mastering), quello evitante accoglienza e benevolenza (mirroring). Con il primo è infatti più facile entrare in contatto, ma la relazione terapeutica deve dare da subito una bussola, una direzione. Con i secondi c’è invece da superare una chiusura, una sfiducia di base, e l’entrare in contatto è obiettivo fondamentale [7].

L’attaccamento, come il passato (vissuto) d’altronde, non è qualcosa di irreversibile. L’attaccamento può modificarsi nel corso del tempo e il passato può tornare (in altre forme). Il compito del terapeuta, è anche quello di fare da ponte tra il passato e il presente; aiutando la famiglia nel suo insieme a dare un senso alla crisi e ai comportamenti sintomatici, sottraendoli al “territorio della psicopatologia” e ridefinendoli come reazioni comprensibili ai “fatti della vita”, in cui si fondono il presente e il passato [8].

CASA FAMIGLIA [Sedute 6-9]

Dopo un mese e mezzo la relazione tra me e Carlos cresceva, qualitativamente era migliore. Eravamo maggiormente a nostro agio. Le uniche cose che sapevo della sua vita prima di venire in Italia erano il paese dove era nato, scritto sulla riga “data e luogo di nascita” del foglio del consenso informato, e che aveva cucinato le empanadas con la sorella, cibo che mangiava in Sud America e che gli ricordava le sue origini. Mi piace pensare che mi parlò delle sue radici in un terreno dissestato, quando la mamma non c’era. Mi piace pensare che non è riuscito a farlo prima per lealtà nei confronti della madre. Quella lealtà invisibile conflittuale tra biologia e ambiente.

Carlos era nato in periferia. In una baraccopoli. Secondo di tre figli, il papà non lo aveva mai visto e la madre non c’era mai. “Mio padre stava dentro e mia madre un giorno, quando avevo 4 anni, non tornò più”, disse. Poi arrivò la polizia, la “policia” con la c che si legge s. Li presero tutti e tre e li portarono in una casa famiglia, in centro. Iniziò la scuola, aveva dei vestiti nuovi e dormiva con altri bambini. Facevano delle gite in centro, e proprio in una di quelle gite mangiò le empanadas per la prima volta. Con carne e formaggio.

Rimase in casa famiglia per 3 anni, ma la casa famiglia fa schifo, mi dice chiudendosi. Lo guido. Chiedo se quello che è successo in casa famiglia lo ha mai raccontato. Scuote la testa. Il silenzio intorno a lui è assordante. Io credo in quel silenzio mentre i suoi occhi brillano, si gonfiano. Si sciolgono. Prendo un fazzoletto e gli tendo la mano. Carlos si abbassa la mascherina e la terrà per il resto della seduta abbassata. Si mostrava per quello che è. E mostrava quello che ha.

“La cosa che mi fa stare più male è quando hanno detto che ero uno stupratore perché io so che significa essere stuprati”. “Era il marito di quella che stava là. Erano il padre e la madre di alcuni bambini e ce n’erano altri”. “Pure questo mi fa stare male, quando dicono che sono una cattiva persona perché io lo so che tipo di persone sono quelle che descrivono loro e io non voglio fare gli stessi sbagli degli altri, quindi quando gli altri mi giudicano e mi dicono le cose così io ci sto male, io ci sono passato e so che non voglio essere come quelle persone, e so che non sono così”.

Mi colpì la parola usata da Carlos, “stupro”. Che io ridefinii in “violentato”. Mi sembrava una parola più digeribile. Che dava più responsabilità al carnefice, e più spessore alla vittima. Stupro mi sembrava qualcosa di meno definito, di più pericoloso, di più aleatorio. Come se gli fosse successo per caso. Violentato avrebbe dovuto dirigerlo verso quei luoghi dolorosi, quel momento o quei momenti? Quante volte gli era successo? Come? Dove? Ne aveva mai parlato con qualcuno? I fratelli lo sapevano? Erano vittime anche loro?

Dopo quella seduta, chiusi lo studio e andai verso la macchina. Prima di salirci mi fermai 10 minuti a osservare il fiume che separava i marciapiedi. Mi concentrai sulle mie sensazioni senza riuscirci. Immaginai quei luoghi in cui Carlos venne abusato da piccolo. Pensai a quel dolore nascosto dagli anni e negli anni diventato sempre più reale. Come una palla di neve che scende a valle e mentre rotola diventa più grande, enorme, una frana, una valanga. E finisce nelle stanze di terapia. Nelle supervisioni. Tra le pagine di sensazioni di chi prova a raccontarle.

Capii che non era la prima volta per me, guardando quel fiume.

Fino a quel punto, infatti, avevo racimolato nella mia breve pratica clinica, un piccolo quanto “prezioso” gruzzolo di storie simili di bambini che, diventati adolescenti o giovani adulti, facevano fatica a confrontarsi con la loro storia, con il loro dolore. E il sintomo parlava per loro. Mi era già capitato di imbattermi in una rivelazione così intima, che metteva in discussione proprio il concetto di intimo. Un intimo violato. Un’infanzia manomessa. Nascosta nelle segrete ma mai dimenticata.

Dopo la rivelazione di Carlos, mi accorsi che non guardavo più solo me stesso, come mi sentivo, le mie risonanze, ma mi affacciai subito verso l’altro. Ero fuori da me. Mi resi conto di come l’esperienza di aver già sentito storie come quella aveva modulato le mie reazioni terapeutiche a un racconto del genere che non mi invadeva come all’inizio, ma mi avvolgeva.

Averle sentite già non mi dava sicurezza, ma un’incertezza diversa, nuova. Mi insegnava a vedere le unicità che ci contraddistinguono come esseri umani, le modalità di far fronte al dolore, alla sofferenza.

Misi da parte l’abuso lasciandolo decantare. La sensazione era che Carlos ne aveva ancora tanto da dire, da versare. O ero io che ne volevo ancora tanto? Mi chiesi anche se la decisione di non riprendere la questione traumatica nelle sedute successive potesse essere posta nei termini di chi stavo difendendo, il paziente o me stesso? Più che difendere qualcuno, forse mi stavo chiedendo dove stavamo andando e per cercare di capirlo guardai da dove eravamo partiti. Da dove ero partito. Mi accorsi di come mi dovetti frenare, modulare ai tempi del paziente, di Carlos. Fosse stato per me mi sarei lanciato carpiato nel burrone della sofferenza. Esplorando. Per poi riemergere. Guardavo al processo, finalmente. Un processo che prima non vedevo e in quelle sedute mi accorsi di riconoscerlo. Era il processo terapeutico. Ma era anche il processo del mio apprendimento. Stavo virando e lo percepivo. In quel punto preciso dei miei pensieri stavo compiendo un passaggio, dal “trattare me stesso” nella relazione con l’altro nella stanza di terapia, ad aiutare l’altro, nonostante me stesso. A essere veicolo delle sue emozioni e strumento della sua guarigione. Stavo iniziando a sentire di essere un terapeuta.

“Con le ragazzine come va?”, chiese a Carlos sua madre. Frase che trovai di una eco maestosa. La usai per esplorare come si sentiva Carlos, per valutare se avesse fatto (o se ci fosse) un qualche tipo di collegamento tra la sua infanzia traumatica e la vicenda di Roberta. “Ho sbagliato. Una volta l’ho fatto, non lo vado a rifare” è quanto mi disse, per la seconda volta, in seduta. Pensavo che dopo la rivelazione, la relazione terapeutica si aprisse, ma percepivo altro. Come se si fosse indurita, imbarazzata forse. E quella frase di Carlos auto-colpevolizzante e poco riflessiva confermò le mie impressioni.

Intanto cercavo di rimandarlo su un piano verticale dell’esistenza, su una linea temporale di eventi che si integrano (si dovrebbero integrare) e che costituiscono l’identità. Mi chiesi anche se il mio intervento poteva essere un’ingerenza basata su quella che io credevo una giusta modalità di funzionamento, su come Carlos doveva pensare per guarire. Furono settimane “terapeuticamente” riflessive e intense.

Ovviamente tra le tante cose mi chiesi se volessi veramente fare il terapeuta ma questa è una domanda che mi sono fatto talmente tante volte che ho capito che non smetterò mai di farla.

Dal training mi ripetevano “pensi troppo” e se con i colleghi andavo in simmetria dicendo forse siete voi che pensate troppo poco, nella supervisione indiretta ci misi tempo a confezionare quel “pensi troppo”.

Capii che pensare troppo mi distoglieva dalla relazione portandomi sui contenuti, con una tendenza personale alla cura del dettaglio che si amplificava, era come se volessi registrare tutti i contenuti e analizzarli, ritrovandomi a gestire male un enorme contenitore di dati, scritti, pensati, presunti e immaginati. L’imbuto era al contrario.

Rientrai in stanza con la convinzione che non dovevo imporre nessuna modalità di pensiero e che non lo stavo facendo. Dovevo semplicemente fare una delle prime cose che ho imparato e cioè che il terapeuta si deve adattare al paziente. Non viceversa.

Carlos mi disse che prima di parlarmi della violenza subita in casa famiglia, lo aveva detto alla madre (il giorno prima della seduta) la quale rispose che se lo immaginava. Lo immaginava da quando Carlos si ammalò anni prima e, per contrastare la febbre alta, Rossana provò a farlo con una supposta. Carlos si bloccò e in ospedale gli dovettero fare delle iniezioni di calmanti per farlo rilassare. Questo evento lo presi come spunto per parlare del rapporto di Carlos con sua madre, rapporto vissuto come distante, fatto di poche parole, rispetto agli altri fratelli.

Ipotizzai con lui che mamma custodiva il segreto dell’abuso (dedotto da lei dopo quella reazione in ospedale di Carlos) e come questo possa aver creato delle distanze tra di loro, come se, nell’assenza di parole intorno a quella reazione fisica all’ospedale, si fosse potuta costruire una protezione silenziosa che compensava l’assenza di dialogo e rinforzava la stessa mancanza di parole. Il segreto allontana e avvicina allo stesso tempo.

Passarono due sedute dove non toccammo l’argomento. Mi fermai a guardare il processo: la scuola l’aveva ripresa e si stava impegnando per concluderla, il farmaco per dormire non me lo aveva più chiesto e il sonno lo aveva riacquisito, si erano iniziate a sciogliere le difese che tenevano compartimentate le esperienze traumatiche pre-adottive, non aveva più quella tendenza depressiva rivolta al passato di quando lo incontrai la prima volta ma era rivolto al futuro, in particolare al mondo del lavoro e deciso e motivato su cosa fare dopo la scuola superiore.

Rispetto al lavoro, Carlos ne aveva già provati diversi, anni prima, l’idraulico con lo zio, il cameriere in un ristorante, entusiasta e propositivo per l’alternanza scuola-lavoro che stava svolgendo in quei mesi. Voleva fare il parrucchiere, frequentare un’accademia di due anni e nel frattempo fare pratica nel negozio della madre.

Dopo due sedute dalla rivelazione non me la sentii di aspettare oltre e trovai necessario riprendere il ricordo del trauma. Lo feci chiedendo come mai lo avesse raccontato alla madre proprio ora e come si era sentito dopo averlo condiviso con lei. Carlos mi disse che glielo aveva detto perché la madre di Roberta, in quei messaggi vocali e durante quella scenata al negozio, lo aveva definito stupratore (forse glielo disse per tranquillizzarla, forse aveva intuito la secret agenda della madre e voleva dirle che lui non era uno stupratore?).

Carlos: “… e io mi so’ rivisto in quello. Io ero bambino e lui grande, ora lei bambina e io grande. Io mi ci so’ rivisto”.

Allievo terapeuta: “Hai avuto paura che si era invertita la situazione?”

Carlos: “Sì, ma io non l’ho stuprata.”

Allievo terapeuta: “Pensi che ci possa essere un collegamento tra quello che hai vissuto e le relazioni con le ragazze più piccole di te?”

Carlos rispose con il silenzio.

Tornammo sulla sua storia. Prima dell’adozione. Prima della comunità. È difficile per lui parlarne, e io forzo le sue difese fin quando lo ritengo opportuno.

Viveva con i fratelli in periferia, nella parte povera. Dormivano tutti e tre nello stesso letto. Ricorda il volto del padre ma non sa se lo ha mai visto dal vivo. Della madre dice di non sapere che lavoro svolgeva, usciva la mattina e tornava la sera. Quando aveva circa quattro anni ricorda che le forze dell’ordine del paese lo portarono in centro, in casa famiglia. Inizio a sentire il peso delle mie domande sulle risposte di Carlos “non me lo ricordo”, “non lo so”. Si liberò dei nomi dei suoi genitori, Julio e Alicia, dando forma e spessore al ricordo. Sorrise pronunciando il suo cognome prima di venire adottato, Riascos.

Dalle baracche della periferia, alla casa famiglia in centro, Carlos aveva 5 anni. Lo ricorda bene perché conserva ancora il ricordo in una foto. Lì iniziò ad andare a scuola, a festeggiare i compleanni suoi e degli altri 5 o 6 bambini che vivevano con lui e i suoi fratelli, Sebastian e Luisa Fernanda. All’inizio si sentivano persi ma passare dal nulla ad avere un po’ di vestiti era già tanto, mi dice.

I proprietari di casa si chiamavano Lidia e Cesar, erano moglie e marito e c’erano anche i loro figli a casa, più grandi di Carlos. Carlos spesso veniva messo in punizione, sul terrazzo, in una specie di veranda, al buio, per due ore.

Cercavo di entrare adagio ma deciso nel ricordo, toccando anche i particolari, i dettagli e le sensazioni. Per Carlos era doloroso ma percepivo che era il giusto momento terapeutico. Laddove non riusciva a terminare la frase davo delle alternative facendo ipotesi e Carlos mi rispondeva con la testa, oppure chiedevo poi cosa succedeva per contestualizzare il ricordo.

Cesar si avvicinava in modo aggressivo, prendeva Carlos con la forza che all’inizio cercava di sfuggire ma poi si arrese. La punizione durava due ore e Carlos veniva ogni volta abusato e lasciato lì, nella veranda al buio.

Penso ai fratelli e a Carlos che dice che Sebastian sicuramente non è mai stato in punizione, e Luisa Fernanda? Tra loro non si sono mai parlati di quella casa famiglia e di prima ancora, io mi chiedevo se poteva essere utile convocarli tutti e tre ma era ancora troppo presto per Carlos, che a quelle domande esplicite su una sua eventuale necessità o semplicemente voglia di parlarne con loro si richiudeva a riccio.

Quella seduta terminò con “io l’ho sempre saputo che ero stato violentato, ma non l’ho mai detto a nessuno”, una frase detta con forza, liberatoria, con un tono di vigore rispetto alle parole che avevano occupato la seduta fino a un attimo prima, dimesse, parche, sputate fuori con dolore e sconforto. Sembrava che Carlos avesse sciolto le catene della sua sofferenza e lo stupro era diventato “violentato”. Come se la mia ridefinizione della seduta numero cinque si fosse affacciata alle finestre della psicoterapia, del processo terapeutico.

Dopo la supervisione di quelle sedute iniziavo a essere contento di come il mio Sé terapeutico si rinforzava dei feedback positivi e si modulava sulle critiche costruttive. Normalizzare l’eccitazione fisiologica in seguito all’abuso e il sentimento di vergogna erano state buone mosse terapeutiche, condivise dalla didatta, che in un certo modo mi tranquillizzò aggiungendo “dopo l’eruzione fai posare il pulviscolo che dopo tutto è più nitido” e rinforzò le mie riflessioni riguardo a se e come poteva essere il caso di vedere i fratelli o la famiglia intera dandomi coraggio con “non ti precludere i genitori solo perché li stanno seguendo le colleghe”.

I genitori dopo la prima consulenza e dopo la seduta familiare, fecero un incontro di coppia in cui notavano i cambiamenti in positivo di Carlos – rispetto all’umore, al sonno, alla ripresa della socialità e della scuola – e mostrarono il fianco su alcune dinamiche della coppia coniugale rigide e per questo non funzionali.

La collega aveva avuto l’impressione che uscirono dubbiosi da quella seduta e forse non pronti a voler affrontare determinate situazioni in un momento già abbastanza delicato. I genitori di Carlos dribblarono poi due appuntamenti e io, tutte queste dinamiche, le tenevo a mente.

È indubbio che mi sarebbe piaciuto vedere Carlos insieme a Sebastian e Luisa Fernanda. Avrei voluto provare a metterli in comunicazione sul loro passato nascosto, ma non pensavo fosse il momento. Pensavo fosse, e lo era, solo una mia egoistica spinta personale. Nelle sedute avevo tastato questo territorio con Carlos più volte, in diversi modi. Ma era un terreno ancora troppo arido e forzare la convocazione pensavo sarebbe stato inopportuno e non funzionale.

PONTE

Apparentemente incomprensibile, il sintomo segnalava ricordandolo (o negandolo) simbolicamente il fatto drammatico.

I comportamenti sintomatici dell’essere umano possono essere riconducibili alla relazione tra le sue esperienze vissute e le situazioni interpersonali in corso. E il sintomo diventa quel nesso che connette, che fa da ponte tra passato e presente relazionale.

O ancora, riprendendo i concetti di L. S. Benjamin, le esperienze infantili definiscono in modo tendenzialmente definitivo i nostri pattern di relazione nelle situazioni diverse con cui la vita ci mette a confronto; altrettanto vero è, però, che le situazioni attuali sono decisive nel definirsi del comportamento sintomatico che a quelle esperienze si ricollega [9].

Infatti la sofferenza dell’essere umano è inevitabilmente – e allo stesso tempo – condizionata dalle esperienze vissute e dalle circostanze della sua vita di relazione. Circostanze in cui Carlos ha sentito aumentare la propria vulnerabilità, attivando delle reazioni disfunzionali (l’abbandono scolastico, l’ansia, il calo del tono dell’umore e della motivazione). Sappiamo però che ciò di cui può essere temuta la forza destabilizzante può aprire una finestra di plasticità, una possibilità unica di riordino mentale [10]. Un vincolo che diventa una risorsa. E così per Carlos. I rapporti sessuali con Roberta, la scoperta da parte della madre e del paese, la forza con cui si è sentito schiacciato dal peso di quello che gli altri pensavano di lui, hanno spinto Carlos a fare i conti con il proprio passato traumatico e con se stesso.

Ha aperto la strada all’integrazione delle proprie esperienze traumatiche sciogliendo quella rigida compartimentazione che conteneva il dolore.

Riprendendo la vicenda giuridica e proseguendo da:

“Il legislatore, infatti, riconosce al minorenne il legittimo esercizio del diritto alla libertà sessuale solo al compimento dei 14 anni (art. 609/1-quater, n. 1, c.p.)”: la questione di Roberta.

“Se infine l’atto sessuale è commesso in danno di persona minore di 10 anni, si realizza l’aggravante di cui all’art. 609/2-ter e 609/4-quater c.p. e il fatto è punito con la pena della reclusione dal minimo di sette al massimo di quattordici anni”: la questione di Carlos.

La ragione di tale severità (la pena aumentata se la vittima ha meno di 10 anni) è giustificata dalla ritenuta dannosità di simili condotte, suscettibili di ingenerare danni psichici permanenti nel soggetto passivo.

Interessante notare come il bene giuridico protetto non è la libertà sessuale, bensì la tutela dello sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale, dunque, della formazione dell’intera personalità dei minori.

E il trattamento della vittima dovrebbe aiutarla a rimettere ordine nell’esperienza vissuta, riallineando i significati stravolti dall’abuso, ristrutturando l’identità violata e dando un senso ai sentimenti provati. Dovrebbe permetterle di ritrovare il corso della sua evoluzione psichica interna.

PULVISCOLO [Seduta 10]

Dopo “l’eruzione” della seduta 9 e la supervisione, nella seduta 10 ci sentivamo tutti e due alleggeriti. Tutti e due, in due modi diversi, avevamo esposto il nostro punto di vista a chi ci avrebbe guidato. Carlos a me, io al supervisore. La decima fu una seduta piacevole, effervescente, rilassata. La relazione si era fortificata, i non detti erano diventati, o avevano iniziato a farlo, parole.

Carlos era più sciolto, lo sentivo più vicino a me. Si fidava di più. Da come mi guardava, dalle parole che aveva iniziato a usare. Era meno inibito e più autentico. Aveva la voglia di condividere le sue passioni, i suoi primi ricordi positivi appena arrivato in Italia. Io mi stupivo perché mi sembrava di avere davanti un’altra persona rispetto a quella dell’inizio. Sia per i contenuti che portava sia per la relazione che si era instaurata. Ogni volta che lo guardavo sorridere dagli occhi, sopra la mascherina, lo immaginavo ghiacciato, come lo era nelle prime sedute, in cerca di farmaci per dormire. Mi ricordava del processo terapeutico perché nelle terapie c’è bisogno sempre di guardare il punto da cui si è partiti. Non per esplicitarlo, ma per valutare i cambiamenti, per chiedersi a che punto siamo, cosa stiamo facendo oggi, dove stiamo andando e con quale obiettivo. In quella seduta stavo dando voce alla felicità, al positivo, rimanendo zitto. Prima ero io a sottolinearlo, a evidenziarlo perché dall’altra parte Carlos non lo vedeva. Adesso era lui a parlarne, da solo, iniziava a riconoscerlo.

Ricordava con il sorriso il pulmino di quando era arrivato in Italia, con lo zio che guidava e il padre emozionato che faceva i video. I primi film in dvd che vide a casa, “Rambo” e “Ritorno al futuro”. E la zia che glieli aveva regalati. Il battesimo fatto pochi mesi dopo il suo arrivo, con la madre che portò il phon in chiesa per asciugargli i capelli dopo la benedizione. La sua voglia di viaggiare, le città che avrebbe voluto visitare e perché avrebbe voluto farlo. Mi parlò anche per la prima volta di qualcosa che non gli andava bene nel rapporto con i suoi genitori, che in un certo modo mi arrivavano come due figure statuarie, intoccabili per reverenza. Si sentiva limitato dalla madre che lo proteggeva troppo, e del padre mi disse di non aver mai capito che tipo di rapporto aveva, “non lo riesco a capire neanche io, papà non dice mai niente”, disse. Vedevo una motivazione nascosta che era divampata. Voleva terminare l’anno e si stava impegnando a recuperare, anche con l’aiuto della madre che si era fatta avanti a scuola con gli insegnanti, i quali avevano apprezzato la richiesta d’aiuto materna e stavano agevolando Carlos nel recuperare le materie lasciate indietro. Era proiettato sul lavoro, si era informato attivamente sull’accademia per parrucchieri, i costi, l’inizio dei corsi, la durata, il tipo di attestato rilasciato.

ESPERIENZE SFAVOREVOLI INFANTILI

La mole di studi sulle Esperienze Sfavorevoli Infantili (ESI; in inglese ACE: Adverse Childhood Experience) è enorme e ha mirato, riuscendoci, a dimostrare la quantità e la qualità degli effetti negativi a lungo termine non solo sulla psiche, ma anche sulla salute fisica dell’adulto [11].

La mia personale consapevolezza, sempre maggiore e con tutte le sue sfaccettature, della relazione fra trauma infantile e sviluppo dell’identità, se oggi porta a chiedermi se i miei sforzi riparativi riusciranno a prevenire quella “trasmissione intergenerazionale della sofferenza” alle generazioni che verranno, prima rimaneva su un piano teorico, narrativo, romantico.

Nel mio percorso di formazione, infatti, ho dovuto necessariamente confrontarmi con le mie aspettative, presto disattese e rimodulate sui pazienti, di un terapeuta-guida nei confronti di chi aveva “smarrito la strada”. Ho dovuto rimodulare il mio personale meta-contesto sul livello di complessità delle situazioni cliniche che a mano a mano mi trovavo davanti, ascoltando o esplorando la richiesta d’aiuto di chi era seduto dall’altra parte. Mi accorsi che in ogni storia, da qualche parte e in qualche modo, le persone avevano sperimentato delle forme più o meno lievi (traumatiche) di maltrattamento, di incuria fisica o affettiva, fino a quelle più rilevanti. Infatti, tra tutte le forme di maltrattamento, l’abuso sessuale è quello considerato più estremo e quindi più pericoloso per eventuali traiettorie evolutive patologiche.

Mi colpiva come alcune vittime portavano ancora i segni tangibili e preoccupanti di quei traumi e altre invece sembravano incredibilmente – ai miei occhi – “guarite”. Per miracolo.

I miracoli sono quelle circostanze protettive che fanno (dovrebbero fare) la differenza.

Tra i fattori che hanno influenzato l’esito (positivo) dell’elaborazione dell’abuso e della formazione dell’identità, nel caso di Carlos, ipotizzo l’età precoce della vittima che se da un lato avrebbe potuto rivelarsi maggiormente distruttiva per la plasticità della psiche, dall’altro potrebbe essere stata il fattore determinante per la rimarginazione della ferita. La relazione con l’abusante: se da un lato era sì un “padre transitorio” ma tendenzialmente assente nella crescita di Carlos, presente solo nel suo ruolo punitivo e abusante, dall’altro lato era affiancato da una moglie e “madre di passaggio” positiva e premurosa nei due anni in casa famiglia, rivelatasi non complice dell’abusante ma protettiva, denunciandolo nel momento in cui scoprì quelle violenze. L’adozione: avvenuta circa un anno dopo gli episodi di abuso e rivelatasi forse la prima possibilità per Carlos di sperimentare due figure di riferimento significative.

L’intreccio dei fattori di protezione intra- ed extra-familiari, con la quasi imprevedibilità di variabili (esterne) positive come relazioni significative, incontri amicali, insegnanti, gruppi di riferimento, fortificano le risorse individuali arricchendole e andando a fortificare la resilienza individuale [12].

Ultimo dei fattori: la presenza dei fratelli. Forse il più importante perché si configura come l’unica costante nella vita di Carlos. Per compensare vissuti e condizioni di carenze e abbandoni, i fratelli si stringono, riuscendo a fare legame familiare tra loro, in quella che viene definita “famiglia di fratelli” [13].

Dalle baracche in Sud America a quel paese dell’entroterra abruzzese, novemila chilometri che divisi per tre pesano meno, alleggeriti dalla forza della condivisione. Un legame tra fratelli e con i fratelli potrebbe essere stato per Carlos il più importante a livello dell’autostima e della costruzione dell’identità durante l’adolescenza e la giovinezza [14].

Per semplificare, quanto e come è stata difesa una vittima sembra determinare la sua guarigione, la presenza di figure in grado di garantire un attaccamento sicuro diminuisce la probabilità di esiti infausti, costituendo un fondamentale fattore di “protezione” [15].

WHATSAPP [Sedute 11-15]

Intanto il mese di maggio era quasi concluso. L’esame del quinto era sempre più vicino. L’attenzione principale era rispetto alla scuola, gratificavo ogni suo sforzo, ogni impegno profuso per un’interrogazione. Premevo sull’acceleratore della motivazione. E Carlos reggeva. Aveva recuperato tutte le materie e gliene mancavano due. Due lievi insufficienze. Stava iniziando a preparare l’elaborato di fine anno e nel frattempo si stava informando per un lavoro di consegne a domicilio che lo avrebbe impegnato per poche ore nel weekend. Emergeva il riconoscimento personale delle sue capacità in frasi come “penso di essere forte, tutti quelli che conosco, se stavano al posto mio, avrebbero mollato”. Riconosceva il suo dolore, la sua sofferenza silenziata negli anni e la sua vita di rinascita, rimanendo uguale. Si espresse proprio in questi termini.

In seduta c’è un nuovo ingresso. Non fisico. Verbale. Carlos decide di interrompere la relazione con Anna. Frasi come “basta, con quelle più piccole è un macello, non mi ci devo mettere in mezzo a sti casini” o “meglio stare con quelle della mia età”, mi facevano domandare se erano frasi per compiacere il terapeuta. Mi sembravano troppo poco riflessive, non mi fidavo o perlomeno non le concepivo come verità assolute. Nei fatti Carlos si stava frequentando con una ragazza della sua età, Gaia. L’aspetto anagrafico, non posso negarlo, mi faceva tirare un sospiro di sollievo anche se poi era evidente che il funzionamento seguiva un filone sessuale. Normale o concesso in un adolescente? Riguardava l’attaccamento. Tutto riguarda l’attaccamento. Per Carlos, però, le ragazze non erano esclusivamente sessualità, erano anche un riparo, una ricerca di stabilità emotiva e me ne parlava. Urlava la voglia di sentirsi ascoltato, di essere capito, aiutato, compreso emotivamente, nella relazione con l’altra. E lui voleva fare lo stesso. Aiutare, “perché in passato non mi ha aiutato mai nessuno” disse. Reputavo necessario ragionarci maggiormente con Carlos nella seduta successiva. Ma le terapie hanno delle priorità che non possono prevedere.

I primi giorni di giugno un messaggio whatsapp di Carlos illumina le notifiche: “so’ stato bocciato”. Come un sasso lanciato nel mare. Senza contorni, sensazioni, pensieri. Il dato di fatto e nient’altro. Seguiranno delle domande da parte mia per indagare come si sente, da chi lo ha saputo e cosa pensa. Mi dirà solo che non lo dirà alla madre prima dell’uscita dei quadri a scuola perché teme la sua reazione. E alla seduta successiva la madre lo accompagnerà e lo aspetterà in sala d’attesa.

Quando entrò Carlos, tra di noi c’erano quei messaggi di qualche giorno prima relativi alla bocciatura e il suo sguardo basso entrò prima di lui. La prima cosa che gli chiesi fu come stava andando il lavoro. Lo feci per spezzare il suo meta-contesto, pensavo immaginasse una delusione da parte mia o peggio un rimprovero e funzionò. Si attivò sulla mia domanda che sciolse la tensione.

In merito alla bocciatura capì che era dipesa da lui. Aveva recuperato tutte le materie lasciate indietro sì, tranne due. La sua difficoltà non era stata rispetto a quelle due materie, ma al professore che gliele proponeva. Con cui era entrato in simmetria. Quel professore che vedendolo uscire dalla classe, una volta gli disse “dove cazzo vai?”. Quel professore stronzo che lo guardava con gli occhi di superiorità, questo il vissuto di Carlos. Non impegnarsi nelle sue materie, questa la reazione di Carlos. E la bocciatura ancora più simmetrica, di quel professore che pare sia stato l’unico a volerla portare avanti nel consiglio di classe.

Misi in relazione questa sua modalità con il funzionamento di Carlos relativo alle provocazioni, se lo provocavano “mi parte il matto”, diceva. Imparai l’utilità di un intervento di psico-educazione spostando la relazione con quel professore, quell’attacco nei confronti dell’autorità, nel mondo del lavoro, mettendolo davanti al suo auto-sabotaggio e sottolineando come l’unica persona che ci avesse rimesso fosse stata lui. Lo confrontai con un futuro probabile (vista la sua autentica voglia di lavorare) e con quante altre volte si sarebbe dovuto confrontare con persone, gerarchicamente superiori a lui, nel mondo del lavoro. Cercai di guidarlo nel trovare alternative di comunicazione al “mandare tutto all’aria perché qualcuno non mi va a genio” e a come alla cattiveria (perlomeno vissuta) non si deve per forza rispondere con la cattiveria, simmetrica. Indagai come era stata vissuta la notizia a casa, ma non raccolsi nulla se non che Sebastian lo rassicurò dicendogli che avrebbe fatto il parrucchiere e che quella scuola alla fine non serviva a nulla. Sicuramente alla madre non era andata giù quella bocciatura ma credo fosse stata attutita dallo stare meglio di Carlos, dal suo impegnarsi, dal suo lavoro attuale di consegne a domicilio e della sua voglia di iniziare l’accademia.

La madre guardava al processo, come me del resto. Entrò alla fine di quella seduta, la numero 14 del 10 giugno del 2021. Mi chiese cosa pensavo e se secondo me era il caso di andare a scuola a chiedere spiegazioni, Carlos nel frattempo era in silenzio e osservava. La signora Rossana aveva capito il funzionamento del figlio nei confronti di quel professore e mi fece intuire che non sarebbe andata a scuola perché inutile. Voleva un contenimento da parte mia e una rassicurazione sulla responsabilità di suo figlio che ottenne.

La seduta successiva aveva come obiettivo quello di valutare le reazioni di Carlos alla bocciatura e se e come avesse minato la sua autostima. Mi raccontò di un chiarimento con la madre durante il viaggio di ritorno della seduta precedente, parlarono di quello che era successo con quel professore e come Carlos si era reso conto di essersi auto-sabotato e come quel comportamento sia stato controproducente. Lo vedevo maggiormente motivato, era contento di essersi scrollato di dosso la scuola anche se non l’aveva terminata, consapevole del fatto che se avesse voluto avrebbe potuto prendere il diploma in seguito. Ribadiva che il diploma in agraria non gli serviva né per fare il parrucchiere né per interesse personale, “non so manco io perché mi so’ iscritto a quella scuola”. Nel frattempo, con il lavoro delle consegne a domicilio, era riuscito a mettere da parte dei soldi che gli sarebbero serviti per una vacanza. La prima della sua vita. Ne parlava con gioia. Della vacanza e del lavoro. Condivise dove sarebbe voluto andare, per quanto tempo, le sue incertezze rispetto ai mezzi da prendere e agli alberghi da prenotare. Con Gaia, la storia continuava e si sentiva bene. Frequentava alcuni amici della scuola allontanandosi di alcuni chilometri dal paese dove abitava e nei weekend aveva iniziato a lavorare con la madre al negozio per iniziare a fare esperienza come parrucchiere. Era entusiasta.

Parlammo della pausa estiva. E io lo feci prima in supervisione dove riflettei che nell’andare avanti del training erano cambiate le domande alle didatte. Erano cambiate in funzione dell’allungarsi delle terapie e della crescita degli allievi. Erano domande a cui prima non si pensava neanche. Di una banalità nella formulazione ma di un’importanza enorme: come si fa con la pausa estiva? Ci fermiamo luglio e agosto? Non troppo inaspettata la risposta, il terapeuta non vuole fare terapia d’estate?

Ci riflettei. Non mi andava di “forzare” Carlos nel continuare anche d’estate, era un pensiero personale che affondava le sue radici in una mia percezione che a quell’età “l’estate è sacra”, tempo di divertimento e spensieratezza e la psicoterapia come tante altre cose è punitiva.

Ma riconobbi la necessità di evolvermi e lo feci pensandoci meglio. Guardando al processo. Ritenevo che Carlos si fosse impegnato molto in terapia e questa aveva dato i suoi frutti. Di quel ragazzo spaventato per quello che era successo, incerto sul perché avesse avuto rapporti sessuali con una tredicenne, ansioso, demotivato e congelato era rimasto ben poco. Ne vedevo un altro, concentrato, autocritico, responsabile e maggiormente consapevole. Un ragazzo che, tra le tante cose, aveva avuto il coraggio e la forza di dire a qualcuno che era stato abusato. Ne parlai con lui, in merito a un’eventuale interruzione estiva. Mi disse esplicitamente che aveva la necessità di staccare un attimo perché quelli passati erano stati mesi intensi, voleva prendere un po’ d’aria, farsi una vacanza, per poi riiniziare a settembre. La psicoterapia e l’accademia per parrucchieri. Ci vedemmo un’altra volta a metà luglio, prima di rincontrarci la prima settimana di settembre.

IMPROVVISO [Sedute 17-21]

Puntuale e disteso arriva Carlos, a maniche corte. Felice delle sue vacanze si racconta. È piacevole per me ascoltarlo e valutare tra le pieghe delle sue parole come si sente, come funziona. Con aria adolescente si lamenta sorridendo dei week-end faticosi passati a lavorare al fianco di mamma. Non vede l’ora di iniziare l’accademia e organizzarsi per cambiare giorno e orario della terapia, perché l’accademia è vicina allo studio. La preparazione a una nuova routine che lo motiva. La relazione con Gaia si è stretta durante l’estate, hanno passato 4 giorni insieme in una località di mare e si diverte ripensando a quando persero il treno per il ritorno. Sorride ricordando come è riuscito a gestire la preoccupazione di mamma mandandole dei messaggi tre volte al giorno per scriverle cosa faceva e se stava bene.

Si definisce nella relazione con Gaia spiegando quali siano le sue esigenze e le sue necessità, discutono e si confrontano in maniera costruttiva su cosa sarà di loro nel caso lei vada a studiare fuori. I suoi discorsi mi arrivano determinati, riflessivi e consapevoli lontano da quel “con Roberta facevo quello che mi diceva la testa”.

Era cresciuto. Era cresciuto durante la terapia e in terapia. Mi stupii in positivo. Come lui, del resto, che si sentiva bene, ora. Con Gaia e con la sua famiglia conosciuta prima e frequentata poi, ogni tanto. Con le sue nuove amicizie con cui condivideva momenti, idee e riflessioni. A casa, con la sua famiglia numerosa e con le indecisioni del fratello maggiore rispetto all’università che stava per intraprendere. Tornammo sulla bocciatura e se ne riconobbe la responsabilità, riuscendo allo stesso tempo a dire ad alta voce che non ci cascherà se in futuro gli accadranno situazioni simili.

Impara la lezione, dimentica l’errore, dirà citandomi e sorridendo. Nel frattempo io pensavo che stava per arrivare il momento di chiudere la terapia e valutavo se quella era la giusta impostazione per costruire la chiusura. Ne iniziai a parlare con lui dopo la pausa estiva e gli proposi di vederci una volta ogni due settimane e Carlos accettò di buon grado. Pensavo fosse una giusta fase di allentamento che mi avrebbe portato ad accompagnarlo all’uscita, rinforzandolo per l’impegno e gratificandolo per i risultati raggiunti. Pensavo fosse funzionale seguire i suoi primi passi nell’accademia e così feci. Dopo la pausa estiva ci vedemmo quattro volte e la motivazione di Carlos per i corsi intrapresi non era scesa, anzi. Si trovava molto bene, con la pratica, la teoria e i compagni di corso.

Il lavoro nei weekend proseguiva spedito e per lui era sia una fonte di guadagno che di apprendimento, mettendo in pratica quello che faceva durante la settimana sui manichini. A metà ottobre ero pronto per salutarlo, sentivo che era il momento più opportuno per farlo. Andai in studio con la voglia di sperimentare quella sensazione. Dal parcheggio al portone, in quei cinque minuti a piedi mi accorsi, ancora, che ero cresciuto. Non pensavo all’inizio della terapia o alla seduta precedente o alle ipotesi del pre-seduta. Ero elettrizzato dall’ultima. Dalla prima volta dell’ultima seduta. Salgo le scale, apro la porta. Mi siedo chiedendomi come la prenderà Carlos. Come la prenderemo entrambi.

Nei miei lunghi anni di assistenza domiciliare con i minori, il meta-messaggio che comunicavo sulla nostra relazione era, dall’inizio, che sarebbe finita. Sarebbe continuata in un altro modo sì. Ma l’assistenza sarebbe arrivata al termine. Come a dire, un giorno ce la farai da solo. Il coronamento dello svincolo. E così con Carlos. Che suona entra. Si siede. Scendo dai miei pensieri perché il suo volto mi richiama, diverso dal solito. “Gaia è incinta”, dice.

Se fosse stato un racconto lo avrei fatto finire così. Con quella frase inattesa e spiazzante che lasciava il lettore davanti a innumerevoli possibilità di pensiero. Ma questo non è (solo) un racconto. In un certo modo è il mio testamento. La fine di un allievo-terapeuta, l’inizio di qualcos’altro che da quell’allievo è partito. Quella frase “Gaia è incinta” è stata maestosa. Disarmante allo stesso tempo. Complicava la situazione ai miei occhi. Mi attivo dopo aver attutito l’urto e vedo un ragazzo davanti a me emozionato e confuso. Determinato a gestire nel migliore dei modi lo spavento. È funzionale nel fare domande anche pratiche, mi parla di Gaia e delle sue di difficoltà. Lo hanno scoperto da tre settimane e non lo hanno detto ancora a nessuno. Carlos è il primo a dirlo a qualcuno. Mi parla già di rimboccarsi le maniche. “Andiamo a vivere in quella che era la casa dei nonni di Gaia, lavorerò e ce la farò. L’hanno sempre fatto tutti. Dovrò fare degli sforzi, mi rendo conto. Ma non è un problema”. Stava ancora cercando di capire come e quando dirlo ai suoi genitori e di prevedere le loro reazioni per come comportarsi di conseguenza. Tra i tanti dubbi che tentò di sciogliere in quella seduta, aveva (avevano) un’unica certezza, quella che a ogni costo avrebbero tenuto il bambino.

Io, dall’altra parte della sedia che pensavo a come chiudere la terapia, ho dovuto fare i conti con l’inatteso e all’improvviso rimodularmi. In quell’ora cercai di indagare tutte le aspettative di Carlos sul diventare padre, in funzione di se stesso come uomo e rispetto ai contesti con cui entrava in relazione, il lavoro, l’accademia, la sua famiglia, quella di Gaia, gli amici. E come poteva cambiare la sua vita. La sua consapevolezza e la sua maturità a riguardo mi colpirono in positivo, ancora una volta. Dov’era finito quel ragazzo impaurito? E quel bambino ferito? Forse non erano spariti, non erano stati soffocati questa volta ma erano stati assorbiti. Integrati. In un uomo che stava e voleva diventare padre, anche se molto giovane, almeno secondo il contesto che corre.

E poi mi parlò dell’aspetto economico. E che non poteva più proseguire con la terapia perché a casa le spese erano tante. L’università di Sebastian e l’accademia per lui, le più gravose.

Dissi più volte che l’aspetto economico potevamo gestirlo in un altro modo, che non era un problema pagarmi più in là. Ma forse non stavo cogliendo il messaggio di Carlos, quello velato, quello appuntato nella sua agenda segreta. Forse mi stava dicendo che non sentiva più il bisogno della terapia, ringraziandomi. Che era arrivato il momento per lui di andare con le sue gambe, per la sua strada, con lo zaino delle sue capacità (ri)scoperte in terapia. Forse mi stava dicendo che non aveva più bisogno che la madre si occupasse del suo dolore, pagandogli le sedute. Perché quel dolore era riuscito a dirlo e a farlo suo. Lo accompagnai alla porta e lo salutai. Vedendolo scendere le scale pensai che Carlos aveva una capacità estrema di essere determinato scansando le incertezze. E questo mi ricordava la sua vita.

COMMENTO

Quella fu l’ultima seduta con Carlos. Mi scrisse dei messaggi qualche giorno dopo raccontandomi di come era riuscito a dirlo ai suoi genitori e a quelli di Gaia. L’avevano fatto insieme, non con pochi timori. Mi disse che le cose, dopo una prima fase difficile, erano andate meglio e lui stava bene. Io gli lasciai la mia disponibilità sottolineando i suoi punti di forza e le sue capacità nel farcela normalizzando le sue insicurezze su quello che lo aspettava. Dopo un mese da quell’ultima seduta gli proposi di sentirci telefonicamente per fissare eventualmente un appuntamento ribadendo la mia apertura, nel caso avesse voluto chiamarmi. Rispose “grazie mille, ci risentiamo”. Dopo qualche settimana mi mandò l’ecografia di “Giulio”.

Dalla foto dell’ecografia sono passati 3 mesi, forse troppo presto per un follow-up. Sento la curiosità di sapere come sta Carlos ma la tengo a freno perché ho l’impressione di aver “forzato” in quell’ultima seduta e nei due messaggi che gli scrissi nel giro di un mese, dove ribadivo la mia apertura sia nel chiamarmi ma anche rispetto alla questione economica. Bastava dirlo una volta. Tre sono troppe e sbilanciano il rapporto.

Scrivergli ora penso possa essere un rischio nel contaminare il ricordo del percorso fatto e la nostra relazione. Lasciarlo “solo” ancora per un po’ potrebbe rivelarsi funzionale a legittimare il messaggio che ho cercato di rimandargli alla fine e cioè che può farcela da solo perché ha tutte le capacità.

Dalla prima seduta con Carlos è passato circa un anno. Roberta non lo ha mai denunciato e la madre di Roberta è tornata a tagliarsi i capelli al negozio di Rossana, da dove tutto è iniziato. Questi sono i fatti. La cronaca. La breve descrizione di un ritorno alla quiete dopo la burrasca. Ipotizzo che la madre di Roberta, nel tornare nel negozio di Rossana, stava a suo modo dicendo che si sbagliava rispetto al presunto figlio stupratore. Così come Roberta, che in quell’occasione accompagnò la madre e la aspettò fuori, guardando Carlos dalla vetrina mentre spazzava i capelli da terra.

Una riflessione va comunque fatta perché questa terapia tocca più che sfiora l’aspetto giuridico. Perché Carlos, anche se non ha stuprato Roberta, ha avuto rapporti sessuali con una minore che, anche se per pochi mesi, non aveva ancora raggiunto l’età del consenso. E se Carlos fosse stato denunciato? E se fosse andato in carcere? Avrebbe mai svelato il suo segreto? Cosa sarebbe diventato?

Queste sono domande aperte, senza risposta. Come tante lasciate indietro nelle pagine precedenti. Anche loro, senza risposta.

La scelta di lasciarle così fa parte di un percorso. Il mio. Un percorso che è passato – tra le tante cose – attraverso quel “pensi troppo”, quando alle domande dovevo per forza trovare una risposta. Ma le domande che funzionano in terapia sono quelle che stimolano una riflessione, quelle che almeno apparentemente rimangono senza una risposta e innescano delle traiettorie di pensiero. Delle suggestioni, dei significati, delle risonanze. Quelle domande sono state parte fondante del processo terapeutico con Carlos e della mia crescita, negli anni di training e in questa terapia. Si sono rivelate dei tasselli di comprensione necessari che mi hanno aiutato a ragionare sulle terapie stesse. E su me stesso.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

«Di quelle poesie ricordavo tutto, tranne le parole».

Paul Auster [16]

Rileggere la terapia di un anno fa è stato come guardare una foto. Una foto a macchie, sfocata in alcuni punti, definita in altri. Nel guardarla, le vibrazioni emotive sono cambiate rimanendo identiche. Perché il terapeuta è lo stesso ma anche un altro, nella misura in cui tutti noi cambiamo.

Non sono così diverso oggi rispetto a come lo ero nella stanza di terapia con Carlos, ma se risalgo la linea del tempo fermandomi sul primo gradino del training, la differenza è fragorosa.

Quattro anni sono sembrati 40. E quattro secondi allo stesso tempo. Intensi e nitidi. Concetti, esperienze, registrazioni, citofonate, supervisioni, così vivide che sembra ieri, adesso. Emozioni diventate risonanze, punti ciechi travestiti da contro transfert, in evoluzione.

Il terapeuta deve fare sempre i conti con la famiglia che ha in testa, ma non solo con lei, a questo punto. Deve farli anche con le didatte che si sono scolpite nella memoria al fianco di quella famiglia e che, come lei, funzioneranno: supervisione e conflitto di lealtà. Nelle stanze della psicoterapia.

Nell’adolescenza della mia formazione, tra individuazione e appartenenza, mi sono ribellato, a volte. Era imprescindibile. Non facoltativo.

Poi, come ho fatto con la mia famiglia, sono tornato, per rifare i bagagli e ripartire. Come i cormorani. E così al training. Che prima di tutto mi ha insegnato a vivere la mia di narrazione, poi quella degli altri. E io ho scelto di farlo scrivendo. Nero su bianco. Pixel dopo pixel.

La scelta di seminare brandelli della mia storia, nel racconto della terapia, si è rivelata inevitabile e allo stesso tempo necessaria. Non possiamo esimerci da noi stessi. Dalle nostre circostanze. Nelle quali si insinuano vaghe le nostre vocazioni terapeutiche che nascono confuse in bianco e nero e poi si colorano, sempre più ordinate. In un ordine che è senza fine, sottoposto a continua revisione editoriale.

Dove le tappe del ciclo vitale non sono altro che capitoli che, come quelli delle pagine precedenti, rappresentano un confine. Non rigido, ma chiaro definito e flessibile. E che permette di integrare le varie esperienze che viviamo, noi e chi ci chiede aiuto, in un’identità continua e permeabile, in grado di riformulare la propria storia, ogni volta che vuole.

E così Carlos, in lotta per definirsi, e chi lo racconta, alla ricerca di una nuova appartenenza più che di uno svincolo. Con l’idea che le persone sono il problema e la soluzione allo stesso tempo e la psicoterapia accade senza spettatori.

BIBLIOGRAFIA

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