Abusi sui minori.

Una storica sentenza della CEDU:

finalmente gli atti di pedofilia sono assimilabili alla tortura

Rose Marie Galante1, Silvia Pittera2

1Psicoterapeuta, fondatrice e docente del Centro di Terapia Relazionale (CTR) di Catania.

2Psicoterapeuta, allieva didatta del Centro di Terapia Relazionale (CTR) di Catania.

In un mondo che cambia con incredibile velocità, medici e terapeuti sono al centro di domande cui non è facile rispondere utilizzando la propria esperienza. Divulgare l’esperienza di chi ha lavorato per primo su temi dotati di un alto coef­ficiente di novità sarà, dunque, lo scopo principale di questa sezione della rivista.

In a fast world, practitioners and therapists are the target subjects of many questions to which it is not easy to answer using one’s previous personal expe-rience. The principal aim of this section will be to disseminate the experience of those who have been the first to work arguments with a high percentage of novelty.

En un mundo que cambia rápidamente, médicos y terapeutas se ponen una serie de preguntas que no son fácil de contestar recurriendo solo a la experiencia personal. Nos interesa divulgar acá, los aportes de aquellos que han trabajado por primera vez sobre algunos temas nuevos.

Riassunto. Il 2 febbraio del 2021, a Strasburgo, con una sentenza destinata a far giurisprudenza, la Grande Corte Europea dei Diritti dell’Uomo assimila finalmente gli atti di pedofilia alla tortura. Divulgare l’esperienza di chi per primo ha lavorato, in qualità di psicoterapeuta, su una così importante novità diventa dunque l’obiettivo primario di questo articolo, affinché quel lavoro, reso noto, faccia da bussola per tutti quegli operatori che, a vario titolo, si occupano della tutela e dell’ascolto dei minori che sono stati abusati e che oggi sono coinvolti in complessi e spesso gravosi processi giudiziari.

Parole chiave. Abuso, minori, pedofilia, tortura, adozione, psicoterapia.

Summary. Child abuse. A historic ruling of the ECHR: finally the acts of pedophilia are comparable to torture.

On February 2, 2021, in Strasbourg, with a sentence destined to make judicial history, the Great European Court of Human Rights finally declared that acts of pedophilia are equivalent to torture. Making this information available to those who work as a psychotherapist with victims of pedophile behavior is the primary objective of this article. This work should be known in order to guide all professionals who, for various reasons, have the responsibility to safeguard those minors who have been abused and who today are involved in complex and often burdensome judicial processes.

Key words. Abuse, children, pedophilia, torture, adoption, psychotherapy.

Resumen. Abuso infantil. Una sentencia histórica del TEDH: finalmente los actos de pedofilia son comparables a la tortura.

El 2 de febrero de 2021, en Estrasburgo, con una sentencia destinada a hacer historia judicial, el Gran Tribunal Europeo de Derechos Humanos finalmente declaró que los actos de pedofilia son equivalentes a tortura. Poner esta información a disposición de quienes trabajan como psicoterapeutas con víctimas de conductas pederastas es el objetivo principal de este artículo. Esta obra debe ser conocida con el fin de orientar a todos los profesionales que, por diversas razones, tienen la responsabilidad de salvaguardar a aquellos menores que han sido abusados y que hoy se ven envueltos en procesos judiciales complejos y muchas veces gravosos.

Palabras clave. Maltrato, menores, pedofilia, tortura, adopción, psicoterapia.

PREMESSA

Potrebbe sembrare inopportuno che gli psicologi parlino di questioni di giurisprudenza, questioni che non sono strettamente di loro competenza. Lo facciamo solo per dare voce ai bambini che, dopo essere sopravvissuti al trauma dell’abuso, vengono spesso ritraumatizzati da un processo giudiziario che, per come è concepito, può essere estremamente difficile da navigare. Abbiamo bisogno di strumenti che ci aiutino a rimanere a galla per salvare i minori a noi affidati. Ma come? La sentenza che ci accingiamo a presentare in questo articolo potrebbe essere di grande aiuto per molte figure sanitarie, a patto che le informazioni siano disponibili in una forma accessibile a tutti. Il primo passo per beneficiare delle implicazioni di questa storica sentenza che aspettavamo da molto tempo è informare i nostri colleghi che esiste e che può essere utilizzata per aiutare i minori vittime di abuso.

ABUSI SU BAMBINI, CONDANNATA LA BULGARIA

Il 2 febbraio del 2021, a Strasburgo, con una sentenza destinata a far giurisprudenza, la Grande Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha condannato, per la prima volta, uno dei 32 Stati membri dell’UE – la Bulgaria – per aver violato l’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale. La sentenza fa riferimento a un drammatico caso di abuso su tre bambini istituzionalizzati in un orfanotrofio bulgaro e successivamente adottati nel 2012, all’età di 9, 10 e 12 anni, da una coppia italiana. I tre minori, fratelli biologici, avevano subito abusi sessuali per un lungo lasso di tempo, che copre circa 8 anni della loro istituzionalizzazione presso un orfanotrofio statale, in Bulgaria, dal 2005 al 2013. I carnefici agivano apparentemente indisturbati all’interno dell’istituto, senza alcun controllo dello Stato bulgaro. Quest’ultimo, infatti, non si è avvalso di tutti gli strumenti disponibili, meccanismi di cooperazione internazionale compresi, e non ha assunto tutti i provvedimenti ragionevoli per far luce sul caso. Così come si legge nella sentenza, lo Stato bulgaro «non ha svolto un’analisi minuziosa e completa degli elementi a disposizione e delle prove consegnate».

La Corte, con la sua condanna, ha sancito un principio che ci auguriamo sia destinato a cambiare le sorti di altri bambini vulnerabili: gli atti di pedofilia sono finalmente assimilabili alla tortura e pertanto «ai sensi della Convenzione, gli Stati sono tenuti a raccogliere proattivamente tutte le prove pertinenti, a prendere sul serio la voce e le opinioni delle vittime e a responsabilizzare i professionisti della medicina, della psicologia, dell’istruzione e delle scienze sociali, per aiutare i bambini a parlare liberamente; riguardo alla metodologia investigativa, questa deve rispondere ai requisiti di celerità, avere carattere ed approccio proattivo e non burocratico, utilizzando mezzi di raccolta delle prove quali intercettazioni, perquisizioni, sequestri. Le testimonianze dei bambini devono essere valutate con metodi scientifici e tenute in prima considerazione, i bambini devono essere protetti e auditi con ogni precauzione». Questo apre nuove possibilità professionali per gli operatori della salute mentale: psicologi, psicoterapeuti e neuropsichiatri infantili chiamati proprio a garantire un ascolto e una valutazione sicura, rispettosa e protettiva per i minori.

Ogni operatore che, a vario titolo, si occupa di abuso sessuale e di bambini violati, sa quanto il proprio intervento rischi, se effettuato senza una solida formazione e senza l’utilizzo di strumenti e tecniche appropriati, di risultare ritraumatizzante per i piccoli che devono rimmergersi in una esperienza tremendamente dolorosa. Sa anche quanto sia difficile raccogliere prove validanti le violenze e gli abusi subiti dai piccoli testimoni che, per via della giovanissima età, potrebbero essere facilmente inficiate da fantasie interne e suggestioni esterne.

La suggestionabilità della memoria dei bambini è stata confermata da molteplici ricerche. Ceci ed i suoi collaboratori della Cornell University già nel 1989 verificarono come l’aggiunta di false informazioni avvenga in relazione a chi le racconta: se è un altro bambino a suggerire l’informazione falsa, la maggior parte dei piccoli soggetti tende a dimenticarla e a ricordare la storia originale, ma se si tratta di un adulto, quasi tutti i bambini aggiungeranno i nuovi elementi ai loro ricordi [1]. Ci sono parecchi studi, poi, che dimostrano come sia possibile indurre i bambini a ricordare eventi mai accaduti [2].

Stavolta, invece, la Corte ha dato atto delle metodologie e delle prassi adottate nelle interviste giudiziarie atte a raccogliere le testimonianze. Tra queste, il sistema di valutazione CBCA (Criteria Based Content Analysis), utilizzato nella perizia, è oggi considerato da molti esperti forensi uno dei più affidabili strumenti scientifici, sul piano internazionale, per verificare l’autenticità dei racconti rilasciati dai minori vittime di abusi. Ma non solo. La Corte ha accolto anche le testimonianze della psicologa Sarah Bach, esperta in psicologia giuridica, e della psicoterapeuta sistemico-relazionale dott.ssa Rose Galante, la quale ha seguito il recupero psicologico dei tre minori una volta giunti in Italia. L’équipe, che ha affiancato la famiglia adottiva dei tre bambini in questo lungo e tortuoso processo che li ha visti vincitori, si è avvalsa della professionalità dell’avvocato Francesco Mauceri, il quale ha curato gli aspetti legali in difesa dei minori. Il processo, fortemente voluto dai genitori adottivi dei tre bambini, è stato possibile grazie al loro coraggio e alla tenacia nel chiedere giustizia per i loro figli e per assicurarsi che l’orfanotrofio dell’orrore, ormai dismesso da 6 anni, non potesse ancora farsi scenario di altri orribili crimini contro bambini indifesi.

La sentenza, già straordinaria per la condanna che sancisce, reca con sé altre fondamentali implicazioni, di cui la Grande Corte sottolinea l’importanza. Innanzitutto, «sebbene il caso riguardi l’abuso sessuale in un contesto istituzionale, i principi sviluppati nella sentenza, derivanti dall’art. 3 della Convenzione, possono essere ugualmente applicabili agli abusi sui minori presi in carico al di fuori degli istituiti (anche in famiglia o in strutture non familiari)». Inoltre, giacché gli abusi in questione «sono stati commessi non solo in un luogo in cui i bambini erano stati collocati dalle autorità, ma anche da individui che erano nella cerchia di fiducia dei bambini (persone con funzioni di assistenza)», le conclusioni della sentenza «possono estendersi, a corollario, anche a tutte le accuse di abusi sessuali presumibilmente commessi all’interno della cerchia di fiducia dei minori, compresa la famiglia e i pari – e ciò aumenta ulteriormente l’importanza delle conclusioni a cui è giunta la Grande Corte».

Come se ciò non fosse già un’eccezionale conquista, questa storica sentenza indica anche delle specifiche strategie per combattere l’abuso sessuale dei bambini negli ambienti di loro fiducia. È infatti attraverso di essa che viene suggerito finalmente «un approccio olistico per combattere gli abusi sui minori. Un approccio che comprenda prevenzione, assistenza multidisciplinare alle vittime, trattamento delle segnalazioni, indagini, procedimenti e sanzioni penali e di altro tipo, e cooperazione internazionale».

Il 2 febbraio 2021 si è scritta un’importante pagina per la storia della tutela dei diritti umani dei più piccoli. Questa vittoria è, in grande, la vittoria dei bambini sui pedofili e, più in piccolo, ma non per questo meno importante, la vittoria di questi tre bambini e di questa coppia che ha voluto adottarli. Combattendo insieme la battaglia per i loro diritti queste persone sono diventate gli uni figli e gli altri genitori, accogliendosi reciprocamente, nel desiderio e nella responsabilità di adottarsi vicendevolmente, al di là delle proprie storie personali, della sofferenza e della paura, dando senso a un legame che va oltre il dato biologico e li trasforma, di fatto, in una famiglia.

L’APPLICAZIONE DEL CBCA

Come precedentemente riferito, la sentenza della CEDU risulta particolarmente importante anche per aver dato atto delle metodologie e delle prassi adottate nelle interviste giudiziarie scelte per raccogliere le testimonianze dei tre minori. Tra queste, il sistema di valutazione CBCA, utilizzato nella sua perizia dal neuropsichiatra infantile incaricato, il quale aveva ricevuto mandato dal Tribunale per i Minorenni di competenza di procedere a consulenza peritale per accertare la condizione psicofisica dei minori, l’eventuale sussistenza di sintomi riconducibili ad abusi sessuali (maltrattamenti) riconducibili alla pregressa esperienza di vita comunitaria, nonché le dinamiche relazionali tra gli stessi e la famiglia adottiva.

Come sappiamo, la metodologia di esame è determinante quando il testimone è un bambino. I bambini non hanno ancora appreso lo schema convenzionale che presiede alla rievocazione di eventi passati e, quindi, tutto dipende dalle domande con cui gli adulti guidano i loro ricordi. Una perizia sulla credibilità deve indagare innanzitutto:

• la capacità di ricordare eventi vissuti in prima persona (memoria autobiografica);

• la capacità di discriminare il possibile dall’assurdo;

• la capacità di discriminare fatti veri e falsi della propria esperienza;

• il livello di espressione linguistica;

• il livello di comprensione linguistica;

• il rapporto tra complessità del fatto narrato e sviluppo cognitivo raggiunto.

Lo Statement Validity Analiysis, di cui il CBCA è il componente principale, è considerato da molti, dopo un’ampia ricerca per verificarne attendibilità e validità, uno dei più sicuri strumenti a disposizione per discriminare la veridicità o la falsità delle testimonianze dei minori sessualmente abusati. L’assunto di base è che il racconto di esperienze reali differisce quanto a struttura, qualità e contenuto da narrazioni che sono false o di fantasia. L’attenzione non è dunque posta sulla personalità del soggetto dichiarante, ma sull’analisi, in base a criteri testati nella loro validità, di quanto dichiarato, alla lettera, nelle diverse occasioni in cui sono riferiti i fatti in esame. Essa si prefigge quindi di valutare non la credibilità del testimone, ma del contenuto della sua testimonianza.

Il CBCA è una tecnica semistrutturata che analizza dunque il contenuto della testimonianza sulla base di 19 criteri, valutati utilizzando una scala da 0 a 3 punti e sintetizzati in cinque categorie riguardanti:

1. le caratteristiche generali della deposizione;

2. i contenuti specifici della deposizione;

3. le peculiarità di contenuti;

4. i contenuti relativi alla motivazione;

5. gli elementi specifici dell’offesa.

Questa intervista esordisce sollecitando il bambino a fornire le informazioni necessarie per la testimonianza con un racconto libero, che è considerato uno dei modi elettivi per avere una dichiarazione di qualità e, solo successivamente, qualora fossero necessarie ulteriori informazioni, vengono poste domande aperte e dirette, ovviamente non suggestive [3].

La suggestionabilità della vittima è solo una faccia di una medaglia che pare avere molte sfaccettature. Come emerge da una ricerca svolta da Diano e Donati [4], che hanno esaminato gli operatori di 20 servizi socio-sanitari dislocati su tutto il territorio nazionale e deputati alla presa in carico di casi di abuso sessuale all’infanzia, “gli esperti” sembrano infatti rischiare di non riuscire a essere obiettivi come dovrebbero, per via di falsi criteri e pregiudizi che ancora oggi, in tema di abuso sessuale su minori, stentano a cadere. I principali sembrano essere: a) l’idea che se il bambino ritratta allora mentiva; b) l’idea che allontanarlo dalla famiglia abusante può essere più dannoso dell’abuso stesso; c) l’idea che in assenza di lesioni o segni visibili si può escludere che vi sia stato abuso; d) l’idea che una denuncia tempestiva non è sempre necessaria; e) l’idea che approfondire la psicologia del minore non serva. Questi pregiudizi influenzano spesso l’operatività con l’esito che alcuni casi vengono archiviati troppo frettolosamente, saltando magari passaggi essenziali del percorso valutativo e protettivo. Si ha come l’impressione che potersi rifugiare in essi, talvolta, sia sentito dagli operatori come rassicurante e, proprio per questo, modificare l’azione di questi pregiudizi risulta ancora oggi così difficile.

Sul CBCA e sulla sua attendibilità esiste un’ampia ricerca che, giustamente, è proliferata quando esso è stato introdotto su larga scala all’interno delle aule di tribunale. Le ricerche, pur non senza contraddizioni, sono giunte oggi a considerarlo uno strumento capace di discriminare le testimonianze vere da quelle false, giungendo alla conclusione che le storie vere, a differenza di quelle false, posseggono una struttura non organizzata con elementi inconsueti o ritenuti comunemente superflui e presentano anche diverse correzioni spontanee, insieme a numerose descrizioni dello stato mentale soggettivo (con riferimento a emozioni, pensieri e percezioni autoriferite). Non appaiono rilevanti, invece, i criteri connessi a contenuti abusanti quali l’attribuzione di uno stato mentale all’abusante, l’autodeprecazione e il perdono dell’abusante. Di dubbia interpretazione, ma più frequenti nelle storie non vere di trauma lieve, i criteri relativi a mancanza di memoria e dubbi sulla propria testimonianza [5].

Nel caso dei nostri tre minori, la perizia effettuata dal neuropsichiatra infantile incaricato evidenziava che essi parevano possedere una adeguata memoria autobiografica, riuscendo a discriminare il possibile dall’assurdo e i fatti veri da quelli falsi, in riferimento alla loro esperienza. Dalla perizia emergeva che il livello di espressione e comprensione linguistica era modesto per Antonio e migliore per le due sorelle minori. In merito alla valutazione, invece, del livello cognitivo, il perito concludeva che, nonostante l’insussistenza di esami specifici, non si potessero rintracciare dall’analisi della documentazione e degli atti acquisiti ai fini dell’esame carenze cognitive di grado grave o moderato in grado di fare ipotizzare una disabilità che potesse inficiare significativamente la capacità testimoniale dei tre fratelli. Inoltre le narrazioni sembravano tutte sufficientemente ricche di dettagli e di particolari e il racconto dei fatti risultava sostanzialmente sovrapponibile nei diversi momenti narrativi (al padre, ai terapeuti del Centro di Terapia Relazionale - CTR, al procuratore della Repubblica del Tribunale per i Minorenni di riferimento). Sempre il perito concludeva che la relazione con i genitori, allora affidatari, poi divenuti adottivi, appariva sostanzialmente buona, essendo essi stati in grado di «gestire e contenere, anche sotto il profilo personale, un carico emotivo di notevole entità».

PSICOTERAPIA DELL’ABUSO: UN LAVORO DI RISPETTO PER MINORI NON RISPETTATI

Affinché queste cinque persone diventassero una famiglia e curassero le loro profonde ferite è stato necessario un lungo e appassionato lavoro di psicoterapia condotto su due diversi fronti:

• la riparazione delle infanzie infelici dei tre bambini attraverso la rielaborazione degli aberranti abusi subiti in Bulgaria;

• la costruzione del legame tra i minori e i genitori adottivi, affinché questi ultimi potessero risultare affettivamente contenitivi, stabili e capaci di offrire ai figli una famiglia che non fosse solo luogo di protezione ma anche e soprattutto luogo generativo di nutrimento affettivo e scambio emotivo.

Il percorso, condotto nella sede del CTR di Catania dalla dott.ssa Rose Galante, di volta in volta assistita da colleghi laureati in psicologia e specializzandi in psicoterapia sistemico-relazionale, è durato circa 6 anni, alternando delle fasi in cui le sedute avevano frequenza più ravvicinata a delle fasi in cui il lasso di tempo tra un incontro e un altro si allungava, secondo le esigenze della famiglia.

AVVIO DEL LAVORO TERAPEUTICO, PRIME QUATTRO SEDUTE

I bambini, in Italia dal giugno del 2012, prima di approdare al CTR al cospetto della dott.ssa Rose Galante sono stati incontrati una sola volta da uno psicologo dell’associazione Amici dei bambini di Milano (AiBi), associazione poi finita anch’essa nel mirino delle indagini svolte dalla Grande Corte. L’incontro viene organizzato il 2 ottobre 2012 a seguito delle accuse urlate da Claudia al fratello Antonio durante una lite “io ora dico cosa tu fai…”, facendo riferimento proprio agli abusi sessuali perpetrati su di lei e sulla sorella Federica dal fratello maggiore. Da sottolineare, in questa sede, come le modalità di prima acquisizione dell’esperienza abusante da parte degli affidatari (l’agito di Antonio sulla sorella e il conseguente riferito nel corso di una lite da parte di questa) si inscrivono in un meccanismo che dovrebbe essere ben conosciuto a chi si occupa di vissuti traumatici. Esso è infatti ampiamente descritto nella letteratura sull’argomento: «Eventi e modalità comportamentali appresi tendono ad essere ripresentati dai minori su soggetti percepiti come più deboli». Tuttavia, quando i genitori adottivi si sono rivolti agli esperti dell’associazioni AiBi, dopo la prima rivelazione degli abusi, questi hanno cominciato a esprimere l’opinione che i genitori non fossero idonei ad adottare i bambini. La CEDU parla chiaramente di «ruolo centrale svolto dall’associazione AiBi nel creare un’atmosfera di conflitto che non ha favorito l’avvio di indagini efficaci».

In questo clima di tensione, paura e drammatica sofferenza, in cui i genitori temevano di essere messi alla gogna per il loro operato e i minori temevano di essere riportati in Bulgaria, l’11 ottobre del 2012 i genitori dei tre bambini decidono di contattare la dott.ssa Rose Galante. Allarmati dai racconti di Claudia, chiedono, già durante il primo contatto telefonico, se fosse il caso di allontanare Antonio dal nucleo familiare, per assicurare maggiore protezione alle sorelle minori. Il primo intervento terapeutico, dunque, avviene al telefono, quando la dott.ssa Galante, con tono fermo ma rassicurante, dice a questi due genitori che “per adesso nessuno deve essere mandato via dalla famiglia”, almeno finché lei non avrebbe incontrato ognuno di loro. Nella stessa telefonata, la terapeuta suggerisce ai genitori una strategia che assicuri adeguata protezione ai minori: “Il papà dormirà in camera con Vincenzo, mentre la mamma dormirà in un’altra camera con le bambine”. I fratellini, in questa fase, non dovranno mai essere lasciati da soli senza la garanzia di una sorveglianza adulta.

È fondamentale, nei casi di sospetto abuso sessuale, muoversi fin dall’inizio nella direzione della tutela delle vittime, una tutela che ancor prima di essere psicologica (ascolto, sostegno, elaborazione del trauma e riparazione terapeutica) è logistica, ovvero prevede la messa in sicurezza della persona offesa, con provvedimenti di sorveglianza e, se necessario, anche di allontanamento.

Il 18 ottobre, la famiglia è finalmente riunita davanti alla dott.ssa Galante, al CTR di Catania, per la loro prima seduta. Il clima è teso, i bambini pensano che la terapeuta sia lì per stabilire chi di loro potrà rimanere in Italia e chi dovrà lasciare la famiglia. Che siano destinati a essere allontanati e a perdere ciò che avevano conquistato negli ultimi mesi era un’idea terrifica inculcata nella loro testa dalla direttrice dell’istituto bulgaro. Prima che lasciassero il loro Paese, infatti, li aveva redarguiti sul comportamento da tenere nella nuova famiglia: non dovevano avere rapporti sessuali tra loro e non dovevano nemmeno raccontare ciò che succedeva nell’istituto. Se avessero fatto diversamente la nuova famiglia li avrebbe rimandati indietro.

Non sono state poche le difficoltà nel convincere i bambini che la terapeuta che li aveva presi in carico non fosse un agente del governo bulgaro. La dott.ssa Galante ripeté loro molte volte, durante le prime sedute, che non poteva né voleva rimandarli in Bulgaria. I bambini erano stati più volte ingannati e, naturalmente, non era facile convincerli della sua buona fede. Alla fine fu Federica la prima ad accettare, con un certo grado di riluttanza, l’idea che potesse davvero esserci qualcuno il cui lavoro era “aiutare i bambini che avevano dei problemi”. Tuttavia Antonio e Claudia ci tennero subito a precisare che loro non avevano alcun problema, né li stavano creando ad altri. Così la terapeuta tentò di generalizzare, dicendo che gli operatori bulgari avevano provocato problemi a tutti i bambini ospiti dell’istituto e che certo non erano loro, col loro comportamento, che stavano creando problemi oggi. La proposta piacque ai bambini. Una volta conquistato il loro consenso fu possibile iniziare il vero lavoro psicoterapeutico, inizialmente giocando: furono loro mostrate carta e colori, ma li ignorarono, indirizzandosi incuriositi verso le bambole anatomiche e chiedendo spiegazioni sul loro utilizzo.

La stanza di terapia che li ospita è, per l’occasione, allestita in modo da essere un ambiente consono alla loro età, accogliente e rassicurante. Nella stanza sono presenti giochi, colori e fogli per disegnare. Vi sono anche diversi peluche.

Le prime quattro sessioni consistevano in discussioni aperte sul trauma, senza alcuna guida. All’epoca Antonio aveva 12 anni, Federica 10 e Claudia 8, ma sembravano due o tre anni più piccoli a causa della malnutrizione e della negligenza di cui erano stati vittime.

La comunicazione era ancora difficile a causa del fatto che i bambini non parlavano fluentemente l’italiano e non avevano il vocabolario per verbalizzare l’abuso sessuale. Questa condizione rendeva la scelta di utilizzare tecniche analogiche necessaria, non solo utile. Erano in Italia da soli 4 mesi e avevano non poche difficoltà a esprimersi nella nostra lingua, in particolar modo Antonio. A venire in aiuto, in questo caso, è stato l’impiego, già dalla prima seduta e per le successive due, delle bambole provviste di dettagli anatomici (anatomic dolls). Molti esperti ritengono che queste bambole offrano ai bambini sessualmente offesi la possibilità di “agire l’evento abuso” piuttosto che raccontarlo e, parimenti, permettono di superare eventuali problemi di linguaggio e di imbarazzo legati alla narrazione [1]. Inoltre esse possono rappresentare, per il bambino, un valido punto di partenza della conversazione sulla sessualità e possono fungere da test diagnostico. Pare, infatti, che i bambini abusati sessualmente giochino e interagiscano con le bambole in maniera significativamente diversa dai bambini non abusati.

«Nel colloquio clinico in campo forense l’esperto deve valutare con molta prudenza la narrazione di eventi e circostanze fatta dall’esaminato, i suoi giudizi su se stesso e su altri, le emozioni esibite e quant’altro, assumendo tutto prevalentemente come indizio degli obiettivi della persona e concentrando l’attenzione anche su quelle parti di sé che il soggetto tenta di celare o mette in ombra anche con l’utilizzo di strumenti validi e scientifici per la raccolta di informazioni. Nel caso specifico, le bambole anatomiche vengono utilizzate come elementi coadiuvanti il colloquio, per chiarire elementi della dichiarazione».

Questa tecnica consiste nell’offrire al bambino dei bambolotti sessuati, maschio e femmina, che rappresentano due nonni, due genitori e due figli, chiedendogli di mostrare quello che è successo. Sono i bambini a scegliere quale bambolotto usare e come.

Effettivamente, proprio come ci si attendeva, Antonio scelse subito le bambole in base al sesso e all’età della persona di cui si accingeva a raccontare, servendosi delle parti anatomiche e simulando le vicende raccontate. Il bambino armeggiava con la bambola di un uomo adulto con i capelli grigi e con una bambola più piccola, un ragazzino di sesso maschile. Rappresentava con molto vigore l’uomo che sodomizzava il ragazzino.

Nel “gioco” con le bambole anatomiche, Antonio mostrò subito le varie posizioni di “scambio” sessuale sottolineando, con l’italiano di cui disponeva, che era così che si faceva in istituto. Se ci si rifiutava, lasciava intendere il bambino, si veniva picchiati dagli ospiti più grandi dell’orfanotrofio, ovvero ragazzini di 14 anni che, oltre a riempirli di botte, violentavano i più piccoli per punirli. Anche Antonio, a sua volta, aveva reiterato le medesime condotte – assimilate come normali – sulle sorelle, già vittime di precedenti abusi da parte di altri ragazzini, ai quali pure lui aveva assistito.

Il caso di Antonio, appare immediatamente drammatico nella sua complessità. Egli è contemporaneamente soggetto abusato e abusante. Una interessante ricerca condotta da Merenda et al. [6] presso l’Università degli Studi di Palermo su 133 sex offenders minorenni presi in carico dall’USSM territoriale (Palermo, Trapani, Agrigento e loro rispettive province) ha messo in evidenza come le emozioni esperite da vittima e abusante a seguito della violenza sono solo parzialmente contrapposte, poiché entrambi i soggetti sono immaginati come in balia di qualcosa che non sono riusciti a controllare e su cui non hanno avuto potere, cosicché se la vittima prova dolore, schifo, sgomento, senso di colpa, paura, impotenza, rabbia e umiliazione, l’autore della violenza prova rabbia, confusione, vergogna, solitudine, inquietudine, soddisfazione e liberazione.

Se il trattamento di Antonio risulta complesso per via della duplice posizione rivestita dal ragazzino nella vicenda, lo stato psicologico di Claudia e di Francesca non risulta, certo, meno preoccupante.

Nelle sedute successive le bambole anatomiche sono state lasciate alle due bambine, le quali, attraverso il loro utilizzo, hanno sostanzialmente confermato, arricchendo di ulteriori dettagli raccapriccianti, quanto già denunciato dal fratello maggiore.

Le sorelle erano in conflitto come accadeva sovente, entrambe volevano la bambola che rappresentava la bambina più piccola e se la contendevano. Alla fine fu Claudia a spuntarla, urlando e minacciando di mordere la sorella. La terapeuta fece notare che c’erano solo due figli, due genitori e due nonni e quindi avrebbero dovuto fare i turni per usare le bambole anatomiche. Fu completamente ignorata e le bambine continuarono a contendersi le bambole, come se nulla fosse. Tuttavia riuscirono a rappresentare ogni abuso sessuale subito. Quando Claudia permise alla sorella maggiore di prendere la bambolina più piccola, Federica rappresentò una scena di sesso orale con l’uomo dai capelli scuri e successivamente una penetrazione sessuale completa. La ragazzina specificò che avevano provato a forzare anche Claudia a fare del sesso orale ma che la sorellina minore aveva urlato con tutta la forza che aveva in gola, dimenandosi moltissimo e mostrando i denti, riuscendo infine a scappare.

I bambini, in quella fase, non sembravano affatto disposti a parlare dei loro sentimenti, ma erano molto concentrati sui dettagli delle loro esperienze. In linea di massima erano d’accordo su quello che era successo, ma alcuni particolari erano controversi: litigavano su chi avesse fatto cosa a quale dei bambini. Questo era molto importante per loro, tanto che i toni si fecero piuttosto alti e volarono accuse reciproche e molto feroci di essere bugiardi.

Federica, in particolare, riferiva di ripetuti abusi commessi nei suoi confronti, dai fratelli e da molti altri bambini dell’istituto, circa 60, e da diversi operatori tra cui uno, di cui fece il nome, descritto come il peggiore di tutti, il quale non si faceva scrupolo di sodomizzare i bambini costringendoli ad atti sessuali completi e azioni ripugnanti di ogni genere. Federica sembrava avere vissuto il tutto come un gioco, non connotando negativamente gli accaduti: “io vedevo M. e B. che facevano sesso e io facevo con Antonio”. Entrambe le sorelle si mostrano invece preoccupate per il fratello, che in più occasione era stato vittima di violenza fisica: “più botte a Antonio, io poco”. In questo passaggio è necessario considerare come i bambini piccoli non abbiano una realistica cognizione della sessualità, per cui, anche se traggono sensazioni di fastidio dagli atti del molestatore, spesso hanno una percezione confusa di ciò che avviene. Non di rado la confusione è alimentata dall’aggressore stesso, il quale camuffa come “normale” o come “gioco” la propria azione. Altre volte i bambini vengono indotti dall’aggressore a conservare tra loro due “il segreto”, anche con gravi minacce.

Claudia, vivace ed estroversa, inizialmente non prese parte al racconto; intervenne solo dopo per raccontare un episodio particolarmente traumatizzante: fece riferimento a una “discoteca”, in realtà un albergo dismesso, dove lei stessa, la sorella e gli altri bimbi presenti nell’istituto venivano condotti se si erano “comportati bene”, in una sorta di “viaggio premio”. Inizialmente si ballava e ci si divertiva. Pare che i bambini fossero costretti a ballare in gruppo, senza mutande, e che venissero fotografati sia individualmente che durante i “balli di gruppo”. Successivamente, dopo che veniva loro offerta una torta, si andava “in stanza”. I bambini venivano quindi raggiunti da alcuni uomini che “giocavano” con loro. Claudia era l’unica a urlare: “io gridavo forte e davo botte a lui”, mentre a Francesca veniva tappata la bocca. Per la descrizione di tali fatti le bambine si avvalsero delle bambole anatomiche, scegliendo ognuna una bambola per descriversi e per simulare la scena. Nella discoteca dell’orrore i minori venivano abusati dagli operatori dell’istituto e da altri adulti dal viso coperto da un passamontagna che tra loro comunicavano a gesti. I bambini in seduta “lavoravano” velocemente, ansimando e sudando. Ignorarono la maggior parte delle domande che riguardavano come si fossero sentiti e risposero solo alle richieste di parlare degli atti sessuali durante i quali avevano provato dolore fisico o riportato ferite.

Come è comune nelle vittime, il senso di colpa e la vergogna erano schiaccianti e parlare del dolore fisico risultava più semplice che affrontare quello psichico.

La seduta seguente fu totalmente incentrata sugli abusi compiuti in istituto dagli ospiti più grandi, i ragazzini quattordicenni. Dopo che i bambini venivano mandati a letto, il personale era solito riunirsi per bere vodka, mentre gli ospiti più piccoli venivano lasciati soli, senza alcun controllo. Dai racconti emerge che gli operatori dell’istituto bevessero spesso e tanto. Con il personale completamente annientato dai fumi dell’alcol, gli ospiti più grandi erano liberi di fare quello che volevano. Così radunavano tutti i bambini piccoli dentro una grande stanza e talvolta li costringevano anche a sedersi nudi per terra. I ragazzi poi sceglievano alcuni dei bambini e li violentavano mentre gli altri erano costretti a guardare. Le reazioni di Claudia erano così forti e scomposte che la lasciavano stare, preferendo accanirsi contro qualcuno che si dimostrava una preda più facile, come la sorella Federica. Anche lei aveva provato a reagire come poteva, ma l’avevano legata stretta e messo del nastro adesivo sulla bocca, riuscendo ad abusare di lei. Antonio andò due volte dalla direttrice dell’orfanotrofio per denunciare gli abusi e chiederle di chiamare la polizia dopo aver visto sua sorella ferocemente violentata. Tutto ciò che ottenne, però, fu che la direttrice chiamasse a rapporto i ragazzi più grandi ospiti dell’Istituto per chiedere loro di dare una lezione ad Antonio: picchiarlo per fargli capire che doveva tacere. Antonio quindi venne picchiato per ben due volte.

Nel tentativo di denuncia alla direttrice Antonio rappresenta un’eccezione alla regola: la letteratura scientifica più autorevole conferma che i maschi sono particolarmente inclini a non riportare la vittimizzazione subita, sia che si tratti di abuso fisico oppure sessuale [7]. Dalle medesime ricerche risulta anche che i tempi medi intercorsi tra vittimizzazione sessuale subìta e richiesta di aiuto attivata da coloro che ci sono riusciti sono tipicamente più alti nei maschi vittime rispetto alle femmine [8]. La spiegazione, nel caso di Antonio, potrebbe far riferimento a una sottostante cultura maschilista in cui tutti noi, nostro malgrado, siamo immersi. Una cultura che ancora oggi associa all’essere maschio da un lato “valori” virili come la forza, la resistenza, il non piagnucolare, il non lamentarsi mai, ma che, dall’altro, vuole fortemente anche che il maschio sia protettivo verso i più deboli e i più piccoli, soprattutto se a essere deboli e piccoli sono membri della stessa famiglia, sorelline minori, nello specifico. In quel caso ci si aspetta dal fratello maggiore, ancor più se maschio, che egli svolga una funzione genitoriale inquadrabile in un vero e proprio processo di “parentificazione culturale” del figlio primogenito, il quale assume il “dovere” di vigilare e difendere le sorelle minori, come, di fatto, cerca di fare Antonio sia quando si assume la responsabilità di denunciare i fatti alla direttrice dell’istituto bulgaro sia quando, diverso tempo dopo, dichiara in terapia di voler diventare un poliziotto per assicurare alla giustizia “quelli che fanno del male”.

Per mettere in scena tutti gli episodi emersi in questa quarta seduta furono necessarie sia le bambole anatomiche sia i peluche, poiché le bambole non erano sufficienti a rappresentare tutte le persone coinvolte nelle violenze. Dopo questa sessione i bambini e la dott.ssa Galante erano davvero esausti e profondamente provati.

I genitori adottivi erano presenti in stanza di terapia, ascoltavano i racconti dei loro figli, li vedevano accadere nel “gioco” con le bambole. Il dolore era lancinante, ma sordo e lasciava spesso il campo alla rabbia, un’emozione che permise loro di mettere in moto una macchina giuridica che non si fermerà più, fino ad arrivare alla sentenza della Grande Corte, il 2 febbraio del 2021, ben 9 anni dopo. Iniziarono in quella fase i primi tentativi di denuncia da parte della famiglia adottiva: nel novembre 2012 il padre adottivo prese contatto con l’associazione Telefono Azzurro, con cui concordarono diverse modalità di segnalazione, all’Agenzia Nazionale Bulgara per la Tutela dei Minori e al Centro Nadja, fondazione specializzata nella tutela dei minori a rischio. Il padre inviò poi un esposto alla Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI) e infine il caso giunse alla Procura per i Minorenni di Milano attraverso la segnalazione dell’associazione Telefono Azzurro, che mise a disposizione tutto il materiale in suo possesso, tra cui il rapporto degli psicologi e la lettera del padre, in cui si evidenziava che tutti i minori dell’orfanotrofio avevano subito abusi e violenze. Successivamente furono eseguiti due controlli nell’orfanotrofio in questione: uno a seguito della trasmissione degli atti da parte della procura italiana e un altro a seguito della pubblicazione, nel gennaio 2013, di un’inchiesta realizzata da Fabrizio Gatti su L’Espresso. Tutti e tre questi procedimenti si conclusero con le decisioni di non luogo a procedere, per mancanza di elementi a sostegno dei reati. Un tentativo è stato fatto anche dal Ministero della Giustizia italiano che si rivolse ufficialmente alle autorità bulgare, ma il procedimento avviato fu presto archiviato.

Mentre la macchina giuridica si avviava inesorabile, i racconti sugli abusi lasciavano la stanza di terapia ed entravano nelle stanze degli enti preposti alla tutela dei minori. Siamo solo alla quarta seduta, infatti, quando i tre bambini proposero: “Rose, non vogliamo più venire qui a parlare degli abusi, vogliamo venire a parlare dei nostri problemi, basta Bulgaria!”.

Come suggerito da Priebe e Svedin [9], i minori vittime generalmente tendono a chiudersi e a nascondersi. La vergogna e il senso di inadeguatezza possono fungere da ostacolo per il ricordo, poiché il desiderio di eliminare aspetti di sé non accettabili può spingere a non voler rievocare e raccontare la propria esperienza. Questo atteggiamento spesso non dipende solo dall’età della vittima, ma anche dalle caratteristiche dell’evento traumatico. Quando queste variabili non sono opportunamente riconosciute possono creare le basi per la cosiddetta “No – Maybe – Sometimes – Yes Syndrome”, la cui origine è rintracciabile nella posizione di chi colpevolizza il minore per quanto successo o lo spinge a ricordare ciò che non ricorda o che ricorda in modo confuso.

Nella raccolta della testimonianza occorre, inoltre, riconoscere che quando la produzione verbale raggiunge per il bambino un valore narrativo, funge da stabilizzatore e organizzatore dell’esperienza traumatica. In tal senso risulta utile prendere in considerazione come la possibilità di raccontare l’abuso sia correlata al presentarsi di un’opportunità adatta, all’avere un obiettivo che supporti la decisione di parlare dell’abuso e alla costruzione di una connessione tra il contesto attuale e l’esperienza traumatica [10].

Staller e Nelson-Gardell [11] identificano tre fasi del processo di svelamento dell’abuso:

1. Self: il minore riesce a valutare la propria esperienza come un abuso e la definisce internamente come tale;

2. Confidant Selection – Reaction: il minore sceglie quando, dove e a chi rivelare l’abuso, considerando in questo processo di comunicazioni a due vie, fatto di comunicazioni e risposte, anche la reazione – supportiva o ostile – che la persona scelta come confidente esprime rispetto al racconto dell’abuso;

3. Consequences: gli effetti della comunicazione sull’abuso vengono valutati per modulare le strategie relative al procedere dello svelamento o alla sua interruzione.

IL “CORPUS” DI UN LUNGO LAVORO DI TERAPIA: BASTA BULGARIA!

Dalla quinta seduta in poi la terapeuta decise di accogliere la richiesta dei bambini di dare più spazio al loro presente, lasciando sullo sfondo quel passato pieno di abusi e violenze così ingombrante. Sembravano aver raggiunto il loro personale grado di saturazione dal dolore e non avere più le forze di affrontare i fatti accaduti in Bulgaria.

Loro tre non sono mai stati d’accordo su nulla, ma su questo lo furono senza alcuna obiezione: avevano bisogno di parlare d’altro. La loro richiesta fu subito accettata: la dott.ssa Galante non fece nessuno sforzo per far loro cambiare idea. Venne semplicemente concordato che da quel momento in poi sarebbero stati loro a decidere se e quando parlare degli abusi. La prima fase di lavoro diretto sull’abuso si concludeva dunque così, con un patto molto chiaro. Da qual momento iniziò la seconda parte del lavoro terapeutico, quella rivolta all’elaborazione delle conseguenze dell’abuso.

Avvalendosi della collaborazione con gli altri psicologi del CTR di Catania, la dott.ssa Rose Galante affidò un giovane terapeuta a ciascun minore. La proposta fu accolta con grande entusiasmo da Antonio, Federica e Claudia: prima di allora non avevano avuto davvero nulla che fosse “tutto per loro”, come spesso accade nel vissuto di bambini che hanno avuto lunghe istituzionalizzazioni.

Il nuovo assetto di terapia prevedeva dunque che a ogni seduta i tre minori parlassero per 40 minuti con il proprio terapeuta, che la dott.ssa Galante si occupasse dei genitori nello stesso arco di tempo e che, alla fine delle sedute, i minori con i loro rispettivi terapeuti e i genitori con la dott.ssa Galante si trovassero tutti insieme per un momento comune di scambio della durata di circa 15/20 minuti. Agli incontri di équipe, successivi alle sedute, i contenuti venivano condivisi e il progetto terapeutico veniva elaborato di volta in volta sulla base di quanto era emerso.

A distanza di sette mesi, la terapia continuava a cicli di 15 giorni. La famiglia aveva oramai una funzione di contenimento delle angosce e di nutrimento affettivo e rappresentava un luogo sicuro ove la protezione e l’ascolto risultavano garantiti. La madre vestiva i panni della madre affettiva; il padre risultava essere più normativo, ma ugualmente capace di mostrarsi dolce e premuroso con i figli.

I bambini avevano uno spazio terapeutico individuale che garantiva un sostegno stabile ed efficace e faceva sentire loro di essere finalmente esclusivi per qualcuno. Inoltre, uno spazio e un tempo di lavoro sulle relazioni familiari erano garantiti dalle sedute congiunte e questo permetteva di facilitare le relazioni tra i membri di questa che, a ogni seduta, diventava una famiglia sempre più affiatata e unita. Come clinici della famiglia, aiutiamo i genitori a leggere quello che succede – e che può evolvere abbastanza velocemente nei giorni – da una visuale prospettica più di livello “meta”; e, per evitare di farsi regolare dagli agiti disorganizzati dei figli, guidarli nel modo di porsi ad apportare correzioni che meglio bilancino la geometria relazionale della famiglia; nonché renderli più consapevoli dei modelli che hanno ereditato dalle rispettive famiglie di origine, ora che a loro volta interpretano il ruolo materno o paterno, col possibile scivolamento nel ricorso ad attuare meccanismi difensivi, in particolare cadendo nel pericoloso gioco dell’identificazione proiettiva con modalità interattive che mantengono il disagio e la disfunzionalità [12].

Le urla di Chiara e il ricordo della Bulgaria venivano spesso lasciati sullo sfondo al coro di “Basta Bulgaria!” che spesso i tre bambini ripetevano in seduta. Tuttavia quei ricordi erano ancora molto presenti, più di quanto i minori avrebbero voluto e, ogni volta che riaffioravano, lasciavano tracce dolorose sulle quali i terapeuti non mancavano di soffermarsi a lavorare.

Come sottolineato in precedenza in questo articolo, al fine di evitare il rischio di vittimizzazione secondaria, la decisione su quando si discuterà dell’abuso e su cosa verrà raccontato è lasciata ai minori. Questo non significa destrutturare del tutto le sessioni, in quanto i bambini potevano scegliere di parlare di qualsivoglia altro argomento all’infuori di quelli che avevano apertamente scelto di escludere. Quando si lavora con i bambini è importante ricordare che in una prima fase possono sembrare molto desiderosi di elaborare l’abuso, ma possono chiudersi rapidamente un attimo dopo. Nei bambini vittime di abuso l’ansia e il senso di colpa producono ricordi disturbanti che necessitano di essere esternalizzati il più presto possibile, per poi essere relegati con la stessa fretta al di là dei pensieri coscienti, nel tentativo di non farsi dominare da essi. Ciò significa che il terapeuta deve lavorare molto rapidamente o “la finestra di opportunità” si chiuderà mentre stava ancora decidendo come affrontare il trauma. Non mancano esperienze estremamente istruttive di come il percorso dalla stanza di osservazione a quella di terapia, una manciata di passi lungo il corridoio, sia un tempo sufficiente affinché un piccolo paziente di 9 anni, che stava raccontando di come lo zio lo sodomizzava mentre guardava video porno, smettesse di parlarne giusto un attimo dopo che la terapeuta aprisse la porta, senza più tornare sull’argomento per tutta la durata della seduta, rimanendo a giocare come se non avesse raccontato nulla prima…

Ecco perché l’utilizzo di tecniche esperienziali analogiche è così importante: sono metafore potenti che permettono ai bambini di rappresentare i loro traumi isomorficamente quando non vogliono o non possono affrontarli in maniera diretta.

Ovviamente anche avere riflessi fulminei aiuta!

Durante questa lunga terapia sono state usate diverse tecniche per lavorare sull’abuso, molte di natura analogica (disegno, uso della fiaba come metafora, lotta tra famiglie di bambole anatomiche vs bambole non anatomiche). Il comune denominatore però è sempre stato il rispetto per i tempi e le volontà dei bambini, la delicatezza con cui l’équipe terapeutica ha aspettato che fossero loro a decidere come e quando parlare di ciò che avevano vissuto. Questo passaggio risulta essere fondamentale nella psicoterapia dei soggetti abusati. Essi devono sentirsi liberi di pensare e gestire il tempo in cui parlare dell’abuso. Il terapeuta deve mostrarsi rispettoso del paziente, anche se minore, e non deve incalzare in maniera eccessivamente direttiva il racconto delle violenze, piuttosto deve essere abile e competente nell’impostare un lavoro metaforico sul trauma: anche quando si parla di eventi più attuali nella vita dei bambini, gli esiti del trauma originario sono rintracciabili nei comportamenti e nelle reazioni di oggi. Il lavoro sul trauma in questo senso non è mai cessato ed è rimasto il filo rosso che ha legato le diverse fasi di questa lunga psicoterapia. È importante che la ri-narrazione non venga imposta come un’ulteriore violenza, ma che il terapeuta, col suo atteggiamento e la sua disposizione entro la stanza di terapia, ribadisca in ogni momento due concetti fondamentali: “Io ti rispetto, rispetto i tuoi tempi e la tua volontà di condividere con me i tuoi ricordi più dolorosi” e “tu non sei solo la violenza che hai subito, perciò possiamo e dobbiamo parlare anche d’altro”.

Del resto, come dicevamo, nel parlare d’altro i terapeuti non facevano che continuare questo profondo lavoro metaforico sul trauma, perché quello che succedeva nelle vite di questi tre ragazzini era costantemente influenzato dalle vicissitudini che li avevano visti coinvolti: così Claudia continuava a evitare i problemi urlando, come faceva in istituto, Antonio cercava di risolverli affidandosi e alleandosi col padre, ovvero con chi, gerarchicamente, stava al di sopra di lui, come aveva fatto in istituto, cercando di denunciare le violenze alla direttrice, e Francesca lo faceva seducendo l’altro e illudendosi così di avere controllo su circostanze nelle quali non ne aveva minimamente. Iniziò molto precocemente una relazione sentimentale con quello che lei riteneva essere “il suo principe azzurro”, un ragazzo di diversi anni più grande di lei.

Parlando di ciò che accadeva loro nel quotidiano, aiutandoli a fronteggiare le vicissitudini che la vita metteva loro di fronte, è stato possibile, gradualmente, aiutare questi ragazzini a essere propositivi e soprattutto a progettare e condividere con i propri genitori il loro futuro, imparando poco alla volta a integrare nel loro presente quel passato così doloroso e ingombrante.

IERI E OGGI

Antonio

Il lavoro con Antonio è sempre stato difficile: il ragazzino era davvero restio a parlare dei suoi sentimenti. Inoltre lui, più delle sorelle, aveva difficoltà a imparare l’italiano. Era molto concentrato sull’idea di diventare un poliziotto in modo da poter rinchiudere in cella le persone cattive e ottenere finalmente giustizia. La soluzione a tutto per lui era una reazione violenta più forte da parte dei “buoni” per catturare “i cattivi” e annientare la loro potenza distruttiva. L’unico altro argomento di conversazione che sembrava coinvolgerlo erano le automobili, per le quali nutriva un fervido interesse. Si vergognava molto della sua incapacità di proteggere le sorelle. Espresse questo sentimento di vergogna più volte, includendolo nelle storie che avrebbe inventato quando in seduta venivano usate tecniche metaforiche. Quella era l’unica attività terapeutica a cui avrebbe partecipato davvero attivamente. Le storie consistevano sempre in bugie oltraggiose sulla sua abilità sessuale e sulla sua forza fisica, un esempio lampante di identificazione con l’aggressore che la dott.ssa Galante decise di usare come metafora di ciò che lo stava veramente preoccupando. Le sue abilità sociali erano molto scarse ed era estremamente timido ma, nelle sue fantasie, era capace di tutto e molto ben dotato. Parecchio tempo è stato dedicato all’elaborazione dell’esposizione alle tante esperienze traumatiche che lo avevano danneggiato. Questo lavoro è stato fatto con grande delicatezza. Così il suo uso imbarazzante di termini sessuali espliciti veniva collegato ad alcuni ragazzi problematici che aveva incontrato a scuola. In quella fase, in cui Antonio era già un adolescente, i terapeuti lo aiutavano a comprendere quali dei suoi comportamenti potessero risultare inappropriati e irritanti per gli altri, in modo da favorire la sua integrazione sociale con i pari. Antonio alternava comportamenti socialmente ritirati ed estremamente insicuri a comportamenti di una volgarità inaccettabile. Quando i bambini sono oppositivi, in assetto difensivo, obnubilati o molto arrabbiati, è importante riconoscere che questo “cattivo comportamento” può rimettere in gioco schemi d’azione che si erano stabilizzati per sopravvivere a minacce gravi, anche se questi schemi sono intensamente sconvolgenti e sgradevoli [13]. Pertanto, la maggior parte delle volte, quando portava in seduta il racconto di un qualsiasi successo relazionale, anche minimo, la dott.ssa Galante e il terapeuta a lui assegnato si limitavano a sottolineare quanto fosse migliorato, per esempio, nel riuscire a lavorare part-time nei ristoranti di suo padre o nel rapportarsi ai vicini di casa in modo sereno e socialmente adeguato.

Il ragazzo oggi è un giovane adulto che ha gradualmente imparato a essere sempre più adeguato nelle relazioni ed è riuscito a sviluppare discrete abilità sociali, che gli hanno consentito di instaurare diversi rapporti di amicizia stabili e di sostegno.

Federica

Diversamente dal fratello maggiore, era estremamente socievole e non aveva avuto particolari problemi nell’imparare rapidamente l’italiano. Essendo molto bella, ha sempre fatto affidamento sul suo gradevole aspetto fisico e sulla sua intelligenza, che ha usato in maniera seduttiva per manipolare gli altri e ottenere ciò che vuole. All’inizio del percorso terapeutico è stata molto collaborativa. Comprendeva esattamente quello che la dott.ssa Galante le diceva: riusciva a disporsi perfettamente in sintonia con le esigenze dei terapeuti e con i desideri e i bisogni dei suoi genitori. Il suo obiettivo era sedurre tutti in modo da poter avere la completa libertà di decidere ogni cosa senza dover subire un’autorità superiore che avrebbe deciso il suo destino. L’obiettivo terapeutico dell’équipe, invece, era di aiutarla a fidarsi degli altri senza doverli manipolare al fine di proteggersi.

In linea con quello che aveva imparato e applicato come strategia di sopravvivenza quando viveva nell’istituto bulgaro, Federica, una volta giunta in Italia, aveva rapidamente trovato un fidanzato più grande di lei che puntualmente “usava” per risolvere ogni suo problema. Quando lui non era d’accordo su qualcosa che lei pretendeva, generalmente lo allontanava per poi avere violente crisi di rabbia in casa, durante le quali incolpava i suoi genitori di tutto ciò che le accadeva e la feriva. Il suo bisogno di controllare e decidere per se stessa è radicato nella paura che gli altri possano farle del male, danneggiarla, una paura che non è riuscita a superare completamente. «Molti miei pazienti sono sopravvissuti al trauma con estremo coraggio e tenacia – dice Bessel van der Kolk –rimettendosi però nella stessa situazione problematica: il trauma aveva danneggiato la loro bussola interna, defraudandoli dall’immaginare condizioni di vita migliori».

Federica ha preso parte a tutte le tecniche analogiche proposte in terapia. Diligentemente faceva disegni, scriveva storie e faceva giochi di ruolo. Era molto chiaro che sotto la facciata di ragazzina sorridente e collaborativa rimanesse una bambina terrorizzata con un costante bisogno di controllare tutti per contenere le sue paure. In effetti ha sviluppato doti così raffinate di seduzione che le permettono di controllare la maggior parte delle persone con le quali ha a che fare, per la maggior parte del tempo. Gestisce ormai discretamente bene anche la sua rabbia, tranne che con sua madre. Sembra ancora oggi incapace di accettare che la mamma non possa darle il controllo totale sulla sua vita e che insista così tanto sul rispetto di alcune regole basilari. Negli anni è riuscita a gestire le sue paure sempre meglio: adesso non è completamente alla loro mercé come lo era in passato.

Claudia

È, fra i tre fratelli, la persona che ha avuto gli esiti più negativi conseguentemente alle violenze subite. Ha imparato troppo presto nella vita che doveva essere molto aggressiva e combattere disperatamente persone molto più forti di lei se voleva sopravvivere senza essere ripetutamente picchiata e violentata. Le sue armi erano la voce e i denti. La sua voce è fenomenale, può proiettarla a enormi distanze e chiunque le darebbe tutto ciò che vuole pur di farla smettere di urlare. Ha denti molto grandi. Ha iniziato a mordere per allontanare le persone da lei quando era molto piccola e non ha mai smesso. Appena arrivata in Italia mordeva sua madre e le lasciava spesso segni profondi sulla pelle. Di tanto in tanto mordeva suo padre, ma la vittima prediletta era sempre la mamma. Non si è mai del tutto adattata alla vita in Italia. Non socializza a scuola e spesso si rifiuta di frequentarla, nonostante nell’ultimo anno sia andata decisamente meglio, ottenendo discreti risultati. Ha pettinato per anni i suoi capelli in modo che le coprissero parte del viso. Ha ribadito a lungo di essere brutta e ha lamentato con grande dolore il fatto che tutti preferiscano Federica a lei. Quando un organismo è bloccato su una modalità di sopravvivenza, le sue energie sono impiegate tutte per combattere nemici invisibili, il che non lascia spazio per godere del nutrimento, della cura, dell’amore. Per noi umani significa che, finché la mente si difende da assalti inesistenti, i nostri legami più intimi ne sono minacciati, insieme alla capacità di immaginare, pianificare, giocare, apprendere e prestare attenzione ai bisogni delle altre persone [13]. C’è voluto molto tempo e grandi attenzioni terapeutiche prima di vedere qualche piccolo miglioramento: ultimamente ha un taglio di capelli che finalmente valorizza il suo viso. Ha da poco fatto amicizia con un ragazzo che ha bisogno di qualcuno che lo protegga contro i bulli. Claudia ha ancora molto lavoro da fare, ma è estremamente resistente a qualsiasi intervento che le sembri controllante. Durante le sedute insiste molto nel parlare delle poesie che scrive e che sono diventate metafora per affrontare quello che ha vissuto.

CONCLUSIONI

Il 2 febbraio 2021 si è scritta un’importante pagina per la storia della tutela dei diritti umani dei più piccoli. È la prima volta che la Grande Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna uno dei 32 Stati membri dell’UE – la Bulgaria – per aver violato l’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale, assimilando finalmente, così facendo, gli atti di pedofilia alla tortura.

Antonio, Federica e Claudia, vittime indifese di abusi indicibili, difficili da raccontare persino per chi scrive, diventano loro malgrado, grazie a questa sentenza, piccoli grandi paladini dei diritti umani di tutti gli altri bambini abusati, che come loro potranno godere di egual protezione, con l’augurio che il genere umano possa, prima o poi, non dovervi ricorrere più.

La sentenza, come già detto, è straordinaria anche per le implicazioni professionali che ne derivano per alcune figure sanitarie: psicologi, psicoterapeuti, ma anche neuropsichiatri infantili e altri professionisti dell’aiuto sono infatti chiamati oggi più che mai a raccogliere la sfida di formarsi adeguatamente, in modo da raccogliere e valutare le testimonianze «con metodi scientifici […]», assicurandosi che «i bambini siano protetti e auditi con ogni precauzione», così come recita la sentenza.

Il percorso di psicoterapia che li ha visti protagonisti è, anche quello, straordinario per il modo innovativo in cui è stato condotto, oltre che per il successo a cui si è giunti, considerate soprattutto le condizioni drammatiche di partenza. L’uso di un “terapeuta personale” per ogni bambino, che ha regalato loro la possibilità di sentirsi finalmente esclusivi per qualcuno, il costante raccordo dell’équipe di terapeuti che lavoravano sul caso, il perseverante lavoro sul trauma, sia “diretto” attraverso l’uso delle bambole anatomiche, sia “metaforico” attraverso l’analisi dei comportamenti di oggi come espressione dei traumi di ieri, sono stati gli elementi portanti di questo delicato e al tempo stesso risoluto percorso di psicoterapia e sostegno. Un lavoro che non ha mai perso di vista il rispetto per i tempi interiori di elaborazione del trauma, curandosi in ogni passaggio di non risultare in nessun modo ri-traumatizzante, nonostante il coinvolgimento nella vicenda giudiziale. Un lavoro rispettoso e garbato di costruzione e ricostruzione. “Costruzione” di una famiglia (in questo caso adottiva) come luogo dell’appartenenza, ma anche di ascolto, riparazione e nutrimento (materiale e affettivo). “Ricostruzione” di queste tre giovanissime vite, così ingiustamente lacerate dai ripetuti e precocissimi traumi. Un lavoro umano, sotto ogni aspetto, che ci si augura possa restituire a questi bambini non solo un futuro migliore, ma anche la speranza di credere che il mondo non è fatto solo di “cattivi” da combattere e che si può restare umani anche di fronte alle più barbare e ingiuste crudeltà.

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