Come in un mosaico: l’équipe multidisciplinare, il lavoro di rete e la terapia familiare

Maria Antonietta Gulino1, Laura Bellandi2, Manuela Vinci2, Adria Alderighi2, Luca Fossi2, Greta Grisafi2, Elena Lo Russo2, Silvia Lutri2, Ilaria Menconi2, Lara Michelotti2

1Psicologa, psicoterapeuta, didatta presso il Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

2Psicologo/a, specializzando/a in Psicoterapia presso il Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

Particolarmente dedicato ai medici e agli operatori della salute, l’articolo col­locato in questa sezione risponde a una domanda fondamentale sulla possibilità di utilizzare, fuori dal campo in cui esso nasce, il sapere che origina dal lavoro degli psicoterapeuti.

Especially addressed to practitioners and other health specialists, the article placed in this section answers to the main question on the possibility to make use of the knowledge resulting from the work of psychoterapists outside the field in which it is born.

Dedicado especialmente a los médicos y demás profesionales de la salud, el artículo presentado en esta sección responde al tema fundamental sobre la posibilidad de utilizar los conocimientos derivados del trabajo de los psicoterapeutas fuera de su campo original.

«L’insufficienza di informazioni è alla radice di convinzioni persecutorie.

Il potere della competenza è basato sul riconoscimento/rispetto delle differenze».

Umberta Telfener

Riassunto. Il mosaico è composto da piccole pietre di forma e colore differente, ognuna preziosa a suo modo. È solo facendo un lavoro di integrazione che ogni singola pietra, posizionata accanto a un’altra, assume un senso e contribuisce alla grandiosità dell’immagine finale. L’articolo tratteggia il mosaico entro cui operano équipe multidisciplinare, lavoro di rete e terapia familiare in ambito socio-sanitario, mettendo in evidenza il ruolo dello psicologo nella presa in carico di sistemi complessi. Nella prima parte l’analisi della letteratura permette di comprendere l’importanza dell’approccio multidisciplinare che, integrando figure socio-sanitarie differenti, genera evidenti benefici nella gestione del disagio e un miglioramento del benessere globale nel sistema preso in carico. Nella seconda parte sono evidenziate le possibili criticità del lavoro di rete e, di contro, le buone prassi da adottare per far sì che il mosaico finale, ovvero il benessere del sistema preso in carico, risulti il più possibile completo e armonico. In questo lavoro la terapia familiare contribuisce alla preziosità del mosaico, presentata tramite esempi derivanti dall’esperienza clinica condivisa dal gruppo di lavoro del Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato, autore dell’articolo stesso.

Parole chiave. Équipe multidisciplinare, lavoro di rete, terapia familiare.

Summary. Like a mosaic: multidisciplinary team, networking, and family therapy.

A mosaic is a composition of different forms and colors, each one decisive on its own and needed to constitute the whole. Only working on integrating each single component, one close to the other, allows to create meaning and contribute to a final image completeness. The paper outlines the mosaic within which multidisciplinary team, networking and family therapy operate in the socio-sanitary environment, highlighting the key role of a psychologist having in charge complex systems. In the first part the analysis of laws gives both juridical and proactive perspective of a multidisciplinary approach integrating different socio-sanitary figures, becoming beneficial through a global management of psychological distress, and finally contributing to an improvement of the entire system taken in charge. In the second part the paper deep dive criticalities both of networking and methodologies, as well as highlighting best practices, making the final mosaic the most appropriate possible in addressing patients’ needs. Finally, this paper outlines the key role of family therapy as connection and framework within clinical intervention. We describe it through a clinical experience under direct supervision of a third year systemic-relational psychotherapy training group of the Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

Key words. Multidisciplinary team, networking, family therapy.

Resumen. Como en un mosaico: el equipo multidisciplinar, el trabajo en red y la terapia familiar.

El mosaico está compuesto por piezas de diferentes formas y colores, cada una de ellas decisiva a su manera e indispensable para formar un todo. Solo haciendo un trabajo de integración con cada componente, uno al lado del otro, tiene sentido y contribuye a la integridad de la imagen final. El artículo presenta el mosaico en el que se desarrollan los equipos multidisciplinares, el trabajo en red y la terapia familiar en el ámbito sociosanitario, destacando el papel del psicólogo al hacerse cargo de sistemas complejos. En la primera parte, el análisis de las leyes permite comprender el carácter legal y proactivo del enfoque multidisciplinar que, al integrar las diferentes figuras sociosanitarias, genera beneficios en la gestión global del malestar y contribuye a la mejora del sistema a cargo. En la segunda parte, se analizan tanto los puntos críticos del trabajo en red, como las metodologías y las buenas prácticas, para que el mosaico final sea lo más completo, armonioso y conveniente a las necesidades de los usuarios. Este artículo explica la importancia de la terapia familiar como enlace y marco, y se basa en la experiencia clínica, bajo supervisión directa, del grupo de trabajo del tercer año de especialización en psicoterapia sistémico-relacional del Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

Palabras clave. Equipos multidisciplinares, trabajo en red, terapia familiar.

INTRODUZIONE

Dal 2018, con l’attuazione della legge Lorenzin, la professione dello psicologo è stata riconosciuta a tutti gli effetti come professione sanitaria. Sebbene la legge rappresenti un chiaro punto di svolta nel riconoscimento della professione, la figura dello psicologo risulta ancora non pienamente integrata all’interno del sistema socio-sanitario nazionale. L’articolo ha l’obiettivo di stimolare una riflessione comune e condivisa sul ruolo dello psicologo nei servizi e su come il suo coinvolgimento nella équipe multidisciplinare possa generare benefici per la salute pubblica. La prima parte è dedicata a un’analisi preliminare di leggi e letteratura e a una ricognizione delle realtà entro cui attualmente lo psicologo opera nell’ambito di servizi multidisciplinari; segue una seconda parte che ha lo scopo di individuare gli aspetti critici e le potenzialità su cui far leva per potenziare il lavoro di rete. Saranno descritte alcune fasi di intervento nei confronti di una minore seguita dai servizi, che ha visto coinvolto il gruppo di lavoro del Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato.

RUOLO DELL’APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE NEI SERVIZI: PANORAMICA GENERALE

Normative sul lavoro di rete

Il concetto di salute è stato formulato per la prima volta nel 1948 dall’OMS: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità» [1]. Negli anni si diffonde una visione olistica di tipo bio-psico-sociale e il concetto di salute muta fino ad assumere un valore multidimensionale: gli individui passano da essere “organismi-corpi” da curare e trattare a persone da ascoltare e sostenere come risorse del percorso di cura. Si supera il concetto di sanità tout court, anche il Ministero cambia nome. Con la Legge 3/2018, gli stessi psicologi professionisti sanitari sono vigilati dal Ministero della Salute invece che da quello di Grazia e Giustizia. Nella definizione di Salute il modello bio-psico-sociale considera corpo, mente e ambiente interconnessi sempre in ogni processo ed evento di vita. Per questo il focus non può essere solo il corpo e/o la sua malattia, ma la persona nella sua totalità [2]. Prendendo in prestito dalla Psicologia Sistemica i concetti di sistema, circolarità, azione-reazione si può affermare che ogni sistema implica una interdipendenza tra le parti e tra le persone coinvolte nella relazione. Partendo da una prospettiva circolare e multi-causale, non è possibile stabilire marcatori lineari che prevedano una sola causa. Esistono fattori che si intrecciano, per cui ogni azione e reazione cambia continuamente la natura del contesto influenzando e determinando reciprocamente le azioni dei componenti del sistema. Riprendendo le parole di Gatchel, ogni intervento «che si concentra solo su uno di questi insiemi di fattori fondamentali sarà incompleto» [3]. In questa ottica, appare chiaro come un qualsiasi disagio, di qualsiasi entità, non si possa trattare prendendo in considerazione esclusivamente la persona o i suoi sintomi in maniera unidimensionale o “unicentrica”. Le più recenti normative e le guide internazionali prevedono lo sviluppo di approcci integrati nelle situazioni complesse, sia per assicurare la qualità degli interventi, sia per far in modo che siano operativamente efficaci ed efficienti. Solitamente i professionisti della salute considerano il modello bio-psico-sociale come una guida nell’approccio terapeutico [4]. Conosciuta è la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali n. 328 del 2000 in cui «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare […]» [5]. Sono varie le norme che in materia di interventi socio-sanitari disciplinano ad esempio la figura del minore in quanto soggetto vulnerabile. Le Linee Guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore del 17 novembre 2010 prevedono che «nel pieno rispetto del diritto del minore alla vita privata e familiare, dovrebbe essere incoraggiata una stretta collaborazione tra diversi professionisti al fine di pervenire a un’approfondita comprensione del minore e a una valutazione della sua situazione legale, psicologica, sociale, emotiva, fisica e cognitiva» [6,7]. In particolare prevedono esplicitamente il ruolo dello psicologo: «Dovrebbe essere stabilito un quadro comune di valutazione per i professionisti che operano con e per i minori (quali avvocati, psicologi, medici, agenti di polizia, funzionari dell’immigrazione, operatori sociali e mediatori) nell’ambito di procedimenti o interventi che coinvolgono o interessano i minori, al fine di fornire tutto il sostegno necessario a coloro che adottano decisioni, consentendo loro di servire al meglio gli interessi dei minori in una determinata causa» [6]. Nonostante in paesi come Olanda, Canada, Portogallo e Nuova Zelanda la figura dello psicologo sia inserita nelle cure primarie da molti anni, sia come psicologo di base (Olanda), programmi di intervento (Canada) e centri sanitari (Portogallo), in Italia non c’è una chiara messa a sistema della psicologia all’interno del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nonostante sia prevista. Infatti, il SSN garantisce “in teoria” e sulla carta percorsi assistenziali integrati alle persone con bisogni complessi (minori, donne, coppie e famiglie, persone non autosufficienti con patologie croniche, disabili, minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo, persone con disturbi mentali, persone con dipendenza patologica) [8]. L’art. 24 del DPCM Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA) del 2017, in questo senso disciplina l’attività psicologica prevedendo attività di:

prevenzione, valutazione, assistenza e supporto psicologico ai minori in situazione di disagio, in stato di abbandono o vittime di maltrattamenti e abusi;

psicoterapia (individuale, di coppia, familiare, di gruppo);

supporto psicologico e sociale a nuclei familiari in condizioni di disagio.

Nonostante il percorso assistenziale integrato preveda la presa in carico da parte di un’équipe multidisciplinare, in realtà ancora oggi non prevede esplicitamente la figura dello psicologo, richiamandolo e inserendolo nel vago delle «altre figure sanitarie» [8]:

il medico di medicina generale (MMG) o il pediatra di libera scelta (PLS) in qualità di coordinatore dell’attività clinica;

la rete degli operatori della ASL (medici specialisti, infermieri, terapisti della riabilitazione, altre figure sanitarie e socio-sanitarie professionali);

gli operatori del Comune (assistente sociale, operatore socio-assistenziale, educatore, assistente familiare).

L’équipe quindi dovrebbe essere composta da operatori del servizio sociale territorialmente competente e da “altri” operatori dei servizi territoriali, individuati sulla base di quei bisogni che sono ritenuti di volta in volta più rilevanti per le famiglie; spesso purtroppo l’assetto psicologico è un fanalino di coda [9].

Il ruolo dello psicologo tra gli operatori socio-sanitari

Con le leggi degli ultimi venti anni e la numerosa produzione di articoli e libri sul tema della presa in carico globale della persona e della sua famiglia è aumentata l’attenzione ai problemi psico-sociali, evidenziando il bisogno di collaborazione con psicologi. È acclarato che il disagio e le problematiche derivanti da sintomi organici, una volta esclusa la componente fisico-biologica, può essere ricondotto anche a stress e cause psicosociali, relazionali e legate al ciclo di vita [10]. Nonostante la letteratura in questo senso sia molto ricca, nella realtà quotidiana il riconoscimento degli aspetti psicologici inerenti al malessere sono fortemente condizionati da una tradizione secolare di cura del paziente centrata sugli aspetti tecnici della diagnosi, su una risposta alle acuzie e alle emergenze. Curare è sempre stato meglio che prevenire, con una rassegnazione all’inevitabile cronicità, soprattutto nella malattia mentale, in soggetti vulnerabili o in situazioni multiproblematiche socio-sanitarie gravi. A questo si aggiunge che il disagio psicologico è di pertinenza solo dello psicologo e della sua competenza e che lo stesso disagio è ancora spesso percepito socialmente secondo le logiche dello stigma e del tabù. Risulta evidente quindi la necessità di costruire una cornice epistemologico-operativa in cui l’aspetto psicologico e relazionale sia istituzionalmente previsto e accessibile a tutti. Come afferma Morin, «la nostra civiltà separa più che unire. Anche se è un bisogno vitale, […] anche se costituisce la risposta alle inquietudini individualistiche, tutti noi abbiamo bisogno del legame con l’altro» [11]. Solo ultimamente si sono sviluppate, in Italia e all’estero, alcune esperienze di confronto e di collaborazione esplicitamente orientate a una strategia di cura con forte integrazione di ruoli e competenze professionali tra medici e psicologi. Nonostante il Consiglio d’Europa (CoE) già dal 1978 abbia stabilito che:

indipendentemente dal tipo di formazione degli psicologi e dalle normative di ogni paese, la loro presenza è necessaria in un’équipe multidisciplinare;

gli psicologi degli Stati membri possono valutare le risorse di bambini, adolescenti e dei loro genitori, nonché il contesto in cui sono inseriti; [...] possono fornire informazioni, formazione, supervisione educativa e interazioni terapeutiche; assumere ruoli amministrativi e prendere parte all’organizzazione.

Nel campo della prevenzione secondaria e terziaria viene specificato che lo psicologo può:

valutare la situazione per partecipare all’elaborazione di un programma d’azione. Questo è un processo continuo che potrebbe richiedere l’aggiornamento dei risultati sulla base di ulteriori verifiche;

prendere parte alla vita dell’équipe partecipando alla preparazione dei programmi, alla supervisione della loro messa in atto e alla valutazione della loro efficacia;

fornire servizi psicologici specifici a minori e adolescenti con disagio e alle loro famiglie; questo servizio deve essere considerato come intervento terapeutico diretto.

Affermando infine che «gli psicologi dovrebbero essere in grado di attirare l’attenzione delle autorità pubbliche sui problemi incontrati, in modo che i responsabili degli affari pubblici diventino più consapevoli dello stato di salute di benessere della popolazione e in modo da prendere misure adeguate per porre rimedio alle carenze rilevate» [12], a livello nazionale l’obiettivo è ancora lontano. In Italia, nonostante gli investimenti e le politiche avviate a partire dagli anni Novanta, il tentativo di garantire unitarietà nel coordinamento delle politiche a livello locale e nazionale (ad esempio per l’infanzia e l’adolescenza) è rimasto soltanto giuridico. Riprendendo il concetto di circolarità multicausale, nel lavoro di tutela e di promozione dei diritti dell’infanzia, ad esempio, è richiesto agli operatori lo sforzo di pensare una integrazione che consideri la famiglia come entità unitaria, seppur composta da individui portatori di differenti diritti, doveri e bisogni, di cui farsi carico nel suo complesso dal momento che il disagio manifestato da un singolo componente della famiglia ricadrà necessariamente sull’intero nucleo familiare [13]. Il multicausale nel multicontesto non è esente da problematiche legate a conflitti, negoziazioni e integrazioni delle ipotesi e delle strategie dei diversi operatori coinvolti nella progettazione e «la pratica prevalente dei servizi, in senso lato, “sociali” è quella di strutturare il processo di lavoro attorno al singolo caso» [14] che non è affatto scontato porti ad una condivisione e collaborazione per obiettivi. Tuttavia, come vedremo nel prossimo paragrafo, sono presenti realtà locali che si sono mosse a favore di sinergie, connessioni e integrazioni, coinvolgendo la competenza professionale di tutti, anche dello psicologo.

Come psicologi in formazione, abbiamo raccolto in questo articolo il materiale che ci appare utile per porre le basi a un approccio alla persona completo e complesso. Durante la scuola di specializzazione in psicoterapia sistemico-relazionale ci troviamo spesso nelle condizioni difficili di lavorare in rete, seppure ne riteniamo imprescindibile l’utilità e l’efficacia. Oggi dopo due anni di emergenza sanitaria e di “psicopandemia” dettagliamo con i prossimi paragrafi l’impegno e il contributo che psicologi, futuri psicoterapeuti, possono mettere sul campo in ogni forma per un cambiamento culturale dell’intervento socio-sanitario, ancora molto carente. E lo facciamo raccontando la nostra esperienza di allievi in formazione con famiglie multiproblematiche, per le quali il lavoro di rete diventa necessario.

CRITICITÀ E METODOLOGIA DEL LAVORO DI RETE MULTIDISCIPLINARE

Alla luce di quanto emerso precedentemente e dalle esperienze dirette del gruppo di specializzazione del terzo anno del Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato, illustriamo di seguito le criticità del lavoro in rete che lo psicologo può incontrare e successivamente le metodologie e le buone pratiche di cui lo psicologo è promotore e facilitatore. Ci riferiamo a una situazione clinica, che solo per sintesi chiameremo “caso”, come esemplificazione di alcune fasi del nostro lavoro d’équipe che ha visto coinvolto il gruppo in formazione nel percorso condiviso con gli operatori socio-sanitari del servizio pubblico e gli operatori di una comunità residenziale per minori.

Il lavoro di rete è l’insieme delle azioni che promuovono connessioni tra risorse formali e informali per realizzare un intervento di aiuto, con l’ausilio di nuove reti e il sostegno di quelle già esistenti.

Il lavoro in rete coincide con il lavoro interprofessionale, solitamente in équipe, in cui gli operatori si coordinano e si integrano per evitare sovrapposizioni e sprechi di risorse [15].

«Il lavoro per progetti ha sempre ripercussioni sui processi organizzativi di cui occorre tenere conto: i processi di comunicazione e coordinamento tra operatori e settori, i ruoli, le funzioni, le culture organizzative, i sistemi decisionali, le procedure amministrative e di controllo di gestione sono influenzati dal lavoro per progetti […] con il mutare dei contesti organizzativi cambiano anche i problemi, i metodi e le soluzioni» (Tabella ١) [14].

Un fenomeno psico-sociale definito all’interno dell’organizzazione che se ne fa carico prevede infatti modi e processi generali con cui vengono distribuiti compiti, ruoli e funzioni e definisce solo successivamente le metodologie con cui questi compiti, ruoli e funzioni vengono coordinati.

Dunque realizzare il mosaico è cosa complessa, ma necessaria per arrivare tutti al medesimo obiettivo che coincide con la Salute delle persone.

Tabella 1. Processi di differenziazione e di integrazione [14].

Processi di differenziazione

Processi di integrazione

Compiti

Specializzazioni

Ruoli e sistema di ruoli

Funzioni

Gerarchia

Norme e procedure

Tecnologie

Programmi e strategie

Culture organizzative e sistema di valori

Presentazione del caso

Il caso in oggetto nasce da un’esperienza formativa del gruppo di lavoro del CSAPR, seguito e supervisionato dalla Dr.ssa Maria Antonietta Gulino nell’anno 2021. Si tratta di una famiglia multiproblematica che si è rivolta al Centro in modo coatto, segnalata dalla comunità socio-terapeutica in cui era inserita la figlia. L. di 14 anni era stata presa in carico dai Servizi i quali avevano predisposto il trasferimento in comunità a seguito di sintomi e agiti gravi (tra i quali minaccia di suicidio, autolesionismo, disregolazione emotiva), che avevano messo a rischio la vita stessa della giovane. L’équipe nominata dal tribunale per la gestione della minore era composta da un’assistente sociale, una psicologa e una neuropsichiatra del servizio pubblico. Qualche mese più tardi il servizio pubblico invia L. in comunità socio-terapeutica per allontanarla da un contesto familiare ritenuto minaccioso e riattivare il suo percorso di crescita all’interno di un ambiente sicuro e protetto. Con il trasferimento in comunità, gli operatori di concerto con il servizio pubblico hanno ritenuto necessario l’invio in terapia familiare. A questo punto della storia di L., della sua famiglia e della équipe entriamo in scena noi. Di seguito la descrizione di alcuni passaggi del percorso terapeutico che evidenziano criticità e potenzialità del lavoro integrato.

Criticità dell’approccio multidisciplinare

Le leggi e una vasta letteratura dimostrano che lavorare insieme è la modalità più adeguata a rispondere alle esigenze della persona con disagio e alla sua presa in carico. L’intervento integrato degli operatori può essere l’occasione di un lavoro vincente sia per il paziente e la sua famiglia sia per gli stessi operatori dell’équipe, che trovano un ambiente di confronto, supporto, riconoscimento e crescita. Le differenti competenze tecnico-specialistiche e relazionali e una formazione adeguata e continua sono tanto la garanzia di buona riuscita quanto ammortizzatori necessari di eventuali ostacoli che possono presentarsi durante il cammino. Talvolta però il lavoro di rete e il lavoro in rete si trasformano in semplici deleghe, in trasferimenti di responsabilità e le connessioni sono vissute come lunghe e sterili perdite di tempo, che possono esitare in cronicizzazione. Dunque è necessario approfondire le criticità dell’approccio multidisciplinare per evitare spiacevoli effetti collaterali e per muoversi in sinergia.

Richiesta giuridica

Quando si ha a che fare con un quadro complesso ci si trova spesso a doversi interfacciare con istituzioni giudiziarie come i tribunali che, oltre a rappresentare legalmente le parti della famiglia e quelle del minore, si occupano di elaborare un itinerario educativo e affettivo specifico al fine di ridurre il disagio e stimolare il cambiamento. Il procedimento per raggiungere tale fine, prevedendo più fasi e più risorse da mobilitare, richiede molto tempo. Sinteticamente le fasi adottate si configurano in:

1.indagini rivolte ad accertare l’attualità e la gravità di un pregiudizio del minore nelle relazioni con le sue figure di riferimento e a verificare la reversibilità di una tale situazione;

2.l’ascolto attento del minore e dei suoi genitori, diretto non solo ad assumere informazioni sui fatti e a raccogliere opinioni e aspirazioni, ma soprattutto a proporre, sollecitare e verificare cambiamenti nel contesto familiare e a costruire i progetti possibili per aumentare gradi di benessere;

3.la collaborazione tra professionisti coinvolti, con gli enti del territorio destinati alla presa in carico e alla cura del minore, per individuare i percorsi più convenienti, che non sempre vuol dire più efficaci;

4.l’assunzione di provvedimenti in caso di urgente necessità.

Benché si accenni alla collaborazione tra professionisti, la stessa non è mai così scontata e quando attuata non è mai così semplice: la diversità di ruoli infatti può dare origine a una serie di lotte di potere legate ai ruoli o a difficoltà comunicative legate alle competenze. Inoltre il sistema normativo di riferimento non prevede che i servizi possano concorrere al ricorso al giudice per richiedere misure di protezione: essi sono soltanto segnalatori di “casi”; quindi, nelle situazioni più complesse, in cui agire in tempo e per tempo è determinante, bisogna aspettare la sentenza finale, che diventa un problema soprattutto quando si tratta di minori [16].

Diverse figure professionali con diverse competenze

Prima che l’équipe multidisciplinare possa cogliere le risorse di punti di vista e competenze diversi, deve affrontare gli ostacoli che l’eterogeneità comporta a partire dall’analisi della domanda. Tra i vari aspetti critici ci sono il linguaggio e la cornice di riferimento. Non è assolutamente detto che un “treno” di persone con il medesimo obiettivo adotti gli stessi binari per arrivarci, perdendo utilità. Le figure professionali comunicano in modi diversi, utilizzando linguaggi specifici (giuridico, psicologico, medico, assistenziale), derivati da cornici teoriche di riferimento diverse [17]. Anche la metodologia utilizzata, se non condivisa, rischia di ostacolare più che rafforzare l’intero lavoro: spesso la premessa sottostante è chiedere a ogni professionista di trovare soluzioni a compartimenti stagni, come se l’utente avesse chiaro in mente le sue problematiche e potesse declinarle a secondo del suo specialistico interlocutore. Come se ci fosse una regia astratta, di cui fa parte anche il portatore del problema/sintomo, che dirige gli interventi di ciascuno senza di fatto dirigerli. Ciascun operatore allora risolve il suo pezzetto come se il mosaico da comporre o ricomporre fosse solo l’utente. Inoltre, dal punto di vista della relazione, questa frammentazione degli interventi, delle cose dette, dei suggerimenti dati, viene percepita dalle famiglie e dai portatori di disagio come “cattiva” presa in carico, che influenza la collaborazione al programma di intervento [13]. Le diverse figure professionali tuttavia, quando sono state in grado di costruire un buon gruppo di lavoro possono trovarsi di fronte a un ostacolo che non è legato a loro stessi, ma a un problema di gestione della presa in carico. L’organizzazione del progetto socio-sanitario spesso punta all’efficienza degli obiettivi della struttura pubblica a cui si riferisce, attraverso risposte tecnico-specialistiche parziali e “unicentriche”, rischiando di tralasciare l’efficacia, quindi la riduzione o risoluzione del disagio [19].

Oltre il primo biglietto da visita: questione di sintomi

Capita spesso che il lavoro di rete venga attivato in presenza di comportamenti e/o sintomatologie severe o gravi che si manifestano all’interno di famiglie multiproblematiche. Segnali di malessere, di confusione, di conflittualità, crisi repentine, alti e bassi si ritrovano nelle storie della psicopatologia della famiglia multiproblematica, ma non è detto che arrivino all’attenzione di psicologi e psicoterapeuti. I passaggi possono riguardare preliminarmente medici di famiglia, pediatri, psichiatri in situazioni di sintomi acuti o recidive, anche pronto soccorso e guardie mediche. Questo è comunemente il primo accesso alla storia sintomatologica del disagio psichico di una persona fragile di una famiglia fragile. Poi il tempo scorre, il problema non rientra, anzi peggiora. Le situazioni conflittuali aumentano di entità, un componente della famiglia peggiora la sua situazione clinica, eventi stressanti e imprevedibili fanno tutto il resto e completano il quadro. Via via che il conflitto assume toni esasperati e la crisi pure, entrano in scena avvocati e servizi sociali e i tribunali, solitamente nel caso sia coinvolto un minore. Quando accade che l’équipe del servizio si attiva in situazioni acute medio-gravi può succedere che si proceda per tentativi ed errori. Ci può essere la tendenza a mettere in campo strategie operative per ridurre la sintomatologia, ma quando queste non funzionano diventano ulteriori “complicazioni” di un quadro clinico che si fa sempre più compromesso. Finché si arriva all’invio coatto agli specialisti, nel nostro caso agli psicoterapeuti della famiglia, in urgenza, con l’aspettativa di un esito positivo in tempi brevi e una implicita richiesta di accomodamento alle tempistiche del sistema inviante. Ciò con non poca frustrazione da parte di chi raccoglie un pezzo di delega e si mette al lavoro per tentare di costruire una cornice che includa l’analisi della domanda e, solo dopo il sintomo, che cominci a fare delle ipotesi da condividere in rete e solo dopo un piano di intervento da pensare nel gruppo multidisciplinare. Tutto questo in emergenza e con un bel carico di aspettative. “Le persone non si riparano, le persone si ascoltano”, diventa il nostro refrain da sottoporre agli operatori in un gioco di alchimie relazionali esplicite e implicite e usando il nostro migliore strumento, la comunicazione sistemica. Il lavoro che a questo punto dovrà intraprendere l’équipe ha come base quella di stabilire e rinforzare la fiducia dell’utenza e degli interlocutori coinvolti, sottolineando sempre che l’aumento dei gradi di benessere degli individui è il reale obiettivo comune. In base al tipo di approccio adottato si possono avere due outcome differenti: un esito lineare che agisce esclusivamente sul destinatario (portatore di sintomi), ottenuto con interventi esterni imposti (approcci top-down), oppure un esito circolare che coinvolge il sistema famiglia équipe mediante interventi esterni e interni (approcci bottom-up) [18].

Esperienza dal caso

Quando la famiglia è stata presa in carico, l’attenzione era principalmente rivolta ai sintomi della giovane L., che risultavano molto preoccupanti: erano in fase acuta al punto da richiedere l’allontanamento da casa e l’affidamento della minore a una struttura residenziale di tipo socio-terapeutico. La situazione familiare era altamente conflittuale, con una notevole confusione rispetto ai ruoli genitoriali e ai compiti familiari, motivo per cui è stato ritenuto necessario iniziare un percorso familiare. I genitori, separati, hanno dunque iniziato la terapia familiare non per scelta o richiesta, senza alcuna motivazione, ma perché inviati dalla struttura socio-terapeutica residenziale che ospitava la figlia. L’invio coatto ha inizialmente complicato il lavoro di tutta l’équipe, poiché i genitori, focalizzati sulla sintomatologia della figlia e poco consapevoli delle dinamiche sottese che avevano portato L. a stare male, continuavano a nascondersi dietro le loro questioni legali, accusandosi reciprocamente, in uno stato perennemente difensivo che non permetteva di innescare alcun cambiamento interno e che aveva costretto l’équipe socio-sanitaria ad assecondare problematiche e richieste contingenti. La difficoltà derivava da un’impostazione iniziale che funzionava da binario, dove il treno guardava esclusivamente alla risoluzione del quadro sintomatologico, seppur urgente e preoccupante (ansia generalizzata, aggressività auto ed eterodiretta, discontrollo delle emozioni, difficoltà relazionali), come unica fermata del lavoro su e con la minore, senza prendere in considerazione la cornice più ampia di riferimento all’interno della quale poter inserire per gradi obiettivi di salute psicologica e sociale che includessero tutta la famiglia in un’ottica bottom-up.

Il triangolo no, non l’avevo considerato: transazioni familiari e istituzionali

Prendiamo in prestito dalla psicologia sistemica i concetti di triangolo e di triangolazione, che ritroviamo molto spesso nelle transazioni relazionali. All’interno di un conflitto tra due parti il sistema tende a inserire un terzo elemento, in questo caso la terapia familiare, che avrà duplice funzione: stemperare e mediare sull’entità del conflitto tra i componenti della famiglia e tra loro e gli operatori dell’équipe e lavorare per sciogliere fusionalità e invischiamenti, che rallentano la differenziazione del singolo [19]. Elementi di triangolazione si riscontrano nel gruppo di lavoro inviante, che deve barcamenarsi e trovare accomodamenti quando il sistema-famiglia cerca di portare dalla propria parte uno o più operatori. Anzi, da quante più discipline è composta l’équipe, tanto più i tentativi di triangolazione saranno evidenti e apparentemente funzionali alle omeostasi.

Esperienza dal caso

Durante il percorso terapeutico abbiamo assistito a un progressivo indebolimento della collaborazione tra l’assistente sociale e la comunità socio-terapeutica, riconducibile alle differenti modalità relazionali col tempo divenute contrastanti. Si è così instaurato un meccanismo di triangolazione che ha visto coinvolti la minore L., l’assistente sociale e gli operatori della comunità socio-terapeutica. Durante la permanenza nella struttura, L. ha vissuto momenti di tensione con gli operatori a causa della sua incapacità di accettare le regole della comunità residenziale. Queste regole risultavano in contrapposizione con l’approccio dell’assistente sociale, permissivo e volto ad assecondare le sue continue richieste (per esempio portare il cane a scuola). L’operatore ha dunque ceduto al meccanismo di triangolazione, contribuendo ad alimentare il contrasto con la comunità e generando problematiche di comunicazione all’interno dell’équipe di lavoro e all’interno della famiglia stessa. Nelle riunioni di rete convocate tra una seduta familiare e l’altra, queste tematiche sono state affrontate e risolte con un andamento ad alti e bassi. Il tentativo comprensibile di triangolare l’operatore sociale da parte di una famiglia di per sé triangolante rientrava fino alla successiva richiesta di L., della madre o del padre. Con l’assistente sociale c’è stato un contatto più prossimo da parte nostra, per sostenerla tra una richiesta e l’altra.

Monitoraggio: i processi e le verifiche

Le difficoltà comunicative danno origine a problematiche inerenti al monitoraggio del lavoro svolto. Così come in ambiente scolastico si utilizzano compiti e verifiche per valutare l’andamento del processo scolastico, anche nei processi di salute è fondamentale avere degli indicatori che permettano di comprendere, valutare ed eventualmente adattare l’intervento, per misurarne gli esiti. Nonostante le riunioni di équipe e tutti gli strumenti di valutazione (schede di osservazione, piani terapeutici individualizzati), è frequente che si manifesti una differente percezione anche dovuta alla mancata condivisione e al latitante aggiornamento di decisioni prese nei vari contesti di lavoro tra una riunione di gruppo e l’altra. Ogni figura professionale avrà ben chiari gli obiettivi specifici connessi alla propria area di interesse, ma può accadere che non abbia chiari quelli delle altre figure professionali. Tutto ciò contribuisce a una confusione riscontrabile sia nella pratica sia nella pianificazione dell’intervento.

Economicamente non ci siamo: chi paga?

La trattazione di questo punto risulterebbe estremamente lunga e impegnativa; pertanto tratteremo solamente due punti fondamentali: la mancanza di fondi per l’équipe interna alle comunità e la mancanza di fondi per professionisti esterni. Nel primo caso, solitamente l’équipe multidisciplinare interna a un servizio sarà sostenuta economicamente dalla sanità pubblica o da un ente del privato sociale (associazione, fondazione, cooperativa, ecc.), ma in entrambi i casi reperire fondi necessari per offrire un buon servizio di terapia familiare non risulta cosa semplice. Sono ben note le problematiche anche economiche della sanità pubblica, le tempistiche lunghe di attesa, l’eccesso di richieste, la mancanza di personale e una remunerazione insoddisfacente… E spesso all’interno dell’équipe multidisciplinare troviamo figure professionali che lavorano per diverse istituzioni sanitarie con sovraccarico di lavoro. Qualora si necessiti di un consulente esterno, come nel nostro caso, l’équipe inviante si affiderà a un servizio esterno, integrandolo nella progettazione e nel piano di intervento per risolvere una mancanza. In questo caso sorge un problema non di poco conto che riguarda le risorse economiche da reperire per finanziare tale servizio esterno: sarà la famiglia a sostenere la spesa o sarà una delle istituzioni che concorrono alla sua salute pubblica? Nel caso la risposta sia la famiglia, insorgono altri quesiti: e se la famiglia non potesse sostenere la spesa? E se uno dei genitori, nel caso di una separazione, non potesse o volesse sostenere la spesa, si alimentano le dinamiche di triangolazione? Chi sostiene le spese è più forte e potente? Nel caso la risposta sia una delle istituzioni: quale? Con quali fondi?

Esperienza dal caso

Durante il percorso di L., e oltre all’intervento di terapia familiare, l’équipe concorda che è necessario attivare una psicoterapia individuale per l’adolescente, con l’obiettivo di creare un suo spazio di riflessione, di differenziazione e di crescita. Questo ha messo i genitori di fronte alla questione economica. La madre poteva sostenere la spesa, il padre si trovava in maggiore difficoltà economica. Tuttavia era opportuno che l’onorario fosse diviso equamente tra i due genitori, date le numerose controversie legali che avevano caratterizzato il loro rapporto. A tale criticità è conseguita una mediazione economica che ha prolungato i tempi già lunghi per l’avvio della psicoterapia individuale, non rispondendo prontamente al bisogno della figlia. Il ruolo dell’équipe è stato fondamentale: l’obiettivo condiviso ha permesso a tutti gli operatori di accompagnare i genitori ad assumersi equamente il carico economico della psicoterapia della figlia. In rete gli obiettivi si raggiungono più alacremente e le triangolazioni vengono disattivate.

BUONE PRATICHE PER UN LAVORO INTEGRATO IN ÉQUIPE MULTIDISCIPLINARE

La partenza: formazione dell’équipe e presa in carico del caso

La prima riunione d’équipe è fondamentale per impostare un lavoro integrato che parta da una base condivisa dalle diverse professionalità coinvolte, ovvero migliorare i gradi di benessere della famiglia. Ogni operatore entra nell’équipe con la propria conoscenza professionale, fondata su specifiche metodologie ed esperienze maturate, e così si confronta con gli altri. Per evitare di scivolare nel pregiudizio e nella possibilità di instaurare dinamiche di potere, rischi inevitabili quando si ha davanti qualcosa di diverso-da-noi, è necessario essere consapevoli che l’apporto di ciascun operatore è valido, ma allo stesso tempo parziale [20]. Questa consapevolezza offre il terreno comune per impostare un lavoro realmente integrato all’interno dell’équipe. Durante la prima riunione di conoscenza è importante che ogni professionalità coinvolta possa presentarsi e allo stesso tempo riflettere insieme sul contributo che ciascuno può portare. Questa valutazione consente di prevenire l’instaurarsi di dinamiche relazionali di contrasto all’interno dell’équipe, che avrebbero ricaduta negativa sull’obiettivo del lavoro.

Il problema: analisi della domanda integrata

Nella prima fase del lavoro d’équipe è fondamentale effettuare un’adeguata e approfondita analisi della domanda, in cui ogni operatore senta riconosciuta la sua specifica competenza. In questa fase viene inquadrata la problematica portata dalla famiglia e la richiesta d’aiuto più o meno esplicita. È necessario avviare un ragionamento condiviso del problema, aggirando il rischio di logiche emergenziali dove le tempistiche urgenti alterano l’obiettivo dell’intervento, perdendo di vista il bisogno sottostante. Al contempo è opportuno evitare di assecondare logiche di puro assistenzialismo dove il cambiamento è delegato totalmente all’équipe, rassicurando implicitamente la famiglia o delegittimando la sua responsabilità a sentirsi parte del sistema curante [21]. Bisogna tenere inoltre in considerazione che spesso la domanda, oltre che forzata, è anche confusa, si muove intorno al sintomo chiedendo che sparisca. Attraverso un’analisi della domanda integrata, i diversi operatori, facendo leva su risorse differenti, permettono alla famiglia di diventare essa stessa l’agente del cambiamento. L’ascolto del bisogno e la comprensione delle dolorose dinamiche sottostanti al sintomo consentono di dare un senso al problema per cui è stato richiesto un aiuto. “Dare un senso” costituisce un passaggio chiave per l’équipe, poiché permette di individuare un obiettivo comune e condiviso su cui impostare il lavoro [19]. Trovare significati condivisi porta a costruire ipotesi condivise. Così facendo gli operatori sentono meno la solitudine dei loro approcci di riferimento nei loro servizi di appartenenza, si sentono meno gli unici responsabili di una recidiva o di un peggioramento, sentono meno il senso di onnipotenza sulla vita degli utenti, dal momento che non ne sono i titolari esclusivi. In maniera inversamente proporzionale, la famiglia guadagna autostima nei suoi processi autocorrettivi, potenzia le risorse, prende consapevolezza dei suoi limiti e delle sue richieste a volte impossibili, diventa meno delegante e meno richiedente. A ciascuno viene riconosciuta la sua parte nel tutto dell’intervento integrato, ogni pezzo prende il suo legittimo posto nel mosaico. E il benessere progredisce, sia quello dei familiari sia quello degli operatori.

Il tempo: programmazione delle tappe necessarie al raggiungimento dell’obiettivo

Spesso nelle riunioni in rete ci viene detto che non c’è tempo o ce n’è troppo poco. Il tempo per fare le cose: una riunione, una relazione, un aggiornamento, una telefonata. Il tempo sorprendentemente si diluisce fino a sparire in decisioni prese nell’urgenza di rispondere prontamente alla situazione problematica. Talvolta la variabile tempo può diventare una scusa rassicurante. Lavorare in équipe è tanto più efficace quanto meno il gruppo è legato a verticalismi gerarchici e quanto più può fare affidamento su logiche e risorse orizzontali (esperienze, ruoli, personalità, formazioni). Una volta individuato l’obiettivo vengono delineati i passaggi necessari al raggiungimento dell’obiettivo stesso. Vengono quindi discussi piani d’azione a ogni step, che caratterizzano i passaggi, considerate le risorse necessarie, gli eventuali coinvolgimenti di specialisti sul territorio, preventivate le difficoltà e le resistenze che si potrebbero incontrare da parte della famiglia e nel sistema integrato. A ogni step è obbligo ridefinire la domanda per concertare un’adeguata risposta, che inneschi il cambiamento atteso. È importante per l’équipe avere dei riferimenti temporali di medio-lungo termine entro cui programmare il lavoro integrato, così che i professionisti possano essere messi nelle condizioni migliori per lavorare in sinergia e affrontare le situazioni e le criticità che si presentano di volta in volta. Cadenzare le riunioni formulando un calendario delle riunioni di rete è un ottimo modo per mantenersi in contatto, coordinarsi e non perdere il ritmo del tempo. Certamente tra una riunione e l’altra gli operatori rimangono in contatto via mail e telefono. Talvolta lo straordinario che si presenta nella vita degli utenti viene preso in carico attraverso riunioni straordinarie. Accade di rado, anche per evitare di scivolare in quell’assistenzialismo che spesso la famiglia ricerca e induce. Le risposte rapide in emergenza spesso sono palliativi inefficaci. Il tempo dell’équipe, ragionato e cadenzato, diventa il tempo della famiglia, una sorta di meta-tempo dove ciascuno fa la sua parte per perseguire il medesimo obiettivo di salute. Vista l’emergenza sanitaria da SARS-CoV-2 tutte le nostre riunioni di rete sono avvenute on line. Si può fare gruppo anche dentro un PC!

La fiducia: definizione dei ruoli professionali e del lavoro specifico nell’obiettivo comune

È il tema più difficile. Per far sì che ogni professionalità possa lavorare bene con la sua specifica competenza è fondamentale creare un clima di fiducia interno all’équipe. Gli interventi del singolo professionista, pur utilizzando metodologie differenti, devono essere riconosciuti e sostenuti dall’intera équipe, poiché l’obiettivo è comune ed è condiviso [٢٢]. È necessario che ci sia un continuo allineamento e aggiornamento interno all’équipe, così da prevenire fraintendimenti, slittamenti di contesto e favorire un confronto stimolante circa il proprio lavoro. La rete si costruisce lavorando insieme, e lavorando in rete si costruisce un senso diverso alle personali o settoriali strategie di intervento. Bisogna anche addestrare il senso di tolleranza e di mediazione. Capita nelle riunioni di non essere d’accordo, di risentirsi o di prevaricare. Un gruppo in rete è comunque costituito da persone, con formazioni diverse, temperamenti personali, anzianità di servizio, rigidità, meccanismi di difesa, emozioni. Ogni conflittualità o divergenza deve trovare posto senza allarmare. Le divergenze sono strettamente legate alle differenze. E Bateson ha insegnato bene che si apprende dalle differenze. Nell’équipe ci sono medici, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, educatori, ecc. La differenza è la premessa di un gruppo di lavoro integrato. Lavorare in rete è un addestramento a imparare dagli altri, a importare buone pratiche e metodologie, a interagire con quelle che buone non sono, svelandone i lati oscuri e i vizi. La comunicazione circolare sistemica aiuta molto. La supervisione pure.

Il confronto: riunioni di aggiornamento e scambio di informazioni

Fondamentale risulta dare una continuità alle riflessioni e alle ipotesi di intervento d’équipe, programmando riunioni cadenzate e favorendo un continuo scambio di mail, telefonate e materiale utile per tenere aggiornati i lavori e procedere per step. Da una parte questo serve a conoscersi, a confrontarsi e a rafforzare la fiducia interna all’équipe, dall’altra a lavorare meglio con la famiglia, prevenendo le frequenti e ripetute triangolazioni. Durante le riunioni di aggiornamento è sempre bene riportare l’attenzione sull’obiettivo comune e comprendere lo stato di avanzamento rispetto a questo. Importante risulta anche sottolineare le difficoltà incontrate via via, in modo tale che possano essere utilizzate tutte le risorse che l’équipe può mettere a disposizione e possano essere date risposte condivise alle richieste e alle criticità della situazione che si vanno presentando nel corso del trattamento. Via via si diventa un fronte unico di pensieri diversi e di azioni, una rete che costruisce, e la famiglia lo percepisce. Diminuiscono le triangolazioni, la sintomatologia regredisce. La famiglia e ogni suo componente migliora. Gli operatori dell’équipe guadagnano e riconquistano il tempo perduto.

Esperienza dal caso

Durante le riunioni di aggiornamento è emerso da parte di più operatori il bisogno della minore di avere a disposizione uno spazio di riflessione personale. Tale bisogno è stato accolto dall’équipe, la quale si è potuta confrontare e accordare sulla proposta di una terapia individuale per L. Le riunioni programmate in modo cadenzato hanno permesso di monitorare e prendere in carico prontamente le esigenze via via emerse nel corso del tempo.

Il sistema famiglia/équipe: comunicazione con la famiglia

L’ipotesi di intervento «va usata come strumento per creare un aggancio e dobbiamo poterla proporre precocemente allo scopo di interessare un utente che non ha alcuna motivazione a essere qui con noi e dunque iniziare a motivarlo […]. Una tempistica che in un contesto spontaneo risulterebbe scorretta, improntata alla fretta e al sottile desiderio del terapeuta di sbalordire il cliente, nel contesto coatto può rivelarsi indispensabile» [23]. È necessario che l’utenza si senta parte del sistema curante, agendo il benessere in modo tale da ritenersi sempre di più parte attiva e centrale per promuovere il cambiamento e non in un’ottica di mero assistenzialismo. È importante quindi che le comunicazioni alla famiglia non siano percepite come decisioni di altri, ma che siano piuttosto pensate, discusse, metabolizzate e interiorizzate insieme alla famiglia per poterle dare il tempo di costruire un senso e organizzarsi per accogliere il cambiamento [24]. Le comunicazioni con la famiglia devono avvenire nel rispetto di tutte le professionalità coinvolte e di ogni componente del sistema familiare. Come pezzi di un puzzle: interventi, ipotesi e strategia di intervento devono essere contemplati all’interno di un mosaico dove ciascuno possa trovare la sua collocazione.

Esperienza dal caso

Sin dalla presentazione del caso è stato evidente quanto la conflittualità genitoriale potesse complicare il lavoro dell’équipe, attivando alleanze, difese e resistenze. Entrambi i genitori infatti tendevano a screditarsi reciprocamente, tentando di coinvolgere i diversi operatori, cercando di metterli gli uni contro gli altri. Il rischio è stato alto anche questa volta. Ma questa équipe, accertata la criticità, ha curato con attenzione le comunicazioni con i genitori, evitando di complicare ulteriormente le dinamiche triangolari e condividendo in gruppo le loro difensive modalità relazionali, per aggirarle, per costruire un chiaro mosaico di interventi e obiettivi, per offrire la migliore risposta alla situazione problematica della famiglia insieme alla famiglia. Così e solo così l’intervento multidisciplinare è efficace.

La danza che crea: comunicazione interna all’équipe

Il linguaggio professionale di ogni interlocutore può creare il rischio di una confusione comunicativa interna all’équipe. Per evitare che questo avvenga è necessario ricercare un linguaggio flessibile ed efficace che abbia l’obiettivo di spiegare e far comprendere gli intenti di ciascuno. Ciò costituisce il presupposto per la condivisione e l’integrazione dei pensieri: le differenze non devono essere degli inutili boomerang [21]. La comunicazione deve avvenire in modo circolare, evitando la ricerca di un ruolo di potere o di una posizione di supremazia e favorendo lo stimolo al cambiamento, mettendosi in discussione qualora ce ne fosse bisogno e agevolando il confronto ogni volta che è possibile. Le decisioni devono essere proposte, pensate, condivise e coordinate all’interno dell’équipe in modo tale da passare alla famiglia un senso di unitarietà intorno all’obiettivo di cambiamento. Così facendo l’incubo “recidiva” viene affrontato come possibilità della famiglia a comunicare a sua volta, non viene vissuto soltanto come regressione e blocco evolutivo. In rete la recidiva assume un peso più èqui(pe)-sostenibile! Il lavoro di rete funge da cornice rispetto alle soggettive emotività legate alla propria parte di lavoro, ha funzione di contenitore in cui si trova ascolto, comprensione e significato [25]. Il ruolo della terapia familiare ha avuto proprio questa funzione di raccordo e di cornice.

I rapporti con l’esterno: comunicazione con altri operatori

Ogni professionista dell’équipe, a seconda della sua funzione, tiene i contatti con la rete che si muove intorno alla famiglia, ai comparti in cui vive e che se ne occupano (medici, pediatri, insegnanti, educatori, specialisti, avvocati), in modo da poter aver una visione globale di come si muove la famiglia dentro la rete territoriale e relazionale di cui fa parte [8], per raccogliere informazioni di contesto utili al lavoro integrato e condividere in tempo reale ogni movimento che potenzialmente potrebbe rappresentare un rischio se non viene condiviso.

CONCLUSIONI

«Se la rete è una serie di collegamenti dove ogni operatore rappresenta un nodo, un intervento di rete diventa una trama che vede ogni volta persone differenti coinvolte. Non possiamo quindi lavorare senza avere un’interconnessione tra Servizi e operatori. È mia esperienza che i Servizi utilizzino l’alibi dell’urgenza per non cercare il coordinamento che, benché faticoso, risulta indispensabile per non costruire la cronicità» [25]. Il crescente interesse per i bisogni di natura psicologica – anche dovuto alla recente emergenza sanitaria – ha messo in evidenza l’importanza della figura dello psicologo nel sistema socio-sanitario di prevenzione e di cura. È necessario tradurre e concretizzare tale riconoscimento all’interno del servizio sanitario, integrando la figura professionale dello psicologo nei processi di presa in carico globale. L’analisi della letteratura e i riferimenti al caso presentato evidenziano come un approccio multidisciplinare, che integra le diverse figure sanitarie, porti a indubbi benefici nella gestione del disagio e al miglioramento del benessere dell’intero sistema. Per la progettazione e realizzazione di un intervento multidisciplinare è opportuno essere consapevoli delle criticità potenzialmente riscontrabili e delle buone pratiche da adottare, così da delineare linee guida concrete, efficaci e utili ai fini del raggiungimento degli obiettivi di salute dell’utenza. Nel caso presentato relativo alla minore L., l’équipe multidisciplinare, in grado di rispondere a diversi bisogni di natura sanitaria, psicologica e sociale, ha potuto raggiungere gli obiettivi di salute prefissati. Tra questi la remissione sintomatologica, la riduzione della somministrazione di psicofarmaci e il miglioramento del benessere psicologico e sociale della paziente e del suo nucleo familiare, grazie al quale si è ritenuto opportuno il trasferimento della minore da una struttura socio-terapeutica a una struttura educativa. Attraverso una mail l’assistente sociale scrive: «Anche dal punto di vista neuropsichiatrico, la collega – neuropsichiatra ASL – sta suggerendo una sospensione della terapia farmacologica». L’ingresso in psicoterapia individuale di L. coincide con la sospensione degli psicofarmaci [26].

«Bisogna fare quel che si può… sarà la vita a fare il resto»

Carl Whitaker

Prospettive future

Attualmente in Italia gli interventi specifici dello psicologo rientrano nei servizi secondari e terziari mentre solitamente ai medici di base è affidata la primaria valutazione del problema. La recente proposta di introdurre la figura dello psicologo di base non è l’unico tentativo fatto. In alcune regioni sono state avanzate proposte di legge che hanno cercato di promuovere l’istituzione dello psicologo del territorio integrando la figura nei servizi sociali; nel 2014 la Giunta regionale del Veneto ha avviato un tentativo di un servizio di psicologia di base all’interno di alcune aziende sanitarie; nel 2017 nel DPCM che ha definito e aggiornato i LEA è stato messo in risalto il ruolo della consulenza psicologica e dell’assistenza socio-sanitaria, includendo la figura dello psicologo delle cure primarie e le regioni Umbria, Veneto e Puglia hanno attivato ulteriori sperimentazioni; nel 2019, il Decreto Calabria ha legittimato la figura dello psicologo di base prevedendo la sua presenza negli studi dei medici di base, modello a cui però poche realtà regionali si sono conformate. Infine lo scorso luglio 2020, con l’approvazione del testo di legge regionale sull’istituzione dello psicologo delle cure primarie, la Campania ha deciso di istituire il servizio di psicologia di base all’interno delle proprie aziende sanitarie [27]. Anche la Lombardia e la Toscana stanno portando avanti a livello regionale la legge dello psicologo di base nelle Case di Comunità, per implementare i servizi territoriali e garantire la prossimità, a fianco dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta.

Ricordiamo che in Senato è sempre depositata la Legge dello psicologo delle cure primarie della Senatrice Boldrini e che il 18 febbraio 2022 le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Bilancio hanno approvato il “Bonus Psicologo”.

Concordiamo con le parole di David Lazzari, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), «il bonus rappresenta indubbiamente un cambio di passo. È un tassello utile. Ma non può bastare per dare risposte concrete alla domanda di aiuti di tanti italiani che soffrono di disagi psicologici. Serve una risposta strutturale: l’esigenza è quella di creare servizi ad hoc nelle Asl, oggi carenti».

E con quelle di Luigi Cancrini: «C’è un’epidemia di ansia e depressione, soffrono i bambini, i giovani, gli anziani. Bisogna ripristinare i bonus per le psicoterapie, in ballo c’è la salute mentale del Paese».

In questi meta-luoghi e in questi multicontesti (Case di Comunità, Consultori) sarà decisamente più semplice poter sperimentare sul campo il lavoro di rete.

Ringraziamenti: ringraziamo il Centro Studi di Prato che ci dà l’occasione di fare esperienza di formazione e il Direttore Gianmarco Manfrida per aver sostenuto questo progetto.

BIBLIOGRAFIA

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7. Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 16 novembre 2011, n. 12, sui diritti dei bambini e i servizi sociali a misura dei bambini e delle loro famiglie.

8. DPCM 12 gennaio 2017, Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502. Gazzetta Ufficiale Serie Generale, n. 65 del 18 marzo 2017.

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