Fiori di testa

Elisa Onnis1



1Istituto Europeo di Formazione e Consulenza Sistemica, Roma; tesi di specializzazione in supervisione indiretta. Didatta supervisore: Luigi Cancrini.


Per tutelare la privacy del paziente e della sua famiglia, in questo lavoro verranno utilizzati nomi di fantasia e saranno omessi dettagli che possano ricondurre all’identità dei protagonisti.


Ad Andrea, con la sua infinta pazienza.

Ai miei punti fermi oltremare.


PREMESSA


«Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita
o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo
ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima,
oppure se tanto tempo prima a un crocevia
invece di prendere una strada avesse preso quella opposta
e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza».


Italo Calvino, Le città invisibili [1]


Con la presente tesi vorrei condividere con voi un’esperienza terapeutica vissuta presso il Consultorio Familiare della ASL 2 di Roma, insieme a una delle famiglie che più ho a cuore, condotta con la supervisione indiretta del prof. Luigi Cancrini.

Ricordo quando, durante le ultime lezioni del terzo anno, ci informarono del nostro passaggio alla supervisione indiretta con il prof. Cancrini. Ero emozionata: la possibilità di potermi confrontare con un professionista tanto stimato mi stimolava e contemporaneamente mi intimoriva. L’idea di proiettarmi verso l’eventuale conclusione del percorso da un lato mi gratificava, dall’altro mi spaventava. Nonostante i grandi rinforzi da parte dei miei didatti Walther Galluzzo e Mariella Galli, che in quel momento rappresentavano la mia base sicura formativa, mi sentivo timorosa e inadeguata rispetto a tale passaggio.

Per contestualizzare e aiutarvi a comprendere maggiormente i vissuti emotivi legati a quel momento di vita e al percorso terapeutico che vi racconterò, credo sia necessario aprire una parentesi sulla fase del ciclo vitale che stavo attraversando, in veste di giovane terapeuta. A 27 anni avevo appena intrapreso una convivenza con il mio attuale compagno, stavo concludendo il mio percorso di tirocinio presso il Consultorio Familiare della ASL 2 di Roma e contemporaneamente intraprendevo la mia prima esperienza lavorativa presso una Struttura Residenziale Terapeutico-Riabilitativa per minori, in cui ricoprivo il ruolo di operatore socio-sanitario.

Mi rendo conto di come quell’anno abbia rappresentato per me una fase di svincolo: dalla mia famiglia d’origine, dalla mia immagine di grande adolescente studentessa e dai miei didatti. A tal proposito mi vengono in mente le parole lette in un articolo di Ecologia della mente sulla supervisione indiretta: «Il giovane terapeuta, che nella grande maggioranza dei casi sta vivendo lo stesso percorso di svincolo dalla sua famiglia d’origine, quando le cose vanno bene comincia a trovarsi via via sempre più solo nella pratica clinica. All’inizio vuole essere condotto per mano per poi acquisire sicurezza e voglia di provare a percorrere la propria strada. Ecco quindi che può succedere che l’allievo si accosti all’esperienza della supervisione indiretta con un intreccio di emozioni contrastanti: così come l’adolescente vuole a tutti i costi conquistare la sua autonomia, scalpita rabbioso al minimo accenno di controllo esercitato dai genitori, ma guai a loro se si allontanano troppo dal campo di battaglia, guai se si rifiutano di combattere; così l’allievo può sentire l’intervento del didatta come un’intrusione, può sentire la paura di confrontarsi con un compito gravoso, la rabbia verso colui che prima era a fianco e ora sembra esserci sempre meno, ma anche il sollievo, la gratificazione, l’idealizzazione. Allo stesso tempo il brivido e l’eccitazione dell’ignoto, dell’azzardo, del piacere di misurarsi con le proprie forze: un insieme di emozioni che certamente investe il didatta, coinvolge e riguarda il gruppo e, non in seconda battuta, il caso per il quale la supervisione è stata richiesta» [2].

Ricordo il timore di muovermi autonomamente dentro la stanza di terapia, senza lo squillo rassicurante del citofono in grado di guidarmi e dirigere il lavoro terapeutico. La confusione e il senso di insicurezza mi portavano a sentire un forte bisogno di conferma, che mi portava a vivere la supervisione con la paura e contemporaneamente l’esigenza del giudizio. Tale dinamica intrapersonale, che mi veniva rimandata dal professore con pazienza e delicatezza, mi ha dato la possibilità di affrontare tali tematiche anche nel corso del mio percorso psicoterapeutico individuale che, personalmente, ritengo prezioso per tutti i giovani terapeuti in formazione. Credo infine di essere riuscita ad accedere al significato profondo della supervisione che, come afferma Cancrini, «è l’occasione di rimettere ordine tra livelli interdipendenti in cui i fatti si trovano ad essere impropriamente collegati ed il tentativo di ridare spazio e potere alle risorse bloccate dalla confusione» [3].

Per tornare al percorso di tesi, nonostante le diverse terapie seguite durante gli anni della supervisione indiretta siano state preziose e stimolanti, fin dall’inizio non ho avuto dubbi sulla scelta del caso da presentare. Tuttavia, nello scriverla mi sono imbattuta in una serie di difficoltà legate allo sviluppo di una narrazione lineare e chiara in termini di processo terapeutico. Tale situazione è stata motivata da tre tematiche principali:

• la richiesta di presa in carico individuale riferita al paziente designato, Alicia, che ha comportato resistenze alle convocazioni da me fatte, da parte della famiglia;

• il contesto familiare multiproblematico, con una situazione di rischio psicopatologico in età evolutiva, che mi ha portato a interfacciarmi con i Servizi e l’Istituzione Ospedaliera;

• il forte controtransfert vissuto durante il percorso, che dopo un’iniziale difficoltà di gestione e comprensione, ha avuto un ruolo fondamentale nel direzionare il lavoro. Inoltre, mi ha aiutato a comprendere la reale difficoltà della situazione che la famiglia stava vivendo in quel momento.

Il gruppo di supervisione indiretta è stato fondamentale e costruttivo. Ha rappresentato per me uno spazio di confronto, di rispecchiamento e di condivisione emotiva. Mi ha aiutato ad accedere a una posizione più confortevole, in cui gli errori potevano essere rivalutati e utilizzati come risorse. Nel corso delle sedute, questo mi ha permesso di sentirmi a mio agio nel ruolo di terapeuta di quel sistema familiare, permettendomi di percepire una maggiore efficacia.

PRESENTAZIONE DEL CASO

«Inutilmente, magnanimo Kublai,
tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni.

Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale […]
ma so già che sarebbe come non dirti nulla.

Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure
del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato:

la distanza dal suolo di un lampione e i piedi penzolanti
d’un usurpatore impiccato […]

Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città si imbeve
come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi
dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira.

Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano,

scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre […]».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

Contesto terapeutico

L’incontro con la famiglia di Alicia è avvenuto all’interno del Consultorio Familiare in cui praticavo il tirocinio per la formazione psicoterapeutica.

In tale contesto le richieste avvenivano telefonicamente, venivano gestite da alcune tirocinanti post lauream e in seguito discusse in équipe. Le linee guida rispetto alla presa in carico includevano madri con figli di età non superiore a un anno, IVG e post partum. In via eccezionale, i tirocinanti delle scuole di psicoterapia potevano proporsi per prendere in carico situazioni fuori criterio e condurle in supervisione indiretta.

Le informazioni iniziali della famiglia erano scarse e confuse: il servizio era stato contattato da una nonna, che aveva chiesto la presa in carico della nipote di 15 anni poiché rifiutava di andare a scuola. Alla signora era stato dato un appuntamento, a cui si era presentata sua figlia Denise insieme alla nipote di 15 anni, Alicia. La collega dell’accoglienza aveva descritto la signora come confusiva: aveva trovato difficoltà nel seguire il discorso perché parlava molto velocemente passando da un argomento all’altro. La figlia, invece, non aveva parlato. La famiglia era composta dalla nonna, la madre e i due figli: Alicia di15 anni ed Alessandro di 6 anni.

La richiesta era stata fatta per Alicia.

Il racconto fatto dalla mia collega mi stimolava delle domande rispetto agli altri membri della famiglia. Il padre dov’era? Perché non aveva chiamato la madre per la figlia? Ero curiosa di conoscere Alessandro, che nella descrizione era stato solo menzionato.

Tutte queste domande mi portarono a contattare la madre e convocare l’intera famiglia.

Primo incontro con la famiglia

Alla prima seduta si presenta tutta la famiglia con mezz’ora di ritardo, nonostante l’abitazione sia nell’edificio accanto al consultorio. Entrando nella stanza in maniera caotica, con l’affanno e senza salutare, la mamma e la nonna iniziano a spiegare di aver fatto ritardo per le difficoltà riscontrate nel convincere Alicia a uscire di casa. Tento subito di rinforzare Alicia ringraziandola per essere venuta all’incontro.

Si dispongono nella stanza in maniera autonoma, la madre e la nonna agli estremi e in mezzo a loro rispettivamente Alicia e Alessandro.

• Nonna Clarissa, una signora di 61 anni di corporatura esile, capelli grigi e arruffati, dimostra almeno dieci anni in più. Si mostra fin da subito molto loquace. In passato è stata seguita dal CIM per una diagnosi di disturbo depressivo per cui le era stata prescritta una terapia farmacologica, che ha interrotto autonomamente in quanto non la riteneva necessaria. Si definisce una grande lavoratrice, ha sempre “vissuto per lavorare” edancora oggi lavora sette giorni su sette, come domestica in diverse case del quartiere.

• La madre, Denise, ha 39 anni e al contrario di nonna Clarissa è una donna in sovrappeso. Anche lei mostra più anni rispetto a quelli che ha e non lavora, in quanto spiega di aver bisogno del tempo libero per badare ai figli. Anche in passato non ha mai lavorato e si è occupata sempre della casa.

• Alicia ha 15 anni, ha un’espressione imbronciata e una postura ricurva su se stessa, lo sguardo è sempre rivolto verso il basso. Come la mamma, anche Alicia è in sovrappeso. A prima vista risulta evidente la trascuratezza di sé, ha i denti molto gialli e i capelli sporchi. L’eloquio sembra rallentato, spesso inizia delle frasi che non conclude e passa da un argomento all’altro. Al momento non sta frequentando la scuola in quanto rifiuta di uscire di casa.

• Alessandro ha 6 anni ed è un bambino robusto, con due occhi molto grandi e l’espressione sorridente. Frequenta la prima elementare ma non sembra trovarsi bene, in quanto viene preso in giro dai compagni per la sua corporatura. Nell’eloquio si mostra incongruo e spesso interrompe le frasi fissando il vuoto e bisbigliando tra sé e sé.

Condurre la fase sociale è stato complicato, in quanto i diversi membri della famiglia interrompevano spesso il discorso con diverse modalità. In particolar modo Alicia tendeva a proporre dei versi simili a un ruggito in risposta alle mie domande e spesso, mentre la madre parlava, si agitava e la acchiappava per il vestito tirandola a sé in modo molto irruento. Alessandro non sembrava riuscire a stare seduto sulla sedia e per gran parte del tempo è restato in piedi accanto alla madre. Anche lui non rispondeva alle mie domande e spesso si incantava a fissare il vuoto. La nonna e la madre parlavano in maniera caotica, sovrapponendo voci e discorsi e rendendo la comunicazione confusiva.

Mi sentivo a disagio, come in apnea. Avevo la necessità di tornare in superficie per riprendere fiato. In quel momento ho pensato a quanto lo squillo del citofono, tanto temuto durante la supervisione diretta, mi avrebbe potuto aiutare. Approfittai di quel segnale interno per uscire dalla stanza e concedermi qualche minuto di riflessione, per dare un senso alle emozioni che stavo provando. La confusione percepita durante la fase sociale mi aveva permesso di intuire la struttura caotica di quel sistema familiare.

Definizione del problema della famiglia

Nella definizione del problema la situazione si fa meno confusa in quanto emerge fin da subito la forte preoccupazione della madre rispetto alla figlia Alicia: ha sempre avuto difficoltà scolastiche e nella gestione della rabbia, ma da due mesi rifiuta di uscire di casa per recarsi a scuola e per fare le visite mediche. Rifiuta di lavarsi e reagisce in maniera aggressiva se si tenta di convincerla a farlo. Nel corso degli anni ha intrapreso più volte un percorso valutativo presso la NPI di via dei Sabelli, che si è spesso interrotto in quanto Alicia rifiutava di presentarsi agli appuntamenti. Nonostante la frammentarietà della presa in carico, è emerso un Deficit Cognitivo di tipo Borderline.

Frequenta la terza media presso un istituto privato che, nonostante rientri nell’età della scuola dell’obbligo, sembra aver accolto le richieste della signora non segnalando le sue continue assenze ai Servizi Sociali.

La nonna concorda con ciò che viene detto e identifica come problema della famiglia la situazione della nipote. Esprime anche una grande rabbia nei confronti dei Servizi e delle figure professionali che non sono riuscite ad aiutarli e a risolvere questa situazione nel corso degli anni. Tale percezione porta entrambe le signore a considerare i servizi territoriali inefficaci e non affidabili.

Alla domanda “Qual è secondo voi il problema di questa famiglia?” Alessandro risponde con il silenzio, mentre Alicia afferma: “sono io il problema della famiglia”.

Dato che tutti concordano sul fatto che il problema sia Alicia, chiedo se ci siano altri problemi.

La madre propone una difficoltà comunicativa di tutti i membri della famiglia e spiega che non riescono a parlare senza urlare. La nonna, invece, propone il problema di Alessandro: rispetto a questo entrambe non si mostrano preoccupate, ma nefaste, spiegando che secondo loro anche lui farà la stessa fine di Alicia.

Chiedo come mai abbiano chiesto aiuto proprio in questo momento, dato che la situazione che descrivono sembra protrarsi da diversi anni. Emerge che il periodo in cui Alicia ha iniziato a chiudersi maggiormente è coinciso con la scoperta del motivo che ha portato i genitori a separarsi, ovvero che il padre fosse andato via di casa per frequentare un’altra donna. La madre riferisce che Alicia, non avendo ricevuto alcuna spiegazione da parte di nessuno, fino a quel momento si era convinta che fosse andato via per colpa sua. Nel momento in cui ha scoperto la verità sembra aver iniziato a provare una grande rabbia sia generalizzata che riferita alla figura paterna.

Come ci ricorda G. Bateson «la mappa non è il territorio ed il nome non è la cosa designata» [4]. Da queste informazioni si rese maggiormente chiaro come il problema non fosse Alicia. Con la sua chiusura e con i suoi comportamenti bizzarri sembrava, invece, voler comunicare qualcosa e contemporaneamente proteggere la famiglia.

Diagnosi del ciclo vitale e diagnosi strutturale

Nel corso del colloquio emerge che vivono tutti nella stessa casa, composta da due stanze da letto, un bagno e un cucinino. Nella stessa stanza dormono la madre e la nonna in un letto matrimoniale e Alessandro in un letto singolo. Alicia, invece, dorme da sola nell’altra stanza da letto, in quanto soffre di insonnia e spesso rimane sveglia durante la notte.

Dal punto di vista strutturale, la modalità di funzionamento prevalente della famiglia sembra essere l’invischiamento. I confini tra i sottosistemi sembrano essere deboli, se non inesistenti, e i ruoli gerarchici estremamente confusi [5]. Tale situazione pare comportare una scarsa percezione di differenziazione tra i membri, e infatti il problema di Alicia sconfina in maniera eccessiva diventando fonte di grande sofferenza per tutta la famiglia.

Avevo l’impressione che ci fosse una coalizione intergenerazionale che vedeva nella nonna il capofamiglia e relegava la madre nel sottosistema dei fratelli, portandola a vivere con difficoltà il proprio ruolo genitoriale. La chiamata della nonna sembrava confermare questa mia ipotesi.

Cerco di avere informazioni rispetto alla figura paterna: la madre racconta che il padre di Alicia si chiama Stefano, vive a Milano e ha 39 anni. La coppia, nonostante sia stata insieme per dodici anni, non era sposata. In seguito alla nascita di Alicia la coppia sembra essere entrata in crisi; quando aveva tre anni lui è andato via di casa, intraprendendo due nuove relazioni da cui ha avuto rispettivamente un figlio e in seguito altri due figli. Alicia, che non ha più visto né sentito il padre, esprime una grande rabbia nei suoi confronti e durante il colloquio rifiuta di parlare di lui se non per definirlo “uno stronzo che per me è morto”.

Durante il racconto, Alicia improvvisamente nomina un certo Domenico. Mi chiedo chi sia e proprio mentre cerco di proporre questa domanda, la madre interviene riferendo che è il padre di Alessandro. Si crea una grande confusione nel momento in cui Alicia riferisce che è suo padre.

In questo momento ho avuto l’impressione che sia la madre che la nonna non volessero affrontare l’argomento. Da terapeuta ho cercato di fare chiarezza sull’argomento trattato, chiedendo di spiegarmi meglio la vicenda.

Emerge che Alessandro sa che suo padre è morto, ma non ne sa la causa. Ho l’impressione che durante il colloquio venga proposta una dinamica interpersonale di disconferma nei confronti di Alessandro: la nonna e la madre parlano in sua presenza a voce bassa, come se lui non fosse presente, spiegando che Domenico entra ed esce dal carcere, portando avanti attività criminali di vario tipo e per questo motivo hanno deciso di dirgli che è morto.

Tutto questo mi sembrava surreale e mi sentivo spaesata. Qual è stato il motivo per cui non hanno voluto raccontare la verità ad Alessandro? Forse per proteggerlo, ma a quale costo? Avevo l’impressione che Alessandro si estraniasse dal contesto e ciò mi portava a preoccuparmi per lui più che per Alicia. In quel momento ho deciso di non approfondire l’argomento in quanto la situazione mi aveva spiazzata: c’era un segreto che aveva bisogno di essere svelato e io avevo bisogno prima di confrontarmi con il gruppo di supervisione.

Al termine della seduta provavo una forte preoccupazione per Alessandro, mentre Alicia mi intimoriva e avevo paura delle sue reazioni alle mie domande. Le due signore, invece, mi facevano sentire invasa e in dovere di aiutarle, trovando finalmente una risposta che altri servizi non erano riusciti a dare alle loro richieste.


Prima della supervisione con il prof. Cancrini e il gruppo nella mia testa c’era un agglomerato di informazioni slegate e sconnesse, che emersero dall’esposizione caotica che feci del caso. Non avevo alcuna idea di ciò che avrei dovuto fare. Il professore, con grande cura, mi guidò nel ragionamento, facendomi riflettere sul fatto che dal racconto si percepiva la difficoltà che avevo provato nel non farmi trascinare nella confusione caotica di quel sistema familiare.

Pensammo perciò di proseguire convocando separatamente i vari sottosistemi, per iniziare a dar forma ai confini della famiglia. Come ricorda S. Minuchin, «in una famiglia invischiata, i confini debbono essere rinforzati per facilitare l’individuazione dei membri della famiglia» [5].

Seguendo la linea gerarchica, iniziai convocando la nonna con l’obiettivo di ricostruire una storia più lineare e di poterle chiedere il permesso di aiutare la famiglia.

Sembrava che all’interno di questa famiglia si condensassero un insieme di modelli di interazione e di organizzazione disfunzionali e ridondanti, che avevano esercitato – e continuavano a esercitare – un potente blocco evolutivo. Era necessario capire la connessione tra i sintomi espressi e l’organizzazione disfunzionale del sistema familiare. La chiusura in sé stessa di questa famiglia sembrava essere esplicitata al mondo dal sintomo di Alicia, che rifiutava di uscire di casa anche per fare la spesa. Alicia portava in seduta una famiglia bloccata, a livello trigenerazionale, nell’evoluzione del ciclo vitale alla fase della nascita dei figli. Tale passaggio non è affatto naturale, ma comporta una serie di compiti evolutivi che non sempre la famiglia riesce ad affrontare, impedendole di procedere verso le successive fasi di sviluppo [6].

Tutte queste difficoltà andavano però lette all’interno di un contesto di famiglia multiproblematica, che presentava una situazione di marginalità e povertà in cui, considerando anche la familiarità psichiatrica, era fondamentale attivare risorse e costruire una rete di supporto e presa in cario dell’intero sistema familiare.

GLI OSTACOLI DIVENTANO RISORSE

«L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose [...].

Cosa veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni,

cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

Quando la convocazione fallisce

Alla seduta successiva, invece di nonna Clarissa, si presentò la madre insieme ad Alessandro e con mezz’ora di ritardo. Mi spiegò che la nonna non era potuta venire per motivi lavorativi e perciò aveva pensato di presentarsi insieme al figlio.

Vivevo con frustrazione il fatto che avessero deciso in autonomia, senza avvisarmi, di non rispettare la convocazione e sentivo una forte rabbia nei confronti della nonna. D’altro canto ero consapevole che questo rientrava nel gioco della famiglia e iniziavo a dare un senso al perché nessuno fosse riuscito ad aiutarli.

Decisi comunque di approfittare della presenza di Alessandro per parlare con lui.

Ho notato fin da subito, a differenza dell’incontro precedente, una maggior propensione all’interazione e al dialogo con me: rispondeva prontamente alle mie domande dandomi l’impressione di essere più loquace. Durante la seduta, mi rendo conto che il cambiamento di Alessandro nei miei confronti sembra portare la madre a intervenire e rispondere al posto suo, tentando di spostare il focus su Alicia. A tale dinamica Alessandro risponde attirando la sua attenzione, toccandole la testa e sedendosi in braccio a lei. Decido di esplicitare e rimandare tale dinamica, rivalutandola positivamente e chiedendo se ciò succeda spesso. A tale rimando la madre ridimensiona il suo comportamento, dando più spazio al figlio, mentre Alessandro sorride e successivamente sembra riuscire ad aprirsi ulteriormente. Mi racconta che gli piace frequentare la scuola, nonostante ci siano diversi compagni di classe che lo prendono in giro per la sua corporatura chiamandolo “balena” e precisando che lui non si arrabbia mai. La madre riferisce di aver sbagliato a educarlo a essere “buono”, perché l’ha portato a non essere in grado di farsi valere e difendersi. Alessandro spiega di non voler diventare come Alicia “che si arrabbia per tutto e da pugni”. Chiedo ad Alessandro come, secondo lui, si potrebbe aiutare la famiglia in questo momento di difficoltà e mi risponde che vorrebbe “inventare l’antivomito” per la sorella.

La madre tende a giustificare ciò che viene detto dal figlio, spiegando che qualche volta Alicia mette in atto condotte eliminatorie in seguito a eccessive abbuffate; normalizza tale situazione dicendo che la figlia è di buona forchetta e che questi episodi sono sporadici. La rivelazione di Alessandro mi incuriosisce, portandomi a esplorare con ulteriori domande: emerge che il menarca di Alicia è arrivato all’età di otto anni e che da circa un anno non ha il ciclo mestruale. La madre riferisce una grande difficoltà nel riuscire a convincere la figlia a presentarsi alle visite e per tale motivo la situazione medica generale di Alicia non è monitorata.

Durante il colloquio mi colpiscono alcuni comportamenti di Alessandro. Ho l’impressione che spesso si estranei dal contesto e, con sguardo assente, tende spesso a bisbigliare a bassa voce frasi non inerenti al discorso. Inoltre, mentre parla con me, mette le mani davanti al viso e fissa le sue dita. Mi colpisce come la madre tenda a normalizzare il comportamento di entrambi i figli, non riuscendo a cogliere le difficoltà associate.

Forse lo fa perché non ha abbastanza risorse? Forse il dolore dei figli è per lei troppo grande da gestire? Forse i vissuti dei figli risuonano qualcosa in lei? Queste domande mi portano a riflettere sia sulla necessità di attivare una rete, che possa sostenere la sofferenza di questa famiglia, sia sulla necessità di conoscere maggiormente la loro storia.


Durante la supervisione, il prof. Cancrini mi fece riflettere su come il mio controtransfert stesse influenzando il mio modo di lavorare: “non è semplice sorridere a chi ci fa sentire impotenti”. Questa frase risuonò in me, in quanto realmente mi sentivo molto lontano dalla nonna. La frustrazione provata nel non incontrarla mi aveva fatto sentire impotente. Nella mia testa, non presentandosi all’incontro la nonna stava rifiutando il mio modo di aiutarla. Ciò mi faceva arrabbiare. In realtà, durante la supervisione, compresi che l’impotenza derivava dal sentirmi invasa dalla delega della nonna. Nel mio vissuto lei, dopo aver lanciato la richiesta di aiuto, mi aveva abbandonato. Con gli occhi di oggi mi è più chiaro quanto io mi fossi messa in una posizione di onnipotenza nei confronti di quella richiesta: mi aspettavo che, per il solo fatto di aver chiesto aiuto, fosse pronta a mettersi in gioco seguendo le mie disposizioni.

La frase del professore mi portò a riflettere su quanto riportato nel suo libro “La psicoterapia. Grammatica e sintassi” [7]. Non presentandosi la nonna inviava un importante comunicazione di contesto: stavo ignorando la sua richiesta relativa alla nipote e convocandola, inviavo implicitamente una comunicazione completamente diverse dalla sua. Era necessario chiarire i ruoli e lavorare sulle aspettative di tutti rispetto a tale richiesta. Avevo sbagliato nelle modalità di convocazione che avevo fatto alla nonna poiché al telefono aveva risposto la figlia, Denise, alla quale avevo delegato la comunicazione dell’appuntamento. Grazie al confronto e alla condivisione delle mie emozioni con i colleghi del gruppo, riuscii a far pace con il mio vissuto e contattai nuovamente la nonna, con la quale organizzai un incontro individuale.

La nonna assente

Alla seduta successiva mi sentii più a mio agio nell’accogliere nonna Clarissa. Pronta per ascoltare la sua storia, mi misi come unico obiettivo quello di fare chiarezza.

Dal racconto sembra emergere la presenza di un copione familiare tramandato generazionalmente. Come ricordano Andolfi e Angelo «ogni sistema familiare si fonda su un’adesione inconsapevole e involontaria della persona al sistema, che possiamo chiamare lealtà familiare. Nel caso delle famiglie “patologiche”, questa lealtà diventa un grave ostacolo all’autorealizzazione dei componenti, prolungando nelle generazioni successive i comportamenti distruttivi di quelle precedenti» [8].

Anche lei, con il suo ex compagno, aveva intrapreso una relazione sentimentale a 17 anni dalla quale erano nati Denise ed Edoardo, il fratello maggiore di un anno. I due non si erano mai sposati e dopo un anno dalla nascita di Denise, a causa di numerosi litigi, lui era andato via di casa creandosi una nuova famiglia. I figli non hanno mantenuto i rapporti con il padre e in seguito alla separazione si sono trasferiti a casa di sua madre (la bisnonna, nonna Noemi), dove hanno vissuto tutti insieme fino alla sua morte avvenuta otto anni fa.

Il fratello di Denise, che oggi ha 40 anni, vive a Milano insieme al compagno e lavora come impiegato. Fino a cinque anni fa abitavano tutti insieme e sembra che, fino alla nascita di Alicia, tra lui e Denise ci sia stato un buon rapporto. In seguito hanno iniziato a litigare per la gestione degli spazi di una casa troppo piccola e per l’educazione della bambina.

Durante il colloquio, la signora iniziò a mostrarsi critica nei confronti di Denise, che reputava troppo protettiva e permissiva nei confronti dei figli. Spiegò che spesso si sentiva in dovere di intervenire nell’educazione dei nipoti perché la figlia non era in grado di farlo. Scoprì nel corso del colloquio che dietro queste critiche si nascondeva la preoccupazione della nonna che, chiedendo aiuto per la nipote, voleva che venisse aiutata sua figlia. Sembra che in seguito all’ultima relazione con Domenico, da cui è nato Alessandro, Denise abbia deciso di allontanare gli uomini dalla sua vita e abbia iniziato a vivere solo per i figli. Durante quella seduta rimandai alla nonna che sarebbe stato fondamentale il suo aiuto per aiutare la famiglia e che sarebbe stato necessario il suo sostegno per rinforzare il ruolo genitoriale della figlia.

La seduta con la nonna fu preziosa per comprendere che il blocco evolutivo, tramandato a livello generazionale, era legato alla difficoltà nel passaggio dalla coppia alla formazione della nuova famiglia. Dal racconto sembrava che sia nella famiglia di Clarissa sia in quella di Denise la nascita dei figli avesse messo in crisi la coppia che, non avendo gli strumenti per riorganizzarsi, aveva deciso di separarsi.

Sembrava che l’invischiamento di questa famiglia rendesse difficile il processo di differenziazione che, come ricorda Bowen [9], permette al singolo membro della famiglia di svincolarsi da essa per crearne una nuova. In tale dinamica nonna Clarissa sembrava non occupare la propria posizione, ricoprendo attivamente il ruolo materno e sostituendosi alla figlia nelle proprie competenze genitoriali. In questo inconsapevole gioco delle parti, Denise delegava alla madre le proprie funzioni genitoriali recuperando, inevitabilmente, la posizione di figlia ricoperta nella propria famiglia d’origine.

Durante la supervisione riflettemmo sulla complessità del sistema familiare che, appartenendo a un contesto socio-economico carente, rendeva complicato pensare a strategie utili alla costruzione di spazi funzionali alla delineazione di confini meno diffusi. Decidemmo di porci come obiettivo quello di unire madre e nonna in una posizione complementare e di reciproco sostegno, che permettesse di rinforzare il ruolo genitoriale della madre e contemporaneamente includere la nonna, senza remare contro la forza omeostatica di quel sistema familiare.

PERDITE E GUADAGNI

«Torno anch’io da Zirma: il mio ricordo comprende dirigibili che volano in tutti i sensi all’altezza delle finestre, vie di botteghe dove si disegnano tatuaggi sulla pelle ai marinai, treni sotterranei stipati di donne obese in preda all’afa. I compagni che erano con me nel viaggio invece giurano d’aver visto un solo dirigibile […] La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere».


Italo Calvino, Le città invisibili [1]


Il lutto

All’incontro successivo si presenta solo Denise, con una notizia drammatica: la notte prima Marco, suo cugino, era andato a cena da loro ed era morto, in bagno, in seguito a overdose di eroina. Questo ragazzo, pochi anni prima, aveva vissuto a casa loro per diversi mesi e aveva creato un grande legame sia con Alicia che con Alessandro, tanto che lo chiamano “zio”. Mi racconta che, dopo averlo trovato in bagno e aver chiamato i servizi d’assistenza, si è chiusa in camera con i suoi figli per impedirgli di vedere ciò che stava succedendo. All’arrivo delle forze dell’ordine e del 118 ha portato i figli fuori da casa coprendogli il volto, lasciando alla nonna la gestione della situazione.

La signora, visibilmente scossa per la tragedia, durante il colloquio mi riportò emozioni contrastanti: da un lato il senso di colpa per non essere riuscita ad aiutarlo, dall’altro la forte rabbia nei suoi confronti motivata dal fatto che, avendo introdotto sostanze stupefacenti in casa sua, aveva messo a rischio i suoi figli.

Emerse la paura di comunicare ai figli ciò che era successo: nella storia di questa famiglia le morti non erano mai state comunicate: “si faceva finta di niente”.

Della morte della bisnonna, infatti: “Alicia se n’era accorta da sola”.

Ricevere questa notizia mi spiazzò: la richiesta di aiuto di questa famiglia, fin dall’inizio, mi aveva fatto sentire in difficoltà. Durante la seduta precedente avevo trovato uno spiraglio di luce, avevo iniziato a dar forma alla moltitudine di informazioni ricevute e alle storie ascoltate. Ma ora questo evento critico mi aveva destabilizzato.

Mi sentivo scissa. In alcuni momenti la mia esigenza di controllo era tale da non permettermi di vedere e sentire empaticamente la reale difficoltà di quel sistema familiare, sentivo la necessità di difendermi distaccandomi. In quei momenti quella famiglia diventava per me antipatica e io diventavo inefficace. In altri, invece, mi immergevo totalmente nelle difficoltà riportate entrando in risonanza con i loro vissuti e mi sentivo persa. Impotente.

Come chi passeggia per i boschi controllando la strada e si perde il paesaggio che ha intorno. O come chi, preso dal paesaggio, finisce per perdere la strada.

Per uscire da questa impasse fu fondamentale per me uscire dalla stanza e prendere un momento per riflettere. Pensai a come mi sentivo e al concetto di equilibrio, che in quel momento non sentivo. Come un funambolo che, istante dopo istante, trova il proprio equilibrio per poi perderlo e riconquistarlo, in un continuo gioco di alternanze, era necessario per me riuscire a oscillare tra queste due posizioni, per trovare la giusta distanza che mi permettesse di funzionare bene come terapeuta e di essere efficace.

Decisi di rinforzare Denise rispetto all’aver protetto i figli da quella situazione così drammatica.

Riflettemmo insieme sull’importanza di creare uno spazio in cui poter comunicare ai figli l’accaduto, poter dare parole al dolore e condividerlo tutti insieme.

Come ricorda Cancrini, «l’adulto che dice di voler risparmiare al bambino la sofferenza del sapere quello che è successo dovrebbe sempre riflettere sul fatto che, al di là delle sue intenzioni, ciò che con lui risparmia è soprattutto (o solo) la fatica di parlare e del raccogliere, standogli vicino, il dolore che gli appartiene» [10].

Mi focalizzai in particolar modo sull’importanza di restituire ad Alicia e Alessandro un’immagine positiva di quello zio a cui tanto erano legati. Durante l’incontro avevo percepito la fragilità di Denise e sentivo la necessità di sostenerla e accompagnarla nella comunicazione di questa notizia ai due figli.

Immaginando l’incontro successivo, sentivo da un lato la paura di ferire Alessandro e dall’altro il timore rispetto a un’eventuale reazione aggressiva di Alicia.

Durante la supervisione mi confrontai con il gruppo, esternando le mie emozioni di fronte a questa situazione. Piansi tanto. Insieme al prof. Cancrini cercammo di capire come aiutare la madre nel comunicare la morte dello zio ad Alessandro. In previsione del fatto che di fronte a una convocazione i membri non si sarebbero presentati, decidemmo che sarebbe stato opportuno andare a casa loro.

Consapevole delle difficoltà che tale visita avrebbe mosso in me, il professore propose di farmi accompagnare da una collega e scelsi Marta Senzcuk. L’idea di poter condividere con lei quel momento così delicato mi fece sentire al sicuro.

La visita domiciliare

Come previsto, la madre si presentò al colloquio da sola, spiegando che Alicia non era voluta uscire ed era rimasta a casa insieme ad Alessandro. Dopo aver presentato la mia collega e contestualizzato la sua presenza, ci recammo a casa della famiglia.

La presenza della mia collega Marta mi faceva sentire protetta e meno intimorita rispetto a quanto, immagino, avrei potuto sentirmi da sola. Per un attimo mi sembrava di essere tornata indietro ai primi anni di training: una presenza sicura e conosciuta al mio fianco con cui potermi confrontare e condividere le emozioni provate. È stato un bell’incontro e lo ricordo ancora oggi con molto piacere.

In casa erano presenti solo Alicia e Alessandro, poiché la nonna si trovava a lavoro. Al nostro arrivo Alessandro ci salutò e si presentò timidamente a Marta. Alicia si chiuse nella camera da letto, da cui provenivano forti rumori: un misto tra lamenti, urla e colpi. La madre ci spiegò che Alicia era arrabbiata, urlava e dava pugni ai mobili. Provò a chiamarla per chiederle di uscire dalla stanza e salutarci, ma rifiutò con un sonoro “no”.

Visitammo la casa: la prima cosa che colpì sia me che Marta fu la capienza ridotta rispetto al numero di persone che la abitavano. Era trasandata e con pochi mobili. L’ingresso era formato da un piccolo vano quadrato, buio e privo di mobilio. Andando avanti c’era uno stretto corridoio che portava alle diverse camere. La stanza più grande, la prima sulla destra, era la camera da letto di Alicia, che non potemmo vedere. La seconda, sempre sulla destra, era la stanza da letto di Alessandro, della nonna e della mamma. Una stanza molto piccola ma luminosa, con un letto matrimoniale in cui dormivano le due signore e un piccolo letto singolo, posizionato di fronte al primo, in cui dormiva Alessandro. Ciò che più mi colpì della casa fu il piccolo bagno, che mi sembrò disordinato e sporco: su gran parte del pavimento erano presenti diversi contenitori che venivano utilizzati per la lettiera e il cibo dei quattro gatti che condividevano la casa con loro. Visitammo infine la cucina: anch’essa molto piccola e in gran parte occupata da mobili. Era presente un tavolo per due persone che disponeva di tre sedie, attaccato al muro. Mi chiesi come mai ci fossero solo tre sedie in una casa di quattro abitanti e Denise mi spiegò che la quarta sedia si trovava nella stanza di Alicia. Ci fece accomodare prendendo in braccio con sé Alessandro.

Dopo una piccola fase sociale, in cui Alessandro ci mostrò i suoi giochi e i suoi disegni, la madre fu molto brava nel raccontare al figlio ciò che era successo. Come suggerito durante l’ultimo incontro, utilizzò parole dolci e piacevoli. Con parole che lo zio utilizzava per descrivere ciò che succede a chi muore, gli disse che era diventato una stella che dal cielo avrebbe potuto continuare a stargli vicino. Alessandro inizialmente rimase in silenzio e in seguito chiese in modo diretto se lo zio fosse morto. In quel momento il clima emotivo cambiò, diventando intenso: entrambi iniziarono a piangere e si abbracciarono. Io e la mia collega ci commuovemmo. Alessandro, dopo una serie di domande a cui la madre rispose in maniera adeguata, disse di essere arrabbiato con lei, da un lato perché non gliel’aveva comunicato subito, dall’altro perché, adesso che l’aveva saputo, stava soffrendo.

La madre ci guardò in lacrime: l’espressione del suo viso e i suoi occhi manifestavano una chiara richiesta di aiuto. Mi sentii in dovere di intervenire per aiutare Denise: rinforzai il gesto della madre, che era stata coraggiosa nel riuscire a condividere questo dolore con lui. Gli rimandai che avrebbe potuto non dirglielo per proteggerlo, ma che in questo modo lui avrebbe sentito la sua mancanza senza poterle dare un senso. In seguito parlammo delle emozioni che si provano quando una persona cara muore, contestualizzandole e rendendole riconoscibili. Alessandro sembrò accogliere le nostre parole e chiese come avrebbe potuto inviare un disegno allo zio, in cielo: ispirandomi a uno dei racconti del libro “Ascoltare i bambini” di Luigi Cancrini [11] gli proposi di attaccare il disegno a un palloncino e di farlo volare.

Successivamente Alicia uscì dalla sua stanza, aveva indosso solamente le mutande e la maglietta del pigiama. L’aspetto era trascurato e i capelli molto sporchi. La mia collega si presentò ma in risposta ottenne il solito ruggito. Appena la vide, Alessandro le chiese se sapeva della morte dello zio, lei rispose affermativamente con un cenno della testa, diede una testata al mobile della cucina e successivamente rientrò in camera da letto arrabbiata.

Ipotesi psicopatologica

Una volta uscite dalla casa, io e la mia collega ci confrontammo sulle emozioni provate. Marta, che per la prima volta aveva incontrato parte della famiglia, aveva provato tenerezza per Alessandro e paura di fronte ad Alicia: mi spiegò che le sue modalità comportamentali l’avevano spaventata mentre il suo aspetto fisico l’aveva preoccupata. Le emozioni riportate da Marta mi fecero ripensare a come mi ero sentita io durante i primi incontri e mi permisero di riflettere sulla possibile gravità della condizione della ragazza.

In quel momento ho capito quanto fosse importante ciò che scrivevano Minuchin et al. in “Families of the Slums” [12], spiegando l’importanza che ha, per il lavoro terapeutico in contesti di emarginazione sociale e povertà, il sapersi immergere nella realtà delle famiglie con cui si lavora. Poter conoscere il contesto abitativo della famiglia fu prezioso: una casa così piccola, con due stanze da letto condivise da quattro persone appartenenti a tre generazioni, una delle quali riservata ad Alicia e un bagno ai gatti. Riflettei sui limiti tra i membri di questo sistema familiare: gli spazi sembravano seguire la logica strutturale caotica inizialmente ipotizzata.

Contestualizzati in tale dinamica di invischiamento, i sintomi di Alicia acquisivano significato e il loro potere sembrava farle guadagnare uno spazio privato in cui potersi ritirare isolandosi. Letti all’interno della fase di ciclo di vita della famiglia, sembravano rappresentare un tentativo di differenziazione ostile, che le permetteva di assicurarsi la cura da parte della madre, che aveva “mollato tutto per badare a lei”, salvaguardando contemporaneamente il legame esclusivo tra le due.

Ripensai al primo colloquio in cui Alicia aveva parlato solo per esprimere la sua rabbia nei confronti del padre e ragionai su quanto, nella storia di questa famiglia, il tema dell’abbandono fosse un aspetto fondamentale, che andava esplorato. Infine, le emozioni provate e condivise da me e dalla collega permisero al gruppo, insieme al prof. Cancrini, di ipotizzare una situazione di rischio per tutta la famiglia, in particolar modo per Alicia, che iniziava a manifestare segnali di funzionamento borderline, inteso nella sua accezione più ampia proposta da Otto Kernberg [13] e riportata da Cancrini in “L’oceano borderline” [14]: un’organizzazione caratterizzata da diffusione di identità, difese primarie massicce con esame di realtà conservato, in un’ampia gamma di disturbi di personalità isterici-istrionici, narcisistici, paranoidi, schizoidi, borderline propriamente detti.

Come afferma Cancrini, «l’emozione destata nel terapeuta ha un valore notevole in tutti i casi, nella misura in cui può rivelarsi fondamentale per capire se si sta muovendo in un’area nevrotica, borderline o psicotica» [14]. Ed ancora: «Come afferma Kernberg, se dieci terapeuti diversi avessero la possibilità di occuparsi dello stesso paziente borderline (o psicotico), le loro reazioni di controtransfert sarebbero simili tra loro. Legati alla riattivazione di meccanismi che sono tendenzialmente dello stesso livello di quelli utilizzati dal paziente, i loro vissuti sono infatti la conseguenza della regressione a un livello borderline, necessaria alla costruzione di un rapporto empatico con il paziente: riconoscibili perché più vicini alla coscienza (la rimozione non è attiva) e dotati di un notevole valore diagnostico, perché confrontano il terapeuta con una forma primitiva, desueta ma riconoscibile, di funzionamento delle sue emozioni e del suo pensiero» [14].

Col senno di poi, credo che questo incontro sia stato uno dei più importanti, in cui si iniziarono a costruire la fiducia e l’alleanza terapeutica della signora.

Riuscii, per la prima volta, a sintonizzarmi con la famiglia, con la loro storia, con il loro dolore. Questo passaggio è avvenuto anche grazie al supporto della mia collega che, impavida, mi ha preso per mano per danzare al ritmo della stessa musica.

DALLA SEMPLICITÀ CONFUSA ALLA COMPLESSITÀ ORGANIZZATA

«Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone;

e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

Il riconoscimento

Negli incontri successivi alla visita domiciliare, cambiò il mio modo di stare in terapia con la famiglia di Alicia. La situazione nella mia testa si era resa più chiara e con essa anche i limiti e le risorse. Mi sentii più sicura di me e del percorso da portare avanti.

Ripensai ai primi capitoli del libro “W Palermo Viva” di Cancrini [15], incentrati sulla difficoltà che si incontra lavorando con situazioni di svantaggio culturale: cogliere e rispondere correttamente a richieste d’aiuto confuse da situazioni secondarie, come quelle legate alle difficoltà economiche, diffidenza rispetto alle istituzioni e dispersione scolastica, mi portò a comprendere di avere l’esigenza di creare una rete di lavoro con la quale supportare la famiglia aiutandola a uscire dalla condizione di sofferenza ed emarginazione che stava vivendo.

Convocai la madre e la nonna per rimandare la mia preoccupazione e creare una riflessione sulla necessità di estendere l’intervento, includendo altri servizi. Era fondamentale per me tutelare Alicia e Alessandro e soprattutto supportare l’intera famiglia. L’obiettivo principale era quello di integrare sia Denise che nonna Clarissa, rendendole partecipi e collaboranti. Ero consapevole del fatto che, se non ci fossi riuscita, sarebbe stato necessario segnalare la situazione ai Servizi Sociali, attivando in tal modo il Tribunale dei Minori.

Questa possibilità mi faceva vivere emozioni contrastanti: da un lato mi sentivo in dovere di proteggere i due ragazzi da una situazione a rischio, dall’altro vivevo tale eventualità come un tradimento nei confronti di Denise. Era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile, tra il senso di dovere e quello di colpa nei confronti della famiglia che avevo davanti. Fu fondamentale utilizzare lo spazio di supervisione per riflettere e immaginare le sedute successive.

Durante gli incontri seguenti fui molto attenta nell’esprimermi in maniera ferma e non critica. Parlai con dolcezza, riconoscendo i punti di forza e le difficoltà emerse. Rinforzai in particolar modo Denise per come aveva gestito la comunicazione del lutto e questo permise di creare un clima accogliente, in cui fu possibile per lei condividere con me le emozioni provate. Emerse il forte dolore legato alla perdita del cugino e alla sofferenza vissuta dai figli in questo momento. Tuttavia, mi spiegò che per la prima volta si era sentita efficace, “forte” e “capace di essere madre”, al contrario di quanto accaduto in passato, quando aveva scelto di evitare e far finta che niente fosse successo.

Rimandai a Denise la mia preoccupazione nei confronti sia di Alessandro che di Alicia. Sembrò sorpresa del fatto che nella mia preoccupazione rientrasse anche Alessandro. Mi disse che anche la scuola aveva consigliato una consulenza psicologica per il figlio, ma non era mai stata fatta. Emerse il timore di etichettare il figlio e renderlo diverso dagli altri. La invitai a riflettere e considerarla come un’opportunità di aiutare Alessandro a lavorare sulle proprie difficoltà. Ci confrontammo rispetto al timore espresso sia da lei che dalla nonna durante i primi incontri, legato all’idea che Alessandro potesse in futuro incontrare le stesse difficoltà di Alicia. Ciò permise anche alla signora di accedere al bisogno di intervenire il prima possibile per supportare entrambi i figli. Riflettemmo in seguito sulla trascuratezza di Alicia e sul suo crescente isolamento: le dissi chiaramente che ritenevo opportuno valutare un ricovero, per permettere ad Alicia di concludere l’iter diagnostico ed essere presa in carico dal servizio della Neuropsichiatria Infantile.

Mi stupì la reazione di Denise: mi guardò con le lacrime agli occhi: “finalmente qualcuno me lo dice”. Emerse nella signora un sentimento di sollievo rispetto alla mia comunicazione, spiegò che in passato aveva sempre chiesto aiuto, ma ogni richiesta rappresentava “un buco nell’acqua”, poiché veniva mandata in fumo dalla sua incapacità di portare Alicia agli appuntamenti. Mai nessuno, secondo Denise, aveva insistito e riconosciuto la reale difficoltà di questa famiglia. Fu importante, in questa fase, ridefinire i sintomi di Alicia all’interno di una situazione di difficoltà generale dell’intera famiglia, lavorare sul significato che l’eventuale ricovero poteva assumere per loro ed evitare che venisse percepito come una soluzione magica.

Esposi successivamente l’esigenza di coinvolgere i Servizi per attivare le risorse del territorio. Questa situazione risultò più spinosa: mentre la nonna fin da subito si era mostrata in accordo con questa opzione, Denise manifestava delle resistenze in quanto non provava simpatia nei confronti della figura dell’assistente sociale. Inizialmente riferì di non credere nelle loro competenze e nella loro efficacia, ma più tardi emerse la paura di un eventuale allontanamento dei figli. In tale situazione fu importante convocare entrambe le signore per creare uno spazio di confronto rispetto a questo e informare rispetto alle procedure, ai rischi e ai benefici di questo tipo di intervento. Durante quel colloquio, il punto di vista di nonna Clarissa fu prezioso e permise a Denise di accedere all’idea che se si fosse impegnata nel percorso nessuno le avrebbe portato via i figli.

Anche la nonna, durante quelle settimane, prese l’iniziativa di riprendere il percorso al DSM per poter affrontare il lutto del nipote e fu nuovamente seguita anche dal punto di vista farmacologico.

Durante il colloquio in presenza di entrambe ci fu un momento fondamentale del percorso terapeutico, in cui emerse il conflitto tra le due signore, che sembrava essere giocato nel campo della gestione dei figli.

Emerge una generale assenza di regole all’interno della famiglia sotto diversi aspetti: tutti mangiano quando vogliono senza orari definiti per la cena e il pranzo e tutti vanno a dormire quando hanno sonno. Denise descrive la madre come una persona dittatoriale che “le ha tagliato le gambe”, imponendole di fare ciò che voleva. Per tale motivo, sembra aver deciso di lasciare i figli liberi di scegliere da soli e “di non avere obblighi”. Denise lamenta il fatto di sentirsi svalutata nel suo ruolo di madre, in quanto spesso la nonna si intromette nella gestione dei ragazzi: “mi sento schiacciata quando ci sei tu”.

Fu importante, in quel momento, permettere alle due di confrontarsi esprimendo le proprie emozioni, in quanto ciò permise a nonna Clarissa di empatizzare con la figlia e di scusarsi con lei. Decisi di rivalutare l’ingombranza della nonna in termini di protezione e di creare una riflessione sulla necessità di dare ai figli delle regole che fungano da guida e contenimento. Rinforzare il ruolo della nonna come elemento di supporto alle competenze genitoriali permise di farla accedere alla necessità di responsabilizzare Denise nel suo ruolo di madre e di concedersi la possibilità di riposarsi e pensare a se stessa.

Lavoro di rete

Il tirocinio all’interno del Consultorio della ASL mi aveva permesso di conoscere e instaurare una buona relazione con l’Assistente Sociale del servizio. Ciò rese possibile procedere con celerità nell’attivazione di una rete di supporto che comprendesse diversi servizi. Decidemmo di incontrare nonna Clarissa e Denise insieme, con l’obiettivo di presentare la collega e contemporaneamente definire e co-costruire il progetto, permettendo alle due signore di sentirsi parte integrante nella definizione dello stesso. La modalità di relazionarsi della collega, che si mostrò fin da subito accogliente, non giudicante ed empatica nei loro confronti, fu un prezioso elemento che le aiutò ad affidarsi.

Successivamente ci confrontammo con il TSMREE di competenza e organizzammo una riunione di rete insieme alla Psicoterapeuta, il Neuropsichiatra Infantile e l’Assistente Sociale per discutere del caso. Concordammo sull’urgenza di intervenire per aiutare Alicia e di prendere in carico la situazione di Alessandro, procedendo con la valutazione diagnostica e attivando le risorse territoriali per supportarlo nel contesto scolastico e domiciliare. Alicia aveva continuato a rifiutare di presentarsi agli incontri concordati con il TSMREE, pertanto fu necessario organizzare un ricovero al reparto di NPI dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Nell’attesa che si liberasse un posto in ospedale per un ricovero programmato, Alicia fu avvisata dalla madre di questa decisione: insieme a Denise riflettemmo a lungo su come comunicarla alla figlia, in quanto era preoccupata di ferirla. Ciò era dovuto in gran parte al significato che la signora attribuiva all’idea del ricovero, vissuto come una sorta di punizione. Mi resi disponibile per supportare la signora in tale comunicazione invitando Alicia all’incontro successivo.

Si presentò. Mi guardava con espressione imbronciata, come in prima seduta rispondeva alle domande con dei versi simili a ruggiti. Tale situazione portava la madre a rispondere al suo posto. Fu importante in quel momento creare un incidente su tale modalità, rendendola esplicita, e rimandando ad Alicia quanto fosse difficile per me capire ciò che voleva dirmi. Ci fu una lunga pausa e un momento di silenzio durante il quale Alicia mi guardò con un’espressione sorpresa: mi disse “ci devo pensare”. In quel silenzio mi sentii a mio agio, a differenza delle altre volte in cui di fronte ad Alicia mi ero sentita impaurita e disarmata. Quella frase mi fece capire che si era creato uno spazio di riflessione nella sua mente, e ciò mi faceva sentire efficace.

Seppure con fatica, Alicia iniziò a parlare con me mostrando comunque difficoltà nell’eloquio. Mi parlò di come trascorreva le giornate in stanza a giocare ai videogiochi con degli amici virtuali. Preferiva le amicizie virtuali a quelle reali poiché le persone della sua età, incontrate nel corso degli anni, erano “stupide, superficiali e immature”. Mi colpì ciò che Alicia mi stava dicendo ed ebbi l’impressione che a parlare fosse una persona molto più grande di lei. Chiesi ad Alicia se avesse già sentito queste parole da qualcuno e la madre intervenne per dirmi che spesso lei faceva queste considerazioni insieme alla figlia. Rispetto al suo rifiuto di uscire di casa, Alicia spiegò che “le persone le mettono ansia” e “son cattive”. Denise intervenne, come per rassicurare la figlia, dicendo una frase che mi colpì molto: “le persone ci hanno sempre ferito, se siamo insieme nessuno ti farà del male”.

Tentai di rimandare una diversa descrizione della frase, soffermandomi sulla differenza tra essere feriti e sentirsi feriti. Creare un pensiero su una punteggiatura diversa permetteva di restituire a entrambe efficacia e potere nella relazione con l’altro.

Non chiesi chi le avesse ferite ma da chi si fossero sentite ferite.

Alicia spiegò di sentirsi abbandonata poiché “le persone intorno a me muoiono o vanno via per colpa mia”. Emerse che si riferiva al padre. Fu importante in quel momento farla confrontare con la madre: spiegò ad Alicia che ciò che aveva portato il padre ad andar via di casa era il loro rapporto di coppia, ormai logoro.

Rimandai ad Alicia che una bambina non può avere la responsabilità di controllare ciò che succede tra i genitori, e dopo aver accolto il senso di colpa riportato, la aiutai a ridefinirlo in termini di emozioni che si provano di fronte alla separazione dei propri genitori.

Alicia rimase in silenzio a lungo e riprese a fare i suoi soliti ruggiti. Decisi dunque di spiegarle che il suo isolamento in casa e la sua trascuratezza mi preoccupavano, le proposi di trascorrere qualche giorno in ospedale per poter fare tutte le visite che aveva rimandato e la rassicurai. Alicia accettò.

Dopo averle salutate mi sentii confusa. Avevo iniziato il colloquio con il timore della reazione che avrebbe potuto avere Alicia e con tante aspettative negative. Mi spiazzò la chiarezza di Alicia nel descrivere la propria ferita e la paura delle relazioni, ma ancor di più la consapevolezza delle proprie difficoltà, che mi sembrò chiara nel momento in cui accettò il ricovero.

Sentii che si era creato un legame tra me e quella famiglia. Era cambiato il mio modo di guardare Alicia, non avevo più paura di lei, ma provavo una grande tenerezza nei suoi confronti. Ero riuscita, nel tempo, a entrare in una posizione empatica che mi aiutava a guardare quella situazione con i loro occhi e percepire le loro reali difficoltà.

Il ricovero

Dopo una settimana, dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù comunicarono che si era liberato un posto al reparto di NPI, informando circa la possibilità di predisporre il ricovero di Alicia in giornata.

Avvisai Denise telefonicamente; non aspettandosi tale celerità, manifestò una serie di timori legati al contesto ospedaliero e alla comunicazione con i medici. In quel momento capii la sua esigenza di essere rassicurata e decisi di accompagnarle durante il ricovero.

Ci incontrammo presso l’ospedale nel pomeriggio. Erano presenti anche nonna Clarissa e Alessandro, che nel frattempo era stato messo al corrente di tutto: mi disse che eravamo lì per aiutare Alicia a uscire di casa. Per evitare di farlo aspettare fuori dal Pronto Soccorso, la nonna lo portò a fare merenda nei pressi dell’ospedale.

Accompagnai Alicia e la madre all’accettazione e alla visita con la Neuropsichiatra Infantile; essendo un ricovero programmato, non dovemmo attendere troppo tempo. Durante l’attesa Alicia si mostrò sorridente e più loquace del solito.

Mi mostrò i disegni che faceva. Uno di questi mi colpì particolarmente: raffigurava una donna con una rosa rossa al posto del viso.

Mi disse che quello era il suo preferito e che l’aveva disegnato la sera prima. Le chiesi per quale motivo la donna avesse la rosa al posto della testa e mi rispose che “dentro la testa delle persone può esserci la cacca ma dalla cacca nascono anche i fiori”.

Alicia trascorse una settimana al reparto di NPI, dove partecipò in maniera positiva alle attività proposte e portò a termine la valutazione diagnostica. Fu dimessa con la diagnosi di Disturbo Depressivo NAS in comorbilità con un disturbo d’ansia sociale e fu prescritto aripiprazolo 2,5 mg al mattino e alla sera. In dimissione fu indicata la prosecuzione del piano terapeutico presso il TSMREE di competenza con il rientro a casa di Alicia. Inoltre, venne predisposto un percorso presso il Servizio di Educazione Alimentare dell’ospedale e delle visite a distanza ginecologiche ed endocrinologiche, per monitorare il ciclo irregolare e assente da più di un anno.

LA FAMIGLIA IN MOVIMENTO

«Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco dei luoghi estranei e non posseduti».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

Movimenti intrasistemici della famiglia

Durante la settimana del ricovero incontrai nonna Clarissa e Denise per garantire uno spazio di confronto e di contenimento emotivo.

Denise era andata a trovare Alicia in ospedale: diceva di sentire la mancanza della famiglia ma di trovarsi bene insieme agli altri ragazzi, con i quali era riuscita relazionarsi e partecipava alle attività di gruppo.

Nonna Clarissa stava proseguendo gli incontri con la psicologa del DSM e stava valutando di trasferirsi a casa del compagno, che viveva da solo.

Durante l’incontro emerse la voglia di cambiare e muoversi da parte di entrambe: decisi di approfittare del fatto che in ospedale Alicia era riuscita a condividere la stanza con altre persone per proporre un trasferimento di Alessandro nella stanza di Alicia. Ci confrontammo rispetto a questo concordando di incontrarci tutti insieme per discuterne in presenza della ragazza, in modo da renderla partecipe di tale cambiamento.

All’incontro successivo convocai tutta la famiglia. Alicia era uscita dall’ospedale due giorni prima. Per gran parte del colloquio raccontò l’esperienza vissuta durante il ricovero, era entusiasta. Aveva immaginato un posto diverso da quello che aveva trovato. I medici e gli infermieri erano simpatici, aveva partecipato alle attività della giornata riuscendo a stare con altri ragazzi. Questa esperienza l’aveva sorpresa: aveva incontrato adolescenti che come lei “stavano male, se non peggio”. Questa esperienza sembrava averle permesso, per la prima volta, di condividere le proprie emozioni e le proprie difficoltà all’interno di un contesto protetto. Era contenta di essere rientrata a casa perché aveva sentito la mancanza della sua famiglia.

Successivamente ci confrontammo sui cambiamenti da fare nella gestione degli spazi domestici: Alicia accettò di condividere la stanza con Alessandro.

Lock-down e inattesa resilienza

Alicia fu dimessa dall’ospedale due settimane prima del primo lock-down nazionale, alla fine del febbraio 2020.

Gli evidenti cambiamenti nella quotidianità, oltre a rappresentare un evento critico nella vita di tutti, mi impedirono di incontrare la famiglia per circa due mesi. Durante quel periodo organizzai degli incontri da remoto.

Sorprendentemente, la situazione di chiusura forzata ebbe dei risvolti positivi per tutta la famiglia. La nonna si era trasferita dal compagno per evitare di prendere i mezzi pubblici e in seguito continuò a vivere lì.

Gli spazi e i tempi della casa erano stati riorganizzati: Denise aveva stabilito degli orari per il pranzo e per la cena, che erano diventati dei momenti di condivisione e, a differenza del passato, avvenivano in cucina. Alicia iniziò a manifestare l’esigenza di uscire di casa per passeggiare. Inizialmente usciva insieme alla madre e Alessandro per recarsi al parco. Successivamente iniziò a fare delle passeggiate da sola nei pressi dell’abitazione. L’idea che ci fossero poche persone per strada la tranquillizzava. Alessandro stava portando avanti il percorso scolastico tramite la didattica a distanza ed era supportato dalla madre. Grazie al gruppo di messaggistica istantanea della classe stava riuscendo a interagire maggiormente con i suoi compagni. Denise aveva iniziato a ritagliarsi degli spazi per sé, iniziando dalle piccole attività legate alla cura di sé e della casa. Durante uno degli incontri su Skype mi spiegò di sentirsi come quando “sei miope e all’improvviso ti mettono gli occhiali”. Ciò che emergeva era la sorpresa nel percepire che il suo impegno stava “permettendo alle cose di muoversi” e la gratificazione rispetto al sentirsi maggiormente efficace nel proprio ruolo materno.

Durante quel periodo il gruppo di supervisione fu ancor più prezioso: rappresentava uno spazio di condivisione e confronto di difficoltà comuni a tutti. In un momento così delicato della terapia, fu difficile abituarmi agli incontri da remoto. Avevo il timore che la distanza imposta dagli schermi potesse ripercuotersi sul percorso. Vivere quella situazione mi aiutò ad accedere ulteriormente al significato della relazione terapeutica: era diventata una base sicura dalla quale partire in autonomia. La famiglia stava riuscendo a mettere in pratica gli strumenti appresi e stava iniziando a camminare con le proprie gambe, sperimentando i cambiamenti che erano stati pensati durante gli incontri.

Arrivederci

Continuai a sentire la famiglia via Skype fino al termine del lock-down, per garantire uno spazio di supporto e contenimento.

In seguito alle prime riaperture Alicia e Alessandro iniziarono il percorso al TSMREE di pertinenza. Denise riuscì per la prima volta ad affidarsi al servizio: fu attivato il sostegno educativo domiciliare, che supportò la madre nella gestione quotidiana dei ragazzi e della casa; il servizio sociale la guidò nella ricerca di un lavoro part-time. Sia Alicia che Alessandro iniziarono a partecipare con costanza agli incontri previsti con le psicologhe di riferimento.

Incontrai l’intera famiglia un’ultima volta nel mese di luglio, prima della pausa estiva. La posizione nello spazio era diversa. Anche l’espressione nei loro volti era cambiata.

Alessandro e Alicia erano seduti vicini e spesso parlavano tra loro ridendo e facendo battute. La signora era seduta accanto alla madre. Ebbi l’impressione di avere davanti un’altra famiglia: il caos, che nei mesi passati mi confondeva, sembrava aver acquisito un ordine più strutturato.

Era come se qualcuno avesse cliccato il tasto play su un film in pausa.

Il tempo, che sembrava essersi bloccato con la nascita dei figli, aveva ripreso a muoversi. Il tentativo di svincolo della nonna, fallito con la separazione dal marito, sembrava aver impedito alla famiglia di evolvere verso le successive fasi di sviluppo, creando un copione che era stato tramandato alla generazione successiva. La situazione, aggravata dal contesto socio-culturale di provenienza, sembrava non avere vie d’uscita.

Alicia, con i ruggiti e l’isolamento, sembrava essersi fatta portavoce delle difficoltà di tutti: nonna Clarissa rinunciava a una relazione più intima con il proprio compagno per restare in quella casa; Denise non riusciva ad abbandonare il proprio ruolo di figlia per diventare la madre dei propri figli; Alicia e Alessandro faticavano a trovare il proprio spazio, triangolati nella silenziosa lotta al potere tra le due donne, ed esprimevano le loro difficoltà in modo diverso.

Questa famiglia necessitava di uno spazio condiviso per poter mettere ordine e definire i diversi ruoli, per poter svelare segreti dando voce alla rabbia inespressa e al dolore soffocato. Uno spazio che, come disse la madre durante l’ultimo incontro, “autorizzasse tutti a vivere nonostante tutto, senza la paura di lasciar indietro l’altro”.

Con questa restituzione salutai la famiglia, rimandando quanto fossero stati bravi a mettersi in gioco, come una squadra. Anticipai la prossima conclusione del percorso sottolineando quanto fossero in grado di proseguire con le proprie gambe. Programmammo insieme un primo follow-up a distanza di tre mesi, dopo le vacanze estive, e un altro dopo altri sei mesi.

FOLLOW-UP

«È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici
o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere la città,
ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni
e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri

e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

Primo follow-up

Nel mese di settembre incontrai Denise e i due ragazzi in un clima allegro e gioioso. Alicia mi portò il disegno mostratomi il giorno del ricovero e me lo regalò, dicendomi che quel disegno le ricordava me (Figura 1).





Fu un incontro molto sereno in cui mi raccontarono di aver pitturato insieme la casa durante l’estate.

Alessandro era pronto per riprendere la scuola. Durante l’estate aveva partecipato a dei gruppi estivi con alcuni ragazzi della sua classe, con i quali aveva legato e si era trovato bene.

Alicia non era riuscita a superare l’anno e si preparava per riprendere la terza media in una nuova classe scolastica. Era spaventata ma contemporaneamente entusiasta.

Denise era più bella, aveva cambiato taglio e colore di capelli ed era vestita in maniera più curata rispetto al passato. Aveva iniziato a frequentare le madri dei compagni di classe di entrambi i figli, con le quali spesso venivano organizzate delle gite. Durante quell’incontro mi rivelò che Alessandro, nel corso degli ultimi mesi, aveva fatto delle domande sul padre e questo l’aveva portata a rivelargli la verità. Spiegò di aver usato delle parole semplici e positive per raccontargli che il padre aveva fatto delle cose illegali e perciò stava trascorrendo il suo tempo in un luogo chiuso. Questo sembrava averla liberata da un grosso peso e averla fatta sentire efficace, come quando era riuscita a comunicare la morte dello zio. Alessandro durante il colloquio mi disse di aver sempre saputo chi fosse il padre, ma di non saperne il motivo. Ripensai alla prima seduta, quanto le due signore parlavano di fronte a lui a bassa voce, come se non fosse presente, e glielo rimandai, rivalutando come quel comportamento fosse un modo per proteggerlo e non farlo soffrire.

La nonna proseguiva la propria convivenza nella casa del compagno e continuava a lavorare in maniera regolare. La domenica si incontravano tutti insieme per pranzare nella sua nuova casa e spesso anche lei andava a trovare i nipoti.

Durante quell’incontro provai tanta gioia e soddisfazione nel vederli cambiati. Mi sentii partecipe di quel cambiamento in quanto, insieme a loro, ero a cambiata anche io.

Secondo follow-up

Dopo sei mesi incontrai nuovamente la famiglia e questa volta si presentò anche la nonna. Fui colpita nel vedere Denise, Alicia e Alessandro visibilmente dimagriti.

Denise aveva iniziato a ritagliarsi del tempo per sé: aveva iniziato a lavorare come domestica e prima di cena, ogni giorno, andava a camminare al parco. Alicia e Alessandro stavano proseguendo il percorso scolastico, supportati quotidianamente da un tutor didattico della scuola. Entrambi avevano iniziato a frequentare una palestra nei pressi della loro abitazione, dove si recavano in autonomia. Alicia aveva intrapreso un corso pomeridiano di arte e aveva deciso di frequentare il Liceo Artistico a settembre, al termine del percorso secondario di primo grado.

Dopo aver salutato tutti, Denise entrò nuovamente dentro la stanza chiedendo di poter iniziare un percorso individuale con me: mi spiegò che durante questi mesi aveva sviluppato l’esigenza di lavorare su tematiche legate alla propria storia e alle proprie figure genitoriali. Nonostante l’imminente conclusione del mio percorso di tirocinio presso il consultorio familiare, sentii dentro di me l’istintiva voglia di accogliere quella richiesta. Dopo aver riflettuto insieme al gruppo di supervisione decisi di consigliare a Denise il numero di una collega per proseguire il proprio percorso individuale. Rimandai la mia disponibilità e il mio piacere a restare in contatto con tutta la famiglia.

Ci salutammo con la promessa di rincontrarci presto. Fu una conclusione commovente: Denise chiese di potermi abbracciare e lo fece in modo intenso, piangendo. Alicia mi sorrise, con la promessa di continuare a disegnare, e Alessandro mi abbracciò.


«E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende,

quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca

ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi ad uno ad uno,

il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa,

la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia,

la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]

CONCLUSIONI

«Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso;
non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città
dove lo aspetta un altro suo passato,
o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro
e ora è il presente di qualcun altro.

I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi».

Italo Calvino, Le città invisibili [1]


Il viaggio emotivo fatto con la famiglia di Alicia ha rappresentato un’importante esperienza sia dal punto di vista formativo che personale. Ho scelto di raccontarvi questa storia perché mi ha dato la possibilità di confrontarmi con contenuti controtransferali così intensi e variegati che, dopo avermi messo in crisi, mi hanno permesso di scoprire e affrontare molti limiti.

In questo percorso, l’utilizzo del controtransfert come strumento diagnostico ha permesso di individuare e di intervenire in una situazione di rischio psicopatologico in età evolutiva, all’interno di un contesto familiare multiproblematico, che si nascondeva dai servizi di aiuto e tutela.

Come afferma Gabbard, «la definizione di controtransfert visto come la conscia, appropriata e completa reazione emotiva del terapeuta al paziente sta ottenendo sempre maggiore consistenza, particolarmente perché aiuta a caratterizzare il lavoro con pazienti con grave disturbo di personalità. Questa definizione serve ad attenuare la connotazione peggiorativa di controtransfert – problemi non risolti del terapeuta che necessitano di ulteriore analisi – e a sostituirla con una concettualizzazione che consideri il controtransfert come uno strumento diagnostico e terapeutico fondamentale, che dice al terapeuta molto del mondo interno del paziente» [16].

Non sarebbe stato semplice gestire tali vissuti senza il supporto del gruppo di supervisione. Tale spazio è stato fondamentale per poter elaborare i contenuti controtransferali, distinguendoli dalle emozioni legate alla mia fase di vita personale e professionale, trasformandoli in risorse.

Oggi provo un grande affetto nei confronti di quelle persone che un tempo mi erano state così antipatiche. Scavando dentro quell’antipatia ho potuto confrontarmi con il senso di impotenza e mettere in discussione quel senso di onnipotenza che mi aveva accompagnato fin dalla scelta del percorso in Psicologia.

Sviluppare la consapevolezza di non poter cambiare gli altri ha permesso a me di cambiare, vivendo un percorso di crescita e cambiamento fatto non su, ma con la famiglia.

In questo processo di cambiamento, credo sia stato fondamentale uscire dalla stanzetta del consultorio ed entrare nella loro casa, conoscere il loro contesto. Questo ha permesso a loro di affidarsi e a me di entrare finalmente in empatia con loro, costruendo così una buona alleanza terapeutica. Come ricorda Onnis, «un fattore aspecifico spesso decisivo è rappresentato proprio dal canale empatico che si stabilisce tra terapeuta e paziente e che fa della stessa relazione terapeutica un elemento essenziale di trasformazione» [17].

Un altro elemento importante di questo percorso è stata la costruzione di una fitta rete di supporto: la tempestiva collaborazione tra il Consultorio, il TSMREE, il DSM e l’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù ha reso possibile supportare l’intero nucleo familiare e rispondere in maniera efficace a una situazione di emergenza.

Senza il supporto dell’esperienza del prof. Cancrini non sarebbe stato possibile pensare un intervento così articolato. Ho potuto sperimentare il reale contributo che il punto di vista sistemico può offrire all’interno dei servizi: la presa in carico dell’intero nucleo familiare permette di individuare situazioni a rischio che vengono manifestate dal paziente designato, ma riguardano tutta la famiglia. Accogliere l’intera famiglia, creando un buon legame di fiducia e una buona alleanza terapeutica, può influire sulla continuità dell’intervento evitando drop-out e “situazioni fantasma” come quella di questa famiglia.


Questa tesi non rappresenta solo la conclusione di un percorso di specializzazione, ma un’esperienza preziosa che mi ha dato modo di mettere in pratica le conoscenze teoriche apprese sia durante il training sia durante il percorso universitario.

Con questa tesi concludo un percorso faticoso che, oltre a formarmi, mi ha aiutato a scoprirmi, conoscermi e crescere. Ho trovato il senso del mio voler essere una psicoterapeuta familiare ben descritto dalle parole di Italo Calvino, che mi accompagna dall’infanzia e che ogni tanto leggo, trovando sempre significati diversi legati al periodo di vita che mi trovo ad attraversare e agli stati d’animo che mi accompagnano.

In particolare mi riferisco al libro “Le città invisibili” [1], che mi ha fatto da guida nella preparazione di questa tesi e di cui riporto lo stralcio che più rappresenta quello che voglio diventare:

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;

se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni,

che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne.

Il primo riesce facile a molti:

accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:

cercare e saper riconoscere chi e cosa,

in mezzo all’inferno,

non è inferno,

e farlo durare,

e dargli spazio».

BIBLIOGRAFIA

 1. Calvino I. Le città invisibili. Torino: Einaudi, 1972.

 2 Albertini V, Rontini L, Manfrida G. L’indiretto interessato: considerazioni sulla supervisione indiretta e indagine sulle interviste ai didatti del Centro Studi. Ecologia della mente 2013; 36: 152-69.

 3 Cancrini L. Dell’utilità dell’errore. La supervisione come intervento sul sistema terapeutico. Ecologia della mente 1986; 8: 53-74.

 4 Bateson G. Mente e natura. Milano: Adelphi, 1984.

 5 Minuchin S. Famiglie e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio, 1976.

 6 Haley J. La terapia del problem solving. Milano: Franco Angeli, 2010.

 7 Cancrini L. La psicoterapia. Grammatica e sintassi. Roma: Nis, 1993.

 8 Andolfi M, Angelo C. Tempo e mito nella psicologia familiare, Torino: Bollati Boringhieri, 1987.

 9 Bowen M. Dalla famiglia all’individuo. Roma: Astrolabio Ubaldini, 1980.

10 Cancrini L. La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell’origine dell’oceano borderline. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2012.

11 Cancrini L. Ascoltare i bambini. Psicoterapia delle infanzie negate. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2017.

12 Minuchin S, Montalvo B, Guerney BG, Rosman BL, Schumer F. Families of the Slums. New York: Basic Books, 1976.

13 Kernberg O, Clarkin J, Yeomans F. Psicoterapia della personalità borderline. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2000.

14 Cancrini L. L’oceano borderline. Racconti di viaggio. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006.

15 Cancrini L. W Palermo Viva. Storia di un progetto per la prevenzione delle tossicodipendenze. Roma: Nis, 1994.

16 Gabbard GO. Introduzione alla psicoterapia psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2018.

17 Onnis L. Empatia e psicoterapia sistemica. Implicazioni teoriche e cliniche. Psicobiettivo 2015; 35: 60-83.