Il Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.

La psicoterapia e la politica*

Francesco Bruni, Luigi Cancrini, Sonia Di Caro, Massimo Pelli

Non si può comprendere appieno il senso che ha avuto per noi la psicoterapia se non si riflette sul clima culturale e politico in cui è nato il nostro Centro Studi: un clima direttamente collegato da una parte alle utopie rivoluzionarie del ’68 e dall’altra all’iniziativa concreta di Franco Basaglia. Il discorso da cui eravamo trascinati allora era quello della psicoterapia come “arte della liberazione” nel senso proposto da Sergio Piro [1] all’interno di quello, più ampio, di Eric Fromm [2], che collegava il discorso di Marx a quello di Freud parlando di un uomo che deve liberarsi oltre che dai vincoli e dalle limitazioni esterne, legate in particolare alla ingiustizia delle disuguaglianze sociali ed economiche, anche dai vincoli interni legati al gioco complesso delle resistenze e dei meccanismi di difesa.

Siamo negli anni immediatamente successivi al ’68. Il luogo cruciale dove la nostra esperienza matura è la Clinica Universitaria in cui la Psichiatria si sta autonomizzando dalla Neurologia e dove si discute di psicoanalisi e di fenomenologia, di antropoanalisi e di terapia famigliare, di Jaspers e di Bateson, di Freud e di Melanie Klein ma anche di Basaglia e di Fanon, di Goffman, di Laing e di Sullivan. Intorno a noi e fra noi le lotte degli studenti, l’occupazione dell’università, i collettivi che discutono di liberazione dei popoli e di liberazione dei matti, una generazione di giovani che vogliono cambiare tutto anche all’interno della loro famiglia e della loro scuola. In questi luoghi si cominciò a parlare ed a discutere, improvvisamente, di sesso e di droga, di politica internazionale (il Vietnam) e di ingiustizie sociali. Ed è proprio qui dunque, in queste circostanze in vario modo eccezionali, che la Fondazione Agnelli propone ad uno di noi (Luigi Cancrini) la possibilità di una ricerca sul campo dedicata alle tossicomanie giovanili, entusiasmandosi poi di fronte al nostro primo progetto che parla dei “fattori famigliari e sociali” che le facilitano o le determinano. La Fondazione Agnelli ci dà un finanziamento importante per un lavoro di ricerca-intervento della durata di due anni1.

«Venivo – dice Luigi Cancrini che del progetto era il responsabile e la guida – da una formazione psicoanalitica fatta di letture appassionate e di un’analisi didattica iniziata, due anni prima, con Ignacio Matte Blanco. L’idea di allargare alla famiglia l’osservazione esplicativa e l’eventuale intervento terapeutico, già ampiamente suggerita dalle pazienti della Neuro, prese corpo definitivamente però solo nel momento dell’incontro con i testi di terapia famigliare di Nathan Ackerman [4] e di Boszormenyi-Nagy e Framo [5].

Questo incontro, che avrebbe segnato tutte le mie scelte successive, era avvenuto nel corso del Congresso della International Psychoanalitic Association che si tenne a Roma nel 1969 ed è interessante oggi riflettere che proprio da lì in effetti, partì una ricerca, che dura ancora oggi, sulla possibilità di utilizzare quello che Freud chiamava “l’oro della psicoanalisi” per forgiare leghe terapeutiche altrettanto o più forti di quelle utilizzate da lui all’inizio della sua straordinaria avventura».

Questa premessa ci fa entrare nel contesto culturale e politico in cui si forma il gruppo che porterà alla nascita del Centro Studi: nell’anno di grazia 1972.

L’ISTITUZIONE NEGATA DI FRANCO BASAGLIA

“L’istituzione negata” di Franco Basaglia era stato pubblicato nel 1968 [6]. La psichiatria era diventata un tema politico importante, presentato e vissuto come una lotta necessaria e improcrastinabile all’emarginazione e ai danni prodotti dall’istituzione manicomiale. La distanza era sempre più grande, in effetti, tra la psichiatria ufficiale, universitaria e istituzionale, e la cultura psichiatrica che si stava sviluppando in ambienti esterni all’istituzione, dove, anche per gli influssi dei libri dedicati alla psicoanalisi e all’importanza dei fattori ambientali (Meyer [7]) e interpersonali (Sullivan [8]) nell’insorgenza dei disturbi psichici, quella che andava crescendo era una critica sempre più diffusa al determinismo biologico e al disturbo psichico inteso come malattia delle persone. Il movimento politico giovanile e le organizzazioni di sinistra, proponendo una riflessione critica sui meccanismi di esclusione, di emarginazione e di controllo attraverso i quali la società affrontava le problematiche della devianza e dei soggetti “deboli”, offrivano un terreno fertile al pensiero di una psichiatria nuova, capace di dare più importanza agli aspetti sociali nell’eziologia e nel trattamento dei disturbi mentali2.

Un ruolo decisivo nello sviluppo di questo discorso rivoluzionario sulla psichiatria era stato, tuttavia, quello di Franco Basaglia. Centrato sulla necessità di abbattere il muro del manicomio, sentito e visto come il luogo concreto dell’esclusione psichiatrica, il suo lavoro trovò un’eco importante nella stampa progressista (memorabili furono in particolare gli articoli che uscirono su l’Espresso), fra le forze politiche e sindacali e nell’opinione pubblica, soprattutto fra i giovani: proponendo un simbolo concreto, il muro del manicomio, per quel bisogno di rompere gli schemi tradizionali contro ogni forma di autorità costituita, caratteristico di un movimento che era insieme passionale ed ingenuo, confuso e creativo, realistico ed utopico.

Visitare Gorizia era sentito come naturale e necessario da tanti studenti in rivolta nelle Università dove soprattutto si discuteva, nei collettivi, di politica, di economia e di esclusione psichiatrica: con il contributo fra gli altri di Grazia Cancrini, Maurizio Coletti e Gianni Fioravanti, studenti che sarebbero stati, pochi anni dopo, fra i fondatori del Centro Studi.

L’analogia fra questi discorsi più politici sugli esclusi che non dovevano più essere esclusi e quelli portati avanti dai nuovi terapeuti della famiglia sul paziente designato come vittima e capro espiatorio delle tensioni di una famiglia in crisi sarebbe stata subito evidente. In effetti, per molti di noi liberare “i matti” rinchiusi dell’Ospedale Psichiatrico (OP) e liberare il paziente dal peso della diagnosi diventarono così, nel clima esaltante di quel tempo straordinario, i due imperativi categorici su cui entusiasmarsi e confrontarsi. All’interno di un movimento ampio di idee che riguardavano il riscatto di chi viveva situazioni di debolezza: dai dannati della terra di Fanon ai neri d’America, dai giovani persi nelle periferie pasoliniane ai bambini handicappati esclusi dalla scuola dell’obbligo, il sogno sognato allora era quello del comunismo democratico di Enrico Berlinguer, cercato, anche se mai del tutto raggiunto, con lo sforzo di individui che crescono nella coscienza del loro diritto a vivere una vita all’altezza delle loro potenzialità. Resta oggi a noi, di quel sogno, la gioia di averlo sognato. Ma l’idea anche di essere stati utili portando di qualche centimetro (o millimetro) in avanti il cammino dell’idea cui esso si ispirava.

LA RICERCA SULLE TOSSICOMANIE GIOVANILI

È in questo contesto culturale, sociale e politico che arriva sulla scena il problema dei tossicodipendenti. L’Istituto di Farmacologia dell’Università apre il “Centro per le tossicosi da farmaci psicoattivi e da stupefacenti” che uno di noi fu chiamato a dirigere con lo scopo di occuparsi di questo fenomeno nuovo che si andava affacciando sulla scena sociale e che era diventato in breve tempo, l’argomento fondamentale di chi dai contestatori si sentiva attaccato o comunque messo in difficoltà. Grande era stato, in effetti, il clamore suscitato dal problema droga nei media che in modo spesso assai superficiale lo alimentarono, con il radicalizzarsi delle posizioni. Presentato come manifestazione di autonomia o di libertà da un numero crescente di giovani, l’uso delle droghe era presentato come il male, un male assoluto e da combattere con tutti i mezzi, da chi alla loro contestazione si opponeva. Di droga e di droghe parlavano tutti, dunque, ma quando scoppiò questo clamore il Centro era l’unico che possedesse dei dati, era l’unico che potesse parlare dell’argomento con cognizione di causa.

Avevamo iniziato già da alcuni anni, in effetti, ad occuparci dei giovani con problemi di droga. Inseguendoli perché la legge vigente, che considerava reato e puniva con il carcere la detenzione a qualsiasi titolo ed in qualsiasi quantità di qualsiasi sostanza inclusa nell’elenco degli stupefacenti, scoraggiava le richieste d’aiuto, soprattutto nelle strutture pubbliche. Veniva, l’idea cui ci eravamo ispirati, da Ettore De Rossi, un tossicomane che avevo conosciuto al San Giacomo dove curava la sua epatite. Vi aiuterò io ad incontrarli, ci aveva detto, se sarete voi ad avvicinarvi a loro e noi avevamo seguito il suo consiglio: parlando loro sul bordo della fontana di piazza Navona e nell’asilo notturno aperto per quello scopo in via dell’Anima dalla Caritas. Eravamo in sei, tre assistenti sociali (Maurizio Ricci, Giuseppe Costi e Silvana Ferraguti) e tre medici (io, Pierluigi Scapicchio e Paolo Bertoletti), e i tossicomani avevamo cominciato ad incontrarli davvero rendendoci conto presto del fatto che il loro problema non era la cannabis ma le anfetamine, che allora si vendevano liberamente in Italia, ma rendendoci conto soprattutto del fatto che venivano, i giovani tossicomani, da storie di sofferenza e di esclusione a cui ci si doveva accostare con pazienza e rispetto.

La possibilità che ci fu data allora da una stampa progressista e da giornalisti televisivi come Sergio Zavoli di raccontare queste storie ebbe il merito di introdurre un argomento nuovo nel dibattito sulle droghe. Uscendo dal gioco sciocco delle esaltazioni e delle demonizzazioni, proponendo una distinzione chiara fra il consumo di canne dei giovani contestatori e la dipendenza degli emarginati ma soprattutto mettendo in luce le ragioni profonde della dipendenza e la necessità di occuparsene con un lavoro terapeutico. Nasce proprio da questo la proposta della Fondazione Agnelli che a noi si rivolge per realizzare una ricerca sugli aspetti sociali e familiari delle tossicomanie giovanili.

LA NASCITA DEL CENTRO STUDI

Il capitolo sulle tossicomanie aveva avuto fino ad allora poco spazio nei testi della psichiatria medica e nelle esperienze degli psicoanalisti. Le tossicomanie erano state sempre piuttosto rare, del resto, ed erano state considerate come un vizio assurdo o, dai più attenti al dramma delle persone che ne soffrivano, come il frutto di una perversione incurabile anche per la scarsa collaborazione del paziente. Quella con cui ci si confrontava allora era, invece, una situazione del tutto nuova in cui l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti diventavano un fenomeno di massa, una specie di moda giovanile che aveva conseguenze pesanti su un numero importante di persone. Capire quello che stava davvero succedendo e proporre alternative ai metodi più tradizionali di intervento era possibile solo, in una situazione come questa, se si accettava l’idea per cui uno studio dei fattori sociali era fondamentale per spiegare un fenomeno così ampio, improvviso e diffuso in tutto il mondo occidentale. Avvicinandosi ai casi più gravi, d’altra parte, l’esperienza ci insegnava che il paradigma proposto dai primi terapeuti famigliari era, almeno in ipotesi, il più adatto a spiegare il comportamento di quelli per cui il consumo diventava tossicomania. Il concetto da utilizzare era così diverso da quelli utilizzati tradizionalmente nella psichiatria e nella ricerca psicoanalitica, aprendosi al nuovo dei sistemi famigliari e, nello stesso tempo, al nuovo di un mondo giovanile inquieto e in contrasto aperto con quello degli adulti. Però, un problema da affrontare, subito, mentre mettevamo in piedi il gruppo che si sarebbe impegnato nel lavoro di ricerca, era quello di scegliere le persone adatte per portarlo avanti. Una felice intuizione fu, in questa direzione, organizzare un gruppo di ricercatori composto da due categorie di persone: un primo gruppo con un minimo di competenza professionale sulla psicopatologia del singolo (gli psichiatri) e sul funzionamento delle famiglie (gli assistenti sociali) e un altro gruppo composto da persone più giovani, non formate dal punto di vista professionale e da formare direttamente sul paradigma che volevamo utilizzare che poteva portare nella ricerca un punto di vista insieme più relazionale e più vicino a quello dei giovani (il campione di tossicomani scelto era di età inferiore ai 25 anni). Uniti da una volontà politica e culturale comune, questi due gruppi potevano confrontarsi da due prospettive diverse: proponendo una visione “binoculare” dei fenomeni osservati.

Una conseguenza naturale di questa scelta fu quella di considerare la nostra ricerca come un intervento. L’osservatore che accetta il punto di vista relazionale sa fin dall’inizio infatti di fare parte del sistema che osserva, che una vera “centralità” non esiste e che l’evoluzione del sistema dipende anche dal modo in cui lui stesso si pone. Consapevolmente o no: terapeuti o attori del cambiamento dovevamo nel corso degli incontri basarci, quando questo era possibile, sulla tecnica dell’intervista famigliare di Ackerman (in casa loro, dopo cena, chiedendo la presenza di tutti i membri della famiglia) o, nei casi in cui la famiglia non viveva più insieme, con la convocazione presso il nostro ambulatorio, in tempi a volte necessariamente diversi, dei famigliari disponibili. Trovandoci da subito di fronte, ad una differenza fondamentale fra le famiglie troppo coinvolte (enmeshed, secondo Minuchin [12]) e quelle sempre troppo disimpegnate (disengaged, secondo lo stesso Autore). Ma trovandoci di fronte, soprattutto alla possibilità di utilizzare con finalità più terapeutiche le risorse che in queste famiglie potevano, con questi incontri, essere attivate. Erano i nostri primi tentativi di terapia famigliare e i risultati furono da subito così importanti da farci sentire vicini ad una svolta epocale nella misura in cui il lavoro portato avanti con un paradigma del tutto nuovo sembra in grado di rendere “curabile” un tipo di pazienti ritenuto fino ad allora refrattario ad ogni tipo di terapia: medica o psicologica. È sull’onda di questo entusiasmo che il gruppo orientò la sua attività nella fase finale della ricerca. Decidendo di utilizzare quello che restava dei finanziamenti della Fondazione per l’affitto di due appartamenti invece che per i pagamenti degli operatori e mettendo in piedi contemporaneamente una piccola comunità per i senza famiglia (il primo tentativo di Comunità Terapeutica nel nostro paese) e un centro per la terapia delle famiglie.

L’EVOLUZIONE SUCCESSIVA

Presentati in un Convegno che ebbe ampia risonanza, i risultati della ricerca, portata avanti per due anni a Roma, furono pubblicati poi da Mondadori [2] e diedero un contributo importante allo sviluppo del dibattito politico che avrebbe portato due anni dopo, nel 1975, all’approvazione, della legge con cui si riconosceva il diritto alle cure per i tossicodipendenti.

Impossibile da gestire in una situazione in cui la legge puniva con il carcere anche la detenzione di una qualsiasi sostanza stupefacente, la Comunità di piazza Bologna ebbe vita breve per l’intervento dissuasivo delle forze dell’ordine. Quello che restò in piedi, invece, in via Val di Cogne, fu il centro indirizzato alla terapia delle famiglie ma destinato nel tempo, soprattutto, ad essere la sede di un gruppo affascinato dalle prospettive e dal potenziale politico del paradigma utilizzato nel corso della ricerca. Avevamo verificato insieme che il lavoro terapeutico con le famiglie poteva essere utile in molte situazioni di tossicomanie giovanili. Quella che era necessario verificare ora era la possibilità di valutare l’efficacia del nostro paradigma e del nostro modo di lavorare in altre aree della psicopatologia: a livello dei bambini che presentavano disturbi del comportamento, soprattutto a scuola e soprattutto a livello dei disturbi psichiatrici più gravi in cui particolarmente evidente era la frequenza con cui il disturbo del singolo era accompagnato da problematiche famigliari sempre assai importanti.

Due fattori soprattutto giocarono a nostro favore in questa fase: l’interesse destato dal nostro lavoro nell’Istituto di Psichiatria della Sapienza, diretto dal prof. Giancarlo Reda ed in cui uno di noi lavorava da diversi anni e l’insieme sempre più coerente e convincente dei libri scritti dai terapeuti famigliari americani che prima di noi in queste situazioni avevano ottenuto risultati importanti.

Nulla di quello che abbiamo realizzato in tutti questi anni sarebbe stato possibile in effetti senza questi libri e senza la presenza a Roma, in via Val di Cogne e nella sede esterna, dedicata alla psicoterapia dell’Istituto universitario, di Jay Haley e di Sal Minuchin, di Paul Watzlawick e di Marianne Walters oltre che di Mara Selvini, Luigi Boscolo, Philippe Caillé e tanti altri che animarono, in quegli anni straordinari, le nostre discussioni diurne e notturne. Del frutto che tutte queste influenze hanno determinato ci si avvale ancora oggi nel nostro lavoro quotidiano e si parla di fatto in tutto questo nostro libro. Quello di cui oggi meno si parla invece e di cui è importante che anche gli allievi di oggi sappiano qualcosa, però, è il modo particolare in cui il nostro gruppo si strutturò intorno ad una prospettiva di livello etico: chiarendo con un Documento Programmatico che utilizzava le idee di Basaglia e di Freud, di Marx e di Lukács la cornice teorica, tecnica e politica in cui il gruppo si riconosceva e intendeva essere riconosciuto dalla comunità scientifica.

Riportiamo alcune parti del Documento che restituisce a chi legge il senso della grande avventura del Centro Studi di Terapia Relazionale e Familiare: una avventura che si snoda negli ultimi 50 anni di vita del nostro Paese e che tanto ha contribuito a trasformare la cultura dei Servizi che si occupano della salute mentale, dell’infanzia e dell’età adulta e ha posto le premesse per una visione unitaria delle basi della psicoterapia.

IL DOCUMENTO: UN PARADIGMA CONCETTUALE CHE INTEGRA LA PROFESSIONE CON LA POLITICA3

Lavoriamo di sera, tutti insieme appassionatamente, nella sede di via Val di Cogne. Lo scrupolo è quello di non guadagnare nulla perché “non si può guadagnare mentre si impara”.

I sogni sono quelli di un ’68 appena concluso. L’inizio è subito molto chiaro.

Il gruppo di psicoterapia relazionale riconosce come scopo fondamentale della sua attività l’elaborazione, lo sviluppo e la diffusione di una teoria relazionale del comportamento.

L’applicazione del metodo dialettico (nel senso precisato da Lukács), l’adesione ai concetti di base della teoria generale dei sistemi (proposta da von Bertalanffy [14]), lo sviluppo e la diffusione di una teoria relazionale del comportamento sono i principi che hanno guidato la nascita del Centro Studi.

«Rovesciando l’impianto della ricerca psicologica e psichiatrica tradizionale, il gruppo postula che il comportamento di un singolo individuo può essere adeguatamente compreso ed utilmente modificato solo se inquadrato nel contesto in cui assume forma e significato. L’esplorazione sistematica delle relazioni interpersonali e delle leggi che regolano la vita dei gruppi, di cui l’individuo fa parte, costituiscono, una volta accettato questo punto di vista, un elemento indispensabile per la comprensione di ciò che accade e per l’attuazione di un intervento utile nelle situazioni di difficoltà. La situazione sociale in cui il comportamento deviante ha origine, osservata da questo punto di vista, costituisce il luogo centrale dell’intervento attuato dal tecnico. All’interno di tale prospettiva risulta assai limitato il ruolo delle tecniche d’intervento attualmente a disposizione dell’operatore sociale psichiatrico perché le terapie biologiche e gli psicofarmaci, come gli interventi psicoterapeutici di vario tipo, sono fondati in genere sull’assunto per cui oggetto della terapia è l’individuo “malato”. In coerenza con la teoria un assunto del genere rischia di invalidare il comportamento del cliente e di perpetuarne le difficoltà.

Ugualmente assai poco utile (se non ingombrante e scomoda) è la divisione tradizionale dei settori di competenza: psichiatrico per l’individuo che mette in opera comportamenti “folli”; giuridico per l’individuo che mette in opera comportamenti “antisociali”; ulteriormente specializzato se l’individuo che mette in opera tali comportamenti ha o non ha raggiunto una certa età. Nel momento in cui l’elemento caratterizzante di un certo problema non è il comportamento di un singolo individuo, ma l’insieme delle relazioni interpersonali in cui tale comportamento si inserisce, la divisione in oggetto diventa infatti del tutto insignificante».

L’inizio del documento programmatico del ’72, scritto dal gruppo che ha formato il Centro Studi, esprime con chiarezza ancora oggi, in effetti, le idee in cui crediamo. Si trattava e di riunificare la distanza tra teoria e pratica nella cultura psichiatrica, di diffondere una teoria esplicativa del disturbo e della sofferenza psichica capace di andare oltre il determinismo biologico e di offrire modalità pratiche di intervento che tengono conto della realtà osservata e delle esperienze vissute dai pazienti (restituendo loro voce, ricostruendo storie) e formando operatori che avessero strumenti per intervenire nella realtà della vita dei pazienti, sia nel senso della cura che nel senso della trasformazione dei Servizi che quelle cure erogavano4.

La sfida era ed è quella di trasformare la cura, prevalentemente ancorata a una visione strettamente medica, per attivare le risorse del paziente nel contesto delle relazioni personali e sociali. Noi, come i pazienti che ci chiedono aiuto, siamo il prodotto della nostra storia e questa storia va ricostruita e compresa. Fare terapia vuol dire, in questa prospettiva, conoscere il contesto delle relazioni significative del paziente per ritrovare il senso del dolore e della sofferenza, partendo dalla premessa per cui un comportamento sintomatico è “inspiegabile solo finché il campo di osservazione non è sufficientemente vasto da includere il contesto in cui si verifica”. La pretesa incomprensibilità dipende più dalla mancanza di informazioni sul contesto che dalla gravità di una ipotetica “malattia”. Quello che porta sofferenza e mal funzionamento non è tanto una disregolazione sinaptica, ma il modo in cui le relazioni che custodiamo dentro (che sono il nostro passato) impattano sulle relazioni attuali.

Lavorare in questo modo, però, non è facile. Occorre pensare che l’osservatore debba includere se stesso nel campo osservato perché seleziona, giudica e interviene secondo le sue premesse epistemologiche e questo è possibile solo se vengono formati operatori in grado di saperlo fare e Servizi organizzati per poterlo fare: è un pensiero “ecologico” quello che riunisce la scissione tra sano e malato, tra me e l’altro da me, tra individuo, società ed ecosistema. Ed è n questo senso che la cura, in quanto trasformazione in corso delle relazioni bloccate nella famiglia e nella società diventa un fatto politico.

Il Centro Studi è stato fin da principio interessato alla formazione, allo sviluppo e alla diffusione di nuove idee e al modo in cui queste nuove idee potevano innovare la cultura dei Servizi affermando la necessità della psicoterapia tra le prestazioni erogate in tema di salute mentale. Avevamo consapevolezza dell’importanza che il nostro discorso avrebbe avuto nell’offrire strumenti di analisi e di intervento che avrebbero accompagnato e supportato un percorso di cambiamento, con nuove strategie di intervento, a fronte della grande rivoluzione legata alla chiusura dell’istituzione manicomiale e all’apertura dei nuovi servizi territoriali: su cui ricadeva il compito di aiutare le famiglie nel percorso di reinserimento dei loro familiari dimessi e di prendere in carico con strumenti efficaci pazienti che andavano curati senza ricorrere all’istituzionalizzazione. Prima di passare alla parte successiva del documento, dobbiamo riflettere, tuttavia, nel modo in cui pensavamo, allora, di collocarci nel rapporto con il lavoro e con le idee di chi aveva lavorato con Basaglia e ne portava avanti il discorso.

IL GRUPPO E LA PSICHIATRIA “AVANZATA” 5

A partire dall’esperienza di Gorizia, che si era poi allargata ad altre città, quelli che venivano evidenziati erano i limiti della psichiatria tradizionale e istituzionale, di cui, si denunciava il fallimento, ribadendo la necessità di un rinnovamento delle strutture dell’assistenza psichiatrica: idee che furono rapidamente riconosciute dalle organizzazioni sociali e politiche più avanzate aprendo un confronto aspro ma culturalmente impari con le forze più tradizionali e reazionarie di cui venivano criticate l’ideologia medica della “malattia” mentale e la copertura proposta da tale ideologia alla insufficienza delle strutture.

Evidente anche all’interno del movimento, però, era un modo di lavorare sul territorio con interventi che frenano il ricorso a risposte innovative alle richieste di chi stava male. Dopo aver rifiutato le forme più esasperate ed esasperanti di violenza terapeutica (terapia di shock, ricoveri coatti, contenzione, e così via) molti operatori si erano trovati, infatti, costretti ad usare ancora strumenti e tecniche di una psichiatria fondata sul concetto di individuo malato: la comunità terapeutica intesa come luogo “in cui il singolo paziente può essere recuperato”, per esempio, o lo psicofarmaco visto come rimedio unico nella eventualità di un ricovero o di una crisi “acuta”.

Denunciando l’importanza di questi limiti, il gruppo di psicoterapia familiare arriva ad individuare uno dei cardini del suo impegno di lavoro: parlando, nel documento, del tentativo di applicare al piccolo gruppo spontaneo (la famiglia, la classe, lo staff terapeutico dell’Istituzione, il gruppo di insegnanti e quello di operai o di persone comunque coinvolte in interessi o attività comuni) i principi di intervento mediati dal metodo dialettico e dalla teoria generale dei sistemi con lo scopo di portare ad una saldatura reale tra le linee dell’intervento politico (livello dei grandi gruppi) e quelle dell’intervento terapeutico propriamente detto (livello dei piccoli gruppi).

«L’idea insita in questa esigenza è di ritenere che l’uomo, immerso in una data situazione concreta, debba essere sempre e comunque considerato come aperto ad una duplice determinazione dialettica del suo livello di coscienza. Sia quando si confronta con i problemi proposti dal grande gruppo (in cui la sua vita viene determinata come vita di un individuo che si situa in un certo luogo nella dialettica dei rapporti di produzione) sia quando si confronta con i problemi del piccolo gruppo (in cui la sua vita viene determinata come vita di un individuo che si situa in un certo ruolo nella dialettica dei rapporti fra le persone), l’uomo non può essere mai pensato come definito dalle descrizioni di ciò che altri ha di fatto pensato, sentito o voluto in determinate situazioni di classe (livello dei grandi gruppi) o in determinate situazioni di ordine familiare, associativo, eccetera (livello dei piccoli gruppi).

Il rapporto con la totalità concreta della situazione che lo coinvolge e le determinazioni dialettiche che ne conseguono vanno al di là della descrizione e danno luogo alle categorie della possibilità oggettiva: al riconoscimento cioè di quelle idee, scelte di comportamento e modi di sentire che l’uomo (e gli uomini) avrebbero avuto in una determinata situazione di vita se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione e gli interessi emergenti sia in rapporto alle strutture dell’intera società e dei rapporti diversi tra le diverse società (livello dei grandi gruppi) sia in rapporto alla struttura e ai rapporti del gruppo nei cui confronti egli deve attuare una scelta (livello dei piccoli gruppi).

Dall’applicazione costante di questo costrutto analogico risulta evidente che la terapia (come intervento che si applica nei confronti del piccolo gruppo) può essere definita come un’attività volta a determinare il tipo di reazione razionalmente adeguata alla situazione di difficoltà nel rapporto interpersonale.

Esiste una continuità nelle scelte che l’uomo compie muovendosi nella direzione della storia al livello del piccolo come al livello del grande gruppo. Nel tempo, le acquisizioni che egli fa in termini di livelli di coscienza nelle due situazioni si determinano mutualmente, d’altra parte, come momenti di crescita comune o come ostacoli reciprocamente intersecantesi; la pratica politica e la terapia costituiscono, a livelli diversi, interventi di cui è fondamentale riconoscere e rispettare l’unità».

È sulla base di queste riflessioni che abbiamo continuato a lavorare fino ad oggi mettendo in piedi una formazione che ha influito su molti operatori. Proponendo l’idea che la psicoterapia e la sua diffusione (una psicoterapia ecologica, contestuale, connessa all’ecologia della mente e all’ecologia dei luoghi in cui si formano i problemi e le soluzioni dei problemi) sia un valore per migliorare il livello di assistenza verso chi sta male e di convivenza democratica per chi sta bene. Siamo un’organizzazione che ha quasi cinquant’anni e che è rimasta fedele ai principi di quel documento programmatico: una missione rivoluzionaria dal punto di vista culturale, un percorso di trasformazione della quale i frutti sono gli allievi che abbiamo formato e la loro attività nei Servizi, pubblici e privati, in cui e per essi abbiamo contribuito alla formazione e alla riqualificazione degli operatori.

L’incontro tra l’orientamento sistemico e l’organizzazione del Servizio non è stato, tuttavia, sempre pacifico. Le resistenze possono nascere dal fatto che l’approccio sistemico, in qualche modo, “costringe” al lavoro di équipe, a una reale collaborazione tra diverse figure professionali, rimettendo in discussione un’eccessiva rigidità di ruoli e di funzioni. Noi abbiamo scommesso sulle possibilità di questo incontro perché l’approccio sistemico, superate le contrapposizioni tra Scuole, tende a proporsi come modello che può coesistere con altri modelli, favorendone, ad un meta livello, possibili integrazioni e convergenze.

È in questa direzione che il documento ci stimolava particolarmente ad impegnarci:

«Il gruppo deve avere piena coscienza che la sua attività sta nella elaborazione, nello sviluppo e nella diffusione di quella che è l’unica sua forza reale, un patrimonio di idee maturato lentamente nel corso di questi anni in cui i singoli membri del gruppo riconoscono il senso e il fondamento della loro attività. A tale scopo, il gruppo promuove e mette in opera:

1. Un’attività di insegnamento (“training” propriamente detto) volta a preparare operatori in grado di diffondere le idee proprie del gruppo e di allargare, sperimentare ed arricchire l’esperienza da essi finora raccolta;

2. Un’attività di studio e di ricerca volta a rendere sempre più preciso e chiaro il significato teorico dell’attività del gruppo, e sempre più concreto, utile e adeguato l’insieme degli strumenti di lavoro elaborati all’interno di tale attività; e ciò attraverso un lavoro di filtro e di analisi delle esperienze raccolte da altri fuori del gruppo oltre che delle esperienze dirette effettuate dei membri del gruppo nel corso delle loro attività di terapia ed insegnamento;

3. L’elaborazione, la diffusione e la discussione di testi in grado di rendere note e utili, a un numero ampio di operatori, le prospettive di lavoro legate all’applicazione corretta dei principi ispiratori del gruppo e della sua attività;

4. La divulgazione di concetti e di dati utili a mettere in crisi pregiudizi e mistificazioni legate al prevalere di una concezione “medica” della malattia mentale e agli equivoci che a essa si collegano sul piano dell’assistenza e delle attività di segregazione messe in opera nella gran parte delle istituzioni di “rieducazione”, di “cura” e di “profilassi”;

5. La progettazione e la messa in opera di interventi diretti nelle strutture proprie dell’assistenza tutte le volte in cui ciò sia concretamente possibile e tatticamente utile».

IL DIALOGO DI MASSIMO PELLI CON LUIGI CANCRINI CHE RIPORTIAMO CI RESTITUISCE UN BILANCIO STORICO E CULTURALE DEL PERCORSO DEL CENTRO STUDI: UNA STRUTTURA CHE NEL 2022 COMPIRÀ I SUOI PRIMI 50 ANNI DI ATTIVITÀ

Sfide e difficoltà incontrate nel portare la terapia familiare e relazionale in Italia

Quello che sentivo con molta forza era che, se non supportata da una trasformazione significativa e dalla crescita culturale degli operatori, anche la chiusura degli ospedali psichiatrici rischiava di avere risultati certamente importanti dal punto di vista umano e sociale, ma di fatto limitati. Il rischio era di ricreare una cornice manicomiale anche nel Servizio Territoriale e soprattutto nelle case dei pazienti psichiatrici. Il paziente tollerato dalla società e chiuso in casa con l’assunzione dei farmaci come unica cura, non era certamente la strada giusta. Oggi ci sono strutture che sono manicomiali a tutti gli effetti anche se svolgono la loro attività in un clima molto meno drammatico. Non c’è l’incuria che c’era un tempo. Però c’è ancora la condanna dell’isolamento. È stato comunque fatto tanto. Per me era davvero importante rompere il muro dell’Ospedale Psichiatrico e prendersi carico delle famiglie che avrebbero riaccolto i pazienti in casa, oppure la necessità di pensare a nuove sistemazioni di vita per queste persone. Ma questo non poteva avvenire se gli operatori non possedevano un “sapere relazionale”.

Abbiamo costruito reti per integrare gli interventi e sostenere i percorsi terapeutici e riabilitativi. Psichiatria democratica ha sostenuto la realizzazione di queste reti, ma il servizio pubblico ha spesso oscillato nella forbice tra assistenza e controllo, aspetti spesso in contraddizione tra loro; quello che manca è la ricostruzione di una storia, la costruzione di senso che è la specificità psicoterapeutica, al di là della riabilitazione in senso lato. Siamo riusciti a farlo solo in una percentuale molto bassa. L’obiettivo mancato è stato quello relativo alle Università. L’abbiamo mancato per noi ma anche per psichiatria democratica. Basaglia non fu ammesso all’insegnamento universitario. L’università è sempre rimasta chiusa, progressivamente sempre più condizionata dall’industria farmaceutica. Questo è un punto debole perché è nell’università che si svolge la formazione dei nuovi psichiatri.

Il tuo rapporto con i pionieri americani della terapia familiare

La cosa che rese possibile e arricchì la nostra attività in quel periodo fu l’incontro con i pionieri americani che condivisero questo nostro desiderio di diffondere le nuove idee. Loro furono portatori di una rivoluzione teorica e concettuale e trovarono in Italia un terreno fertile. In Italia c’era in quegli anni la messa in discussione di tutto l’impianto della psichiatria tradizionale e i terapeuti americani trovarono nel Centro Studi un volano per le loro attività che nessun altro gli forniva. I loro libri vennero pubblicati e diffusi con il nostro aiuto. Il loro arrivo in Italia venne organizzato da noi con l’aiuto dell’Istituto di Psichiatria dove lavoravo all’epoca.

Vennero in Italia Salvador Minuchin, Jay Haley, Paul Watzlawick. Dal Regno Unito venne anche Esterson che, con Laing, aveva scritto il libro “Normalità e follia nella famiglia” dove venivano raccontate 11 storie di donne diagnosticate schizofreniche dimostrando che quando si sostituisce la dimensione psichiatrica tradizionale con una dimensione sociale, di ricostruzione di una storia, anche il delirio ritrova un senso comprensibile.

Noi continuavamo a sentire che le cose che imparavamo dovevano essere raccontate. Quando invitammo queste persone cercammo di organizzare dei momenti separati, più formativi, con le famiglie, per noi come Centro, e di diffusione delle loro idee con convegni aperti agli esterni che ci permettevano di pagare i loro viaggi. Era un’attività che si autoalimentava. Io andai a Philadelfia da Salvador Minuchin nel 1974, poi mia sorella Grazia andò a trovare Milton Erikson.

L’incontro con gli americani in quel periodo fu straordinario e ricchissimo. Loro erano generosi e si entusiasmarono del nostro entusiasmo. Erano interessati al modo in cui, come scritto nel documento, esistevano corrispondenze tra il loro modo di lavorare con le famiglie e il tentativo di de-istituzionalizzazione in atto in Italia all’epoca. Anche se l’analogia fra piccoli e grandi sistemi alla base della nostra riflessione su politica e psicoterapia era difficile da capire per loro. Jay Haley in particolare me ne chiese conto durante una cena cui mi aveva invitato, in un ristorante giapponese di Philadelphia: aveva saputo che nella prefazione alla traduzione italiana di Strategie nella Psicoterapia avevo parlato di una consonanza fra Marx e i terapeuti della famiglia e ne era assai, seppur piacevolmente, stupito. Sentivamo insieme che il superamento dell’Ospedale psichiatrico e il lavoro con le famiglie erano attività fortemente consonanti. Loro si entusiasmavano di quello che noi raccontavamo e noi ci entusiasmavamo di quello che ci raccontavano e ci insegnavano loro.

Fu un bel rapporto. Minuchin, in particolare, ebbe nei miei confronti un atteggiamento molto paterno, affettuoso, anche di aiuto nello scioglimento di alcuni nodi nello sviluppo del Centro Studi. La struttura dello Statuto e la previsione delle sedi esterne in cui si svolgono le attività del Centro Studi è anche in relazione alle indicazioni che mi diede Minuchin. Vide la possibilità di una crescita del Centro Studi quando mi disse: “Non puoi mantenere tutte queste persone in un’unica struttura!”. Nei 50 anni successivi la differenziazione delle sedi ha permesso ad ognuna di loro aspetti di un’autonomia culturale e progettuale che abbiamo costantemente tentato di temperare, con vari momenti di incontro, che è la caratteristica fondamentale del nostro Centro Studi.

La crisi della psicoanalisi e il contributo del movimento sistemico-relazionale al consolidarsi della psicoterapia

Il grande rischio che la psicoanalisi ha corso, e che in parte corre ancora, è quello di essere un’attività che si rivolge ad una élite, sia dal punto di vista economico che culturale. L’idea che una persona possa andare in terapia anche 3-4 volte a settimana, pagando cifre medio-alte, non ha garantito la possibilità per la psicoanalisi di essere in grado di penetrare in contesti diversi. Le sue possibilità sono rimaste ristrette, parziali e le Società di psicoanalisi sono rimaste poco efficaci a fronte della necessità di portare la psicoterapia in contesti in cui di psicoterapia c’era bisogno. La terapia familiare e il movimento culturale sistemico hanno ampliato questa possibilità. Proporre alle persone che si rivolgono ai servizi o ai consultori, un intervento psicoanalitico è, di fatto, impossibile mentre un intervento basato sul funzionamento della famiglia è più realistico e porta a dei risultati. Per il magistrato che si deve occupare della famiglia, chiedere un intervento con la famiglia o una mediazione familiare è più fattibile. Io credo che l’irrompere sulla scena della terapia relazionale sia stato fondamentale per aumentare il numero delle situazioni in cui la persona e i servizi chiedono interventi di livello psicoterapeutico. Va detto che questo germoglio era già presente all’interno del movimento psicoanalitico: già Sullivan parlava dell’importanza delle relazioni in corso per i pazienti curati nella sua clinica e D.D. Jackson, uno dei pionieri della terapia familiare, non a caso aveva lavorato nella clinica di Sullivan a Chestnut Lodge. Anche Searles è un autorevole esponente della psicoanalisi interpersonale. C’era tutto un fiorire di iniziative, di filoni culturali e di ricerca che permisero di allargare il campo di osservazione alla famiglia. Freud stesso affermò che “l’oro della psicoanalisi deve essere sostituito da leghe altrettanto resistenti e meno costose”.

Quell’infatuazione relazionale e familiare che all’inizio rinnegava la psicoanalisi per la sua scarsa applicabilità, poi si ritrovò però di fronte ad una persona che viene da sola in terapia e che porta le conseguenze di un trauma o di una violenza sessuale, in cui il relazionale-familiare diventava difficile da applicare, mentre diventava di nuovo importante l’ascolto e l’attenzione ai movimenti transferali e controtransferali. Abbiamo il dovere di fornire aiuto ad una persona che si confronta con un mondo relazionale attuale e che ha un mondo relazionale che custodisce dentro di sé e che influenza, a sua volta, il suo modo di stare nel mondo oggi. Qualche volta è più importante lavorare sul suo mondo relazionale di oggi e altre volte è più importante lavorare sul suo mondo interno, dipende dalle situazioni. Uno psicoterapeuta capace deve sapersi muovere in entrambe le direzioni e questo è ciò che cerchiamo di insegnare nella nostra scuola.

La psicoterapia si è affermata come cura a pagamento che non tutti possono permettersi. Come si può superare questo limite e cosa si può fare affinché sia un sistema di cura a disposizione della comunità sociale

Nel 2017 sono stati approvati i nuovi LEA (livelli essenziali di assistenza) che includono, per la prima volta, la psicoterapia. Ciò vuol dire che, per legge, è stato garantito il diritto alla psicoterapia. È stato un passaggio importante che va adesso implementato. Ci sono due grandi strade da percorrere. La prima è la presenza di psicoterapeuti nei Servizi che il SSN dovrà mettere a disposizione del cittadino. Questo può essere fatto in 2 modi: o attraverso una gestione diretta oppure indirettamente attraverso strutture a convenzione. Questo è attualmente fattibile per gran parte delle procedure diagnostiche e terapeutiche che il cittadino può richiedere alla propria ASL o a strutture convenzionate. La stessa procedura dovrebbe essere attuabile anche per la psicoterapia. Dobbiamo avere psicoterapeuti che lavorano nel servizio pubblico, nei Centri di salute mentale, nei servizi per le tossicodipendenze, nei servizi per l’età evolutiva, ma bisogna anche prevedere che si possa lavorare attraverso convenzioni, in un modo quindi più ampio1. È certamente un percorso faticoso, fatto di piccoli passi. C’è sicuramente un problema di priorità nelle spese del sistema sanitario, ma bisogna riuscire a far sì che la psicoterapia sia sentita come una delle priorità e non come un’opzione tra le tante né, tanto meno, una tra le ultime. Tenendo conto, fra l’altro, del fatto che esistono oggi ricerche importanti2 che dimostrano quanto si può invece risparmiare curando con la psicoterapia invece che con gli psicofarmaci o solo con gli psicofarmaci.

L’altra strada importante è quella della formazione. È necessario formare gli operatori ad una cultura psicoterapeutica. Questo riguarda soprattutto la formazione universitaria. La facoltà di medicina dovrebbe rendersi conto che il medico non cura le malattie, ma cura i malati e lo fa all’interno della relazione che stabilisce con loro. Questo è un passaggio fondamentale. Un secondo passaggio necessario è che gli specializzandi in psichiatria e neuropsichiatria infantile ricevano una formazione psicoterapeutica, cosa che a tutt’oggi accade poco e in maniera molto debole. Ancora oggi formiamo psichiatri e neuropsichiatri infantili che sanno fare diagnosi e sanno dare i farmaci, si muovono cioè all’interno di un modello medico che è debole rispetto alle esigenze delle persone. Tale modello funziona rispetto ai pazienti più gravi mentre appare insufficiente rispetto alla gran parte delle persone. Il cambiamento del nome da “Centro di igiene mentale” a “Centro di salute mentale” voleva indicare proprio questa trasformazione che superava la cornice strettamente medica che si occupa di malattie per occuparsi dei bisogni e della qualità della vita delle persone.

Il discorso va poi ampliato ai corsi di laurea in psicologia in cui si dovrebbe preparare lo psicologo rispetto al fatto che una cultura psicoterapeutica è quella che gli permette di lavorare nelle strutture e di dare davvero aiuto ai pazienti. Il discorso è meno drammatico che nella medicina perché gli psicologi, non potendo prescrivere farmaci, sanno già che devono andare da qualcuno che gli insegni come lavorare nella relazione con il proprio paziente, si rivolgono a scuole riconosciute in cui imparare a fare lo psicoterapeuta.

Ma di cultura psicoterapeutica dovrebbero essere permeati anche gli spazi formativi per gli assistenti sociali, gli infermieri, gli educatori e sarebbe importante che questa venisse conosciuta anche dai magistrati e dalle persone che si occupano di diritto della famiglia. Quando guardiamo a come si muovono i magistrati nel diritto della famiglia si ha l’impressione che ancora non è arrivata una riflessione relazionale. Per esempio, nelle perizie sulla capacità genitoriale spesso si fanno i test per vedere se quel genitore è capace, ma il modo in cui le persone si relazionano tra loro non può essere espresso da un’osservazione tutta centrata sull’individuo né tanto meno da una esclusiva indagine testologica. La sensazione che ho è che la diffusione della cultura psicoterapeutica vada di fatto ulteriormente ampliata. C’è un innegabile progresso e siamo certamente avanti rispetto ad anni fa circa la possibilità di assicurare il diritto alla psicoterapia, ma è anche vero che è ancora grande il numero di persone che non riescono ad usufruirne.

I fratelli Menninger scrivevano, 50 anni fa, che tutti coloro che lavorano nella salute mentale dovrebbero accettare l’idea di sottoporsi a una formazione psicoterapeutica personale per capire come funzionano perché se non capiscono come funzionano non possono rapportarsi con i pazienti. Io credo che bisognerebbe tornare a questa visione dei Menninger. Si può immaginare una organizzazione del percorso di studi in cui sia prevista la formazione personale. Dobbiamo anche considerare quali sono i luoghi in cui il futuro psichiatra fa la propria formazione. Se la fa solo in reparto, come accade oggi, allora la formazione dello psichiatra è come quella del chirurgo che impara in corsia senza mai operare. Si dovrebbe invece prevedere la possibilità di lavorare nei servizi territoriali, nel CSM, nelle strutture che si occupano dell’età evolutiva. È necessario poter vedere il percorso longitudinale della storia del paziente, non solo osservare il momento della crisi e dell’acuzie. L’ospedale utilizza lo specializzando come mano d’opera quando c’è difetto di organico, ma non c’è l’idea che lo specializzando possa andare a rinforzare il servizio territoriale e a conoscere altri aspetti della vita del paziente. Il tirocinio, che è un’esperienza transitoria, non è sufficiente a questo scopo. Lo specializzando funziona come medico, usufruisce di una supervisione, ma potrebbe farlo anche nel servizio territoriale, dove c’è tanta carenza di medici. Poi aggiungerei una riflessione sul fatto che anche nel mondo della psicoterapia c’è un movimento, quello cognitivo-comportamentale, che sta acquistando spazio e che, accanto ad un modello teorico più fondato, propone un modo di agire più semplicistico, che tende a fornire “ricette” comportamentali e che purtroppo tradisce profondamente lo spirito stesso della psicoterapia. È un’insidia molto pericolosa che riguarda soprattutto gli psichiatri. Ci sono ASL che nei loro concorsi chiedono come titolo per la psicoterapia che il candidato abbia una formazione cognitivo-comportamentale e questo è un fatto pericoloso.

“Ecologia della Mente”, la rivista del Centro Studi, ha come sottotitolo quello di “rivista interdisciplinare per la costruzione di un comportamento terapeutico” dove si sottolinea l’interdisciplinarietà della cura psichica. Ci puoi raccontare come è nata la rivista e come si colloca nel panorama della psicoterapia oggi?

La rivista ha una tiratura discreta, ma non ha finanziatori che, in genere, sono rappresentati dalle case farmaceutiche. Questo ci rende un po’ deboli. È una rivista ambiziosa sul piano culturale perché tratta della costruzione di un comportamento terapeutico e usufruisce di un contributo interdisciplinare il che significa che pensiamo più a una cultura psicoterapeutica che non a delle tecniche. Ci riferiamo alla capacità di pensare in termini psicoterapeutici ai diversi sistemi con cui ci confrontiamo siano essi il sistema persona, la coppia, la famiglia così come il gruppo classe o il sistema dei servizi. La costruzione interdisciplinare di un comportamento terapeutico significa saper vedere sempre nelle situazioni umane la possibilità di intervenire con tutto ciò che si può utilizzare. Da questo punto di vista è una rivista originale perché ospita contributi che vengono anche da un sapere non psicoterapeutico che può essere utile a chi la psicoterapia vuole praticare e diffondere. Credo che la sua longevità, anche grazie al prezioso contributo di Francesca De Gregorio, sia la prova che ne valeva la pena. Il titolo ci ricollega a Gregory Bateson e al suo interesse per la complessità dei sistemi umani. L’incontro con Bateson è stato fondamentale perché ci confermava le riflessioni che avevano portato alla stesura del nostro primo documento, nel 1972, sulle analogie tra la terapia come possibilità di cambiamento del piccolo gruppo (la famiglia) e la politica come possibilità di cambiamento del grande gruppo (il mondo sociale e delle nazioni), strade percorse da Bateson e che evidenziavano gli isomorfismi tra sistemi diversi. Seguendo le tracce di Bateson, anche noi pensiamo che lo psicoterapeuta non è uno che se ne sta tranquillo nel proprio studio e che riflette sulle persone, ma è interessato al mondo che lo circonda.

Uno psicoterapeuta che lavora con casi difficili deve poter affrontare le situazioni con la persona sola e gli serviranno alcuni strumenti, oppure con la famiglia e con la coppia e gliene serviranno altri. Diciamo che la psicoterapia è una per dire questo: per dire che noi dobbiamo formare operatori in grado di lavorare nelle situazioni reali, nei servizi, nei vari modi necessari.

La psicoterapia è attivazione di risorse della persona e di chi gli sta vicino, e quindi questo è un problema di fiducia e di capacità di resilienza. Nei primi anni di vita si creano le condizioni perché si possano costruire dei nuclei di resilienza in tante persone, che poi possono essere più o meno sfortunate nell’insieme degli eventi che attraversano. I nuclei di resilienza che si formano dentro la persona li possiamo comprendere con la teoria di Kernberg: ci riferiamo alla ricostruzione delle prime fasi dello sviluppo che, quando avvengono bene, permettono alla persona di avere le forze per affrontare le difficoltà. Dobbiamo pensare che se sono stati bene prima, possono poter stare bene di nuovo. In quanto, se sono i contesti che li hanno fatti ammalare, nuovi contesti possono permettere di ritrovare le risorse che c’erano prima.

Anche gli argomenti attuali delle neuroscienze e della genetica ambientale sono a nostro favore. La psicoterapia può modificare il funzionamento del cervello, lo può modificare positivamente in rapporto a dei cambiamenti positivi, cosa che corrisponde a ciò che vediamo. Ci dice una cosa fondamentale, che il funzionamento della mente non dipende da qualcosa che sta dentro il cervello, quella è la neurologia, la sclerosi a placche, il tumore al cervello. Ma la gran parte dei malfunzionamenti della mente sono legati ai contesti in cui si verificano. L’ecologia della mente, nel senso del modo in cui i contesti influiscono, è la base del nostro lavoro.

“Negli ultimi anni hai lavorato soprattutto con i minori maltrattati”

Nelle situazioni di maltrattamento e abuso all’infanzia e ai minori, un punto fondamentale sono le strutture in grado di fornire loro una risposta psicoterapeutica che riguarda chi subisce il maltrattamento e le loro famiglie. Questi minori hanno bisogno di aiuto psicoterapeutico e a volte di essere ascoltati da soli utilizzando inevitabilmente la vicinanza e il calore di una buona relazione terapeutica e servono concetti come movimenti transferali, reazioni controtransferali, riferimenti a una letteratura che è più psicodinamica… come fai a non aver letto Winnicott se lavori con i bambini? Ma altre volte invece è importante riunire tutta la famiglia e fare con la famiglia un lavoro di tipo più strutturale come ci ha fatto vedere Minuchin. Un buon terapeuta deve saper lavorare con le famiglie e saper lavorare con le persone sole perché entrambe queste modalità sono necessarie.

Il terapeuta che lavora con i bambini maltrattati o incompresi deve poter lavorare con la famiglia. È nostro compito: quando parliamo di unità della psicoterapia lo diciamo nel senso che il fatto di saper lavorare sulle relazioni, oltre che sulla relazione che si stabilisce col paziente, è un valore in più che permette in tante situazioni di fare le uniche cose che si possono fare. Lo psicoanalista che vede solo il paziente è disarmato in molte situazioni.

Il futuro del centro studi e i suoi obiettivi

Credo che in questi 50 anni abbiamo dato un buon livello di formazione a qualche migliaio di persone. È una cosa importante e io mi auguro che questo è quello che possiamo continuare a fare perché la formazione delle persone è fondamentale, sia per il loro lavoro che per il nostro perché le idee camminano attraverso testimoni e fanno crescere il discorso in cui crediamo. Da questo punto di vista il Centro Studi ha assolto e assolve una funzione importante. Sarebbe bello se si riuscisse ad avere una visione più unitaria della psicoterapia e della formazione in campo psicoterapeutico. Penso, sogno un’unità degli psicoterapeuti intorno a una visione della psicoterapia e della formazione in campo psicoterapeutico che sia più compatta e più inclusiva di quello che abbiamo fatto in questi anni. Il pensiero sistemico-relazionale sincronico e il pensiero sistemico-relazionale diacronico, legato alle vicende che si stratificano dentro la persona, interpretativo, proprio della riflessione psicoanalitica, possono essere conciliabili. Anche alcune cose che fanno i cognitivo-comportamentali le abbiamo sempre fatte: utilizziamo la prescrizione, ma la introduciamo come uno stimolo da cui ci aspettiamo una risposta sulla quale poi riflettiamo. Se la prescrizione viene eseguita tanto meglio, ma ci interessa di più vedere come risponde il sistema a cui la applichiamo. È una visione più complessa. Che ci sia una psicoterapia tutta basata sulla prescrizione di comportamenti sembra molto ingenuo. In una visione della psicoterapia come pratica scientifica, unitaria, anche le prescrizioni di comportamento hanno un senso. Quello che considero sbagliato è indicare come metodo quello che invece è solo uno strumento.

Per me il futuro è culturalmente l’unità della psicoterapia che è quello a cui abbiamo sempre aspirato. Dal punto di vista pratico e organizzativo il futuro del Centro Studi è quello di portare avanti la nostra missione ovvero formare persone e diffondere idee. Abbiamo scritto tanti libri, anche importanti, che hanno avuto risonanze in altri luoghi e in tante scuole. Scrivere, attraverso la rivista e attraverso i libri, è un’altra missione che ci siamo dati. Questa missione culturale può e deve continuare.

Il sogno di Luigi Cancrini per la psicoterapia

Il sogno è quello che si trova nell’epilogo di “L’oceano borderline” [18] quando Freud compare all’ex studente in una notte insonne. Freud è arrivato fino ad un certo punto, altri hanno continuato a lavorare sulle sue tracce. Quello che manca è lo spirito di Freud che rimetta insieme le esperienze che sono state fatte. C’è necessità di una persona che sappia teorizzare “mettendo insieme” e vedendo tutto il cammino che è stato fatto, le zone di incertezza, i punti da approfondire. Alla fine del libro, dopo aver chiesto al giovane esperto notizie su quello che sta succedendo nel campo della ricerca, Freud dice che ci sono ancora delle cose da approfondire. Abbiamo bisogno di un personaggio che faccia sintesi, una sintesi riconosciuta. Bisognerebbe ritornare sul concetto di schizofrenia, di psicosi. Bisognerebbe ridiscutere i disturbi dell’umore, l’organizzazione nevrotica utilizzando tutto quello che abbiamo visto sinora. Questa possibilità di utilizzare le coordinate del relazionale sincronico e diacronico è lo strumento che dovrebbe essere accettato per fare questa sintesi, ma va utilizzato a diversi livelli. Le coordinate sono il metodo che dovremmo usare. Sento un forte bisogno di ridiscutere la psicopatologia, avere il coraggio di ripartire dai testi migliori della psicopatologia classica, in Italia dal testo per esempio di Bini e Bazzi [19], per ridiscutere anche le descrizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM): accettando l’idea per cui chi si vuole occupare di psicopatologia deve abituarsi ad integrare, per fare diagnosi e proporre terapie, i dati collegati ai diversi Assi (sul piano sincronico) con la ricostruzione delle vicende personali e famigliari (il piano diacronico della storia e del decorso). Quella cui si potrebbe e dovrebbe arrivare, in questo modo, è una collocazione di ordine più generale che distingue i problemi di area nevrotica da quelli di area borderline o psicotica e subito dopo una collocazione più specifica dal punto di vista, in particolare, del ciclo di vita: immaginando a questo punto obiettivi e strumenti di intervento perché, questa almeno è la mia esperienza, la scelta del format terapeutico, l’uso eventuale dei farmaci e delle misure più contenitive o riabilitative può essere deciso solo nel momento in cui si ha un’idea del problema con cui ci si confronta.

Il secondo sogno, più ambizioso, prende le mosse da una riflessione di Massimo Marà psichiatra e psicoanalista scomparso di recente [20] sulla possibilità di verificare, con un grande progetto di prevenzione, la validità dell’ipotesi psicoterapeutica sulla origine dei disturbi psichiatrici. Sulla corrispondenza, cioè, fra le vicende vissute dal piccolo bambino nella fase in cui egli si confronta con i suoi fondamentali compiti evolutivi e i disturbi dell’adulto.

Se, come riassunto efficacemente da Kernberg e poi da me, il disturbo di livello psicotico può essere ricondotto a situazioni traumatiche vissute nella o dalla “coppia simbiotica madre-figlio” nella fase che Winnicott chiama della “madre-mare”; se è possibile ipotizzare che un trauma vissuto da madre e/o bambino nella fase dello “svezzamento“ (nella fase cioè, della “madre-spiaggia”) possa determinare quel tipo di disturbo di personalità, particolarmente grave, caratterizzato da frequenti scivolamenti psicotici dei pazienti “impossibili”, raggiungibili dal terapeuta solo per brevi tratti; se è possibile ipotizzare che le origini dei disturbi più francamente borderline vadano collegate a difficoltà relazionali della madre e del bambino in quelli che Margareth Mahler chiamava “i secondi fatali 18 mesi di vita”; se tutte queste cose hanno un senso (e noi siamo convinti che lo abbiano) un programma di protezione non solo sociale ma anche psicologico della genitorialità difficile che inizia durante la gestazione e va avanti nei primi anni di vita potrebbe (o forse dovrebbe) permettere, se portato avanti in modo sistematico su una popolazione sufficientemente ampia, una riduzione significativa delle patologie psichiatriche gravi che si verificano, in quella popolazione, nei 15-20 anni successivi.

Il terzo e ultimo sogno è quello per cui, stimolati da questo tipo di riflessione, i servizi che si occupano di salute mentale, i media e l’opinione pubblica, arrivino a riconoscere la priorità assoluta, nei loro programmi e nei loro pensieri, del bambino che soffre. Sapendo che il bambino che soffre può guarire solo se ci si occupa di lui per tempo. L’epigenetica ci insegna oggi che le situazioni traumatiche possono determinare alterazioni che variano l’espressione del codice genetico. Queste alterazioni sono reversibili, tuttavia, se il bambino viene ascoltato e curato.

Quello che deve essere riattivato con la terapia (anche questo è sogno, forse, sognato nel contatto con i più sfortunati di questi bambini) è un qualcosa di dolcemente, naturalmente positivo che anche loro hanno comunque vissuto all’interno del rapporto meraviglioso che la natura gli ha permesso di vivere soprattutto con la madre che lo ha messo al mondo. Anche se le vicende della vita hanno impedito a quella madre o a quel padre di portare avanti il loro percorso di genitori. Sta in questa capacità di mantenersi modesti nel ruolo che si svolge (non siamo noi quelli buoni che intervengono quando i genitori “cattivi” hanno sbagliato) la possibilità di aiutare, con misura e con la necessaria serenità, i bambini infelici e i loro infelici genitori: nei casi in cui è sufficiente vederli insieme e ripristinare la loro capacità di interagire costruttivamente con un percorso di terapia famigliare e nei casi in cui la situazione si è troppo deteriorata non avendo paura di intervenire in modo correttivo o sostitutivo.

Concluderei sui sogni dicendo che di una cultura psicoterapeutica abbiamo un particolare bisogno oggi; riportandoci a considerare, nel tempo in cui le disuguaglianze fra ricchi e poveri si fanno di nuovo gravi e potenzialmente insostenibili l’importanza della persona, del singolo essere umano. Perché nessuno può essere davvero equilibrato e felice finché intorno a lui si moltiplicano gli squilibri e le infelicità e perché saperlo (sentirlo) sarebbe davvero importante per migliorare la qualità della vita di tutti.

* L’articolo riproduce, adattato alle norme editoriali di Ecologia della mente, il capitolo 3 del volume Bruni F, Cancrini L, Di Caro S, Pelli M. Individui, coppie e famiglie. L’unità relazionale della psicoterapia, pubblicato da Alpes Italia nel 2021. Si ringrazia l’Editore per il permesso accordato.

1 Un’ampia documentazione della ricerca in: Cancrini L. (a cura di), “Esperienza di una ricerca sulle tossicomanie giovanili” [2], un libro cui Pierpaolo Pasolini dedicò uno dei suoi “Scritti Corsari” [3], pubblicato, con una risposta di Luigi Cancrini, nella seconda edizione (Oscar Mondadori, 1977). Alla ricerca hanno partecipato: Grazia Cancrini, Maurizio Coletti, Giuseppe Costi, Andrea Dotti, Silvana Ferraguti, Gianni Fioravanti, Grazia Fischer, Marisa Malagoli Togliatti, Remo Marcone, Silvana Popazzi, Maura Ricci, Pierluigi Scapicchio. Inoltre hanno collaborato: Maurizio Andolfi, Patrizia Angrisani, Emma Baumgartner, Vincenza Casamassima, Nicola Ciani, Grazia Cogliati, Nicola Dellisanti, Carla De Toffoli, Rosalba Galata, Daniela Marcuccilli, Assunta Mariottini, Annalisa Marzot.

2 Libri assai popolari allora, come: “L’Istituzione negata” di Basaglia [6], “Classi Sociali e Malattie Mentali” di Hollingshead e Redlich [9], “La maggioranza deviante” di Basaglia e Ongaro [10], “Asylums” di Goffman [11], erano dedicati proprio allo studio delle determinanti sociali che costruivano le carriere psichiatriche.

3 Riportiamo la prima parte del documento programmatico del 1972, pubblicato in EDM [13]. L’articolo di Ciucci e Pelli contiene il “Documento” che descrive il contesto culturale, politico e sociale nel quale è nato il Centro Studi e le interviste ai fondatori e ai personaggi che hanno partecipato alla grande avventura della diffusione della terapia familiare. Vi troviamo le testimonianze di: Luigi Cancrini, Luigi Onnis, Maurizio Andolfi, Grazia Cancrini, Giovanna Todini, Giulia Cespa, Gaspare Vella, Maurizio Coletti.

4 Per dare un’idea di quale fosse l’ordinamento giuridico che regolava l’istituzione manicomiale ricordiamo che l’assistenza psichiatrica faceva riferimento alla legge 36 del 1904 per la quale il paziente psichiatrico era una persona malata che aveva bisogno di cure, ma era anche una persona pericolosa che aveva bisogno di custodia. Il ricovero in ambiente psichiatrico (il manicomio) era solo obbligatorio ed era sempre realizzato dalla forza pubblica. C’era obbligo di iscrizione nel casellario giudiziario e il direttore del manicomio aveva la responsabilità civile e penale del paziente anche se dimesso e/o guarito. Fu solo nel 1968, con la legge Mariotti, che diventa possibile il ricovero volontario, vengono istituiti i Centri di Igiene Mentale sul territorio, viene abrogato l’obbligo di registrazione nel casellario giudiziario, i medici psichiatri ricevono lo stesso trattamento dei colleghi di altre specialità. Nei successivi 10 anni gli ospedali psichiatrici e i servizi territoriali continuavano pero ad essere gestiti dalle Provincie, non erano parte dell’organizzazione sanitaria che faceva capo al Ministero della Sanita. Dobbiamo aspettare la legge 833 di riforma del SSN (che istituisce le Unità Socio-Sanitarie Locali) all’interno della quale viene inserita la legge 180 (legge Basaglia) del 13 maggio 1978 che prevede la chiusura degli OP, e il passaggio dell’ assistenza psichiatrica ai servizi territoriali con la definitiva legittimazione delle cure psichiatriche all’interno del SSN: i pazienti psichiatrici vengono considerati cittadini che hanno diritto alle cure necessarie, riacquistano i diritti civili, le cure devono essere accettate dal paziente tranne nei casi in cui la gravita del disturbo non pregiudichi la capacita del paziente di accettarle: per queste situazioni viene istituito il TSO. Per approfondimenti vedi Bruni, Defilippi [15].

5 Dal documento programmatico, in EDM a cura di Ciucci, Pelli [13, pp. 70-72].

6 Una mia proposta di legge in questa direzione fu affrontata in Commissione Affari Sociali della Camera nel 2008; su contesto simile si e mosso oggi (2021) l’onorevole Bellacci, che e stata allieva del nostro Centro Studi.

7 Fra cui, fondamentale, quello della London School of Economics [16], tradotto in italiano su Ecologia della mente [17].

BIBLIOGRAFIA

1. Piro S. Le tecniche della liberazione. Una dialettica del disagio umano. Milano: Feltrinelli, 1971.

2. Cancrini L (a cura di). Esperienze di una ricerca sulle tossicomanie giovanili. Milano: Mondadori, 1973; II ed. Oscar Mondadori, 1977.

3. Pasolini PP. Scritti corsari. Milano: Mondadori, 1999 (I Meridiani).

4. Ackerman N [1958]. Psicodinamica della vita familiare. Diagnosi e trattamento delle relazioni familiari. II ed. Torino: Bollati Boringhieri, 1999.

5. Boszormenyi-Nagy I, Framo JL [1965]. Psicoterapia intensiva della famiglia: aspetti teorici e pratici. Torino: Boringhieri, 1969.

6. Basaglia F. L’Istituzione negata. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968.

7. Meyer A. Collected papers: neurology, psychiatry, medical teaching, mental hygiene. 4 voll. Baltimora: Johns Hopkins Press, 1950-52.

8. Sullivan HS (1953). Teoria interpersonale della psichiatria. Milano: Feltrinelli, 1962.

9. Hollingshead AB, Redlich FC. Classi Sociali e Malattie Mentali. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1965.

10. Basaglia F, Basaglia Ongaro F. La maggioranza deviante. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1971.

11. Goffman E. Asylums. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968.

12. Minuchin S, Montalvo B, Guerney BG, Rosman BL, Schumer F. Families of the Slums. New York: Basic Books, 1967.

13. Ciucci M, Pelli M. I primi venti anni del Centro Studi. Ecologia della mente 1992; 13: 65-95.

14. von Bertalanffy L. La teoria generale dei sistemi. Milano: ILI, 1968.

15. Bruni F, Defilippi PG. La tela di Penelope. Origini e sviluppi della terapia familiare. Torino: Bollati Boringhieri, 2007.

16. Knapp M, Iemmi V. The economic case for better mental health. In: Davies S (ed). Annual Report of the Chief Medical Officer 2013, Public Mental Health Priorities: Investing in the Evidence. London, UK: Department of Health, 2014.

17. Cancrini L. Psicoterapia: un diritto di tutti. Ecologia della Mente 2017; 40: 141-3.

18. Cancrini L. L’oceano borderline. Racconti di viaggio. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006.

19. Bini L, Bazzi T. Trattato di Psichiatria. 2 voll. Milano: Antonio Vallardi Editore, 1967.

20. Marà M. La meta e l’origine. Roma: Alpes Italia, 2017.