Il piccolo tiranno furioso

Silvia Pittera*


*Centro Terapia Relazionale, Catania; tesi di specializzazione in Psicoterapia sistemico-relazionale. Supervisore: Rose Galante.


«Ogni trasmissione,

da chiunque sia realizzata, immette nella civiltà;

la famiglia, comunque sia composta,

ha il compito di riconoscere un figlio in quanto soggetto nel mondo»

Laura Pigozzi [1]

PREMESSA

Quella che leggerete è la storia di Federico, sette anni, e di come odiasse la scuola e i compiti. Ma è anche la storia della sua rabbia e, nondimeno, è la storia di Carla, la sorella invisibile, di Laura, la mamma “grande grande” e di Giovanni, un papà che vive ai margini e si ciba di ritagli di tempo.

Tecnicamente è la storia di una famiglia con un padre periferico, troppo preso dal suo lavoro per accorgersi dei bisogni dei suoi cari, e di una madre iperaccudente, soprattutto nei confronti del figlio piccolo, che ha grandi difficoltà a staccarsi da lui. E così Federico, che in nessun modo vuole ferirla, finisce per ferire tutti gli altri con la sua rabbia cieca: compagni di scuola, maestre e amici e, certo, non risparmierà neppure me nel corso dei nostri incontri. E poi c’è la sorellina dodicenne che si ritaglia l’unico ruolo disponibile: la bambina perfetta. “Carla non ci ha mai dato preoccupazioni” – riferiscono descrivendomela i suoi genitori – tanto che quasi se ne dimenticano, gli farò notare più avanti. Mi diranno concordi che è “saggia”, un termine che le nega già il suo diritto di preadolescente a farsi sentire puntando i piedi e stringendo i pugni, ribellandosi e protestando per poter infine crescere.

Quella che vi sto per raccontare è la storia di una famiglia come tante e quindi meravigliosamente unica. Dove i membri che la compongono si vogliono bene e sono capaci di dimostrarlo, prendendo sul serio il cammino che faranno con me e gli esiti che ne verranno.

E infine questa è la storia di una famiglia che con un po’ di aiuto assolverà a uno dei suoi compiti principali: immettere i figli nella civiltà e riconoscerli come soggetti del mondo. E mentre con garbo, determinazione e una giusta dose di autocritica faranno questo con i loro figli, immetteranno anche me nel mondo della psicoterapia e mi riconosceranno come loro terapeuta, facendomi il dono di uno status che ho perseguito con amore per tutti gli anni della mia formazione.

INTRODUZIONE

«Il mondo esiste solo grazie al respiro dei bambini nelle scuole»

Massima ebraica [2]




“Federico ha problemi a scuola”. Questo è ciò che la mamma mi riferisce durante il nostro primo incontro. Penso tra me e me: “Chissà se non è la scuola ad avere problemi con Federico…”1.

Negli anni di tirocinio mi è capitato molte volte di vedere ragazzini trattati a scuola come pigri e svogliati, uscire dal Servizio di Psicologia dell’Asp con una diagnosi di dislessia o disortografia. Mi colpiva sempre il paradosso per cui se ne andavano via rincuorati di aver ricevuto una diagnosi: un foglio di carta che avrebbe fatto giustizia, l’unico modo per ottenere l’aiuto di cui necessitavano e avevano diritto, felici di poter finalmente riporre le orecchie d’asino immaginarie che gravavano da molti anni sulle loro teste, che insegnanti e genitori poco attenti gli avevano messo su, senza farsi troppe domande. “Finalmente non potranno più dire che non mi impegno abbastanza”, mi aveva detto uno di loro, un simpatico quattordicenne durante l’incontro di restituzione, sventolando la sua diagnosi come un vessillo.

Tutte queste cose mi passano per la testa mentre parlo con Laura, la mamma di Federico, ma mi guardo bene dal condividerle. È invece lei a incalzare con una critica serrata alla scuola: “Le maestre mi hanno detto che devo portare il bambino in Neuropsichiatria Infantile. Io questo non lo farò mai, mio figlio non è mica pazzo, sono loro che non hanno capito che lui è un piccolo genio, davvero dottoressa, è un bambino intelligentissimo, speciale, che si annoia con quelle cose banali che gli fanno fare! Con noi, a casa, quando non deve studiare, è tranquillo, non si comporta male… E poi lo riempiono di compiti, compiti tutti i giorni, compiti il fine settimana, compiti per le vacanze, compiti sempre! Fosse per me non glielo porterei più!”.

Il discorso di Laura non mi stupisce, è in linea con una sempre più spiccata tendenza a criticare la scuola, a sentirla come competitiva, come uno sgradito limite al familiare, come qualcosa di separato. I genitori sempre di meno amano relazionarsi con un contesto che non è copia fedele dei loro valori, mal accettano che i loro piccoli bambini vengano rimproverati da altri adulti, dimenticandosi che la scuola è la seconda agenzia di socializzazione per i figli, una prima e grande finestra dalla quale affacciarsi al mondo e dove muovere i primi importantissimi passi verso l’indipendenza e la differenziazione del sé. La scuola, dal canto suo, fa poco o nulla per adattarsi al contesto sociale che cambia, agli esiti delle scoperte neurofisiologiche che suggeriscono metodi d’apprendimento diversi, ben lontani dalla lezione frontale e verticale che in Italia pare inoppugnabile. Nonostante questo, rimango colpita dalla spinta separatista del discorso di Laura: quell’uso che fa del “noi” versus un “loro” di cui non si sente parte.

“Loro”: gli insegnanti, la classe, la scuola.

“Noi”: la famiglia di Federico, costretta ad affrontare l’ira del bambino che non vuole fare quei compiti, che non vuole sottostare a quelle regole.

“Noi e loro”: dove quello che conta è il distacco da un lavoro che dovrebbe essere comune.

E così scuola e famiglia si arroccano su posizioni individualiste, non provano a venirsi incontro, si lanciano le colpe del malfunzionamento degli allievi, in una logica lineale che non fa bene alla scuola né alle famiglie né, quindi, a nessuno dei nostri bambini.

Però, tenendo ancora una volta per me i miei pensieri, ascolto Laura che mi parla del figlio:

Federico ha sette anni, è un piccolo genio, è sensibile e fragile, odia la scuola, ha degli scoppi d’ira funesta quando deve fare i compiti, soprattutto ha difficoltà a leggere, a scrivere e a imparare l’inglese, mentre con la matematica va meglio. Le maestre però dicono che è brillante. A scuola non va d’accordo con nessuno, litiga spesso con i compagni e, sebbene abbia qualche amico, a dire della mamma spesso li tratta male e, talvolta, ha messo loro le mani addosso. E poi è mammone, non si stacca mai da lei. Quando è costretto a farlo protesta e strepita. Da un anno e mezzo ha cominciato a pretendere che i cibi nel piatto non venissero mischiati, e prima di andare a dormire si accerta che le sue cose (i giochi, ma anche i vestiti che tiene sulla sedia per il giorno dopo) siano in perfetto ordine. Ama giocare ai lego ma non si scosta mai da ciò che le istruzioni dicono di costruire. Ha un padre che lavora troppo e una sorella bravissima a scuola e molto buona, che non ha mai dato preoccupazioni a nessuno e che lo adora. Fa karate, uno sport che gli piace e dove “stranamente” è rispettoso delle regole.


Questo è Federico, nei discorsi della madre. Nel suo racconto ci sono le parole che hanno marcato la sua origine e che oggi lo rendono il bambino che è: «la famiglia è il luogo dove la parola costruisce gli esseri umani, nel bene e nel male. I genitori vi esercitano la capacità di trasferire, tramandare, offrire: quel che ci fa madri e padri non è il sangue, ma la parola» [1].

Quindi le parole di mamma Laura introducono a Federico, alla storia della sua famiglia e a questa terapia. Dal suo primo importante discorso possiamo già farci un’idea del fatto che nel corso di questo lavoro ci dovremmo confrontare con il ciclo di vita di questa famiglia, con la difficoltà a trasformarla da quella che Rosnati chiama una “famiglia matrifocale” a una famiglia dove i ruoli di madre e padre finalmente si bilanciano, diventando un fattore protettivo per lo sviluppo dei figli. Presumibilmente dovremmo occuparci di un possibile DSA e dovremmo verificare la perifericità del padre e l’invischiamento della madre. Forse dovremmo perfino scongiurare uno sviluppo istrionico della personalità di Federico. Ciò che faremo sicuramente è sporcarci le mani trattando la rabbia nera del bambino, prima possibile, perché la sua sofferenza diventi almeno tollerabile.

Di questo e molto altro dovremmo occuparci nel corso di questo lavoro che vi accingete a leggere. E siccome, come ci ha insegnato Lao Tse, anche «un viaggio lungo mille chilometri inizia con un piccolo passo», sarà bene che vi racconti meglio il primo incontro con Laura, il primo di 14 incontri con lei e la sua famiglia, avvenuti tra dicembre 2016 e aprile 2017, durante il mio percorso di formazione in psicoterapia sistemico-relazionale presso il CTR di Catania.

PRESENTAZIONE DEL CASO

Il primo incontro

Laura arriva con qualche minuto di ritardo. È una donna bella, sulla quarantina, curata e sorridente. La faccio accomodare nel mio studio, al quinto piano di un palazzo del centro storico di Acireale con una bella vista panoramica sul tipico barocco. Fa un apprezzamento sul panorama e sulla luce calda del pomeriggio che illumina i tetti e le cupole di un bel colore arancione. Sprofonda sulla poltroncina, tra me e lei c’è un piccolo scrittoio che uso solo nelle prime sedute, quando ho da prendere più appunti.

Fa un sospiro liberatorio: “Oh, finalmente mi siedo un po’!”. Sorrido e le dico che sono contenta se può sfruttare l’occasione di parlare con me per rilassarsi. Dopo qualche convenevole sulla posizione dello studio e sulla eventualità di non trovare posteggio nelle ore più centrali del giorno, sospira di nuovo. Questa volta però è un sospiro preoccupato. Mi dice che è venuta da me perché il figlio minore, Federico, di sette anni, ha problemi a scuola. È stata la sua amica Francesca, mia conoscente, a farle il mio nome, sulla scia della richiesta delle maestre del bambino che avevano consigliato di portarlo in Neuropsichiatria Infantile, visti i comportamenti inadeguati che era solito manifestare in classe. La interrompo con gentilezza e le spiego che affronteremo il motivo che l’ha condotta da me tra qualche minuto, dopo che mi avrà un po’ parlato di lei e della sua famiglia.

Accoglie di buon grado la mia richiesta. Mi racconta che ha 44 anni e fa l’impiegata comunale, è sposata da dieci anni con Giovanni, 43 anni, un “musicista prestato per lavoro alla TIM”, come ama definirlo lei, a sottolineare la sua passione per la musica. Una passione condivisa: lei aveva studiato molti anni al conservatorio, senza però finire il percorso di studio per esigenze di lavoro. I due amano però generi molto diversi. Lui suona il basso in una rock band, con i suoi amici, nostalgici degli anni Ottanta. Lei, amante dell’opera, cantava la lirica anche se ormai lo fa solo tra le mura domestiche, dove il suo più grande sostenitore è il figlio Federico.

Oltre al bambino c’è un’altra figlia: la dodicenne Carla, una ragazzina dal temperamento mite, molto brava a scuola, avuta da una relazione precedente a Giovanni. Il padre di Carla, Dario, con cui si dice in buoni rapporti, non è mai stato il suo fidanzato. Hanno avuto una relazione brevissima che “è finita ancor prima di cominciare”, perché da subito si sono accorti di non amarsi e di non essere fatti l’uno per l’altra. Tuttavia, quando hanno scoperto che di lì a breve sarebbero diventati genitori, sono stati felici e hanno accolto Carla con immensa gioia. Due anni dopo Laura ha sposato Giovanni e, trascorsi tre anni dal matrimonio, è nato Federico, un bambino fortemente desiderato da entrambi. Giovanni ha sempre considerato Carla come una figlia e la ragazzina lo ha sempre chiamato papà, nonostante abbia con Dario rapporti regolari (trascorre con lui due domeniche al mese). Mi racconta di un matrimonio felice, che tuttora procede bene, “certo con qualche lite come succede in tutte le coppie”, ma sempre per cose, a suo dire, banali.

Laura fa un racconto fluente, quasi non ho necessità di interromperla per raccogliere più informazioni. Faccio qualche domanda sulle rispettive famiglie di origine. Il suo papà, ex impiegato delle Ferrovie dello Stato, è morto per un tumore un anno prima che Carla fosse concepita. La sua mamma è invece vivente, ha sempre fatto la casalinga e con lei ha un buon rapporto. Ha un fratello maggiore che da molti anni vive a Torino, con il quale ha una relazione positiva ma non quotidiana, un po’ per via della lontananza, un po’ perché lui ha sei anni più di lei e quando, per lavoro, andò via di casa poco più che diciottenne, lei era ancora una bambina. Il fratello è sposato e ha una figlia coetanea di Carla e non mancano mai di vedersi per passare le festività insieme, “come da tradizione”, mi dice.

I genitori di Giovanni, casalinga lei, ex commerciante in pensione lui, sono descritti come una grande risorsa per la loro famiglia. Laura mi spiega che, seppure lei abbia sempre potuto contare sull’aiuto di sua madre, preferisce lasciare i bambini ai suoceri, i quali sono sempre stati molto amorevoli, anche nei confronti di Carla, che considerano a tutti gli effetti loro nipote. I bambini, del resto, preferiscono stare con i nonni paterni, per via di un’atmosfera generale più gioiosa che si respira in quella casa, dove c’è ancora una coppia coniugale e le due sorelle di Giovanni spesso sono solite lasciare i loro figli, col risultato che si creano degli incontri tra cuginetti vissuti come momenti piacevoli di festa.

A questo punto chiedo a Laura come le rispettive famiglie d’origine avessero accolto l’idea del loro matrimonio e come si erano sviluppati fino ad allora i rapporti familiari. Laura mi riferisce che entrambi si erano sentiti accolti e ben voluti dai rispettivi genitori. Soprattutto sua madre era molto contenta che lei avesse trovato un bravo ragazzo come Giovanni, capace di amare lei e la sua bambina come fosse sua figlia.

Conclusa la prima fase sociale di raccolta delle informazioni, che ritengo per adesso sufficienti, chiedo alla signora di parlarmi del motivo per cui ha richiesto il mio aiuto.

L: “Federico ha un problema con la scuola. È stata Francesca a consigliarmi di venire da lei”.

T: “Dice che Federico ha un problema con la scuola, di cosa si tratta esattamente?”.

L: “Guardi, sono arrabbiatissima: come le dicevo le maestre mi hanno detto che devo portare il bambino in Neuropsichiatria Infantile. Io questo non lo farò mai, mio figlio non è mica pazzo, sono loro che non hanno capito che lui è un piccolo genio, davvero dottoressa, è un bambino intelligentissimo, speciale, che si annoia con quelle cose banali che gli fanno fare! Con noi, a casa, quando non deve studiare, è tranquillo, non si comporta male… E poi lo riempiono di compiti, compiti tutti i giorni, compiti il fine settimana, compiti per le vacanze, compiti sempre! Fosse per me non glielo porterei più!”.

T: “Mi faccia capire meglio, Federico è un bambino intelligente che si annoia a scuola e si lamenta per i troppi compiti. Oppure si lamenta lei dei troppi compiti?”.

L: “Ci lamentiamo entrambi! Ma il problema principale è che lui a scuola si comporta male. Ci sono giorni che proprio non vuole fare niente, non vuole studiare. Allora si arrabbia con tutti, risponde male alle maestre e ai compagni. A qualcuno ha anche messo le mani addosso. E non le dico a casa, fare i compiti è diventata una penitenza! Non vuole saperne, soprattutto se si tratta di leggere e scrivere. Va meglio con la matematica…”.

T: “Da quanto tempo si comporta così?”.

L: “Da quando ha iniziato ad andare a scuola, ma adesso che è in seconda elementare la situazione è degenerata. Siamo arrivati al punto che ci metto anche delle ore per convincerlo a studiare. Ogni pomeriggio sempre la solita storia. Non vuole sedersi. Poi si siede e si alza ogni cinque minuti. Se insisto troppo o mi innervosisco si mette a urlare e lancia quaderni e penne. Piange, urla. Dice che non vuole andare a scuola, che la odia. E non le dico cosa mi devo inventare la mattina per portarcelo! Fa un’infinità di capricci: per alzarsi dal letto, per lavarsi, per vestirsi. Dice ogni giorno che sta male e che non glielo devo portare. Non riesco più nemmeno a capire quando è vero e quando no. Neanche un mese fa mi ha detto che si sentiva male, come fa sempre. Io ho controllato la febbre e non ne aveva. Gliel’ho portato di forza, poi le maestre mi hanno chiamato e mi hanno detto che Federico stava male, aveva vomitato e aveva la febbre alta. Ma io come faccio a sapere se sta male davvero se me lo dice ogni mattina?”.

T: “Immagino che la situazione sia davvero sfiancante. Ma ho notato che parla sempre in prima persona. È sempre lei a fronteggiare le crisi di Federico o c’è qualcuno che l’aiuta?”.

L: “E questo è l’altro problema! Mio marito non c’è mai durante il giorno. Lui esce di casa alle sette del mattino, a volte anche prima, e torna alle nove di sera. Si occupa dei controlli di qualità delle filiali TIM di tutta la Sicilia, per cui se deve essere, che so, a Palermo alle 9 del mattino esce di casa alle 6,00. Quindi sono io che mi occupo di tutto: scuola, pallavolo per Carla, karate per Federico, cucina, lava, stira. E lavoro… mezza giornata… ma lavoro anche io”.

T: “E anche qui viene da sola…”.

L: “Esatto. Anche qui. Però lui ne è al corrente ed era d’accordo, perché anche lui è preoccupato”.

T: “Per chi è preoccupato? Per lei che deve fare tutto da sola o per Federico che si comporta male?”.

L: “Per tutti e due… Però forse più per me perché per lui Federico sostanzialmente è un bambino viziato che fa i capricci”.

T: “E per lei?”.

L: “Per me è un bambino sensibile e fragile. È molto intelligente, forse troppo. Una maestra mi ha detto che è un piccolo genio. Dovesse sentire come parla, quante parole conosce!”.

T: “Mi spieghi meglio cosa intende quando dice che è sensibile e fragile…”.

L: “Beh, per esempio una volta mentre mi stavo asciugando i capelli me lo sono ritrovato nel bagno che piangeva. Gli ho chiesto il perché di quei lacrimoni e mi ha risposto che la mia voce lo aveva fatto commuovere. Gliel’ho detto prima che spesso quando sono a casa intono qualche aria di musica lirica e lui quando mi sente cantare dice che ho una voce d’angelo! Me lo dice spesso che sono un angelo… Certe volte mi si avvicina e mi dice che sono bellissima…”.


A Laura brillano gli occhi mentre mi racconta questo episodio. È consapevole che c’è un surplus di emotività mista ad adorazione in Federico e che questo non va bene, ma non riesce a mascherare la gioia di sentirsi così venerata dal figlio.

T: “Ci sono altre cose che le fanno pensare a Federico come a un bambino sensibile?”.

L: “Sì. Fino a qualche mese fa teneva un taccuino. Lì scriveva delle poesie e le sue impressioni di viaggio. Siamo soliti andare in campeggio in estate e per lui è un momento bellissimo e molto atteso. Solo che durante una delle sue crisi in cui non voleva fare i compiti si è accanito contro il taccuino e l’ha ridotto in mille pezzi. Io tante volte lo avevo letto. Ultimamente aveva scritto una cosa che mi aveva fatto preoccupare tantissimo e cioè che era una persona cattiva e si odiava”.

T: “Ne ha parlato con lui? Gli ha chiesto perché pensava una cosa così brutta di sé?”.

L: “No, ne ho parlato solo con mio marito e abbiamo pensato che fosse perché lui sa bene che mi fa disperare con questa storia che non vuole andare a scuola e non vuole fare i compiti”.

T: “Prima mi ha detto che Federico è un piccolo genio, almeno così dice la sua maestra… Anche per lei lo è?”.

L: (con un po’ di imbarazzo) “Non lo so. Di sicuro è molto intelligente, glielo diciamo tutti. Poi… Beh, è mio figlio… (sorride). Parla molto bene, dice delle cose incredibili e poi costruisce con i lego delle costruzioni pazzesche, segue per filo e per segno le istruzioni, senza sgarrare mai. È bravissimo”.

T: “Mi aiuti a capire perché suo marito pensa invece che Federico sia un bambino viziato e capriccioso?”.

L: (sorride) “Perché mio marito sostiene che è troppo mammone. Le direbbe che Federico è il cocco di mamma”.

T: “E lo è?”.

L: “Beh, lui è il piccolo di casa, ma certo non voglio meno bene a Carla! È che Carla proprio non ha mai dato nessun problema. A scuola sempre brava. Mai capricci. Io so che posso contare su di lei. Mi aiuta anche con Federico quando fa il pazzo che non vuole studiare”.

T: “Tornando a Federico: crede che ci sia qualcuno a scuola che lo disturbi, intendo qualcuno che gli possa fare del bullismo?”.

L: “No, non credo. Anzi è lui che spesso tratta male i suoi compagnetti. Con qualcuno ha proprio esagerato, nel senso che, come le dicevo, gli ha messo le mani addosso”.

T: “Immagino che questo l’abbia molto fatta preoccupare… Crede che ci siano altre cose che dovrei sapere su Federico?”.

L: “Ce ne sarebbero tante…, sì, però… Ecco, fa una cosa strana col cibo: pretende che cibi diversi nello stesso piatto non vengano in contatto. Si arrabbia se succede e non vuole più mangiare. Fa proprio delle scenate! E poi ci tiene molto che i suoi giocattoli siano in ordine sulla scrivania o nella cesta e che siano in ordine i vestiti sulla sedia, quelli che non riposo nell’armadio perché non sono sporchi e magari glieli metto un’altra volta”.

T: “Da quanto tempo ha notato questa attenzione per il cibo e per l’ordine?”.

L: “Da un anno. Forse poco più… Non ne sono certissima.”.

T: “Nient’altro per adesso?”.

L: “No (riflette). Fa karate, le ho detto che fa karate?”.

T: “Sì… E come va? Gli piace? Si trova bene?”.

L: “Sì, sì. A quanto pare è molto bravo. Almeno così dice il maestro. Con lui si comporta benissimo, strano. Lì nessuno si lamenta del suo comportamento, anzi è sempre elogiato”.

T: “Bene, la ringrazio per avere condiviso con me tutte queste informazioni. È chiaro che c’è qualcosa che fa soffrire Federico e che la scuola è il posto dove preferisce manifestare questa sofferenza. Però ho bisogno di conoscerlo, di parlargli, per capirci qualcosa di più. Sarebbe buono che la prossima volta venisse con lui. Poi avrò senz’altro bisogno anche di Carla e di suo marito, perciò dovremmo organizzarci compatibilmente con le sue esigenze di lavoro”.


Laura mi conferma che la prossima settimana verrà con Federico e mi rassicura sul fatto che il marito troverà il modo di esserci, “dovesse pure prendersi un giorno di ferie!”.

Appunti di una prima ipotesi terapeutica

Laura esce dal mio studio. So che il quarto d’ora che segue è il momento migliore per collegare le informazioni che ho ascoltato alle emozioni che ho provato. Appunto sul mio quadernetto tre righe che corrispondono, di fatto, a una prima ipotesi terapeutica:

– verificare l’eventuale presenza di un DSA;

– verificare la perifericità del padre e, se appurata, lavorare sul riavvicinamento di padre e figlio;

– verificare l’ipercoinvolgimento della madre col figlio e, una volta confermata, ristabilire un confine più adeguato tra i due.

Chiarito nella mia testa e messo nero su bianco cosa devo fare, mi prendo qualche minuto per ascoltare le mie sensazioni.

Laura è una donna piacevole e vivace. Ha una bella apertura relazionale e racconta fluentemente i fatti. Si illumina ogni volta che parla di Federico, persino quando racconta gli episodi più preoccupanti, quelli per cui chiede il mio aiuto. Sembra quasi volermi dire col suo non verbale che sono gli altri a non capire che non solo il bambino non ha nessun problema, ma che, anzi, è un bambino speciale.

E gli altri sono tutti tranne lei: il marito, le maestre, i compagni di classe. Per Laura il figlio è solo un bambino sensibile e fragile, che va maneggiato con cura, altrimenti si rompe. O peggio: si arrabbia e tiranneggia il suo pomeriggio, impiegato interamente nel tentativo disperato di fare i compiti che gli hanno assegnato, un sacrificio che Laura può fare in cambio della devozione che ne ottiene. Appunto anche questa preziosa sensazione. Solo dopo aver incontrato Federico e il resto della sua famiglia capirò quanto corrispondesse al reale della loro vita. Mi chiedo se Federico non si comporti in maniera così oppositiva mostrando un tale elevato livello di sofferenza per permettere a questi due genitori di non affrontare problemi di altra natura: una crisi coniugale sommersa o un qualche trauma annidato chissà dove, che ancora influenza distruttivamente la vita di questa famiglia. E siccome mi dovrò ricordare di andare anche su questi territori più dolorosi scrivo un appunto anche su quest’ultima riflessione e rimando le prossime a quando avrò conosciuto il bambino.

UNA STRATEGIA PER IMMETTERSI NEL MONDO

I compiti in tre mosse

Mamma Laura e Federico arrivano in orario. Il bambino è rigido nella postura e pare davvero molto nervoso. È gracile nell’aspetto e sembra più piccolo dei suoi sette anni. Mi torna in mente l’aggettivo “fragile” con cui la madre aveva scelto di descrivermelo.

Per tutta la seduta, prima di rispondermi, guarderà la madre in cerca di approvazione, come se volesse essere autorizzato a parlarmi. Viene con la promessa di andar via con una strategia per fare meglio i compiti e più volte, in seduta, mi incalzerà per avere delle dritte su come risolvere i suoi problemi.

È poco disponibile alla relazione e più orientato alle soluzioni. Mi appare come un bambino ipercontrollato, con un rapporto simbiotico con la madre. Faccio fatica a stabilire un contatto con lui e, nonostante saranno molti i tentativi di farlo ridere, gli strapperò un sorriso solo alla fine della seduta e solo su approvazione della mamma.

Una nota doverosa va al linguaggio che usa: particolarmente forbito per un bambino della sua età, non sbaglierà mai un congiuntivo, mostrando una padronanza linguistica davvero notevole. Il suo vocabolario è di gran lunga più ampio di quello dei suoi coetanei. Ha una peculiare intonazione che rende ogni cosa che dice un po’ artefatta, come se a parlare non fosse lui, ma il personaggio di un film. Sembra recitare tutte le volte in cui prende la parola.

Ci sediamo uno di fronte all’altro e Laura lateralmente, in modo da poterci guardare tutti. Mi presento, chiedo a F. se sa chi sono e perché la mamma l’ha portato da me. Lui risponde che sa che la mamma lo ha portato da una sua amica “bravissima a risolvere il problema dei bambini con i compiti”. Sorrido, gli spiego che io e la mamma ci conosciamo, ma io non sono proprio una sua amica, però che sono una persona che si occupa di aiutare i bambini che hanno qualche difficoltà a fare i compiti.

F: “Allora forza, dimmi come devo fare”, incalza.

T: “Ma non ci conosciamo per niente! Perché prima non mi parli un po’ di te, per esempio perché non mi racconti cosa ti piace fare quando non stai studiando, oppure se fai uno sport, o anche solo semplicemente qual è il tuo colore preferito, così, giusto per conoscerci meglio!”.


Guarda la madre come se volesse essere autorizzato a raccontarsi.

Il tentativo di smorzare la tensione virando verso discorsi dal contenuto meno ansiogeno non sortisce alcun effetto: Federico è rigido sulla sedia, alterna le braccia conserte a una postura ancora più tesa con le braccia, che spingono dritte sulla seduta e le spalle alte. La testa affonda tra esse e quasi pare volermi dire che preferirebbe sparire piuttosto che raccontarmi di lui. Infatti non si racconta. E invece mi chiede:

F: “E il tuo colore preferito qual è?”.

T: “L’azzurro – faccio io poco convinta – ma sono sempre un po’ indecisa col giallo”.

F: “Mmm…” (silenzio).

T: “Hai degli animali?”.

F: “Avevo un coniglietto che si chiamava Nuvola, perché era tutto bianco”.

T. “Che bel nome! Ma hai detto che lo avevi, adesso non ce lo hai più?”.

F: “No, è morto”.

T: “Mi dispiace tanto per Nuvola…”.

F: “Ormai è passato tanto tempo…”.

M: “Sei mesi, sono passati sei mesi…”.

T: “Ho capito, però è sempre brutto quando un animale che amiamo se ne va…”.

F: “Si è stato brutto…”.

T: “Sai, anche io ho un animale domestico e ho temuto per la sua vita quando si è ammalata.”.

F: “Che animale hai?”.

T: “Una gatta!”.

F: “Ed è guarita adesso?”.

T: “Sì, però è rimasta cieca.”.

F: “Cieca?”.

F: “Sì, sì. Per colpa della malattia che ha avuto è diventata cieca; però, sai, i gatti anche se non ci vedono si comportano quasi come se ci vedessero, si orientano bene, saltano e giocano! Quasi non lo diresti che non ci vede!”.

F: “Ah, meno male! E come si chiama?”.

T: “Se te lo dico prometti di non ridere?” (divertita).

F: “Non so se te lo prometto! (stizzito).

T: “Ha un nome buffo…”.

F: “Daiiiii dimmi quale!” (divertito).

T: “Ha il nome di un altro animale…”.

F: “Hai un gatto che si chiama con il nome di un altro animale? (stupito e interessato) Tipo mucca?”.

T: “No! Sbagliato!”.

F: “Cane?”.

T “No!”.

F: “Allora Farfalla!”.

T: “No… Dai te lo dico. Non ridere… Si chiama Papàrel, da paperella!”.


A questo punto il bambino accenna a un sorriso, il primo. Guarda la mamma come se volesse l’approvazione per ridere. La mamma però è distratta dal cellulare e la risata muore ancor prima di prendere vita. Gli occhi però la tradiscono, nonostante il tentativo di non concedersela. Cala il silenzio.

F: “Sto aspettando!”.

T: “Cosa?”.

F: “Che mi dici come devo fare i compiti senza arrabbiarmi!”.


Diventa sempre più chiaro che Federico si aspetta da questo incontro delle risposte. In fondo la mamma l’ha portato da una che risolve il problema dei compiti. L’aggancio si gioca su questo piano. Mi è sempre più chiaro che se non gli do una risposta concreta penserà che è venuto solo a perder tempo.

T: “Quindi il problema è che ti arrabbi quando fai i compiti?”.

F. “No. il problema è che non riesco a concentrarmi!”.

T: “Ho capito, quindi vuoi che ti aiuti a concentrarti…”.

F: “Se ci riesci…” (con tono di sfida).

T: “Sicuro non ci riesco se non mi dici di che compiti si tratta, non so nemmeno che classe fai!”.

F: “La seconda”.

T: “E c’è, in questa tua classe, qualcuno che ti disturba?”.

F: “Sì, due compagnetti mi disturbano, mi insultano”.


Federico continua a guardare la mamma, quasi a cercare la conferma in lei di ciò che mi sta dicendo. Quando parla dei compagni che lo trattano male la madre fa uno sguardo di disapprovazione e tra di loro nasce un piccolo screzio:

M: “Sei esagerato, non ti trattano male!”.

F: “Si invece, mi insultano!”.

L: “Cosa ti dicono di così terribile? Scherzano come fanno con tutti!”.

F: (Molto arrabbiato, alzando il tono della voce) “Ho detto di no!” (e si irrigidisce ancora di più).


Tento di smorzare la tensione che si è creata.

T: “Ok, Federico, ho capito che ti senti disturbato da questi due compagni e che la mamma pensa che in realtà stiano solo giocando. A volte succede che persone diverse interpretano lo stesso comportamento in modo diametralmente opposto. Per esempio se adesso io mi metto a canticchiare cosa pensi tu? (canticchio).

F: (Accenna a un sorriso) “Che sei pazza!”.

T: (Rido e ride anche Laura). “E la mamma cosa pensa?”.

M: “Che è allegra!”.

T: “Ecco visto? Magari sono un po’ pazza e un po’ allegra e avete ragione tutti e due!”


Federico trattiene l’ennesimo sorriso.

T: “Ok, stavamo parlando della scuola, della classe che frequenti e dei tuoi compagni che ti disturbano e poi stavamo anche parlando del fatto che hai difficoltà a concentrarti. Ci sono altri problemi oltre a questi?”.

F: “Sì, la scuola non mi piace, i compiti non mi piacciono: li odio!”.

T: “Tutti i compiti o alcuni più di altri?”.

F: “L’italiano e l’inglese di più, la matematica è meglio”.

T: “E cosa ti fa pensare che il tuo sia un problema di concentrazione, come mi hai detto prima?”.

F: “Perché ho in mente delle cose…”.

T: “Quali cose?”.

F: “Pensieri”.

T: “Diversi pensieri?”.

F: “No, uno solo, sempre lo stesso…”.

T: “Quale?”.

F: “Il videogioco Real Steel! Anche se a volte faccio anche i videogiochi di strategia!”.

T: “Eh? mai sentito di questo Real Steel… Di che si tratta?”.

F: “Un videogioco dove dei robot combattono tipo pugilato” (lo spiega con aria di sufficienza come a sottolineare la gravità di non conoscere una cosa così scontata).


Capendo l’importanza che ha per lui, gli faccio qualche domanda sul videogame. Federico però taglia corto, palesemente innervosito:

F: “Se non lo conosci non lo puoi capire e basta!”.

T: “Forse hai ragione – ammetto – però almeno mi dici quando ci giochi?”.

F “Nel pomeriggio”.

T: “Nel pomeriggio quando? Prima o dopo i compiti?”.

F: “Prima e dopo!”.

T: “Ah! Capisco”. E dove fai i compiti?”.

F: “In cucina”.

T: “Con la mamma?”.

F: “Sì”.

T: “E papà?”.

F: “No papà lavora”.

F: “E quando torna da lavoro non capita mai che i compiti li fai con lui?”.

F: “No. Papà torna tardi da lavoro, papà lavora sempre…”.

T: “Ah mi dispiace che vi vediate poco…”.

F: “No, tanto i compiti li faccio con mamma”.


La madre fa un ghigno di disapprovazione e sbotta:

L: “La mamma passa tutto il pomeriggio seduta accanto a Federico che non vuole fare i compiti. A volte ci mette ore solo per scrivere due frasette, solo perché non gli va di scrivere. Dice che è noioso. Poi se insisto che deve finire i compiti si alza mille volte, quindi succede che ci sediamo dopo pranzo e all’ora di cena alcune volte nemmeno abbiamo finito! Diglielo Federico che per fare i compiti mi fai impazzire! A volte si arrabbia e si mette a gridare!”.


Invece Federico non dice niente. Le braccia non sono più conserte, sono serrate. L’espressione è profondamente contrariata. (Silenzio) Si guardano a lungo.

T: “Tutto questo deve essere molto stancante per entrambi. Almeno fate mai una piccola pausa? Non so, magari quando fate la merenda?”.

F. “Non mi piacciono le merende! A volte mangio solo una brioches confezionata” (stizzito).

L: “Veramente ti piace anche il pan brioches con la marmellata, infatti a volte te lo preparo” (stizzita, in simmetria).

(Silenzio)

T: (Con tono dolce) “Senti Federico, secondo te la mamma cosa farebbe se non dovesse passare tutto il pomeriggio con te a fare i compiti?”.

F: (Si prende qualche secondo per rispondere) “Boh. Non lo so. Penso che non starebbe con me, magari farebbe i lavori domestici”.

T: “Ho capito”.

(Silenzio).

F: “Allora se hai capito significa che sai come aiutarmi a fare i compiti?” (con tono di sfida).

T: “Ci posso provare, però ho bisogno di un pochino di collaborazione tua e anche della mamma. Voi siete disposti a collaborare?”.

F: “Sì”.

M: “Sì”.

T: “Ok, allora facciamo che adesso ti do una vera e propria strategia per fare i compiti rimanendo sempre concentrati. Tu hai detto che talvolta giochi con videogames di strategia, perciò sai cos’è una strategia, giusto?”.

F: “Sì”.

T: “Cos’è?”.

F: “Delle mosse da fare per superare il livello”.

T: “Ecco allora io ti darò delle mosse per superare i compiti! (sorrido). Però prima è necessario che ti spieghi come funziona il cervello. Sai cos’è il cervello?”.

F. “Sì l’abbiamo studiato in Scienze”.

T: “Bene, allora forse saprai che il cervello è responsabile di tutte le cose che facciamo e c’è nel cervello una piccola particina che si occupa della concentrazione. Se quella piccola particina non funziona bene la dobbiamo allenare in modo che poi ci dia dei risultati migliori”.

L: “Proprio come quando vai a karate, ti alleni e poi diventi più bravo”.

T: “Wow fai karate? È bellissimo, magari quando ci conosceremo meglio me ne potrai parlare se ti va, ne sarei felice…”.


Federico annuisce.

T: “E comunque la mamma ha ragione, il cervello bisogna allenarlo proprio come ogni altra parte del corpo se si vuole che funzioni meglio. Allora, ecco la strategia che ti voglio proporre, è fatta di tre mosse diverse:

• Mossa n°1: “Visto che il cervello deve mantenersi attivo ha bisogno di pause, altrimenti si stanca! Direi che potremmo iniziare con una pausa di dieci minuti ogni tre quarti d’ora. Tu conosci l’orologio?”.

F: “Un pochino, però la mamma mi può aiutare…”.

T: “Bene. La mamma potrebbe puntare la sveglia del cellulare e quando la sveglia suonerà tu farai dieci minuti di pausa”2.

• Mossa n°2: “Da ora in poi potrai giocare al videogioco solo dopo i compiti, magari per più tempo, ma solo dopo. Questo punto della strategia è molto importante perché ti aiuterà a non essere disturbato dalle immagini dei robot che combattono mentre stai studiando. Solo in questo modo la tua concentrazione potrà essere aiutata a non dover occuparsi di pensieri diversi da quelli che riguardano i compiti che devi fare, e le energie non andranno sprecate”.

• Mossa n°3: “Da questo momento in avanti farai i compiti da solo. La mamma non si siederà più accanto a te. Controllerà alla fine che tu li abbia fatti e mentre tu studierai lei, che sarà comunque in cucina con te, preparerà per te il pane con la marmellata, che è la tua merenda preferita. Ovviamente se proprio hai bisogno della mamma per fare i compiti potrai chiedere il suo aiuto, anche se preferirei che tu facessi i compiti da solo”.


Appunto le tre mosse in maniera sintetica su un foglietto e glielo consegno. Scrivo in stampatello così che possa leggere con facilità.

T. “Credi di poter mettere in atto questa strategia?”.

F: “Sì (poco convinto). Ma è infallibile?”.

T: “Questo dipende da te e dalla mamma. Però anche se non dovesse funzionare del tutto, credo che potrei aggiustarla e renderla perfetta. Prima però devi provare a metterla in atto per una settimana e poi dovrai dirmi in cosa ha funzionato e in cosa no. Lo puoi fare?”

F: “Sì” (convinto).

T: “Bene. Allora stringiamoci la mano. Affare fatto”.


Ci stringiamo la mano a suggellare il patto.

Sorride, finalmente (con l’approvazione di mamma).

Do appuntamento per la settimana successiva a tutta la famiglia. La signora mi darà conferma telefonicamente della presenza del papà.

Federico, la mamma e la rabbia

Quattro giorni dopo effettivamente squilla il telefono. È Laura. Penso che voglia darmi conferma dell’appuntamento. Invece ha un tono preoccupato, a tratti angosciato.

Mi racconta che Federico ha provato a mettere in atto la strategia che gli ho proposto con risultati a suo dire discreti. Talvolta aveva fatto qualche capriccio perché voleva giocare alla play station prima di fare i compiti (ma lei non glielo aveva concesso) e altre volte aveva preteso che la pausa si facesse un po’ prima dei tre quarti d’ora stabiliti. Tutto comunque era andato piuttosto bene fino al pomeriggio del giorno prima quando, dopo aver finito i compiti, la mamma aveva fatto notare al bambino di aver commesso diversi errori e gli aveva chiesto di correggerli. Federico si era molto innervosito, aveva avuto “una delle sue crisi” in cui aveva urlato e tirato il quaderno proclamando il suo diritto a non studiare più e a non andare mai più a scuola, “tanto comunque faccio sempre cose sbagliate”. A quel punto la mamma aveva cercato di calmarlo ma lui era rimasto freddo e scostante per tutta la sera, fino al momento dell’addormentamento quando, sdraiato sul suo lettino, si era scusato con la mamma e piangendo le aveva detto che era stato un bambino cattivo.

Il giorno seguente la mamma si era svegliata e come ogni mattina aveva cercato la collanina del suo battesimo nel portagioie dove la ripone sempre quando è in casa. Stavolta però non era al solito posto. La signora così aveva cominciato a cercarla, nonostante sin da subito avesse avuto il sospetto che Federico l’avesse presa e nascosta, per farle un dispetto e vendicarsi della lite del giorno precedente. Dopo circa un’ora di infruttuose ricerche aveva chiesto al bambino se immaginava dove potesse essere finita. Il bambino aveva detto in prima battuta di non saperlo, poi però aveva ammesso di averla nascosta dietro la parete attrezzata “per farle uno scherzo”.

Al ritorno dal lavoro Laura si era così fatta aiutare da Carla, la figlia maggiore, a spostare la parete attrezzata. Per farlo avevano dovuto smontare un pezzo. Federico aveva assistito alla scena, dal divano, in silenzio, e aveva sogghignato quando le due, stupite, avevano constatato che dietro la parete attrezzata non c’era nessuna collanina.

La mamma così aveva perso la pazienza e intimato a Federico di dirle dove avesse messo la collana. Lui più volte aveva risposto di non saperlo, poi era però sbottato: “Lo vuoi capire? La tua collana non c’è più, l’ho buttata dal balcone!”. Laura delusa gli aveva chiesto il motivo per cui avesse fatto una cosa così brutta alla mamma e lui, serafico, le aveva risposto: “Perché ero arrabbiato”. La signora era quindi scoppiata in un pianto nervoso davanti ai bambini, ripetendo come un mantra: “Perché, perché mi fai preoccupare così tanto? Perché fai così? Non mi merito tutto questo! E per tutto il pomeriggio aveva evitato di rimproverare Federico pensando che fosse la cosa più giusta da fare per non innervosirlo ulteriormente.

Ascolto con molta attenzione il racconto di Laura, ne rintraccio l’angoscia nelle parole spezzate, nel tono basso che usa. Mi chiede cosa sia giusto fare, se deve arrabbiarsi.

T: “Si sente arrabbiata?”.

L: “Moltissimo, è la prima volta che fa qualcosa di brutto a me”.

T: “Signora vorrei che provasse a fare due cose. La prima è chiedere a suo marito di rimproverare Federico per l’accaduto. È molto importante che il bambino sappia che lei ha un marito che la protegge. Ed è importante anche per Giovanni riprendersi un ruolo attivo nella vita di suo figlio. La seconda è di provare a non avere paura di mostrarsi arrabbiata: Federico si è comportato male. Arrabbiarsi è normale e legittimo. Lei invece gli ha mostrato preoccupazione, gli ha chiesto con insistenza il motivo per cui la facesse preoccupare così tanto. In questo modo Federico penserà di avere in sé qualcosa di sbagliato piuttosto che di aver fatto qualcosa di sbagliato. Quello che voglio dirle è che deve provare a condannare l’azione senza giudicare la persona. E che deve mostrare a Federico l’emozione che davvero ha provato: se si è arrabbiata non deve nasconderlo, è meglio mostrare un’emozione autentica e congruente a quanto accaduto, almeno agli occhi del bambino. Poi potrà esprimere tutta la sua preoccupazione per Federico e per i suoi comportamenti dopo, con suo marito o con me, se vorrà condividerli di nuovo, come ha fatto questa volta”.


Mi sembra ancora molto scossa quando interrompiamo la telefonata; però prima di mettere giù mi dice: “Sono più tranquilla adesso che le ho parlato”.

Mi ringrazia e riattacchiamo.

Tutto andò bene fino a quando…

Il giorno precedente alla nostra terza seduta vengo avvisata con un SMS che Federico e Carla sono stati invitati a una festicciola a casa della vicina e che il bambino aveva protestato molto quando gli era stato detto che non sarebbe potuto andare per venire in seduta. Sono io quindi che suggerisco alla signora di mandare i bambini alla festa e di approfittarne per una seduta con i due adulti di casa.

La mamma e il papà di Federico si presentano in orario.

Domando alla signora aggiornamenti sull’episodio della collana. Mi racconta che il papà ha prima rimproverato e poi parlato con Federico, come le avevo consigliato di fare. Il bambino si era calmato dopo una lunga chiacchierata, interrotta da qualche singhiozzo e da qualche lacrima di pentimento. La collana invece non era più stata ritrovata: probabilmente era davvero finita giù dal balcone. Si dice piena di amarezza. “Chi non lo sarebbe?”, rispondo, preoccupandomi di legittimare ciò che Laura prova.

Informo Giovanni su quello che avevamo fatto fino a quel momento e sulle cose che la moglie mi aveva riferito in sua assenza. Ne approfitto, quindi, per chiedere a lui fino a quando, secondo il suo parere, le cose fossero andate bene nella loro famiglia.

“Tutto andò bene fino a quando”3… “Fino a quando Federico non ha cominciato a fare la prescrittura all’asilo. Già allora la maestra ci disse che scrivere lo innervosiva molto e che non era più lo stesso bambino che aveva conosciuto. Effettivamente quando lo prendevamo all’asilo era sempre nervoso e faceva un sacco di capricci per il cibo, non voleva quello e non voleva quell’altro e le cose nel piatto non si dovevano mischiare. La situazione è peggiorata alle elementari. Da quando va in seconda è ingestibile”.

Gli chiedo quindi cosa pensa della situazione attuale e se crede che Federico abbia davvero qualche problema: “Federico ha un solo problema, tutti gli dicono che è bravo e intelligente: ‘oh quanto sei bravo di qua… Oh quanto sei bravo di là, sei un genio…’; invece, dottoressa, io glielo devo dire: Federico è un bambino intelligente, certo, è mio figlio, ma non è un genio. Anzi per alcune cose è un po’ infantile, molto infantile… Lei (riferendosi alla moglie) dice che è sensibile. Gioca con i peluche, se li abbraccia tutto il tempo, io all’età sua facevo già altri giochi… Oppure quando è eccitato o contento per qualcosa si agita, corre in tondo e sfarfalla con le mani (fa il gesto). Io non lo so, ma a me sembra infantile più di come dovrebbe essere un bambino di sette anni. Poi è dolcissimo, è veramente un bambino dolcissimo in tante occasioni, ti abbraccia, ti dà i bacetti. Sa qual è secondo me il problema? È che lui è Federichino piccolino! Lui è il piccolo, il maschietto, insomma il cocco di mamma ed è inutile che lei (riferendosi di nuovo alla moglie) dice di no, ma a lei questa cosa piace. A lei piace che Federico sia così coccolone, così mammone”.

La signora annuisce e sussurra a denti stretti: “è vero”.

A questo punto domando quale altro problema ci sarebbe, in questa famiglia, se non ci fosse il “problema di Federico”.

Risponde ancora una volta Giovanni: “Forse il fatto che io ho degli orari di lavoro che non mi permettono di aiutarla e deve fare tutto lei”. Pongo la stessa domanda alla moglie: “Sì, ha ragione, sono molto stanca, avrei bisogno di una sua maggiore presenza”.

Domando alla coppia qualche esempio di come si comporta Federico a casa e del perché lo reputano mammone. Sempre il papà mi racconta che quando gioca alla Play Station mette in pausa ogni quarto d’ora, va ad abbracciare la mamma e riprende a giocare solo dopo aver ricevuto qualche carezza da lei. Commenta dicendo: “Non è normale”.

Aggiunge che il figlio va a dormire solo se è la mamma a metterlo a letto e non accetta che lo faccia lui: “Le sta letteralmente appiccicato, proprio fisicamente!… Per non parlare del fatto che è sempre malato!” e mi spiega che ogni mattina si inventa un nuovo malessere e, questo inverno s’è beccato l’influenza già tre volte.

La signora invece mi racconta che, da quando Federico le ruba tutto il pomeriggio per farsi aiutare con i compiti, Carla ha cominciato anche lei a chiedere aiuto per cose molto semplici, che potrebbe benissimo fare da sola. Carla è sempre stata molto brava a scuola, precisano, ha sempre avuto tutti dieci… “non ci ha mai dato un problema”.

Chiedo allora se per loro è importante che Carla sia così brava. Entrambi mi rispondono che al contrario l’hanno sempre incoraggiata ad affrontare gli impegni scolastici con più serenità, ma che lei “è fatta così, è così saggia!”. Mi chiedono perché secondo me succede questo. Spiego loro che non conosco ancora la ragazzina, ma che è probabile che avendo un fratello così “ingombrante” avesse solo due possibilità per rendersi visibile in famiglia: comportarsi peggio di Federico oppure essere brava, bravissima, essere la figlia di cui non lamentarsi mai. Ed è questo – mi permetto di dire loro – ciò che, giustamente, ha scelto di fare.

Prescrizioni

La seduta è prossima alla conclusione, ho ottenuto preziose e importanti informazioni dall’incontro con Giovanni. Prima di congedare i coniugi chiedo loro se sono disposti a fare alcune cose pratiche per migliorare la situazione: “Ho una strategia anche per voi, come per Federico!”. Entrambi si dicono disponibili, “Qualsiasi cosa, purché tutto questo abbia fine”, aggiunge il marito.

T: “Sono contenta che accolga di buon grado la mia richiesta di cominciare ad agire. Perché la prima cosa deve farla proprio lei! Vorrei che si ritagliasse un paio d’ore durante la settimana in cui fa delle cose con suo figlio fuori di casa. Solo voi maschi. Non va bene il cinema. Voglio che andiate al parco, oppure che facciate una gita in montagna, oppure un giro in bici, decida lei. La mamma farà lo stesso con Carla. Faranno ‘cose da femmine’, solo loro due. Lei signora dovrà fare anche un’altra cosa. Non dovrà più controllare se i compiti di Federico sono ben fatti. Dovrà solo controllare che li abbia fatti. Verificarne la correttezza è compito delle maestre, le mamme si accertano solo che i figli facciano il loro dovere di studenti”.


Annuiscono e promettono di impegnarsi. Prima di salutarli ricordo loro che Federico dovrà continuare a fare i compiti applicando “le tre mosse”, come avevamo concordato. Accenno anche alla possibilità di dover procedere con una valutazione per i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), chiarisco loro che mi sembra necessario sincerarsi di una possibile dislessia, anche solo per liberarci dal dubbio.

«Per la natura delle abilità che coinvolgono, i DSA compaiono durante i primi anni della scuola primaria e rendono particolarmente faticoso e frustrante l’apprendimento, interferendo così con il proseguimento degli studi. Siccome le abilità di lettura, scrittura e aritmetica hanno basi comuni, i DSA possono essere associati. È di solito presente una diagnosi primaria, mentre le altre difficoltà compaiono con intensità inferiore. In questi casi il disturbo, coinvolgendo abilità diverse, ha un impatto negativo maggiore sul percorso scolastico e sui progressi dell’alunno, soprattutto se gli insegnanti adottano esclusivamente metodi didattici tradizionali» [5].

Dopo aver dato le dovute spiegazioni rassicuro Laura e Giovanni sul fatto che Federico potrebbe addirittura trarre giovamento da una tale diagnosi. Potrebbe usufruire di programmi scolastici adeguati al suo peculiare modo di imparare le nozioni. Finalmente sarebbe la scuola ad adattarsi al bambino e non viceversa, con grande risparmio di energia per tutti e un livello di frustrazione più tollerabile per loro figlio. Chiedo di partecipare tutti insieme alla prossima seduta, la quarta. È arrivato il momento di conoscere anche Carla e di vedere come questa famiglia si relaziona quando tutti i membri sono insieme4.

Riflessioni fuori dalla stanza

La famiglia di Federico attraversa un particolare ciclo di vita. Si trova infatti ad assolvere contemporaneamente a due diversi compiti evolutivi. Da un lato c’è Carla, che chiusa nel suo ruolo di figlia perfetta dovrebbe concedersi, ma non lo fa, più di qualche spinta di apertura al mondo. La ragazzina ha 12 anni e, come ci suggeriscono Scabini e Cigoli, possiamo già considerarla un’adolescente: «Nella società postmoderna la transizione alla condizione adulta si configura come un periodo che abbraccia all’incirca vent’anni della vita di un individuo: assistiamo infatti a un ingresso sempre più precoce nell’adolescenza (attorno agli 11-12 anni), a un prolungamento di questa (fino ai 19-20 anni) e alla costituzione di una nuova fase denominata post-adolescenza (sino ai 35 anni) [8].

Dall’altro c’è Federico il quale, con i suoi comportamenti dirompenti, sollecita un compito evolutivo precedente: quello di aiutarlo a confrontarsi con la realtà sociale ed extra familiare. E il bambino, a sette anni, mostra un estremo bisogno di muovere i primi passi nel suo mondo: la scuola.

Laura e Giovanni però non sono pronti a rendere più permeabili i confini familiari. Il motivo principale per cui non ci riescono è che stanno ancora cercando di assolvere a un compito evolutivo precedente. La prima sfida che una famiglia deve affrontare quando i figli vengono al mondo è infatti quella di accettare il figlio come un nuovo membro del sistema. Questo comporta un riadattamento delle relazioni con le rispettive famiglie d’origine che, almeno a un primo sguardo, i coniugi sembrano aver portato discretamente a compimento, e una consapevole assunzione dei ruoli genitoriali. È su questa seconda assunzione che i due appaiono ancora carenti. La famiglia in questione è, come suggerisce Rosnati, una famiglia «matrifocale, [dove] si osserva chiaramente uno sbilanciamento relazionale verso la madre […]. La madre è il fulcro della vita familiare: anche compiti tradizionalmente assunti dai padri, quale l’orientamento al futuro scolastico e professionale dei figli, sono oggi assolti dalle madri. Esse influenzano le scelte in quest’ambito sia delle figlie femmine sia dei figli maschi» [9]. Come ci suggeriscono ancora Scabini e Cigoli, la presenza attiva del padre nella transizione all’età adulta, le cui basi sono inevitabilmente gettate quando i figli si confrontano con le prime agenzie extra familiari, esercita una importantissima funzione di fattore protettivo. Giovanni tuttavia è quasi del tutto fisicamente assente dalla vita familiare, per via del suo lavoro che lo spinge a rimanere fuori molte ore al giorno. E così non è in grado di esercitare quel ruolo significativo nell’aiutare i figli a sviluppare la resilience necessaria per far fronte agli stress. Inoltre, un suo coinvolgimento diretto avrebbe effetti positivi in almeno tre diversi modi, citando ancora i due autori: «in primo luogo perché offre sicurezza e supporto, consentendo così ai figli di sviluppare un legame sicuro e offrendo loro un modello identificatorio per i figli maschi; in secondo luogo, poiché mostra un modello di relazioni familiari cui l’adolescente e il giovane possono ispirarsi per la costituzione della loro vita futura; e infine, in terzo luogo, in quanto offre supporto alla moglie impegnata nell’accompagnare i figli nel loro processo di crescita” [8, p. 161].

L’ipercoinvolgimento di Laura nella relazione con il piccolo Federico apre tuttavia a scenari, se possibile, ancora peggiori a causa proprio di quello sbilanciamento dei ruoli che in questa sede dobbiamo assumere come fattore di rischio. Luigi Cancrini in “La cura delle infanzie infelici” [10] descrive quando parla dell’infanzia istrionica «un caratteristico tipo di organizzazione della vita familiare in cui si riscontra con facilità la costellazione tipica del genitore periferico, alla quale corrisponde sul piano della clinica il caso del bambino troppo vicino alla madre, che ha rapporti deboli con il padre e che presenta disturbi attivi del comportamento (il bambino che può essere a sua volta provocatorio non supera mai certi limiti e non è abitualmente intrattabile […])». Sempre da L. Cancrini sappiamo che l’infanzia vissuta dalle persone che potrebbero sviluppare un disturbo istrionico di personalità presenta tre caratteristiche peculiari:

1. «La capacità fondamentale di questi bambini è quella di farsi amare (e prediligere) dal genitore dell’altro sesso utilizzando (a) il loro aspetto esteriore e i loro modi piacevoli (più spesso, ma non esclusivamente, le bambine) e (b) la salute cagionevole, la fragilità e il bisogno d’aiuto (più spesso, ma non esclusivamente i bambini)». È facile farsi tornare in mente la descrizione che fa la mamma di Federico come di un bambino “fragile” e “sensibile”, capace di dirle che “è bellissima, un angelo!” e contemporaneamente di fingersi malato ogni mattina, per non andare a scuola, fino ad ammalarsi davvero. Un bambino che ha bisogno di aiuto per fare i compiti. Aiuto tutto il pomeriggio. Tutti i pomeriggi. E solo dalla mamma.

2. «Il gioco relazionale che risulta da questa predilezione prevede una particolare simmetria del triangolo edipico, in cui il genitore dello stesso sesso viene messo all’angolo o allontanato in una posizione periferica; tale gioco […] ha un aspetto regressivo nel caso del bambino timido, malaticcio o molto sensibile e troppo legato alla madre».

3. «Il ruolo della bambina molto gradevole e affascinante e quello del bambino sensibile, cagionevole e bisognoso per questo di attenzioni speciali tende a diventare nel tempo un ruolo obbligato; l’immagine di lui o di lei, che nel clima familiare si concretizza intorno (o dietro) a questa recita continua, è quella della persona che ha idee e/o risorse limitate (lei ‘è carina ma è un’oca’, ‘lui è un bambino debole e senza palle’)» [10, pp. 54-58]. E anche qui velocemente tornano alla mente le parole del papà di Federico quando lo descrive come “mammone e infantile” e mi racconta che è sempre malato.

E così Federico risulta proprio nella narrazione che di lui fanno i suoi genitori un bambino la cui personalità rischia derive istrioniche importanti se non si interviene con prontezza. Il potere del suo sintomo, così come teorizzato da Jay Haley [11], si evidenzia in tutta la sua forza perché assicura a Federico la cura e l’attenzione di cui continua ad aver bisogno. Ancor più facile colludere per Laura, perché la cura e l’affetto assicurati dalla fragilità e dalla sensibilità del bambino sono spontanei e nascono all’interno di una relazione piacevole per lei, che ne ottiene amore incondizionato e devozione, salvo poi dover tollerare i momenti in cui nel bambino esplode una rabbia cieca quando questo equilibrio è messo in crisi, come nell’episodio della collana.

È da ricordare, però, che “non è mai opportuno proporre una diagnosi di disturbo di personalità […] prima che venga raggiunta l’età adulta”: secondo Cancrini è infatti “rilevante dal punto di vista teorico la sostanziale reversibilità di queste regressioni, che non devono essere considerate in nessun caso come delle malattie ma semplicemente come tentativi maldestri e spesso controproducenti di adattamento a situazioni difficili e, almeno momentaneamente, prive di alternative» [12, p. 119].

Alla luce di quanto riportato e sotto il consiglio esperto ricevuto dalla dott.ssa Rose Galante durante le ore di supervisione, mi pare doveroso iniziare subito a lavorare con la famiglia di Federico partendo proprio da una tipica manovra sistemica come quella basata sul riavvicinamento del genitore periferico e l’allontanamento di quello ipercoinvolto, che prescrivo già alla terza seduta.

UN CAPOLAVORO DI FAMIGLIA!

«Cos’è disegnare? Come ci si arriva?

È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi

tra ciò che si sente e ciò che si può»

Vincent Van Gogh

Il “disegno congiunto della famiglia”

È passata una settimana dalla seduta con Laura e Giovanni. Federico ha continuato a fare i compiti con la sua strategia, la mamma ha faticato a non intromettersi e qualche volta non ha resistito alla tentazione di sedersi col figlio a studiare. Giovanni ha portato il bambino sull’Etna. Insieme sullo slittino si sono divertiti a venir giù in discesa. Il momento più bello è stato quando sono finiti su un arbusto e lo scuotimento ha provocato “una piccola tempesta di neve sulla testa di Federico”, così come me lo racconta Giovanni. Carla e la mamma intanto se n’erano andate al centro commerciale e avevano “svaligiato un sacco di negozi, finalmente senza maschi!”, come entusiasta mi spiega la ragazzina.

È la prima volta che vedo questa famiglia riunita. Li ringrazio per la loro presenza e faccio loro i complimenti per aver adempiuto alle prescrizioni (Laura ci è riuscita solo parzialmente, “ma ci ha provato”, ci tiene a precisare!).

È anche la prima volta che vedo Carla, una bella ragazza dai capelli rossi, educata e gentile nel sorriso e nei modi. Mi preoccupo di parlare un po’ con lei per garantirmi un aggancio.

Prima che abbiano il tempo di chiedersi cosa faremo oggi5 metto davanti a loro un grande foglio bianco e un portapenne pieno di pennarelli colorati e dico6: “Oggi vi chiedo di fare un disegno assieme, di rappresentare come vi vedete ora, come famiglia, mentre state facendo qualcosa. Potete disegnare le persone in qualsiasi posizione sul foglio. Ognuno di voi può disegnare se stesso o gli altri, come preferisce, in qualunque modo pensiate di poter meglio rappresentare la vostra famiglia. Adesso ognuno di voi prende un pennarello per disegnare e tiene lo stesso colore fino alla fine del disegno”7.

Si guardano tra loro un po’ perplessi. Poi la mamma e il papà fanno un cenno di incoraggiamento. Sorridono, prima i grandi poi i bambini. Sembrano contenti di cominciare a disegnare. C’è un bel clima emotivo in stanza di terapia.

Il compito viene interpretato come un’attività individuale: ciascuno sullo stesso foglio esegue inizialmente il proprio disegno in modo separato e parallelo: non medieranno né concorderanno il tema del disegno. Solo dopo averlo completato, nella fase in cui aggiungeranno dei dettagli decorativi, inizieranno a interagire tra loro e interverranno nei disegni degli altri. Ognuno contribuirà al disegno dell’altro: solo Carla non interverrà mai nel disegno della madre. Giovanni invece unirà il suo disegno a quello della ragazza (Figura 1).




È la mamma a prendere in mano il primo pennarello, sceglie un colore e dichiara che siccome sa qual è il preferito di Federico ne prenderà un altro. Federico sorride. Tra i due regnerà una forte complicità per tutta l’esecuzione del disegno. Il padre prende il colore viola, ma viene subito bloccato da Carla: “Lo volevo io…”. Lo cede quindi alla ragazzina e sceglie il verde. Il clima è disteso, frequenti sono i commenti e le risate. Laura interviene per prima: “Federico sta venendo benissimo il tuo disegno! Che bravo!”; e dopo poco: “Glieli fai tu qui gli occhi col rosso?”. Carla fa un passo indietro, chiude il braccio con cui non sta disegnando, quasi a voler prendere le distanze dalla madre e dal compito.

La mamma non coglie il movimento di chiusura della figlia e continua: “Fede, aggiungi un tocco di rosso qui?”. Questa volta Carla non retrocede, ma cerca anzi di inserirsi tra i due: “Disegno anche i fiocchi di neve” dice, ma il padre ne rileva l’incongruenza con i fiori che aveva già disegnato, di fatto squalificandola. Anche la mamma fa un commento sulla stranezza dei fiocchi di neve che cadono sui fiori, poi però, accortasi che Carla ha un’espressione triste, fa un maldestro tentativo di rassicurazione: “però sono belli, perché non ne disegni altri?”. La domanda rimane senza risposta. La ragazzina a stento finirà di disegnare quello e poi cambierà il soggetto del disegno, annunciando: “Federico lo disegno io! Va bene?”. Gli altri annuiscono. Giovanni dichiara che lui si occuperà di disegnare la mamma. Intanto Laura sta disegnando un bel tramonto dietro le palme e mentre lo fa sospira e per due volte fa sapere che quello è proprio il posto dove vorrebbe essere, “in un sogno!”, dice; poi si rivolge a Carla e le chiede se nel suo disegno Federico ha una maschera. La ragazza la ignora, ma alla seconda richiesta si rivolge alla madre e con tono irritato esclama: “non li so disegnare bene gli occhiali, ok?”, si chiude a riccio e indietreggia. Di nuovo nessuno si accorge del suo malessere. Giovanni, incuriosito, si avvicina a Federico e gli chiede dove vanno le macchine che sta disegnando sulla strada. “Ognuno per la sua corsia”, chiarirà Federico per poi voltarsi e mettersi a parlare con la mamma. Giovanni nota che lo scambio fra i due si fa sempre più intenso: Laura non risparmia i complimenti a Federico per aver disegnato una bellissima strada, piena di dettagli. Giovanni interrompe l’idillio: “E questi? Sono dei carri armati? C’è una guerra?”. “Può darsi!” ribatte serafico Federico, e il padre: “E chi è questa persona che hai disegnato nell’angolo?”. “Sei tu papà. Ma siccome non avevo molto spazio non ti ho potuto completare”.

Cade il silenzio.

Quando hanno finito li ringrazio per il bel disegno che hanno realizzato, Federico esclama entusiasta: “Abbiamo fatto un capolavoro di famiglia!”. Tutti sorridiamo.

Gli dico che è vero, che “è proprio un capolavoro”, e vorrei sapere qual è la parte del disegno che ritiene più bella. “Quella di mamma”, dice con convinzione, e Carla rinforza: “È vero!”. Prima di congedarsi Federico aggiunge: “Se non si era capito in questa famiglia la preferita è la mamma”.

Tutti ridono.

Papà Giovanni annuendo conferma. Io mi sforzo di sorridere mentre penso che avremo molto di cui parlare durante la prossima seduta.

Restituzione

“Laura e Giovanni per prima cosa volevo complimentarmi con voi: Federico ha ragione quando dice che avete fatto un capolavoro. Il vostro è un bellissimo disegno. Ma io non sono certo una critica d’arte quindi vi devo spiegare il vero motivo per cui ritengo che il vostro disegno sia davvero un capolavoro. Be’, mi piace così tanto perché è una rappresentazione puntuale, fedele quasi come una fotografia, di ciò che succede nella vostra famiglia, comprese le cose sulle quali dobbiamo lavorare. Ma soprattutto mi piace perché siete voi stessi, nel disegno, a trovare le soluzioni che vi servono! Vi spiego meglio…

Guardate: Giovanni disegna una bella casa, con l’altalena e lo scivolo e gli alberi. La casa è il posto dove dovrebbe trascorrere più tempo, con i suoi bambini, il posto in cui, come diverse volte ci ha detto, vorrebbe usare quei giochi che non ha dimenticato di disegnare. Laura disegna un tramonto tropicale. Sembra quasi la trasposizione grafica del suo desiderio di prendersi una vacanza. Un desiderio legittimo, perché si occupa davvero di troppe cose e ha bisogno di prendersi un po’ di tempo per sé, un tempo in cui non è più solo madre, ma si riscopre donna, magari insieme a lei, Giovanni. Mentre lo disegnava per due volte ha commentato: “un sogno”; e forse quel commento ci serve come suggerimento: quel tramonto non dovrebbe rimanere un sogno.

Anche Federico nel disegno trova la sua strada, e la trova letteralmente, nel senso che la disegna. E disegna anche l’oratorio dove gioca con gli amici. Disegna ciò che c’è fuori, l’esterno, il mondo, disegna quel mondo in cui desidera cominciare a muoversi. E potrà farlo solo col vostro aiuto. E poi c’è Carla. O meglio, Carla non c’è. Vi siete dimenticati di disegnarla. È così saggia vostra figlia, così brava a scuola, così perfetta che finite per non darle la considerazione che merita e di cui ha bisogno. E non è un caso che ve ne siate scordati.

Lei però di sicuro non s’è scordata di Federico, l’ha disegnato grande e sopra una collinetta dalla quale domina il disegno. E non solo il disegno. Domina la vostra famiglia con i suoi problemi a scuola, la sua infinita sensibilità, la sua intelligenza brillante. Federico è gigante, ingombra il disegno e la vita di Carla, togliendole spazio. Sopra di lui solo la mamma, che Giovanni disegna al centro del foglio, così come è al centro di questa famiglia. Laura che lavora, che accompagna i figli a scuola e li va a prendere. Laura che cucina e si occupa delle faccende domestiche, che fa la spesa e porta i figli a pallavolo e a karate. E che la sera li mette a letto, non senza prima averli aiutati a fare i compiti, volesse questo significare sacrificare ogni suo pomeriggio, ogni altra attività della sua vita. E lei Giovanni dov’è? È qui in basso a destra, piccolo, lo ha disegnato Federico dichiarando di non avere abbastanza spazio per completarlo. Così come non ha abbastanza spazio nella sua vita. Ma nonostante questo Federico ha bisogno di lei, infatti è proprio suo figlio a disegnare il suo papà. La mamma è al centro, lei lo ha messo all’angolo. E se non fosse abbastanza chiaro, l’ultima cosa che ci dice, durante la scorsa seduta, prima di andar via, è che, se non l’avessimo ancora capito, è la mamma a essere la preferita di questa famiglia!

Adesso sentite quello che voglio fare, perché siete stati voi a suggerirmelo con questo disegno… Con la vostra collaborazione vorrei che Carla comparisse dentro al foglio, che Federico scendesse dalla collinetta su cui lo avete messo, che lei Giovanni andasse al centro, vicino a sua moglie, che non dovrà mai più stare in quella posizione centrale a occuparsi di tutto da sola. Vorrei che facessimo questo, tutti insieme, così ognuno potrà riavere il suo posto nel disegno e nella vostra vita familiare”.

Laura e Giovanni sono stupefatti. La cosa che più li colpisce è l’aver dimenticato Carla. Li lascio riflettere a lungo davanti al loro disegno e rimango in silenzio. Li sento sussurrare più volte: “È vero, è pazzesco, come abbiamo potuto? … Come è successo? … Dobbiamo fare qualcosa!”.

Il disegno congiunto può rivelarsi un efficace supporto nel motivare la famiglia a proseguire il percorso terapeutico [13]. Sento però che devo rassicurarli: alla loro famiglia non sta succedendo nulla di grave, soprattutto nulla di irreparabile, con qualche accorgimento e una buona dose di impegno tutto andrà per il meglio.

Li congedo riconfermando loro le prescrizioni precedenti e aggiungendone un’altra: “Vorrei che d’ora in poi fosse papà a mettere a letto Federico. Voglio che abbiate un momento di intimità che, seppur breve, sia quotidiano. Un momento del giorno solo vostro”.

Prima che se ne vadano consegno loro un bigliettino con il luogo e l’ora della valutazione per i disturbi dell’apprendimento che ho fissato per Federico. Spiego che sarò presente anche io e che la valutazione sarà condotta da una psicologa esperta in DSA.

Mi sembra doveroso, in questa fase della terapia, non rimandare ulteriormente la problematica scolastica che Federico continua ad agire. Così come suggerisce Salvador Minuchin infatti: «Quando una famiglia comincia una terapia a causa di un rapporto di tensione extra familiare di uno dei suoi componenti (in questo caso di Federico con il contesto scolastico), le mete e gli interventi del terapista della famiglia sono orientati alla sua valutazione della situazione e della flessibilità della struttura familiare. Se la famiglia ha fatto cambiamenti per adeguarsi e sostenere quel suo componente in tensione e il problema sussiste, l’attività principale del terapista sarà rivolta alla famiglia. Per esempio se un bambino ha difficoltà a scuola, il problema può essere collegato con la scuola. Se la valutazione del terapeuta indica che la famiglia sostiene adeguatamente il bambino, i suoi interventi saranno principalmente rivolti al bambino nel contesto scolastico […] ma se i problemi scolastici sono espressioni di quelli familiari i suoi interventi saranno diretti alla famiglia. Talvolta sono necessari entrambi i tipi di interventi» [15].

LA RABBIA BRUCIA

Di calci, baci e intimità negate

Tre settimane dopo la seduta in cui analizziamo il disegno, Federico e papà hanno istituito (e fatto diventare prassi) “le domeniche tra maschi”. Giovanni ha insegnato i segreti della pesca a Federico, che ha scoperto questa nuova passione condivisa. Laura e Carla sono diventate più complici e la ragazzina, bevendo una cioccolata calda in un bar del centro, ha raccontato alla mamma di essersi invaghita di un compagno di scuola. Federico fa i compiti con qualche capriccio, ma si è ridotto il tempo che trascorre sui libri. Ci sono ancora però troppe resistenze sull’andare a scuola e ogni mattina “è ancora una lotta”, come dice Laura.

Il pomeriggio precedente all’ottava seduta squilla il mio telefono. È Laura ed è angosciata come quando il figlio aveva buttato via la sua collana del battesimo.

L: “Dottoressa, è successa una cosa troppo spiacevole…”.

T: “Laura, provi a calmarsi, faccia un bel respiro… Mi dica…”.

L: “Stamattina ho accompagnato Federico a scuola. Faceva i capricci, come sempre. In macchina ha iniziato a dire che aveva mal di pancia, si contorceva e gridava ‘Ahi! Ahi!’. Così quando siamo arrivati a scuola gli ho chiesto di sdraiarsi su un banchetto che c’è nell’atrio, in modo da fargli un massaggio al pancino. Si sono avvicinati molti compagni. Gli chiedevano cosa avesse, se si stesse sentendo male. Lui ha iniziato a innervosirsi e a urlare: ‘Non è niente, andatevene! Lasciateci soli!’. Vedendo che gli amici non si allontanavano ha dato un calcio in pancia al bambino che aveva di fronte, un calcio forte che ha scaraventato a terra il ragazzino. Sono scoppiata in lacrime davanti a tutti. Carla ha cercato di consolarmi. Forse ho sbagliato, non dovevo piangere, ma non ce l’ho fatta”.


Chiedo a Laura che cosa è successo dopo. Mi racconta che Federico non è entrato a scuola, la maestra lo ha rimproverato e ha preteso che si scusasse (ci è voluta mezz’ora per convincerlo a pronunciare la parola “scusa”), poi la madre del ragazzino colpito l’aveva chiamata minacciandola di sottoporre l’accaduto alla prossima riunione con i genitori per chiedere l’allontanamento di Federico: “Ne abbiamo abbastanza delle intemperanze di suo figlio”, le aveva gridato. E aveva riattaccato senza darle possibilità di replica.

Laura quindi aveva portato Federico con sé al lavoro, come spesso succede quando il bambino non va a scuola e lei non ha tempo di cercare qualcuno disposto a tenerlo. Giunto nell’ufficio della mamma si è comportato come un angelo: ha disegnato e mangiato una brioche giacché il mal di pancia era magicamente sparito col progressivo allontanarsi dalla scuola. A metà mattinata aveva proposto alla mamma di nascondersi nella saletta del caffè (la sala relax) “per darsi i baci di nascosto”, chiedendole, di fatto, di ricreare quell’intimità che i compagni di scuola avevano violato, accerchiandolo mente lei gli faceva un massaggio.

La richiesta di Federico sembra la risposta a quello che potremmo definire «un abuso dal buon sapore» [1]. “Il genitore che si fa adorare abusa del figlio, non lo mette in condizione di fare a meno di lui, spoglia di senso ogni sua altra relazione, lo tiene legato sessualmente: fa parte del compito dell’altro che cura contenere l’attaccamento del figlio, vegliare che non sia sessualizzato, non troppo, non troppo presto, non troppo intensamente. Un genitore che si lascia adorare esercita una forma di violenza psichica altamente sessualizzata, anche quando non è agita sessualmente» [1].

La rabbia brucia sui fogli…

Il giorno seguente la famiglia al completo è riunita nel mio studio. In stanza il clima emotivo è teso. Mamma e papà sono ancora molto arrabbiati con Federico, il quale è stato rimproverato per l’accaduto da entrambi. Carla è palesemente scocciata, vorrebbe essere altrove. Chiedo ai genitori di uscire e cerco di farmi raccontare dai bambini l’accaduto. È Carla a prendere la parola. Mi racconta ciò che è successo a scuola e mi chiede apertamente se io posso davvero aiutare Federico, il quale dal momento in cui ha messo piede allo studio non ha proferito parola.

T: “Certo che posso aiutarlo. Però, per cominciare, dovrebbe raccontarmi lui il suo punto di vista su quello che è successo”.


Federico tace, lo sguardo è corrucciato. Capisco che non otterrò una sola parola. Allora chiedo a entrambi di disegnare quello che è successo, ciò che hanno visto e vissuto, senza scordarsi di scrivere o disegnare anche quello che hanno provato.

Venti minuti dopo ho due bellissimi disegni dove la scena di Federico sdraiato sul banco che dà il calcio al compagno è chiarissima. Nel disegno di Carla ci sono tre parole che come una cupola racchiudono il disegno: tristezza, paura, delusione. In quello di Federico compare anche la mamma che piange. In alto al centro campeggia una sola parola: rabbia scritta con dei caratteri rossi e grandi.

Chiedo ai genitori di tornare in stanza e mostro loro i disegni: “Vedete, Carla è triste, ha paura ed è delusa dal comportamento di Federico. Federico invece è arrabbiato. Però, spesso, quando si è così arrabbiati è perché c’è qualcosa che ci rende tristi, che ci spaventa o che ci ha deluso, solo che non lo sappiamo ancora dire con chiarezza, come ha fatto Carla. Allora io conosco un modo per far sparire la rabbia, un modo che funziona al 100%. Ma funziona solo se ci credete e se lo fate tutti insieme. Dovete prendere questi disegni e bruciarli. Più bruciano i fogli più la rabbia per quello che è successo sparisce. Alla fine di quella rabbia non rimarrà che cenere e tutti vi sentirete meglio. È una specie di incantesimo, una magia! Voi credete nella magia?”.

I bambini sono entusiasti, ho appena chiesto loro di appiccare un fuoco! Sorridono. Federico ci tiene a raccontarmi di quando con la sorellina bruciavano gli spaghetti per gioco: “non puoi capire la puzza!” e scoppia in una risata sincera. È la prima volta che mi racconta qualcosa di sua spontanea volontà ed è anche la prima volta che ride di cuore.

Li congedo. Prima di andar via è Giovanni che mi chiede cinque minuti per sé.

Laura e i figli escono.

G: “Volevo raccontarle questo, ecco… Domenica scorsa, come ogni domenica, io e Federico stavamo pescando. A un tratto si fa serio e mi dice: ‘Papà io e te abbiamo un problema: siamo innamorati della stessa regina’. Allora io lo prendo, lo metto a sedere sullo sgabello, lo guardo dritto negli occhi e gli dico: ‘Non c’è nessun problema Federico, perché io sono il re, la mamma è la regina e tu e Carla siete solo i principini’. Ho fatto bene a dire così?”.

T: “Ottima risposta, Giovanni. Non avrei davvero saputo suggerirle di meglio”.

… E talvolta brucia anche in seduta

La famiglia di Federico aveva bruciato i disegni. Erano persino riusciti a fare di meglio: mentre bruciavano i fogli avevano recitato un incantesimo che avevano imparato leggendo Harry Potter, rendendo il rituale ancora più efficace. Federico era andato a scuola per due settimane senza protestare troppo e senza fingersi malato e aveva fatto i compiti accampando qualche scusa per non fare quelli di inglese8 (che alla fine aveva fatto) e facendo molti errori in italiano (che Laura non aveva più corretto).

Si avvicinava la data della valutazione per i disturbi dell’apprendimento. Due giorni prima decido quindi di convocare il bambino: voglio spiegargli bene cosa si troverà a fare in sede di valutazione e il motivo per cui ritengo utile che lui incontri la mia collega. Come suggerisce la psicoterapeuta relazionale Francesca Broccoli, esperta in rabbia infantile «è stato dimostrato in diverse ricerche condotte sia in Italia sia all’estero su bambini con disturbi dell’apprendimento, deficit di attenzione e iperattività (ma anche altre situazioni specifiche come figli di madri affette da depressione o bambini con sindrome di Down) che la gestione delle emozioni e la capacità di attenzione sono due sistemi a influenza reciproca, ossia che se i disagi emozionali sono eccessivi, l’attenzione e la concentrazione ne risentono. L’ostinato rifiuto a fare i compiti può anche essere un modo per comunicare indirettamente qualcosa ai genitori e costringerli a prendere in considerazione il proprio punto di vista» [17]. È arrivato il momento di capire fino in fondo quanto i due sistemi si stiano reciprocamente influenzando in Federico, per poterlo aiutare senza tralasciare nulla.

Laura e Federico arrivano in orario. Federico è nervoso. Il clima è teso e l’incontro non promette niente di buono. La prima cosa che mi dice è che non sarebbe voluto venire. Mi chiede dunque se può andare a casa. Chiarisco che potrà tornare a casa quando saranno trascorsi 50 minuti.

F: “Decidi tu quando io vado a casa?” (irritato, con tono di sfida).

T: “Beh, sei nel mio studio, qui le regole le metto io, di certo però non ti obbligo a parlare. Se vuoi ti do dei giochi o dei pennarelli per colorare e parliamo quando ne hai voglia”.


Sembra più calmo. Sospira. Provo a spiegargli il motivo per cui l’ho fatto venire e perché vorrei che facesse la valutazione con la mia collega.

T: “Si tratta di fare degli esercizi, come dei compiti. Però sono esercizi speciali perché quando avrai finito scopriremo il modo unico in cui il tuo cervello apprende le informazioni nuove e potremmo finalmente studiare un metodo per aiutarti ad affrontare la scuola senza stancarti… Ti sarà più facile frequentare la scuola, questo è sicuro!”.

F: “Tanto non hai capito niente, tutto questo è inutile. Io non voglio stare meglio a scuola, io voglio continuare a stare male!” [grida e scaraventa una penna a terra].

T: “Perché cosa ottieni se continui a stare male?” [con tono fermo e pacato].

F: “Ottengo quello che voglio!” [gridando].

[Silenzio].

L: “Federico rispondi a Silvia… Perché ti stai comportando così?”.

F: “Nooo! Zitta tu [rivolto alla madre], se parli ancora spacco gli occhiali!”.

Li prende in mano e comincia ad allargare minacciosamente le aste, mi guarda fisso negli occhi.

F: “Li rompo, vedi che li rompo, li sto rompendo!”.


Un attimo dopo gli occhiali sono rotti: un’asta si è spezzata. Glieli tolgo dalle mani e li do a Laura. Le chiedo di uscire. Ciò che accade in questa fase della terapia è qualcosa di quantitativamente spropositato, nel senso che sono io a diventare oggetto di una rabbia enorme che dura per tutta la seduta. Tuttavia, seppur drammatico «il momento in cui la terapeuta diventa l’oggetto privilegiato della rabbia è anche il momento in cui la seduta diventa il luogo privilegiato per esprimerla, in una dimensione che è apertamente, ormai, quella del transfert» [10].

T: “Adesso che siamo soli vuoi dirmi perché sei così arrabbiato?”.


Intanto ha rotto anche la tappezzeria della sedia su cui è seduto. Prende un pezzetto di stoffa, lo mette sulla scrivania e mi dice:

F:“Non hai capito ancora? Qui rompo tutto! Vuoi che rompa tutto?”.

T: “Federico mancano dieci minuti poi te ne potrai andare. Per quanto mi riguarda puoi anche non dire più niente oppure rompere tutto quello che vuoi. Però una cosa sola vorrei sapere… Se continui a comportarti male cosa ottieni?”.

F: “Quello che voglio!” (urlando).

T: “E cos’è che vuoi?”.


Si alza, dà un calcio alla sedia che finisce per sbattere nel muro.

F: “La mamma!”.


Lo dice a denti stretti, poi corre in sala d’attesa ad abbracciarla.



Prima di andar via Laura mi racconta che qualche giorno prima, insieme a Giovanni, avevano spiegato a Federico il motivo per cui Carla non porta il suo stesso cognome. Ero stata io qualche seduta prima a chiedere loro di fare chiarezza sull’argomento perché non lo avevano mai affrontato con il bambino, il quale aveva dimostrato di avere non poca confusione a riguardo. Federico si era mostrato palesemente infastidito e aveva cercato di tagliare corto. Quando la madre gli aveva chiesto il perché di tanta insofferenza lui aveva risposto: “Non bastava un marito! Addirittura due!” e si era chiuso in camera arrabbiato.

Chiedo a Laura di avere pazienza ed essere forte. Federico sta soffrendo molto il fatto di doversi separare da lei. Muovere i primi passi nel mondo, creare un legame forte col padre: tutto questo è vissuto dal bambino come un tradimento a quel loro legame speciale. “Ma è necessario perché lui possa crescere bene” le dico. “Col tempo Federico capirà che instaurare altre relazioni speciali non pregiudica la vostra e che suo padre o il suo ex compagno, o i suoi amichetti di scuola non sono minacce al vostro rapporto, ma sono anzi una inestimabile ricchezza per la sua vita”.

EPILOGO

Due giorni dopo io, Laura e Federico ci ritroviamo al Servizio di Psicologia dell’ASP.

La dottoressa esperta in DSA ci sta aspettando. Federico è più rilassato. Prima di cominciare la valutazione mi chiede scusa per come si è comportato nel mio studio e mi invita a rimanere. Avrà un atteggiamento collaborativo per tutta la durata della batteria testologica anche se lamenterà spesso di sentirsi “troppo stanco per continuare”, obbligandoci a delle pause ristoratrici.

Una settimana dopo Laura e Giovanni si presenteranno nel mio studio con in mano la relazione che la mia collega ha consegnato loro. Alle conclusioni si legge chiaramente: “L’indagine clinica e l’esame neuropsicologico evidenziano discrete risorse cognitive, dislessia e disortografia evolutiva parzialmente compensata, riferibili a un quadro di disturbi specifici dell’apprendimento, che pertanto consente l’utilizzo di misure compensative e dispensative per le prove scolastiche, previste dalla legge n°170 del 2010”.

Mi raccontano che quando sono venuti a conoscenza della diagnosi si sono preoccupati. Laura in particolare era tornata a casa molto angosciata, nonostante le rassicurazioni della collega. Poi però aveva fatto delle ricerche su Internet, aveva trovato un gruppo di mamme di bambini con dislessia e aveva capito che era un bene averlo scoperto in seconda elementare. Che Federico sarebbe stato aiutato nel migliore dei modi e che questo problema non avrebbe affatto precluso la sua carriera scolastica. Le altre mamme le avevano spiegato che la dislessia non è una malattia e che non bisogna vergognarsi di dire che si è dislessici. Così era corsa a comprare qualche libro che trattasse di disturbi dell’apprendimento e me ne aveva portato uno che più degli altri l’aveva aiutata a capire e a focalizzarsi su ciò che doveva fare ora che aveva scoperto che suo figlio apprendeva le nozioni in modo diverso dagli altri bambini: “Per la prima volta i gruppi di mamme su Internet mi sono stati utili, dottoressa! Mi hanno detto quello che già mi aveva detto lei, ma sentirlo da loro che avevano vissuto la mia stessa esperienza mi ha rincuorata moltissimo… Ho pensato che se ce l’hanno fatta loro ad aiutare i loro figli, perché non dovrei farcela io?”.

Sorrido, sono contenta che abbia saputo fronteggiare questa crisi da sola. Glielo dico. Mi ringrazia, ha gli occhi lucidi. Mi chiede se sono disposta ad accompagnarla a scuola e ad aiutarla a parlare con le maestre, in modo da essere certi che Federico abbia accesso a tutte quelle misure che la legge prevede in caso di DSA.

Mi chiede anche di metterla in contatto con qualcuno che si occupi di doposcuola specializzato: “Io devo fare la mamma, giusto? E le mamme si accertano che i figli facciano i compiti, non li fanno al posto loro”, riprendendo un mio monito di qualche tempo prima. Tutti e tre ci concediamo una sonora risata. Le do la mia disponibilità e ci accordiamo per vederci a scuola la settimana successiva9.

Incontrerò la famiglia di Federico altre 2 volte. Ogni volta confermerò le prescrizioni date in precedenza e annoterò qualche piccolo progressivo miglioramento. Incontrerò una volta anche le maestre del piccolo Federico che si dimostreranno disponibili e molto accoglienti nel contenimento delle preoccupazioni di Laura, rassicurandola sul proseguo scolastico del figlio.

Durante l’ultima seduta Giovanni mi racconterà che non hanno mai saltato una sola delle loro “domeniche tra maschi” e che Federico è diventato un pescatore provetto! Lui invece ha una nuova identità: è “l’inventore pazzo”! È stato Federico ad affibbiargliela da quando ha cominciato a metterlo a letto raccontandogli ogni notte una fiaba diversa, a dire del bambino, una più assurda dell’altra! Federico ci tiene a precisare che nonostante si diverta con papà era meglio quando si occupava la mamma di accompagnarlo a dormire. Poi esclama rassegnato “Ma pazienza!”, e sorride. Inoltre Federico ha smesso di fingersi malato per non andare a scuola. Adesso tre volte a settimana fa i compiti con Marta, una giovane tutor DSA di cui si è un po’ invaghito: “è bellissima!” mi dice, ma fa in modo che la mamma non lo senta. Intanto è diventato cintura arancione di Karate e non picchia più i compagni di scuola.

Carla ha sviluppato una maggiore complicità con la mamma, di recente sono andate a tagliarsi i capelli insieme e sfoggiano un taglio simile che ne accentua la somiglianza: “Vero che ci somigliamo di più?”, mi dice sorridente, e sembra così contenta di potersi finalmente rispecchiare nella sua mamma. Ha preso a protestare per gli orari di rientro e anche perché vuole indossare vestiti che Laura reputa troppo succinti. A volte litigano. “Insomma è meno saggia e più adolescente”, commento io cercando e trovando facilmente la complicità della ragazza.

Tutti ridiamo. Ci salutiamo in un clima disteso e sereno.

CONCLUSIONI

Il sorriso che trema sulle labbra di un bambino quando dorme sa qualcuno dov’è nato?

Sì, si dice che un giovane pallido raggio

di luna crescente abbia sfiorato il contorno di una nuvola autunnale in dissolvenza e là sia nato il sorriso nel sogno

di un mattino lavato dalla rugiada.


(Rabindranath Tagore)




Quando ho iniziato a scrivere questa tesi, cercando di connettere le parti della narrazione della storia di questa famiglia, ho ripercorso con la memoria i vari momenti che l’hanno caratterizzata. Nel farlo sono potentemente riemerse alcune delle sensazioni che hanno accompagnato l’ultima fase del ciclo del mio percorso formativo presso il CTR di Catania. Il tempo che scandiva gli incontri di supervisione scorreva velocemente e tante volte ho desiderato che rallentasse, quasi a sincronizzarsi col mio tempo di crescita come giovane terapeuta, che di certo mi sembrava scorresse più lentamente.

Di fronte ai miei racconti delle sedute, la didatta mi ha sempre sostenuta e spinta ad andare avanti promuovendo il mio processo di individuazione come terapeuta. “Hai lavorato bene”, “continua così”, sono state frasi che mi hanno rincuorata e sollevata nei momenti in cui i sintomi del piccolo Federico si inasprivano e in me nasceva la paura di non riuscire ad alleviare la sua sofferenza. “Devi avere pazienza: ai bambini occorre ripetere le cose tante volte, ma tu sei sulla strada giusta”, mi diceva la didatta – ma io desideravo solo che quel fuoco che si era impossessato di Federico lasciasse il posto a un sorriso e, nonostante sapessi che la rabbia porta sempre con sé un messaggio prezioso, volevo solo che il bambino se ne liberasse al più presto.

E io con lui.

Innegabilmente quando intraprendiamo un percorso di terapia con un bambino non possiamo che camminare con lui, al suo fianco, esplorando il suo mondo, i suoi sogni, i suoi inferi e le sue risorse. Diventiamo testimoni di sofferenze e liberazioni, di ferite sanguinanti e strabilianti riparazioni. E con Federico io ho potuto rivisitare le storie di quando io stessa ero una bambina e sono tornata a sentire la voce della mia parte piccina e arrabbiata. La rabbia fa così: ti scaraventa indietro e ti obbliga a confrontarti con la bambina arrabbiata che è in te. E a gran voce ti implora di prenderla in braccio e cullarla. Solo così potrai accogliere il tuo piccolo paziente nella morbida culla della terapia.

Sono state le colleghe a farmelo notare: con Federico non avevo la solita buona presa che ho con i bambini: lui mi sfidava, mi attaccava e in alcuni momenti pareva volesse distruggere ciò che di buono provavo a fare per lui, ed io sembravo insofferente e avevo solo molta fretta di liberarmi della sua rabbia.

Oggi penso che la supervisione mi abbia soprattutto donato la capacità di rispettare lo spazio e il tempo della rabbia del mio piccolo paziente, non temendo lo spazio e il tempo della mia. Solo così ci si può incontrare, in un tempo che si sincronizza e punteggia uno spazio finalmente condiviso, lo spazio in cui il sintomo può regredire, lo spazio della guarigione.

Per questo soprattutto desidero ringraziare la Dott.ssa Rose Galante che, con competenza e l’inesauribile passione per questo meraviglioso lavoro, mi ha trasmesso il suo immenso sapere e la sua esperienza, senza mai risparmiarsi e senza mai trascurare il mio mondo emotivo. La ringrazio soprattutto per avermi insegnato la pazienza, qualità di cui in passato sono stata spesso carente. La pazienza di aspettare che Federico stesse meglio. La pazienza di rispettare il tempo della supervisione e quello in cui si cammina con le proprie gambe, immergendosi “dentro” la professione.

La fiducia nella mia didatta, così come la fiducia nelle mie compagne di viaggio, le mie colleghe, è stata per me indispensabile. Il “mio” gruppo è diventato luogo di scambio e condivisione, luogo di contenimento, riconoscimento e accettazione. Con loro ho condiviso preoccupazioni, aspettative, delusioni e conquiste, e insieme abbiamo preparato il bagaglio che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso la professione di psicoterapeuta relazionale: una strada da percorrere insieme, forti dell’aiuto che potremmo dare ancora le une alle altre.

Ora è il momento di avviarsi.

Nel mio bagaglio ci sono dentro i ricordi dei momenti emotivamente intensi che hanno intriso di emozioni i contenuti significativi che ho fatto miei in questi anni; ci sono gli attrezzi, le tecniche di terapia che ho imparato e ci sono le chiavi di casa, ossia le chiavi di lettura del modello sistemico-relazionale, che ha definito la mia identità professionale, regalandomi un filtro con il quale oggi guardo e leggo il mondo con più limpidezza. Avendo le chiavi so che viaggerò sicura, perché potrò tornare a casa quando ne avrò voglia o ne sentirò il bisogno. Senza il timore di smarrirmi e sempre con il desiderio di ripartire per esplorare nuove terre.

Grazie.


1 Una caratteristica fondamentale della comunicazione, così come descritta in Pragmatica della comunicazione umana da Watzlawick, Beavin e Jackson [3], riguarda l’interazione, ossia gli scambi di messaggi tra i comunicanti. Gli autori ci dicono che «un osservatore esterno può considerare una serie di comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione introducono sempre qualcosa di importante che, sulle orme di Whorf, Bateson e Jackson, hanno definito la punteggiatura della sequenza di eventi». Sappiamo che si parla di interpunzione o punteggiatura quando in una sequenza di eventi si assume arbitrariamente un anello della catena come punto di partenza per l’osservatore: in questo caso il punto di partenza è che “Federico ha un problema con la scuola”. Fare delle interpunzioni è inevitabile per chiunque voglia studiare o descrivere il funzionamento di un sistema; è però necessario tenere a mente che quella interpunzione è arbitraria e pertanto per sua natura non è più vera di quella che vedrebbe asserire che “è la scuola ad avere problemi con Federico”.

2 La prima mossa che suggerisco a Federico di applicare allo studio si ispira allo Spaced Learning, una tecnica didattica di tipo trasmissivo ideata da Paul Kelley sulla base degli studi di D. Fields. L’apprendimento intervallato, così come nella traduzione italiana, consiste in un metodo di ripetizione strutturata, separata da brevi intervalli, che si è rivelata utile nella facilitazione dell’apprendimento. La creazione di memorie a lungo termine è infatti il cuore dell’educazione, ma solo nel 2005 le neuroscienze hanno scoperto come si forma nel cervello la memoria a lungo termine. Secondo gli esperimenti di Douglas Fields del National Institute for Child Health and Development negli Stati Uniti, le cellule del cervello si “accendono” e si collegano tra loro a seconda di come sono stimolate. Stranamente se la stimolazione della cellula è continua, la cellula non si “accende”. La stimolazione deve essere separata da intervalli. Il team di Fields ha verificato che occorrono 10 minuti di interruzione fra una stimolazione e l’altra perché le cellule “si accendano” e si determini il percorso di costruzione della memoria di lungo termine. Anche la scuola finlandese, molto quotata a livello internazionale, ha fatto propria questa metodologia, organizzando l’insegnamento in blocchi orari di 45 minuti di lezione, ciascuna seguita da 15 minuti di intervallo [4].

3 Primo passaggio dello “scheletro verbale della costruzione terapeutica” proposta da L. Cancrini in Psicoterapia: grammatica e sintassi [5]. Tutte le costruzioni terapeutiche partono dalla identificazione di un fatto rilevante dal punto di vista interpersonale e collegato col sintomo, presupponendo una condizione di equilibrio che precede l’inizio dello star male e che è stata messa in crisi dall’evento.

4 Matteo Selvini nel suo articolo Dodici dimensioni per orientare la diagnosi sistemica [7] considera l’osservazione del qui e ora di come la famiglia si rapporta sia al suo interno che al professionista che entra in contatto con lei come elemento fondamentale della diagnosi in senso sistemico. Per definizione - suggerisce l’autore – la diagnosi sistemica propriamente detta si basa soprattutto sulla possibilità di osservare in diretta l’interazione di una famiglia nella stanza della terapia, anche se altrettanto utili sono le testimonianze di quegli operatori che entrano sistematicamente in contatto con ciascuno dei membri (altri psicoterapeuti, medici, educatori, insegnanti ecc.).

5 La natura imprevista del compito consente di aggirare le difese e permette ai membri della famiglia di esprimere più di quanto si sarebbero concessi nel dialogo e nel racconto.

6 La consegna è quella proposta in Melosi et al. [13] che modifica solo parzialmente quella proposta da Cigoli et al. [14].

7 Il disegno congiunto della famiglia è, così come descritto e teorizzato nel lavoro di Elizabeth Bing, «una prova non verbale costruita per combinare i vantaggi di una tecnica proiettiva con quella di un compito che attiva transizioni familiari […]. In Italia, l’uso del disegno congiunto della famiglia è stato introdotto da Cigoli, Galimberti e Mombelli nell’ambito della consulenza peritale. Gli autori hanno modificato la consegna introducendo un aspetto cinetico che consiste nel chiedere di disegnare se stessi “mentre stanno facendo qualcosa”. Il compito si può applicare a partire dai cinque anni […]». Ai membri della famiglia viene chiesto di fare un disegno tutti insieme; per l’esecuzione vengono fatti sedere intorno a un tavolo su cui il terapeuta prepara un grande foglio bianco (60x80) e dei pennarelli di colori differenti. Si procede pronunciando la consegna come sopra. Il terapeuta rimane presente ma senza intervenire, giocando il ruolo dell’osservatore. L’indicazione di mantenere lo stesso colore ha lo scopo di facilitare nell’analisi successiva del disegno l’individuazione di ciò che ciascuno ha disegnato e le interazioni tra i membri. L’ambiguità dell’istruzione “ognuno può disegnare se stesso o gli altri” favorisce una grande variabilità di risposte.

Il disegno della famiglia può essere analizzato sia dal punto di vista del processo sia dal punto di vista del contenuto.

In questa sede useremo i seguenti criteri di valutazione proposti da Cigoli et al. [14]:

1. Analisi del processo di produzione: è volta a rilevare le dinamiche e le strategie della presa di decisione nel gruppo familiare (chi inizia, chi segue e come, chi si distacca, scelta degli spazi, divisioni, confini), il clima emotivo (grado di partecipazione dei singoli, vicinanza ed esclusione tra le persone) e il prevalere di modalità tendenzialmente connesse o tendenzialmente separate nell’esecuzione del disegno inteso come compito congiunto (è un’attività individuale oppure ciascuno osserva il disegno degli altri e lo riconosce, usandolo, come parte del proprio?).

2. Analisi del contenuto: si riferisce sia al disegno di ciascun membro che al disegno complessivo, e alla relazione tra il disegno e i commenti verbali. Lo scopo è di cercare di individuare i significati prodotti dai singoli, dai sottosistemi che vengono a crearsi e dalla famiglia nel suo complesso. Nella valutazione dei contenuti si focalizza l’attenzione sul tema o sui temi intorno a cui è stato organizzato il disegno: può essere un tema comune, o comune ad alcuni membri e non ad altri, o possono essere temi diversi tra loro. Viene presa in considerazione la situazione in cui ciascuno ha scelto di rappresentare se stesso o gli altri membri della famiglia, ma anche la posizione dei personaggi rappresentati, la scelta delle persone, le azioni compiute, la vicinanza così come la lontananza, la maggiore o minore grandezza dei personaggi, l’isolamento, le assenze.

8 Uno studente dislessico può sicuramente imparare a parlare una lingua straniera, ma l’apprendimento del codice scritto rappresenta un ostacolo. Ciò è vero soprattutto per le lingue non trasparenti, come ad esempio l’inglese, che sono per loro stessa natura estremamente ambigue [16].

9 Cancrini: «Un bambino che soffre è, in ogni caso, vittima e testimone di una situazione di sofferenza e primo dovere del terapeuta è quello di ricreare condizioni utili alla sua crescita. Ve lo immaginate voi uno psicoterapeuta che parla per ore, tutti i giorni, con una pianta che sfiorisce dimenticando di verificare se la pianta riceve l’acqua (quella che il bambino non riceve, per esempio, negli istituti scolastici?)» [5]. Da qui la disponibilità di accompagnare Laura a parlare con le maestre di Federico, come atto dovuto e indispensabile di costruzione di una cornice terapeutica nel contesto in cui il sintomo si è inizialmente manifestato.

BIBLIOGRAFIA

 1. Pigozzi L. Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori modello. Milano: Cronache Nottetempo, 2016.

 2. ben Asher J. Yoreh De’ah (245:5). In: Arba’ah Turim.

 3. Watzlawick P, Beavin JH, Jackson DD. Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio, 1967.

 4. www.adiscuola.it

 5. Cancrini L. Psicoterapia: grammatica e sintassi. Manuale per l’insegnamento della psicoterapia. Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1987.

 6. Cornoldi C, Zaccaria S. In classe ho un bambino che… L’insegnante di fronte ai disturbi specifici dell’apprendimento. Firenze: Giunti Universale Scuola, 2011.

 7. Selvini M. Dodici dimensioni per orientare la diagnosi sistemica. Terapia Familiare 2007; 84: 9-29.

 8. Scabini E, Cigoli V. Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2007.

 9. Rosnati R. Adolescents’ life plans: a family point of view. In: Cusinato M (a cura di). Research on family resources and needs across the world. Padova: Led, 1996.

10. Cancrini L. La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell’origine dell’oceano borderline. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2012.

11. Haley J. La strategia della psicoterapia. Firenze: Sansoni, 1974.

12. Cancrini L. L’oceano borderline, racconti di viaggio. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006.

13. Melosi A, Bigiotti F, Piana R, Storai S. Il disegno congiunto della famiglia nella psicoterapia familiare dei disturbi dell’infanzia. Ecologia della mente 2008; 31: 186-204.

14. Cigoli V, Galimberti C, Mombelli M. Il legame disperante. Il divorzio come dramma di genitori e figli. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1988.

15. Minuchin S. Famiglie e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio, 1976.

16. De Grandis C. La dislessia. Interventi della scuola e della famiglia. Trento: Edizioni Erickson, 2007.

17. Broccoli F. Lascia che si arrabbi. Segrate, Milano: Sperling&Kupfer, 2016.