La base comune delle psicoterapie

Rossella Aurilio1

Times New Roman
1Psicologa psicoterapeuta sistemico-relazionale, Direttore dell’ITeR di Napoli e Caserta, Presidente della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale.

Riassunto. Questo lavoro parte dalla ricerca di elementi utili alla costruzione di una base comune dei diversi approcci in psicoterapia. Primo tra tutti l’inquadramento diagnostico: l’elemento che differenzia fortemente la diagnosi nosografica da quella in chiave relazionale sistemica, è la ricerca, attraverso una lettura del contesto, di una diversa attribuzione di senso. La diagnosi sistemico-relazionale possiamo pensarla come un ampio contenitore che al suo interno può includere anche diagnosi più specifiche, caratteristiche di altre impostazioni, ma non escludere la possibilità di offrire al paziente una riformulazione della sua condizione osservandola da una prospettiva inedita. A sostegno di questa tesi, l’autrice propone il caso di una consultazione clinica, dove viene ipotizzato che la richiesta di aiuto di due giovani fidanzati possa trovare risposte terapeutiche formulate con diverse metodologie. Il progetto terapeutico in chiave sistemico-relazionale evidenzia la possibilità di uscire dal ristretto schema normalità-patologia e coinvolgere tutti i partecipanti al setting in una efficace ricerca di cambiamento.

Parole chiave. Psicoterapia, terapia sistemico-relazionale.

Summary. The common base in psychotherapy.
This work starts from the research of useful elements for the construction of a common base of the different approaches in psychotherapy. First of all, the diagnostic framework: the element that strongly differentiates the nosographic diagnosis from that in a systemic relational key, is the search, through the reading of the context, of a different attribution of meaning. The systemic relational diagnosis can be thought of as a large container that can, inside of it, also include more specific diagnoses, characteristics of other settings, but does not exclude the possibility of offering the patient a reformulation of his condition by observing it from a new perspective. In support of this thesis, the author proposes the case of a clinical consultation, where it is hypothesized that the request for help from two young boyfriends can find therapeutic answers formulated with different methodologies. The systemic relational therapeutic project highlights the possibility of getting out of the restricted normality-pathology scheme and involving all participants in the setting in an effective search for change.

Key words. Psychotherapy, systemic relational therapy.
Resumen. Las bases comunes de las psicoterapias.
Este trabajo comienza a partir de la búsqueda de elementos útiles a la construcción de una base común para los diferentes enfoques de la psicoterapia. El primero de ellos es el encuadre diagnóstico: el elemento que diferencia fuertemente el diagnóstico nosográfico al diagnóstico del modelo sistémico relacional, es la búsqueda, a través de una lectura del contexto, de una diferente atribución de sentido. Podemos pensar en el diagnóstico sistémico relacional como un amplio contenedor que puede incluir en su interior también a diagnósticos más específicos, características de otros planteamientos, sin por eso excluir la posibilidad de ofrecer al paciente una reformulación de su condición observándola desde una perspectiva inédita. En base a este argumento, la autora propone el caso de una consulta clínica, donde se supone que la petición de ayuda por parte de una joven pareja podrá encontrar respuestas terapéuticas formuladas con diferentes metodologías. El proyecto terapéutico en clave sistémico-relacional destaca la posibilidad de salir del estrecho esquema normalidad-patología para involucrar a todos los participantes del setting en una búsqueda eficaz de cambio.

Palabras clave. Psicoterapia, terapia sistémico-relacional.
Per costruire una base solida, che possa sostenere, senza rischi di crolli, una psicoterapia unitaria, dobbiamo ben capire cosa può essere messo in comune di quella che ritengo essere la premessa di ogni cura, ossia l’inquadramento diagnostico. Dalla visione diagnostica e dall’etimo della parola, “conoscere attraverso”, dal tipo di percorso che viene scelto per conoscere e incontrare l’altro, scaturiranno le scelte terapeutiche.
La mia vocazione clinica non mi ha mai fatto entusiasmare di fronte ai manuali diagnostici, anche perché qualsiasi classificazione obbliga a tagliare fuori la molteplicità dell’esperienza. Ogni tentativo, per quanto scientificamente onesto, di diagnosticare i disturbi psichici, offre il fianco a riserve e critiche. Chi partecipa alla costruzione di questi manuali è pienamente consapevole delle difficoltà a cui si espone, ed è forse questo uno dei motivi per cui queste équipe si definiscono Task Force.
Molti sono i colleghi che di fronte agli schemi provano un disagio così grande da rimuovere il problema, come se il DSM non fosse mai esistito e non fosse arrivato al n. 5 della sua edizione. È proprio questo numero che mi suggerisce uno scherzoso accostamento con il profumo Chanel, la cui pubblicità recita: “Questa è la magia di Chanel n. 5: una goccia è sufficiente per essere diversi…”.
L’assonanza col famosissimo profumo viene suggerita anche dalla storia delle antecedenti edizioni del DSM, dove si inseguono, a tutti i costi, gli elementi innovativi rispetto all’edizione precedente, proprio come nella fabbricazione dei profumi, dove è fondamentale la ricerca della nuance che può far nascere un’altra fragranza.
Questa la premessa per dire che, prima di includere e mettere insieme gli elementi di diversità, bisogna necessariamente avere chiaro cosa escludere. C’è un modo di fare diagnosi che non è fruibile nell’area terapeutica, anzi, ha effetti secondari non propizi. Il DSM, rispondendo alle logiche delle lobby assicurative statunitensi, non è sovrapponibile alla nostra realtà italiana, ed è incompatibile con l’impostazione sistemica.
Nella storia del nostro modello, la diagnosi è stata affrontata certamente in modo non univoco. Ackerman affermava che il problema della diagnosi era da verificare con una certa urgenza altrimenti non avremmo potuto parlare di terapia.
Virginia Satir era, invece, convinta che il problema non fosse come chiamare le patologie, ma come affrontarle con successo.
In questa pluralità di vedute è possibile costruire una base comune per sviluppare la diagnosi relazionale, utilizzando degli assunti condivisi come quello di Bateson che afferma: «l’osservatore va incluso nella sfera di rilevanza dell’osservazione».
In modo ancora più esplicito, Haley affermava che «il terapeuta è costruttore di diagnosi».
Io credo che la diagnosi relazionale dobbiamo intenderla sempre come: la diagnosi della relazione che intercorre tra i partecipanti al setting, incluso il terapeuta.
Altri elementi imprescindibili della diagnosi relazionale sono quelli contestuali. Sappiamo, infatti, che i comportamenti patologici assumono un significato solo in rapporto alle particolari circostanze in cui si verificano.
L’elemento che differenzia fortemente la diagnosi nosografica da quella in chiave relazionale sistemica, è la ricerca, attraverso una lettura del contesto, di una diversa attribuzione di senso. La diagnosi sistemico relazionale possiamo pensarla come un ampio contenitore che al suo interno può includere anche diagnosi più specifiche, caratteristiche di altre impostazioni, ma non escludere la possibilità di offrire al paziente una riformulazione della sua condizione, osservandola da una prospettiva inedita.
Entrando nel territorio specifico della terapia, partiamo avvantaggiati. Moltissime sono le ricerche scientifiche validate, sui fattori di efficacia trasversali nei diversi approcci. Dalle prime che possiamo far risalire a Rosenzweig [1] alle più recenti di Norcross e Lambert [2], tutte affermano che i fattori aspecifici sono i maggiori responsabili del cambiamento in psicoterapia, pertanto non c’è nessuna differenza nell’applicazione di una o dell’altra tecnica specifica, dato che ognuna può portare a risultati apprezzabili.
Nell’articolo, Norcross e Lambert [2] confermano i dati già estrapolati nel 2012.
Vengono identificati cinque fattori considerati necessari e sufficienti a produrre un cambiamento:
– un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante;
– un setting di cura riservato e adeguato;
– un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo;
– una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente;
– una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo.
Vengono presentate meta-analisi originali e rassegne sistematiche sull’adattamento della psicoterapia alle caratteristiche transdiagnostiche dei pazienti, ovvero “una nuova terapia per ciascun paziente”.
Sono stati elaborati diversi articoli, ognuno dei quali si focalizza su un’area: il risultato finale è una raccolta di nove rassegne originali su ciò che funziona nel personalizzare la psicoterapia.
• Decenni di ricerche supportano scientificamente ciò che gli psicoterapeuti conoscono da tempo: diversi tipi di pazienti richiedono trattamenti e relazioni diverse.
• Il futuro della psicoterapia fa presagire l’integrazione di elementi tecnici e relazionali nella tradizione della pratica clinica.
Viene confermata la centralità della relazione come strada elettiva del cambiamento e la flessibilità del terapeuta nel poter adattare la relazione alla struttura del paziente e alle sue esigenze.
La formazione sistemico relazionale ha come centro l’acquisizione di abilità relazionali per ingaggiare il paziente e la sua famiglia nella costruzione di una relazione efficace. Io chiamo questa metodica “coerenza strategica”, ovvero: «la capacità del Terapeuta di creare un vero e proprio crossing over psichico con il paziente e la sua famiglia, connettendo elementi della propria personalità e delle proprie esperienze di vita con quelle di chi incontra, in un produttivo gioco di uguaglianze e differenze» [3].
Abbiamo anche chiaro che i sistemici sono appassionati studiosi della comunicazione ed esperti costruttori di ponti relazionali su cui far incontrare le realtà più eterogenee. Queste sono, a mio avviso, le caratteristiche del nostro modello maggiormente spendibili nella direzione di una psicoterapia unitaria:
• l’attenzione all’aspetto non verbale di qualsiasi comunicazione all’interno del setting, che integrano e talvolta modificano clamorosamente il valore del contenuto;
• lo studio della storia trigenerazionale attraverso lo strumento del genogramma, che consente l’utilizzo trasversale della cronologia degli eventi, collegando quelli maggiormente significativi del passato con quelli del presente;
• l’uso del patrimonio mitico familiare proiettato nella dimensione del presente e del futuro attraverso la tecnica della scultura com’è stata elaborata da Luigi Onnis.
Se è vero, dunque, che le ricerche confermano che l’efficacia della psicoterapia è basata sulla capacità di costruire una buona e produttiva relazione, riconosciuta, anche dal paziente come tale, è ancor più vero che il terapeuta si conferma l’elemento capace di fare la differenza. Di conseguenza, si apre un capitolo ancora più complesso che è quello di una base comune della formazione, di questo psicoterapeuta senza più cognome o con più cognomi. Siamo pronti ad immaginare una formazione unitaria? Soprattutto siamo pronti ad immaginarne l’organizzazione?
Sono domande aperte che ci devono coinvolgere in questa importante sfida del prossimo futuro. Se è vero che dobbiamo essere pronti a lavorare nella direzione dell’unità, è altrettanto importante non sorvolare sulle conseguenze delle modalità con cui viene concepita e ancor più costruita questa relazione.
Tutto parte dal modo di osservare il problema. La nostra ottica propone, non solo un diverso modo di inquadrare i disturbi psichici, ma soprattutto la possibilità, una volta superati, di non considerarli un corpo estraneo nella storia di vita del paziente, un errore di percorso, ma parte integrante del cambiamento ottenuto.
In altre parole non dobbiamo dimenticare che le conseguenze del metodo utilizzato per la terapia, ricadono principalmente sulla qualità di vita dei nostri pazienti.
Questo mi sembra il parametro principale che non dobbiamo perdere di vista mentre promuoviamo il sogno unitario.
Come sostegno al mio pensiero, propongo questa brevissima storia di una consultazione clinica. Due giovanissimi ragazzi, lui ventidue anni, lei diciotto, chiedono una consultazione:
Lei: “Lo lascerò a causa delle sue reazioni violente. Per fortuna sono in grado di accorgermene un attimo prima che inizi, perché lui cambia lo sguardo; così mi allontano immediatamente ovunque siamo per evitare figuracce”.
Lui: “A causa di una balbuzie infantile, mi sento, ancora oggi, in forte disagio quando vengo osservato. Quando ci incontriamo lei non mi stacca gli occhi di dosso. Questa cosa mi rende pazzo”.
Se mettessimo in atto una diagnosi secondo le linee guida del DSM-5 dovremmo inquadrare il comportamento del ragazzo in questo modo.
“Area dei Disturbi dirompenti del controllo degli impulsi e della condotta - II sezione disturbo esplosivo intermittente. Gli scoppi di rabbia sono sproporzionati rispetto alle provocazioni interpersonali.”

Un manuale psicodiagnostico, si sa, non indica la terapia che è responsabilità del terapeuta. Così immagino che se i due giovani si fossero recati a consulto da un ipotetico psichiatra di impostazione ortodossa, questi avrebbe potuto prescrivere un farmaco adeguato ed efficace per controllare l’impulsività. Se, invece avessero chiesto aiuto a uno psicoterapeuta di matrice cognitivista, questi avrebbe potuto mettere in campo tecniche idonee per ottenere una migliore gestione della rabbia e una padronanza della sfera emotiva.
Un terapeuta psicodinamico, invece, si sarebbe focalizzato sulla struttura e sul funzionamento psichico del ragazzo in questione, avrebbe ricercato gli elementi traumatici del passato e attraverso il lavoro di analisi, avrebbe favorito il superamento del comportamento problematico. In tutte le strade intraprese, si sarebbe potuto raggiungere un risultato soddisfacente, ma con la sottintesa valutazione che il problema da affrontare apparteneva esclusivamente al ragazzo, unica persona a cui rivolgere attenzione diagnostica e terapia. Il comportamento sintomatico sarebbe diminuito e/o superato del tutto, ma quel ragazzo avrebbe dovuto adattarsi all’idea di avere un alterato funzionamento psichico. Nel primo caso, lo avrebbe fronteggiato con farmaci, sperando che in un tempo futuro se ne sarebbe potuto affrancare, negli altri due, la psicoterapia gli avrebbe fatto sperimentare che poteva fronteggiare con tecniche adeguate e consapevolezza di se questo cattivo funzionamento della sfera emotiva, sperando di riuscirci anche in caso di eventi critici futuri. Un terapeuta sistemico relazionale, sarebbe partito dall’analisi della breve sequenza interattiva tra i due ragazzi e si sarebbe trovato di fronte alla scelta della punteggiatura degli eventi, ma immediatamente avrebbe dato rilievo alla loro relazione. È chiaro come la ricorsività, “lui è aggressivo di conseguenza io lo controllo” – “il controllo ossessivo mi scatena aggressività”, conduce ad una totale immobilità, ma questa immobilità è il risultato di un accordo perfettamente orchestrato al punto che nessuno dei due si permette di introdurre una novità comportamentale destabilizzante. Il secondo passo del terapeuta sistemico, sarebbe stato quello di passare dal “guardare circolare” ad un “pensare sistemico”, incuriosendosi dei loro sistemi più ampi di appartenenza. Si sarebbe discostato dall’angusta realtà della ridondanza interattiva, interrogato sul contesto in cui erano maturate quelle modalità comunicative e avrebbe deciso di indagarlo.
Il contesto a cui appartenevano i nostri giovani ragazzi è un piccolo centro della costiera sorrentina, dove le vicende ed i miti familiari diventano un patrimonio collettivo.
La ragazza diciottenne era unica figlia di una coppia dove il padre aveva un forte potere economico ed esercitava una grande influenza psicologica sulla moglie. Lui la tradiva con la sua segretaria da molti anni, mantenendo una doppia vita sentimentale, mai ammessa, ma sfacciatamente vissuta. Per la ragazza risultava imbarazzante la figura della madre, che sembrava credere ad ogni giustificazione del marito ed era da tutti giudicata eccessivamente ingenua. Per lei era fondamentale poter dimostrare che era fatta “di un’altra pasta” in modo tale che nessuno avrebbe potuto dire, come dicevano della madre, che” viveva sulle nuvole” o che non fosse capace di “farsi rispettare”.
Il nostro giovane impulsivo, invece, aveva un padre che era entrato di diritto nelle figure mitiche del suo paese, per la facilità con cui si faceva coinvolgere da giovane in discussioni che degeneravano in memorabili risse che, come nella migliore cinematografia western, trasformavano la piazza in un vero e proprio saloon. Questi racconti gli venivano fatti di frequente da coetanei del padre e quando li ascoltava, non riusciva mai a decifrare lo stato d’animo dei narratori. Da un lato era palese l’ammirazione per la facilità di vittoria che il padre aveva sui suoi avversari, ma dall’altro c’era il monito verso di lui a non ricalcare quelle orme e a non mettersi nei guai con la giustizia.
Coniugando elementi culturali e sociali del contesto con eventi delle storie di vita, è possibile disegnare nuove traiettorie ed offrire un diverso costrutto di senso alla relazione disfunzionale dei due ragazzi. Questi, procedendo per tentativi ed errori, stavano lavorando alla costruzione della loro identità, confrontandosi con limiti e risorse delle figure mitiche del loro passato, ricercando modalità relazionali “vincenti” della loro immagine sociale. Vista in questo nuovo inquadramento, la loro relazione lascia sullo sfondo la connotazione dichiaratamente patologica, per assumere quella di passaggio ad una diversa fase del ciclo di vita, che se coadiuvata da un corretto lavoro terapeutico, può sostenere una produttiva evoluzione e favorire una efficace differenziazione. Quello che con questo esempio sottolineo è che, non è solo importante il risultato di una psicoterapia, ma il percorso attraverso il quale ci si arriva. Quello che cambia nella prospettiva del lavoro sistemico è la percezione del problema da parte di chi lo vive, elemento certamente di non poco conto. Il paziente non è più solo, schiacciato dal peso dei suoi comportamenti ripetitivi e negativi, ma vicino alle persone significative della sua vita coinvolte con lui per la ricerca di un cambiamento, che sarà possibile ottenere, sperimentando: condivisione e cooperazione.
Questi i pilastri che proporrei come fondamenta su cui costruire la futura base unitaria della psicoterapia.
BIBLIOGRAFIA
1. Rosenzweig S. Some implicit common factors in diverse methods of psychotherapy. American Journal of Orthopsychiatry. 1936; 6: 341-476.
2. Norcross JC, Lambert MJ. Quando la relazione psicoterapeutica funziona… Vol 3. Ricerche scientifiche a prova di evidenza. Roma: Armando Editore, 2019.
3. Aurilio R, Menafro M, De Laurentis MGA. La terapia sistemico-relazionale tra coerenza e strategia. Apprenderla e praticarla. Milano: Franco Angeli, 2015.