I gruppi multifamiliari tra risorse e vincoli nei
Dipartimenti di Salute Mentale

Roberto Luigi Pezzano1



Particolarmente dedicato ai medici e agli operatori della salute, l’articolo col­locato in questa sezione risponde a una domanda fondamentale sulla possibilità di utilizzare, fuori dal campo in cui esso nasce, il sapere che origina dal lavoro degli psicoterapeuti.


Especially adressed to practitioners and other health specialists, the article placed in this section answers to the main question on the possibility to make use of the knowledge resulting from the work of psychoterapists outside the field in which it is born.


Dedicado especialmente a los médicos y demás profesionales de la salud, el artículo presentado en esta sección responde al tema fundamental sobre la posibilidad de utilizar los conocimientos derivados del trabajo de los psicoterapeutas fuera de su campo original.



«La libertà non è stare sopra un albero, non è neanche
il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione».
Giorgio Gaber



Riassunto. I gruppi multifamiliari (GMF) rappresentano ormai in Italia una realtà in molti Dipartimenti di Salute Mentale. L’autore racconta, inizialmente, la nascita dei GMF a livello internazionale e nazionale e i successivi sviluppi, secondo i diversi modelli, descrivendone luoghi, tempi, caratteristiche, regole, conduzione, ecc., soffermandosi, successivamente, sulle esperienze italiane e in particolare su quella siciliana, con l’intento di aprire un confronto su tali realtà.

Parole chiave. Multifamiliare, psicosi, gruppi, salute mentale.


Summary. Multifamily groups between resources and constraints in Departments of Mental Health.
Multifamily groups already represent a fact in a lot Departments of Mental Heath in Italy. At the beginning the author tells about the birth of multifamily groups at a national and international level, and the following developments based on the different models, describing place, times, features, rules, direction, etc. He later focuses the attention on the Italian experiences and in particular on the Sicilian experience, with the aim of having an exchange of views on the reality.

Key words. Multifamily, psychosis, groups, mental health.
Resumen. Grupos multifamiliares entre recursos y restricciones en los Departamentos de Salud Mental.
Los grupos multifamiliares representan una realidad en muchos Departamentos de Salud Mental en Italia. Inicialmente, el autor relata el nacimiento de los grupos multifamiliares a nivel internacional y nacional y los sucesivos desarrollos segun los diferentes modelos, describiendo lugares, tiempos, caracteristicas, reglas, conductas, etc. Seguidamente, se centra en las experiencias italianas, en in particular en la siciliana, con la intencion de abrir un debate sobre  dichas realidades.

Palabras clave. Multifamiliar, psicosis, grupos, salud mental.
PREMESSA
«Nella schizofrenia il formato multifamiliare risulta efficace circa il doppio rispetto a quello con la singola famiglia sulla riduzione delle recidive. Bertrando si chiede perché se questi interventi sono così efficaci non siano utilizzati da più clinici nei servizi anziché essere considerati un lusso o superflui; riflette sulla necessità di aumentare l’applicabilità di tali strumenti nei Servizi rendendoli più flessibili e semplici, vicino all’utenza territoriale, di facile utilizzo e inseribili in una struttura decentrata» [1].
«Per le malattie mentali complesse, sia la psichiatria sia la terapia familiare devono esplorare nuovi modi di lavorare» [2].
«Il futuro nell’affrontare le gravi patologie psichiatriche nei Dipartimenti di Salute Mentale possono essere i gruppi multifamiliari» [3].
«Perdere parte della rete sociale significa perdere parti di sé, parte della propria storia e dell’identità» [4].
LA NASCITA DEI GRUPPI MULTIFAMILIARI E I SUOI SVILUPPI
Alla fine degli anni ’50 nacquero le prime esperienze con i gruppi familiari. Alfredo Canevaro ci ricorda quelle di Abrahamas e Veron (del 1953) con un gruppo di ragazze schizofreniche e le loro madri centrato su simbiosi e dipendenza reciproca; quella di Detre (del 1961) con pazienti e familiari, separati e congiunti; quella di Hes e Hander (del 1961) con gruppi congiunti di pazienti e familiari al New Haven Hospital [5].
Anche M. Bowen [6] alla fine degli anni ’50 (dal 1955 al 1959) sviluppò un progetto pilota di Terapia Familiare Multipla – definita anche “Terapia di Rete con Famiglie Multiple” – all’interno del reparto psichiatrico dell’Ospedale dell’Università di Georgetown. Il progetto prevedeva degli incontri di gruppo con le intere famiglie (che vivevano per lunghi periodi di tempo nel reparto in cui si svolgeva la ricerca con il figlio o la figlia schizofrenici), ai quali, in un secondo momento, presero parte anche gli operatori del reparto. Durante questa esperienza, Bowen introdusse vari cambiamenti nella conduzione della terapia multipla, l’ultimo dei quali, ritenuto da lui il più importante, prevedeva che ciascuna seduta venisse dedicata ad una singola famiglia, mentre le altre partecipavano in veste di ascoltatori silenziosi. Bowen non diede continuità al progetto, anche se riteneva fosse stata un’esperienza importante.
Negli anni ’60, Laqueur cominciò ad incontrare pazienti, familiari e operatori nei Multiple Family Groups, organizzando il reparto dell’Ospedale di New York come una comunità terapeutica.
Nello stesso periodo, Badaracco in Argentina inizia, nel 1964, l’esperienza di quella che definì “psicoanalisi multifamiliare” presso l’Ospedale Borda di Buenos Aires, fondando poi nel 1968, insieme a Canevaro e Proverbio, una Comunità Terapeutica privata a struttura multifamiliare per pazienti psicotici.
Il modello psicoanalitico: la psicoanalisi multifamiliare
Il modello della psicoanalisi multifamiliare di Badaracco [7,8] dà una lettura psicodinamica delle relazioni familiari all’interno del gruppo e utilizza quindi concetti come “transfert multipli” e “interdipendenze patologiche e patogene”, in virtù delle quali uno o entrambi i genitori, non avendo a loro volta elaborato processi di separazione rispetto ai propri genitori (o lutti, rancori e altri aspetti emotivi), instaurano con il proprio figlio un legame di tipo simbiotico, in conseguenza del quale anche quest’ultimo avrà difficoltà a separarsi. In questo caso la crisi psicotica, anche se si esprime con deliri e allucinazioni, può rappresentare l’unica alternativa di interruzione di questi legami non evolutivi e un tentativo di differenziazione e di uscita da questa interdipendenza. Il gruppo multifamiliare (GMF) dà la possibilità di poter dire quello che in famiglia non è stato possibile esprimere, funzionando dunque come una “mente ampliada” dove ciascun membro rappresenta una risorsa per gli altri. Per Badaracco la psicoanalisi multifamiliare ha il compito di «creare un clima emotivo necessario per ricreare una sorta di relazione di sana interdipendenza reciproca primitiva, in modo da poter riscattare il vero Sé dalla trappola delle identificazioni patogene indotte dalle situazioni traumatiche» [7].
Il modello sistemico
Il modello sistemico di Laqueur
Il modello sistemico di Laqueur era focalizzato sulla comunicazione disfunzionale e sulle problematiche conflittuali tra genitori e figli. L’obiettivo principale dei gruppi era quello di migliorare la comunicazione tra tutti i componenti della famiglia e di comprendere meglio le ragioni del comportamento disturbato di ciascuno nei confronti dell’altro. Anche Laqueur parla di processi di differenziazione nel rapporto tra genitori e figlio ma a tal proposito afferma che «alcuni medici ritengono che i pazienti schizofrenici debbano essere separati per sempre dalle loro famiglie… io ritengo che un tale punto di vista sia necessariamente pessimistico» [9].
I sistemi familiari patologici secondo Laqueur possono essere modificati attraverso il GMF, all’interno del quale il terapeuta assume un ruolo importante, dovendo essere molto attivo e creativo nella conduzione e dovendo stare allo stesso tempo molto attento agli aspetti controtransferali. I problemi irrisolti del terapeuta rispetto al proprio nucleo familiare possono, infatti, secondo Laqueur, rendere difficile la conduzione del gruppo.
Negli incontri multifamiliari emergono nel qui ed ora i conflitti e le disfunzioni intrafamiliari ed è compito del terapeuta e delle famiglie – che diventano così co-terapeuti – interrompere tali sequenze ridondanti [10].
Il modello sistemico del Marlborough Family Service di Londra
Negli anni ’70 in Inghilterra, presso il Marlborough Family Service di Londra, Cooklin [11], insieme poi a Asen [12-15], dà vita a un innovativo progetto multifamiliare occupandosi di famiglie multiproblematiche, ma anche di disturbi psicotici, di disturbi del comportamento alimentare e di altri disturbi gravi all’interno di una cornice sistemica.
Il lavoro clinico si svolgeva presso una Unità Diurna (Day Unit) dove diverse famiglie passavano per diversi mesi molte ore della giornata insieme, condividendo anche momenti come il pranzo o il riposo dei propri figli. Ciò dava la possibilità agli operatori, ma anche ai familiari, di poter osservare nel qui ed ora le loro interazioni e di lavorare sulle disfunzioni relazionali che si presentavano durante lo stare insieme. Un contributo originale sviluppato dal gruppo londinese è l’utilizzo del “Reflecting Team” (che prende ispirazione da Andersen [16]): la riunione settimanale degli operatori viene videoregistrata e poi mostrata alle famiglie, stimolando in loro una meta-riflessione che rappresenta un ulteriore importante feedback per gli operatori, i quali possono lavorare sulla riflessione delle famiglie.
Negli ultimi anni questo modello si sta sempre più integrando con la teoria della mentalizzazione di Fonagy [17].
A questi due modelli principali si sono aggiunti, nel corso degli anni, altri contributi di terapeuti, che hanno sviluppato (in maniera più o meno originale) altri approcci al modello multifamiliare.
Il modello psicoeducativo
Alla fine degli anni ’70-inizi anni ’80 prende piede in America il modello psicoeducativo che utilizza l’approccio cognitivo-comportamentale con le singole famiglie [18]; tale modello verrà ripreso e poi applicato da Mc Farlane et al. [19] ai GMF da lui condotti. Le radici teoriche di tale modello vanno inoltre ricercate nel modello “stress-vulnerabilità” e nel concetto di “emotività espressa”. I principali obiettivi del GMF di tipo psicoeducativo sono: migliorare le capacità di comunicazione tra i familiari, migliorare la compliance farmacologica, insegnare ad evitare le recidive, sviluppare il problem-solving. Gli incontri sono monotematici e si svolgono con un numero definito di famiglie chiamate ad apprendere le strategie di fronteggiamento del disturbo e delle problematiche comportamentali del paziente. Nel tempo questo modello è stato sottoposto a modifiche sia nella conduzione sia nei temi.
Altre realtà ed esperienze
È importante anche ricordare i movimenti, le associazioni di familiari e utenti, i gruppi di peer supporter che, anche se non rappresentano veri e propri GMF, costituiscono delle esperienze autonome (spesso senza la presenza di operatori e a volte con la loro presenza) di famiglie che s’incontrano per sostenersi a vicenda in un’ottica di auto-mutuo-aiuto e rappresentano un’ulteriore risorsa dentro e fuori i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM).
Non riconoscere il loro valore di supporto è come non riconoscere i temi della recovery e del protagonismo degli utenti e dei familiari, fondamentali per una salute mentale di comunità.
I GRUPPI MULTIFAMILIARI IN ITALIA
I GMF in Italia non hanno una lunga storia. Solo a partire dalla fine degli anni ’80-inizi ’90 cominciano a formarsi gruppi familiari, inizialmente con la sola coppia di genitori [20-25].
Tali esperienze possono oggi essere ritenute comunque valide in quanto offrivano ai genitori uno spazio e un tempo diversi dagli incontri di terapia familiare: il gruppo, con tutte le sue valenze terapeutiche. In quel periodo, inoltre, il timore diffuso degli operatori era che l’inserimento dei figli in questi gruppi di genitori, soprattutto nel caso di gravi disturbi psichiatrici, potesse essere disturbante per il gruppo stesso e quindi renderlo di difficile gestione. Solo successivamente, alcuni operatori che avevano condotto i gruppi con i soli genitori e che erano entrati in contatto con i vari modelli multifamiliari, cominciarono ad attivare nei loro contesti lavorativi, soprattutto nei DSM, veri e propri GMF.
Di seguito si tenta una descrizione sintetica, che non pretende certo di essere completa ed esaustiva, delle attuali esperienze italiane.
Il modello della psicoanalisi multifamiliare in Italia
L’introduzione e l’implementazione della psicoanalisi multifamiliare in Italia si deve soprattutto a Narracci [26,27] il quale, avendo conosciuto Badaracco e fatto esperienza del suo modello in Argentina [8], ha trasferito questa operatività inizialmente nella Comunità Terapeutica Residenziale e successivamente nelle varie articolazioni del dipartimento (dai SPDC ai Centri Diurni), introducendo di fatto una nuova importante cultura all’interno dei DSM che vede più operatori, con formazione diversa e in contesti diversi, utilizzare la cornice condivisa dei GMF.
All’interno del gruppo «i genitori possono, con l’aiuto della partecipazione al MFPG, nella quale la mente si destruttura e riorganizza il proprio funzionamento per “associazioni libere”, giungere ad avvicinare ricordi che era impensabile recuperare e, attraverso il loro inserimento nella catena ricostruttiva dei ricordi, rivivere traumi e lutti, che avevano vissuto ma di cui avevano del tutto dimenticato l’esistenza […]. Il gruppo, una volta recuperati i ricordi irrecuperabili, può aiutarli ad affrontare e a smaltire la sofferenza legata alla loro riappropriazione» [27].
Tale modello è in continua espansione. Oltre che nel Lazio vi sono le esperienze di Torino e Milano [28-30], di Campi Bisenzio (FI) [31] e di Caltagirone (CT) [32,33]. In Italia è stata fondata l’Associazione di Psicoanalisi Multifamiliare. Interessante a tal proposito la ricerca di Gargano [34].
Il modello sistemico dei GMF in Italia
Il modello sistemico-esperienziale di Alfredo Canevaro
Alfredo Canevaro, che aveva lavorato inizialmente con una impostazione psicoanalitica insieme a Badaracco, si avvicina successivamente al modello sistemico, sviluppando in maniera del tutto personale il lavoro con le famiglie e con le coppie in un’ottica trigenerazionale [35,36]. Trasferitosi in Italia, lavora da anni come supervisore di GMF in alcuni DSM.
Il modello sistemico-esperienziale da lui sviluppato si serve molto delle emozioni che spesso le persone tendono ad evitare e a non fare emergere per produrre cambiamenti. Perché questo accada, i conduttori del gruppo devono essere attivi e saper scegliere i momenti in cui le emozioni possano trovare una maniera costruttiva di esprimersi.
«Le emozioni non mentono, le parole purtroppo sì. Se riusciamo a promuovere un incontro emozionalmente intenso il cambiamento è più profondo, le parole possono invece restare lì, prive di significato» [37].
Per fare ciò, Canevaro si serve anche di alcune tecniche che avvicinano, fisicamente ed emotivamente, i genitori e i figli (e che comprendono, per esempio, guardarsi negli occhi, toccarsi, abbracciarsi), favorendo un clima caldo e affettuoso all’interno del gruppo.
Secondo Canevaro, più è ampia la rete sociale dei familiari più si hanno dei risultati: ai GMF vanno dunque invitati, se è utile, altri parenti, amici, persone vicine alla famiglia e alla persona con disagio.
Il modello sistemico di Eia Asen
Il modello sistemico di Asen, più conosciuto in altri paesi europei, ha avuto in Italia poca diffusione [12-15].
Le principali esperienze sono rappresentate dal gruppo di Canova [38] che, insieme ad Asen, da qualche anno attiva una formazione sui GMF a Milano; dal lavoro con le famiglie problematiche e con i minori del Centro di Trattamento Multifamiliare dell’ASL di Milano, attivo dal 2001 al 2006; dal Centro Associativo/Cooperativo “La casa del Sole” di Varese; dal Centro del Bambino e della Famiglia a Bergamo; dal Progetto di Terapia Multifamiliare del comune di Sondrio.
Altre esperienze
Altre esperienze sono state portate avanti da operatori di formazione sistemica [39] nel Dipartimento della ex ASL RM/E.
Anche il lavoro sistemico di gruppo [40,41], pur non essendo un GMF, ha con esso alcuni punti in comune che possono essere utili per gli operatori che conducono i GMF.
Il modello psicoeducativo
Il modello psicoeducativo di Mc Farlane [19] ha avuto negli anni ’90 in Italia un periodo di diffusione in alcuni DSM, sotto la spinta e la promozione dell’Università dell’Aquila [42] e dell’Università di Napoli [43,44], che hanno prodotto moltissimi articoli sull’argomento. Gli ultimi sviluppi di tale modello prevedono un’impostazione cognitivo-comportamentale basata sul problem-solving. Il DSM di Campobasso [45] rappresenta il dipartimento capofila di quest’ultima formulazione teorica.
Alcuni operatori sistemici [46] ritengono importanti alcuni elementi psicoeducativi e applicano un modello integrato definito “psicoeducazione sistemica” [47].
DEFINIZIONE DI GMF
Riprendendo due definizioni citate da Canevaro [5]:
«Intervento psicosociale pianificato che coinvolga due e più famiglie nella stessa stanza con un terapeuta presente in tutte le sedute. Ogni famiglia partecipante deve avere due o più membri che rappresentino almeno due generazioni. Le sedute devono avere un focus esplicito nei problemi o preoccupazioni condivise da tutte le famiglie presenti e centrarsi nelle interazioni familiari. Le sedute devono enfatizzare i pattern di interazione familiare privilegiando le alleanze attuali o potenziali tra i membri delle diverse famiglie basate nella somiglianza di età, sesso, problemi o mali familiari» [48].
«Lavorare simultaneamente con un gruppo di famiglie che affrontano problemi similari e che includa il paziente identificato in un setting gruppale combina il potere del processo gruppale con la focalizzazione sistemica della terapia familiare» [49].

Il GMF dunque, per definirsi tale, necessita semplicemente della presenza di più famiglie, i cui membri devono appartenere almeno a due generazioni.
Dalla letteratura nazionale ed internazionale sui GMF è possibile evincere che per la formazione di un GMF sia inizialmente necessaria la presenza di almeno quattro famiglie. Tale numero può successivamente aumentare fino a raggiungere anche le 30/40 persone (tra operatori e famiglie).
Alcuni ritengono utile allargare gli incontri alla rete sociale più estesa della persona e della famiglia con disagio, includendo dunque anche le persone coinvolte nel problema della persona (per es., amici, altri terapeuti, vicini di casa), al fine di attivare più risorse relazionali possibili.
Può accadere che agli incontri si presentino inizialmente solo i genitori: in tal caso, si ritiene utile che questi partecipino lo stesso. Il gruppo può infatti rappresentare anche un modo per agganciare un figlio che ha difficoltà a essere preso in carico, il cui inserimento può avvenire dunque anche in un momento successivo.
I LUOGHI DEL GMF
I primi GMF sono stati avviati nelle strutture residenziali/riabilitative, nelle quali spesso i rapporti della comunità (e dunque delle persone ricoverate, la maggior parte delle volte per molto tempo) con le famiglie non erano costanti (a volte si trattava di una vera e propria separazione non ufficiale!). Il GMF ha rappresentato in questo senso uno strumento utile per la ripresa delle relazioni tra famiglie e comunità/persone, adatto per le gravi patologie, poiché si riunisce in un contesto protetto. Visti i primi incoraggianti risultati (principalmente le esperienze romane), i gruppi hanno cominciato a diffondersi in altre realtà italiane e a diventare una modalità d’intervento fondamentale all’interno delle comunità e anche di altri contesti dei DSM, come i centri diurni, i CSM, i SPDC (pochissime sono le esperienze in Italia nel privato sociale).
È evidente che i gruppi nei diversi contesti assumano caratteristiche diverse (i contenuti e i temi che emergono, ad esempio, possono essere diversi in un SPDC piuttosto che in un Centro Diurno) e siano soggetti a vincoli differenti (nelle strutture residenziali, ad esempio, la presenza dei figli è quasi sempre certa, a differenza di quanto può accadere in un Centro Diurno, dove è possibile che il/la figlio/a non voglia, almeno inizialmente, venire). Qualunque sia il contesto in cui si svolge, però, il GMF ha comunque un suo valore terapeutico.
LA MULTIPROFESSIONALITÀ NEI GMF
Nei GMF i conduttori devono essere almeno due. Oltre ai due conduttori principali possono però partecipare al gruppo altre figure professionali, anche (e soprattutto) con ruoli e formazione diversa. Tale multiprofessionalità è considerata una risorsa non solo per le famiglie che partecipano al gruppo ma anche per gli operatori stessi, poiché permette di costruire buone relazioni interprofessionali e quindi un linguaggio a più voci, come una orchestra che raggiunge la propria armonia con gli strumenti più diversi ma con sintonia.
L’operatore partecipa al gruppo innanzitutto come persona e poi come tecnico/professionista, offrendo, in maniera non competitiva ma complementare, il proprio punto di vista: non esistono verità, solo storie diverse.
I TEMPI DEGLI INCONTRI
La cadenza degli incontri multifamiliari (settimanale, quindicinale o mensile) dipende dalla metodologia adottata, ma anche dal contesto in cui si svolgono gli incontri.
Nelle comunità ad esempio gli incontri settimanali sono di difficile realizzazione, per il semplice fatto che spesso le famiglie non abitano vicino alla comunità in cui si trova il proprio congiunto. Solitamente nei Centri Diurni gli incontri si svolgono invece quindicinalmente o settimanalmente. Gli incontri durano in genere un’ora e mezza, massimo due ore.
Spesso le famiglie si fermano a passare del tempo insieme e a parlare prima e dopo il gruppo. Questi momenti informali sono di una ricchezza relazionale fondamentale per la riuscita e la continuità dei gruppi, in quanto creano dei legami importanti soprattutto in quelle famiglie in cui il disagio psichiatrico ha creato un forte isolamento sociale e uno stigma. I GMF finiscono spesso per creare una rete relazionale di sostegno dentro e fuori i Dipartimenti.
GLI INVII AL GMF
Gli invii delle famiglie al GMF possono avvenire in vari modi e da qualunque sede del Dipartimento. È importante sottolineare che la terapia multifamiliare non è incompatibile con altri interventi. La persona con disagio che frequenta una multifamiliare può ad esempio essere seguita anche individualmente.
Accade anche che gli stessi familiari che frequentano o hanno frequentato il gruppo possano fare degli invii attraverso il passaparola con altri familiari che frequentano il Dipartimento.
LE REGOLE DEI GMF
Esistono alcune semplici regole da rispettare all’interno del GMF: quando qualcuno parla gli altri devono ascoltare senza interromperlo; ciascuno può esprimere il proprio punto di vista e tutti i punti di vista vanno rispettati; non vanno fatti commenti critici e/o distruttivi; tutto ciò che viene discusso nel gruppo rimane nella stanza.
È tipico che inizialmente, quando nasce un gruppo, un familiare o un/a figlio/a cominci a parlare in maniera continua senza rispettare le regole e quindi che alcuni familiari stiano in silenzio. Per esperienza, questa situazione dopo alcuni incontri tende a trovare un maggiore equilibrio, grazie ai conduttori ma grazie soprattutto agli altri membri del gruppo. Nel tempo il gruppo si autodisciplina.
Può succedere che a volte emergano temi molto delicati che una famiglia non vuole affrontare in gruppo. In questo caso la scelta va rispettata e per quel tema particolare si possono trovare uno spazio e un tempo fuori dal gruppo, purché questo non diventi una regola (dobbiamo stare attenti noi conduttori che questo non accada) perché si corre il rischio che il gruppo si disgreghi.
Forse l’ambizione più grande della multifamiliare è non fare una terapia familiare per una singola famiglia, ma connettere insieme tutte le famiglie pur nelle loro diversità.
LA CONDUZIONE DEI GMF
I terapeuti dei vari modelli hanno molti punti in comune nella conduzione, ma anche delle differenze sostanziali: tutto dipende dalla punteggiatura che ogni conduttore, e il relativo suo modello di riferimento, utilizza durante gli incontri.
Tutti i modelli ad esempio hanno in comune il lavorare con i familiari nel qui ed ora ed aspetti quali il rispecchiamento fra le famiglie, la cooperazione, la speranza nei cambiamenti, la ridefinizione in positivo delle risorse familiari. Le differenze possono essere invece che ad esempio i conduttori sistemici e quelli cognitivo-comportamentali sono più direttivi e attivi nel gruppo e utilizzano in maniera differente strategie e tecniche. I cognitivo-comportamentali si focalizzano ad esempio sul problem-solving ed utilizzano dunque esercizi e homework per i familiari e gli utenti. I conduttori di formazione sistemica sono più direttivi e neutrali, sono consapevoli che il gruppo deve riconoscere in loro dei punti di riferimento ma non dei soggetti a cui delegare passivamente. I sistemici possono servirsi di tecniche come le prescrizioni, le sculture, lo zaino di Canevaro, il lavoro sulle emozioni (in sistemica tema poco affrontato che però negli ultimi anni è stato ripreso in maniera interessante), con il corpo e le distanze, sulle storie trigenerazionali.
Nel modello psicoanalitico si lascia spazio alle libere associazioni e ai transfert multipli (con relative interpretazioni psicoanalitiche), lavorando sulle relazioni simbiotiche e i legami di interdipendenza allo scopo di stimolare processi di differenziazione del Sé dei figli.
Un’altra differenza tra i vari approcci al multifamiliare può essere rappresentata dalla scelta degli operatori di fare un briefing pre- e post-incontro. Alcuni operatori prediligono sia il pre- che il post-, altri solo il pre- o solo il post-, altri ancora nessuno dei due; infine, pochi operatori di alcuni GMF stilano alla fine un verbale della riunione che dovrà, all’incontro successivo, essere letto e approvato dal gruppo.
L’ESPERIENZA DEI GMF IN SICILIA
Come già brevemente descritto, la prima esperienza in Sicilia, durata alcuni anni, nasce nel 1994 con dei gruppi di soli genitori presso il DSM di Palagonia (CT) [20]. Nei primi anni del 2000 nascono i primi GMF nel Centro Diurno Interdipartimentale di Catania, gruppi che continuano tutt’ora con continui ricambi di famiglie.
Questa prima esperienza contagerà tutte le altre che nasceranno successivamente; quindi anche quelli che erano inizialmente solo gruppi di genitori diventano GMF. Già queste prime esperienze hanno fatto emergere gli aspetti terapeutici della multifamiliare e cioè una riduzione dei ricoveri, la presa in carico di figli che prima avevano relazioni difficili con il Dipartimento, una nuova e diversa relazione tra famiglie e Dipartimento [50]. Nel 2012 il modulo dipartimentale distrettuale di Adrano-Bronte (CT) e la Comunità Terapeutica J.F. Kennedy (Catania) organizza il primo convegno sui GMF con due relatori di formazione sistemica: E. Visani e C. Bernardi.
Il riconoscimento istituzionale della multifamiliare all’interno del Dipartimento ha poi fatto sì che diverse figure professionali, con un progetto della Regione Sicilia (2015) sui disturbi gravi e complessi, potessero formarsi con i didatti A. Narracci per la psicanalisi multifamiliare e Canova per quella sistemica di Asen e Pajero, psichiatra uruguaiana vicina a Badaracco, ma con sue personali idee. Due operatori del Dipartimento di Catania hanno poi a loro volta formato altri operatori presso i DSM di Catania (in alcuni moduli distrettuali), di Siracusa, Enna e Caltanissetta (2016), presso alcune Comunità Terapeutiche Assistenziali e altre strutture residenziali come Case Famiglia e Comunità Alloggio. Da tutto ciò sono nati altri GMF a Siracusa, a Lentini (SR), a Rosolini (SR), a Enna e a Piazza Armerina (EN) e in molte Strutture Residenziali di Comunità a Catania e provincia
All’interno del Dipartimento di Catania è nato anche un piccolo coordinamento per confrontarsi sui GMF già attivati.
Nel 2017 il DSM di Ancona/Jesi ha inoltre coinvolto il DSM di Catania in un corso di Formazione in videoconferenza sui GMF con la supervisione di Canevaro.
Sempre nel 2017, a dicembre, il DSM di Catania organizza il primo Forum Regionale sui GMF. Nel 2018 è previsto un corso di formazione di approfondimento sui GMF con la supervisione in videoconferenza di A. Canevaro e A. Narracci.
ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI
• Il GMF rappresenta una risorsa in più, dentro e fuori i Dipartimenti. Non entra in competizione con nessun altro intervento all’interno del Dipartimento.
• Il GMF è disponibile ad accogliere e ad ascoltare anche una persona in piena crisi. Ciò dà la possibilità di dare voce ad una sofferenza e il gruppo può dare a questa più significati, più letture a quella crisi, con la possibilità di allentare la tensione.
• Il GMF dà la possibilità di sviluppare idee che spesso la singola famiglia, per vari motivi e in quella fase della vita familiare, non riesce a pensare da sola, poiché imbrigliata nelle sue relazioni disfunzionali.
• In un GMF vi è la possibilità che più operatori con qualifiche diverse e appartenenti a diversi Servizi lavorino insieme, creando così una cultura di gruppo che contrasta quella frammentazione di interventi purtroppo spesso presente nei Servizi, facendo uscire dalla solitudine il singolo operatore e dandogli la possibilità di sentirsi parte di una squadra dove tutti i giocatori sono importanti, evitando così burnout e relazioni simmetriche distruttive tra operatori [51].
• È bene ribadire, poiché non sempre nei Dipartimenti è così ovvio, che qualunque intervento in Salute Mentale deve porre le famiglie e gli utenti in primo piano; gli utenti e i familiari devono essere protagonisti e partecipare attivamente dentro e fuori i Dipartimenti. Tutto ciò è possibile solo se la cultura del Dipartimento è orientata alla recovery.
• Provando a rispondere alla domanda di Bertrando sul perché i GMF, pur avendo una riconosciuta efficacia terapeutica, non siano presenti in tanti Dipartimenti, si può ipotizzare che ciò possa essere innanzitutto dovuto al fatto che molti operatori hanno una cultura terapeutica più individuale che gruppale. Quelli che lavorano con i gruppi in genere lavorano con gruppi di soli pazienti e qualche volta di soli genitori. L’idea di metterli insieme fa paura e provoca resistenze. Si pensa che una stanza con 10/12 famiglie, e quindi facilmente con più di 20/30 persone, di cui alcune con disturbi gravi, non sia gestibile. Sappiamo per esperienza che non è così. Un’altra possibile causa potrebbe essere rappresentata dalla resistenza di molti operatori (psichiatri o psicologi) a fare invii al gruppo, forse a volte per paura di perdere la famiglia o per il timore che questa possa lamentarsi nel gruppo di problematiche che lo riguardano. L’inserimento in gruppo può invece migliorare la relazione della famiglia non solo con l’operatore di riferimento, ma con tutto il Dipartimento.
CONCLUSIONI
Più che definire una conclusione mi piacerebbe aprire un dibattito, una conversazione, un confronto su questi temi, poiché i GMF rappresentano ormai una realtà in molti DSM, e dunque diventa importante dare significato a queste esperienze.
Un ringraziamento particolare va ad Alfredo Canevaro, che fin da quando ci siamo conosciuti ha sempre rappresentato per me una guida e un punto di riferimento importante. Un ringraziamento, per gli stimoli e il confronto sui modelli multifamiliari, ad A. Narracci, R. Canova ed E. Visani. Ringrazio poi la collega Yoraima Auteri che in questi anni ha condotto insieme a me i gruppi, poiché le nostre caratteristiche personali così diverse hanno rappresentato per me e per i nostri gruppi una ricchezza unica; ringrazio i due psicologi tirocinanti Gaia Scarfì ed Emanuele Militello che ci hanno seguiti e che abbiamo formato in questi anni, sperando che siano in futuro la nostra continuità; ringrazio infine tutti gli altri colleghi che sono venuti ai gruppi per “attraversare” la terapia multifamiliare.
BIBLIOGRAFIA
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