Una cura del paziente psichiatrico grave.
Teoria e pratica in un Servizio pubblico

Ettore Bivi1



Il progresso scientifico si muove su due tipi di movimenti solo apparentemente contrapposti: quello delle ricerche che tende a verificare ipotesi già formulate e quello preparato dai dati che esso non spiega, portando alla formulazione delle nuove ipotesi. Inevitabile all’interno di una comunità professionale percepi­re come rassicuranti e lodevoli le prime, come pericolosi e da osteggiare i secondi. Sceglieremo per questa rubrica, all’interno di una letteratura ormai vastissima e spesso ripetitiva sulla terapia, lavori del secondo tipo. Parlando di “idea nuova” ne supporremo sempre il significato propositivo. Sperando di dare un contributo al­lo sviluppo di una scienza realmente “riflessiva”: capace cioè, nel senso di Bateson, di comprendere se stessa nel campo della propria osservazione.


Scientific progress moves along two lines which are only apparently in contradiction: one belongs to research which aims at verifying hypotheses already for­mulated, the other being prepared from data which the hypotheses do not explain and leading to no formulation of new. Inevitable, for the professional community to perceive the former as encouraging and praise worthy and the latter as dangerous and hostile. For this section, a careful selection has been made from the literature on therapy, today very extensive and often repetitive, concerning works of the second type. Referring to a “new idea”, we will always take it as a proposal while at the sa­me time we hope to bring a contribution to the development of a really “reflexive” science: that is, capable, as Bateson says, of looking carefully into itself.


El progreso científico evoluciona en dos direcciones opuestas: una lleva a realizar investigaciones que tienden a verificar hipótesis ya enunciadas y la otra a reali­zar investigaciones que formulan nuevas hipótesis. Es inevitable que la comunidad de profesionales considere el primer tipo de estudios más confiables y elogiables mientras que los segundos, se consideren peligrosos y generadores de hostilidad. En esta sección han sido seleccionados solo trabajos del segundo tipo, dada la amplitud y a menudo la repetición de la literatura dedicada a la terapia. Al hablar de una “idea nueva” lo haremos siempre desde un punto de vista de propuesta, esperando poder contribuir al desarrollo de una ciencia realmente reflexiva que en el sentido de Bate­son, sea capaz de auto observación.



Riassunto. Nel Servizio pubblico si è rilevato come la relazione tra sistema curante e sistema paziente grave sia contrassegnata da stati di conflitto, rinuncia, gioco. Questa rilevazione, dapprima istintuale, ci ha spinto (costretto, diremmo) ad analizzare questi tre concetti secondo la teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell, che notoriamente stabilisce una gerarchia tra loro. La relazione tra i due sopracitati sistemi non sarebbe di tipo complementare (un sistema che offre e l’altro che riceve), bensì simmetrica. Una simmetria coperta, nascosta, che si estrinseca per l’appunto in conflittualità coperta (in pratica tra i due sistemi è in atto collaborazione apparente-conflittualità negata). La conflittualità negata a nostro parere potrebbe sfociare in conflittualità aperta, esplicita. L’ Arte della Guerra di Sun Tzu è l’antico testo cinese cui si è fatto riferimento per affrontare la conflittualità. Al fine di non rimanere intrappolati in uno sterile conflitto, e con il proposito di superarlo, ci si è soffermati sulla rinuncia, per giungere allo stadio successivo e finale, che abbiamo denominato gioco o forse, per meglio dire, conflittualità collaborativa.

Parole chiave. Conflitto, rinuncia, gioco, gerarchia, conflittualità collaborativa.
Summary. A serious psychiatric patient’s care. Theory and practice in a public Service.
In the public Service it has been noticed how the relationship between the treatment system and the serious patient one is marked by conflict, renunciation and play states. Such a revelation, at first instinctual, led us (even forced us) to analyze these three concepts according to the theory of the logical types by Whitehead and Russell, which notoriously establishes a hierarchy among them. The connection between the above mentioned systems would not be complementary (one offering and the other receiving), but symmetrical. A covered, hidden symmetry clearly expressed by a covered conflict (in a word, between the two system we find apparent collaboration-denied conflict). In our opinion this denied conflict might turn into an open, explicit dispute. The Art of War by Sun Tzu is the ancient Chinese text we made reference to face such a conflict. In order not to be trapped in a sterile quarrel, with the aim of overcoming it, we focused on the renunciation, thus reaching the next and final state we called game or maybe, to say it better, collaborative conflict.

Key words. Conflict, renunciation, play, hierarchy, collaborative conflict.
Resumen. Una cura del paciente psiquiátrico serio. Teoría y práctica en un Servicio Público.
Hemos detectado en el Servicio Público que la relación entre el sistema de tratamiento y el sistema paciente grave está marcada por estados de conflicto, renuncia y juego. Esta detección, en principio instintiva nos ha obligado a analizar estos tres conceptos de acuerdo con la teoría de los tipos lógicos de Whitehead y Russell que claramente establece una jerarquía entre ellos. La relación entre los dos precitados sistemas no sería de tipo complementaría ( un sistema que ofrece y otro que recibe) sino simétrica. Una simetría cubierta, escondida que se traduce en conflicto oculto ( prácticamente entre los dos sistemas existe colaboración aparente-conflicto negado). Según observamos esta situación podría convertirse en un conflicto abierto, explícito. Se ha hecho referencia al antiguo texto chino El Arte de la Guerra de Sun Tzu para poder enfrentar el conflicto. Pero, para no quedar atrapados en una discusión estéril y con la intención de superarlo, nos hemos centrado en la renuncia para llegar a la siguiente y última etapa que hemos denominado juego o mejor dicho, conflictiva colaboración.

Palabras clave. Conflicto, renuncia, juego, jerarquía, conflictiva colaboración.



«Forse si comincia sempre dalla meta. Forse si comincia dal cuore, e solo in seguito si trovano le ragioni. Bernard Shaw diceva che la funzione dell’intelligenza era di giustificare quello che voleva la volontà, e credo che Schopenhauer volesse dire la stessa cosa [...]. Forse l’intelligenza è solo lo strumento della volontà».
J.L. Borges [1, p. 111]

PREMESSA
Il presente articolo verte sulla cura extraospedaliera del paziente grave, effettuata in un Centro Psico-Sociale (CPS, com’è denominato in Lombardia il Servizio psichiatrico ambulatoriale) dell’hinterland milanese. Il CPS, per un certo tempo, fu supervisionato da Mara Selvini Palazzoli, il cui lavoro, redatto con altri autori, è sfociato in un libro [2] nel quale si descrive la strategia riguardante l’accoglienza del paziente e dei suoi familiari, la conduzione delle sedute tramite l’ausilio dello specchio unidirezionale, ecc.
Questo articolo ha un intento diverso. Qui lo psichiatra psicoterapeuta, come descrissi più in dettaglio in precedenza [3], lavora da solo, senza specchio unidirezionale e senza supervisione diretta. Inoltre in questo articolo la trasposizione di casi clinici è minima, a favore di ciò che chiameremmo le “premesse del fare”. Quindi l’articolo riguarda più come fare, che il cosa fare. Il cosa fare non è difficile, giacché le opzioni non sono molte. Il come fare invece parrebbe sterminato, poiché le scelte sono innumerevoli. È probabilmente sul “come fare” la vera sfida, e quindi il vero interrogativo da porsi. «Non voglio aver nulla a che vedere con chi non si chiede: come fare? come fare?» sosteneva Confucio [4]. Il conflitto è ubiquitario: non si tratta quindi se confliggere o no, ma come affrontare, gestire il conflitto. Inoltre la complessità del fare aumenta, poiché ogni conflitto è peculiare. Quindi, di volta in volta, il problema è come gestire un conflitto.
Questo articolo, infine, vorrebbe rappresentare una sorta di auto-aiuto del curante. Una sorta di bagaglio strumentale, che ci è stato personalmente di qualche utilità. Un bagaglio che riguarda la mente del terapeuta, ancor prima della mente del paziente.
CONFLITTO, RINUNCIA, GIOCO
Teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell
Nel lavoro con il sistema paziente grave abbiamo effettuato, in modo più o meno istintivo, dapprima una relazione di conflitto, poi di rinuncia. E infine di gioco. Questi tre elementi, che pensiamo connotati da una forte carica (battaglia?) emozionale, ci hanno in qualche modo incastrato e quindi costretto a voler saperne di più. Qui si tenterà di presentare qualche conclusione teorica cui siamo giunti.
Analizzati secondo la teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell, diremmo che esiste una gerarchia tra questi tre concetti. Riteniamo che la teoria dei tipi logici conservi grande validità per ben operare: stabilire ad esempio che la vendetta è di livello logico inferiore alla giustizia, non è solo speculazione filosofica ma ha un forte impatto operativo. Reagire ad un danno con la vendetta non significa necessariamente agire con giustizia, poiché la ritorsione potrebbe essere sproporzionata al danno arrecato. Reagire ad un danno invece con giustizia significa perlomeno cercare di parificare il danno con la ritorsione. Diremmo pertanto che la giustizia è di livello logico superiore alla vendetta, in quanto la vendetta non è detto sia giustizia, mentre potremmo dire che la giustizia è anche vendetta, ritorsione, risarcimento. Quindi pensiamo non errato dire che la giustizia comprende la vendetta, ma la vendetta non comprende la giustizia. E ciò, come già detto, non rappresenta una esercitazione puramente accademica, ma ha un forte impatto etico. E quindi operativo. Basti pensare, per esempio, al diritto al ruolo del magistrato.
Per tornare alla nostra triade, potremmo dire che il gioco è superiore alla rinuncia, rinuncia che a sua volta è superiore al conflitto. In altre parole il gioco comprende, vale a dire ingloba, la rinuncia, mentre la rinuncia può non comprendere il gioco. La rinuncia comprende il conflitto, ma il conflitto potrebbe non annoverare la rinuncia. Infine, il gioco è caratterizzato dalla somma di se stesso, più la rinuncia, più il conflitto. Se in una tovaglia di seta stendessimo tre minerali via via meno preziosi, potremmo dire che il gioco è oro, la rinuncia argento, ferro il conflitto.
IL SISTEMA PAZIENTE
La forza del paziente
Una continua sorpresa quel vago sentimento di futilità, che sovente si prova di fronte al paziente grave, in una relazione che dovrebbe essere improntata alla massima serietà. Perché quella sensazione di sfinimento, come se il lavoro che stiamo facendo fosse un po’ inutile, inautentico? Ci chiediamo da dove provenga tale stonatura. Si pensa necessiti essere oltremodo esperti nel dispensare gli “aiuti” classici: psicofarmaci, adeguato colloquio, ecc. Insomma si ritiene occorra di continuo rammentare, soprattutto a se stessi, che il terapeuta è competente di gran lunga più dell’utente. E quindi deve essergli nettamente “superiore”. Invece dobbiamo accorgerci, a nostre spese, che il paziente e i suoi familiari (sistema paziente) sono molto più forti del sistema curante. A nostre spese, perché avevamo trascurato –trascuriamo – un antico, autorevole suggerimento: «Ha ridimensionato le nostre pretese, la piena coscienza della piccolezza della nostra squadra e della grandezza della squadra avversaria. C’è poco da pretendere contro forze così soverchianti [...]. Occorreva non sottovalutare mai l’avversario, essere disponibili a perdere senza arrabbiarsi né con sé né con i compagni di gioco ( i supervisori dietro lo specchio unidirezionale, nda) e, soprattutto trovarlo divertente. C’era però voluto molto tempo per arrivare a non ridere verde, a non sentirci ridicoli...» [5].
Trattasi pertanto di forza connaturata, come si vedrà più avanti, al sistema paziente. Una forza di cui noi psicoterapeuti spesso non abbiamo coscienza, e che anche la stessa utenza con ogni probabilità ignora.
Conflittualità celata
Sembra che la nostra relazione con l’utenza sia più di conflitto che di aiuto. Un conflitto strano, inquietante poiché appagamento e frustrazione, riuscita e fallimento si alternano continuamente. Perché il paziente risponde così poco agli psicofarmaci? Perché il sistema paziente generalmente ripone così poca fiducia nell’operato dei curanti? Perché in noi curanti e in loro utenti, quella continua alternanza di esultanza e frustrazione?
Si tratta quindi di un conflitto particolare, parecchio stressante. D’accordo, il paziente sta male, ha una “malattia” tra le più gravi, ma perché il suo non verbale talvolta tradisce l’apparente disponibilità in favore dell’avversione? Forse il paziente vorrebbe essere capito. Forse vuole comunicarci di non sottovalutare la sua forza e, forse ancor prima, la forza dei propri familiari. Se uno si sente sottovalutato non può che reagire con dispetto. In sintesi, il sistema paziente accetta quello curante se si sente valorizzato da questi, vale a dire se il curante riconosce esplicitamente che il sistema paziente è più forte di lui. E per valorizzare con sincerità bisogna prima capire. Capire per essere capiti. Dare rispetto per riceverlo, per dire forse con più pregnanza.
Un conflitto strisciante, intriso di imprevedibilità, incertezze, fallimenti che molto assomiglia alla guerriglia dove, come scrisse il colonnello britannico T.E. Lawrence, si ha l’impressione di “mangiare la minestra con il coltello” [6].
Cronicità
Sarebbe auspicabile a nostro avviso che il conflitto coperto non si cronicizzasse. Se il rapporto curante-utente si stabilizza in una relazione di permanente rigidità conflittuale, se il conflitto coperto dura a lungo, presumibilmente favorisce la cronicità del paziente. Potremmo però dire che la cronicità non riguarda tanto il paziente grave, ma la relazione curante-assistito. «Più che il paziente è lo stallo che si cronicizza», hanno suggerito Selvini Palazzoli et al. [7]. Insomma potremmo parlare non di paziente grave cronico, ma di relazione cronica grave.  
Punti di forza e di debolezza del sistema paziente
Identità rigida, caricaturale – punto di debolezza del paziente
Schizofrenia significa “disgregazione, dissociazione della personalità psichica”. In realtà tutti noi siamo “tanti”. Tanti personaggi in cerca di autore, come dice il nostro Pirandello. Purtroppo in caso di schizofrenia (e altri disturbi dissociativi), l’autore (il paziente), per difendersi dall’angoscia, che spesso avrebbe valenza maniacale, è rigidamente ancorato ad uno dei propri personaggi. Inoltre, la gamma dei personaggi del paziente in questione sarebbe molto inferiore rispetto alla persona “sana”. Noi tutti abbiamo una identità, personalità multiforme, suggerisce Liotti, quando afferma: «Ognuno di noi, secondo D. Dennet, rassomiglia a un club di numerosi membri. Nel disturbo di personalità multiplo (come negli altri disturbi dissociativi) “i membri del club” sono troppo pochi e quei pochi sono irrigiditi, quasi rigide caricature» [8, p. 138]. Naturalmente la nostra identità non rimane costante nel corso della vita, ma è diacronica, cioè varia nel tempo. Anche il letterato Claudio Magris è di tale avviso: «La nostra identità è sempre fragile e noi dobbiamo accettare questa fragilità, poiché mutiamo nel tempo. Inoltre: noi abbiamo tante identità, non solo l’identità nazionale; abbiamo l’identità culturale, politica [...] sessuale, religiosa [...]. È chiaro che, quando una delle nostre identità viene oppressa, allora c’è la concentrazione ossessiva, negativa, idolatrica, sbagliata sulla propria identità» [9].  
IL SISTEMA CURANTE
Parliamo di “sistema” perché nel Servizio pubblico ambulatoriale lo psichiatra, pur rappresentando forse il fulcro della terapia, dovrebbe avere l’ausilio di altri professionisti facenti parte dello stesso CPS: psicologi, assistenti sociali, infermieri ed educatori. Deve inoltre strettamente avvalersi di Centri esterni ai quali territorialmente afferisce: il reparto psichiatrico ospedaliero (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura - SPDC), Centro diurno, Comunità protetta. Abbisogna necessariamente di rapporti collaborativi con i Vigili urbani e il settore dei Servizi sociali del Comune (cui il CPS afferisce), ad esempio per la proposta di trattamento sanitario obbligatorio (TSO) ad un determinato paziente. Necessita infine l’intesa con le Forze dell’ordine, Carabinieri e Polizia, per emergenze psichiatriche nel territorio di sua competenza.
Punti di forza e di debolezza del sistema curante
Servizio Sanitario Nazionale – punto di forza del curante
Riteniamo un pregio l’omogeneità del Servizio pubblico. Questa prerogativa fa sì che tutti i Servizi psichiatrici pubblici del territorio nazionale (CPS, Centri di Igiene Mentale, SPDC, ecc.) abbiano le stesse figure professionali (psichiatra, psicologo, assistente sociale, ecc.), rispondano alla medesima normativa. Questo consente familiarità, condivisione di problemi, di paure, desideri, delusioni, di linguaggio. Ne consegue che tra un CPS (o un SerT), supponiamo, di Milano con uno di Trapani, ci si intenda subito quando si ha un problema. Ad esempio, quando un paziente in trattamento con metadone va in vacanza in Sicilia è piuttosto facile trasferirlo al SerT locale, in quanto tra noi e loro si instaura una sorta di “magico” legame, ci si scambia in fretta (con più o meno allegria o formalità) confidenze, difficoltà. Siamo “complici”, c’è molta solidarietà tra noi.
E il medesimo fenomeno presumiamo accada negli altri Servizi pubblici: tra Carabinieri, Polizia, Esercito, tra dipendenti delle Poste, dei Comuni, per citarne alcuni.
Nel Privato sarebbe affatto diverso. Tra aziende private che producono lo stesso prodotto, ad esempio, esiste un diverso organigramma, una diversa organizzazione. Ogni azienda ha una propria cultura, impostazione. Ne consegue comprensibile rivalità, competitività, diffidenza reciproca, ostilità, frammentazione. Non è un caso che molte nazioni centralizzino le funzioni più importanti, strategiche (Difesa, Sanità, Istruzione, ecc.) affidandole allo Stato e non al settore privato. Basti pensare cosa potrebbe succedere se, a fronte di una invasione del proprio territorio, ogni distretto militare reagisse di testa propria. Probabilmente grande frammentazione, scarsa efficacia.
Il tempo del medico al CPS-Centro di Igiene Mentale: il proprio fare o il sapere di altri?
Steve Jobs suggeriva agli studenti dell’università di Stanford, in occasione della cerimonia-festa di laurea: «Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Siate affamati. Siate folli. Grazie mille a tutti» [10].
Sii te stesso, non pensare (in prevalenza) con la testa di altri
Corre voce che i vecchi diventino bambini. Se ci riescono, non male forse, dato che qualcuno suggerisce: «Il bambino è sempre geniale [...]. Andrew Lang diceva che siamo tutti geniali fino a sette-otto anni di età. Vale a dire che tutti i bambini sono geniali. Ma da quando il bambino cerca di somigliare agli altri, va incontro alla mediocrità, e nella maggior parte dei casi ci riesce. Questo credo sia vero» [11, p. 53].
Una risorsa dell’operatore: essere se stesso [6, pp. 88-89]
Picasso: «Esistono chilometri di pittura ‘alla maniera di’, ma è difficile trovare un giovane che lavora a modo suo» [12, p. 42].
Essere autentici è sanità mentale?
Winnicott suggerisce che quando la persona vive in modo inautentico diventa patologica. E designa, all’opposto, come sanità essere se stessi: «Molte persone, per la maggior parte del loro tempo, vivono come imbrigliate nella creatività di qualche d’un altro, vale a dire in maniera non creativa. Questo modo di vivere nel mondo viene conosciuto come malattia in termini psichiatrici. In qualche modo la nostra teoria comprende la convinzione che vivere creativamente sia una situazione di sanità e che all’opposto, la compiacenza, sia una base patologica per la vita» [13].
Mancato rapporto d’équipe – punto di debolezza del curante
Riguardo al mancato rapporto psichiatra-équipe, il sottoscritto dichiara di aver vissuto sulla propria pelle tale errore. Un grave errore. Lui dice di ritenersi una persona professionalmente fortunata dato che nella propria vita professionale non ha avuto nessun paziente che si è suicidato. Per la verità, con una paziente in carico da parecchi anni ci è andato molto vicino. La signora Germana Bianchini, quarantenne, era affetta da disturbo affettivo bipolare grave. Assumeva litio carbonato, antidepressivi triciclici e benzodiazepine. Le sue ricadute depressive erano di entità tale, che non solo si rendeva necessario il tempestivo ricovero ospedaliero, ma durante il ricovero stesso si manifestava una paralisi catatonica così grave che più che colpire la motilità volontaria colpiva quella involontaria (sistema autonomo parasimpatico-simpatico): era incapace di urinare. Per svuotarle la vescica bisognava inserire un catetere.
Germana lavorava, con diligenza, come impiegata, ma era scontenta dell’impiego in quanto si sentiva sottovalutata dal datore di lavoro. Mi portò questo scontento per anni. Un giorno ventilò il proposito di licenziarsi e chiese il mio assenso. Fu una delle poche volte che disattesi il consiglio di Serena, una delle brave assistenti sociali del CPS, che con Germana temporeggiava, suggerendole di pensarci bene prima di dare le dimissioni. Io non ho avuto tale accortezza. Un po’annebbiato, a causa del sovraffaticamento, le dissi che se proprio voleva, e condizioni economiche permettendo, poteva anche essere una buona idea. Quindi perché no? Pensavo che la gravità delle recidive depressive potessero attenuarsi eliminando la noxa patogena del lavoro. Il giorno dopo la paziente si gettò dal quinto piano della propria abitazione.
Miracolosamente sopravvisse, riportando solo gravi fratture ossee e danni neurologici reversibili. Dopo 12 mesi di riabilitazione fisioterapica la paziente recuperò.
In seguito al mancato suicidio temevamo ricadute depressive di una certa entità ma, sorprendentemente, non ha più manifestato sintomi depressivi o simil-confusionali (in questa paziente la fase “maniacale” consisteva in una sorta di stupore confusionale). Ora cammina con le stampelle, guida di persona l’automobile, ha ripreso il lavoro, cura la figlia e il marito. Per concludere, il sottoscritto ritiene che le cicatrici non riguardino solo la paziente ma anche lui stesso.
Essere senza via di uscita – punto di forza del curante?
Paziente ostile alla cura significa persona sfuggente, quindi dovremmo considerarlo un “avversario”.
La forza del curante: essere senza via di uscita. Sei in una situazione paradossale: ti è chiesto di curare una persona che non vuol essere curata. Una situazione difficile, quasi senza via di uscita. È un handicap l’essere senza via di uscita? Non è detto, anzi. Sun Tzu: «Impadronisciti di qualcosa cui l’avversario tiene molto, ed egli dovrà venire a patti con te!» [6]. Nella nostra esperienza, se il curante crea un intenso rapporto fiduciario con il familiare cui il paziente grave è più legato (solitamente la madre), lui sarà inevitabilmente ingaggiato. Nella pratica, il curante “impadronendosi” della madre ha evitato, per esempio, che Tino Duca, il paziente con disturbo schizofrenico più grave che avevamo in carico al CPS, continuasse a lanciare grossi vasi di fiori dalla finestra del quinto piano della sua abitazione, motivo per il quale in precedenza doveva essere ricoverato con certa frequenza tramite TSO. La terapia della coppia genitoriale che avevamo effettuato per anni non ha purtroppo risolto la relazione di stallo della coppia. Tuttavia la medesima terapia ha consentito che il paziente non subisse da allora alcun ricovero (in TSO, ma neppure in forma volontaria) in SPDC, in quanto ha cessato di gettar vasi dalla finestra e non ha più manifestato episodi di furore psicotico-confusionale.
Responsabilizzare il paziente – punto di forza del curante
«Si è fatto quel che si doveva/Quel che si doveva come si poteva,
con le forze che si aveva nelle gambe, nella testa/Nel cuore».
Roberto Roversi, poeta libraio bolognese

In CPS o durante il turno di guardia al Pronto Soccorso Psichiatrico dell’ospedale, è accaduto di dover affrontare pazienti, affetti da grave disturbo di personalità, che manifestavano, più o meno velatamente, la loro volontà di suicidarsi. Dato lo scarso tempo a nostra disposizione, che fare? Avevamo in precedenza constatato che le comuni rassicurazioni del curante in questi frangenti risultano inconcludenti, inefficaci. Inefficaci poiché rendono molto lungo non solo quel colloquio, ma fanno diventare interminabili anche quelli successivi. Decidemmo di sperimentare, non senza trepidazione, una modalità per rimandargli la responsabilità della loro vita. Responsabilità che impropriamente ci attribuivano. La nostra trepidazione derivava dall’esser preoccupati non solo per il paziente, ma anche per noi stessi, in quanto correvamo il rischio personale di poter essere incriminati del reato di “istigazione al suicidio”, art. 580 del Codice penale, «punito con reclusione da cinque a dodici anni se il suicidio avviene; inoltre la pena è aumentata se il reato avviene contro persona inferma di mente» [14, pp. 870-871]. Sussurravamo semplicemente e brevemente loro, con sincero, mesto, calmo ma determinato filo di voce, che nessuno, men che meno i sottoscritti, erano in grado di impedirglielo. Aggiungevamo infine con empatia «Morire è facile, difficile è vivere. Vede quel balcone al terzo piano di fronte al CPS? Basta che io ci salga sopra e mi butti di sotto. Una cosa semplicissima... nessuno gliela può impedire... Persino nel reparto psichiatrico dell’ospedale, con porte chiuse a chiave, personale molto competente e addestrato, avvengono suicidi [...]».
«Favorire i processi di responsabilizzazione è l’elemento centrale della cura», suggerisce Cancrini [15, p. 342].
Infine vale la pena notare che un colloquio, al posto del ricovero ospedaliero, consente di risparmiare migliaia di euro alla società.
Interdisciplinarietà – punto di forza del curante
Nonostante abbiamo cercato la massima semplicità espositiva e un linguaggio discorsivo forse più affine a quello del giornalista che a quello tradizionale dello psichiatra, il lettore specialista potrebbe avvertire una certa resistenza di fronte a questo testo. Ad esempio, qualora prediligesse il rigoroso linguaggio psichiatrico, potrebbe trovare il testo dispersivo, intriso com’è di discipline extra-psichiatriche: psicologia dello sport, filosofia militare, citazioni tratte anche da quotidiani e periodici e non solo da articoli o testi di colleghi psicoterapeuti. In realtà crediamo che l’attuale psichiatria (anche, o forse soprattutto, quella del paziente grave) dovrebbe essere più interdisciplinare. Che significa essere umili, aperti, farsi “contagiare” da discipline estranee alla nostra. Nello studio del conflitto, ad esempio, abbiamo trovato molto stimolanti gli scritti di bravi giornalisti e/o professionisti dello sport e dello spettacolo, molto attinenti ai testi di logica militare: il cinese Sun Tzu, il giapponese Hagakure, l’inglese Liddell Hart, il generale italiano Fabio Mini.
Interdisciplinarietà quindi non come perdita, ma come arricchimento della creatività: «Ci sono altre aree di studio che possono aiutarci sull’area che a noi interessa. Spesso, un principio che nel nostro campo di interesse è nascosto in una massa di dettagli, oppure ha una struttura troppo complicata, o che non riusciamo a vedere per una nostra incapacità, si può cogliere più facilmente in un altro campo in cui si delinea con molta semplicità e chiarezza o in cui non siamo accecati dai nostri pregiudizi» [16, p. 14]. Questo libro di Shelling, potenzialmente molto interessante al fine del nostro argomentare è purtroppo, ad eccezione delle prime 26 pagine della versione italiana, astratto assai. Vale a dire denso di termini specialistici senza ausilio di esempi pratici, quindi precluso alla comprensione del lettore non economista quale il sottoscritto. Schelling è premio Nobel 2005 per l’economia.
I poeti, i letterati hanno intuito che la varietà è arricchimento: lo scrittore triestino Magris esprime questo concetto quando afferma: «Sono allergico a ogni endogamia, a ogni ambiente popolato da un’unica tribù, poco importa se di professori, compagni di partito, tifosi, artisti, parrocchiani, parenti, filatelici. Si ha bisogno della varietà della vita, il cui modello è forse la classe della scuola pubblica tradizionale, opposta alle asfittiche classi pilota» [17, p. 47].
La meraviglia della nostra professione – punto di forza del curante
Noi operatori pubblici, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali, medici, sacerdoti, financo Forze dell’ordine e giudici, tutti professionisti dell’aiuto, tendiamo spesso a sottovalutare la meraviglia del nostro ruolo, meraviglia che ci accomuna forse solo alle star, come è accaduto a Bruce Springsteen: «Mi ricordo di una sera a Denver. Ero andato al cinema da solo, avevo comprato i miei popcorn ed ero in fila per entrare. Arriva questo tizio, un ragazzo davvero simpatico. Mi dice: ‘Senti ti va di sederti con me e mia sorella?’ Gli rispondo che va bene. Così guardiamo il film. [...] E lui ha avuto l’incredibile coraggio, alla fine del film, di invitarmi a casa sua a conoscere sua madre e suo padre. [...] E per due ore sono rimasto là, a parlare con quella gente. Mi hanno preparato un sacco di roba da mangiare, pure il melone, e poi il ragazzo mi ha riaccompagnato. Be’, è stato bello. Ecco una cosa che può succedere a me e non può succedere a molta altra gente. E quando succede è fantastico. Conosci tutta la vita di una persona in due ore. Vieni a sapere dei suoi genitori, di sua sorella, della loro vita in famiglia, tutto in due ore. E io sono tornato in albergo e pensavo: cavolo, che meraviglia poterlo fare! Che esperienza poter avere la vita di un perfetto sconosciuto, poterci entrare dentro [...]» [18, p. 464].
CONFLITTUALITÀ APERTA
«Chi ti critica apertamente non agisce con malizia».
Tsunetomo [19, p. 188]
Conflitto è violenza?
«Distinguere tra conflitto e violenza è una necessità imprescindibile. I vocabolari italiani non aiutano, a differenza di quelli stranieri. Prendiamone uno qualsiasi, il Devoto-Oli per esempio [...]. Anche lo Zingarelli come prima spiegazione del termine ‘conflitto’ dà questa definizione: ‘Scontro di armati, combattimento’, e solo come secondo significato offre: ‘Contrasto, scontro, urto, specialmente aspro e prolungato di idee, opinioni e simili’. Sempre nello Zingarelli la voce ‘guerra’ riporta come prima spiegazione: ‘Situazione di conflitto armato tra due o più Stati’. Il significato di ‘guerra’ e ‘conflitto’ appare, dunque, sostanzialmente sovrapponibile, quasi peggiorativo quello di conflitto [...]».
«Diversa la situazione nell’ambito delle lingue inglese e tedesca. Nel caso inglese la distinzione è netta: per ‘conflict’ la definizione è ‘Serious disagreement and argument about something important’; per ‘war’ ‘Period of fighting between countries or states when weapons are used and lots of people get killed’. Ma anche nel caso tedesco la distinzione fra ‘Konflikte’ e ‘Krieg’ è piuttosto netta e senza possibilità di sovrapposizione».
«L’uso corrente del termine conflitto che si fa nella lingua italiana è probabilmente legato ad aspetti della cultura mediterranea che, più di quella anglosassone, risente di componenti di carattere fusionale, simbiotico. Per cui si passa dall’armonia totalizzante alla violenza o alla guerra. È una lingua che fatica a considerare un’area intermedia, basata sulla compresenza di relazione e contrasto. È come se la nostra cultura, molto fondata sulla dimensione dell’appartenenza onnicomprensiva di famiglia, stentasse a cogliere come l’armonia stessa sia l’esito di un processo che include l’elemento dialettico del confronto, se si vuole anche dello scontro, per mantenere un sistema, tanto più un sistema relazionale, in equilibrio. [...] Nell’ideogramma cinese di conflitto il disegno ha il doppio significato di opportunità e di catastrofe».
«Evitare il conflitto pare una scorciatoia sempre più impraticabile. La violenza e la guerra, anche nei casi di grandi drammi familiari che compaiono spesso sui giornali, paiono legati non tanto al tema dell’escalation, quanto all’incapacità di gestire le situazioni di tensione e conflittualità problematica. Più esattamente all’incapacità di tollerare il conflitto».
Potremmo azzardarci a dire che le buone relazioni consentono il conflitto, viceversa le cattive relazioni impediscono il conflitto e stabiliscono una specie di amorfa tranquillità dove non è possibile alcun disturbo reciproco, alcuna comunicazione discordante dove tutto sembra evolvere in una sorta di conformismo e appiattimento».
«Si potrebbe anche aggiungere che finché c’è conflitto c’è speranza. Questa conflittualità consente di vivere le relazioni come vitali e significative, e quindi rappresentare l’antidoto naturale alla distruttività umana» [20].
Come sostiene un professionista italiano dello sport, vincitore di due medaglie d’oro alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016 nel tiro con carabina da 50 e 10 metri, la soluzione non è evitare il conflitto, ma convivere con esso. Dice infatti il nostro connazionale: «La vita non è evitare il temporale ma imparare a danzare sotto la pioggia» [21].
Teoria del conflitto
Il conflitto è presente in ogni attività umana, suggerisce Sun Tzu [6]. Anche Karl Popper la pensa così [22, p. 596]. L’epistemologia del conflitto verrà immessa nella cura del sistema paziente utilizzando la conoscenza di noti studiosi del conflitto: oltre a Sun Tzu, anche il monaco ed ex samurai Tsunetomo [19], il capitano inglese Liddell Hart [23, pp. 79-141], cui alti esponenti del vertice militare tedesco “hanno riconosciuto la sua influenza nel loro pensiero” al fine di ideare il Blitzkrieg, la guerra lampo nella seconda guerra mondiale [23, pp. 67-68]. E infine il nostro generale F. Mini [23, pp. 9-75].
Uno specialista non militare è, a nostro parere, Selvini Palazzoli che nel suo libro “Paradosso e Controparadosso” [5] ci sembra considerasse la relazione terapeutica, con il sistema paziente, una contesa. Contesa, la sua, che però riteniamo criptica, non dichiarata, a differenza del nostro approccio.
Confliggere con freddezza?
Sarebbe importante, perlomeno nella nostra esperienza, che il conflitto non venisse agito con distacco, con freddezza ma con una sorta di intenso – esibito? – coinvolgimento emotivo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, voler apparire imperturbabile quale sinonimo di sicurezza da parte del terapeuta, lungi dal facilitare la relazione con l’utenza forse la complica, in quanto la controparte ne avverte l’indifferenza se non addirittura l’inumanità. Potremmo assimilare gli agiti conflittuali espliciti del terapeuta ad una sorta di “schiaffo” all’utente. C’è schiaffo e schiaffo, recita un aforisma di Bernard Shaw: «Se avventatamente colpisci un bambino, bada di farlo quando sei arrabbiato: uno schiaffo a sangue freddo non può, né dovrebbe essere perdonato». Se la relazione è genuinamente improntata ad aiutare, non a danneggiare, l’utente invariabilmente se ne accorge. Siamo stati sempre preda dell’idea, forse un po’ bizzarra, che in una buona relazione quasi tutto è permesso. Errori, dimenticanze, nervosismo, fretta, confusione, passerebbero in subordine rispetto all’autenticità della relazione. Diremmo che volentieri il paziente ci perdona. Riteniamo non sia difficile usare non solo le giuste parole, ma soprattutto l’intonazione (e il non verbale) con cui bisognerebbe agire. Ci è di grande conforto l’aforisma di un autore “non psicoterapeuta” . È ancora Bernard Shaw, quando dice: «Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla: l’unica difficoltà consiste nel trovare il tono».
Dal conflitto alla rinuncia?
Al fine di non rimanere intrappolati in uno sterile conflitto, con il proposito di superarlo (rinunciandovi), abbiamo ravvisato la necessità di cercare i presupposti teorici del conflitto. Ci siamo pertanto dedicati allo studio di Sun Tzu, un antico autore cinese (circa V secolo a.C.), che del conflitto aveva ampiamente discettato, e le cui idee sono state largamente utilizzate anche in Occidente: «Sun Tzu è stato saccheggiato dagli agenti di Borsa e dai manager di tutti i tipi. Si è pensato, giustamente, che la strategia militare fosse applicabile all’economia. Molti suoi assunti si impongono nella psicoterapia, ovvero ovunque si dia una competizione e ci si prenda la briga di strutturarla», afferma L.V. Arena [24, p. 8].
RINUNCIA
Intelligenza: rinuncia all’autosufficienza da parte del curante
Tsunetomo:«Sebbene non si possa conoscere ciò di cui non si ha esperienza, esiste un modo di scoprire la verità anche se non si è saputo scoprirla da soli, questa via consiste nel dialogo con altri. Intelligenza è niente più che saper ascoltare gli altri» [19, pp. 37, 109].
Saper ascoltare gli altri, mettere ogni volta in discussione il nostro sapere, non parrebbe affatto facile. Noi psichiatri, per esempio, dovremmo saper ascoltare chi ci è gerarchicamente inferiore, cioè i nostri collaboratori, soprattutto gli infermieri e gli assistenti sociali (che definiremmo collaboratori eterologhi), dato che i loro suggerimenti sono piuttosto neutri diremmo, vale a dire non sono inficiati dalla competitività che molto spesso caratterizza la relazione tra professionisti omologhi (psichiatra-psichiatra, ma anche psichiatra-psicologo).
Non distruggere, rinuncia a distruggere – le risorse del curante
Competitività che talvolta acceca il professionista omologo, che sembra mal tollerare la competizione professionale con lo psichiatra curante quando si tratta di disquisire sulla psicoterapia del paziente in carico allo stesso curante. Forse perché stenta a riconoscere che, sulla gestione, e quindi sulla psicoterapia (del paziente grave), ha meno competenza dello psichiatra di prima linea coinvolto nel caso. Dimenticando forse che quest’ultimo affronta personalmente le questioni più difficili come il TSO, il tentato o mancato suicidio, l’emergenza psichiatrica del paziente in questione. E quindi acquisisce una naturale attitudine, efficienza nel risolvere tali spinosi problemi. Diremmo che spesso la relazione tra omologhi è caratterizzata da collaborazione apparente, conflitto celato.
In ambito professionale abbiamo constatato che due professionisti omologhi, soprattutto se facenti parte della medesima istituzione, difficilmente portano un contributo creativo alla risoluzione di un problema clinico. Di solito notiamo che si verifica un blocco evolutivo, che i due sono portati all’impasse, allo stallo. Per questo le riunioni tra omologhi sarebbero a nostro parere non molto creative. Nella nostra attività in un ospedale milanese, abbiamo invece rilevato il notevole apporto creativo nella relazione tra psichiatra e medico internista (professionisti eterologhi), in quanto la loro relazione non pare inficiata dalla competitività.
Rinuncia alla riunione di équipe?
Abbiamo sperimentato che le usuali riunioni di équipe tra omologhi ed eterologhi, cioè dove partecipano anche i collaboratori eterologhi (infermieri, assistenti sociali, educatori), spesso sono deludenti, inconcludenti, noiose al fine dell’apporto creativo al caso clinico in questione. E questo perché a nostro avviso c’è una generale presunzione dello psicoterapeuta nel dimostrare – innanzitutto a se stesso – di saperne di più del non psicoterapeuta: «Capita spesso che una persona, sebbene imperfetta, possa dare consigli intelligenti, perché non è coinvolta nella situazione e la vede dall’esterno [...]. Se si impara ad ascoltare gli altri e a leggere molti libri si può andare oltre la propria visuale e acquisire la saggezza degli Antichi» [19, p. 37].
Qui ed ora. Né passato, né futuro, né in altro luogo
Dovremmo focalizzarci più spesso sul presente poiché è l’unica cosa sulla quale abbiamo potere reale. Non il passato, che sovente carichiamo solo di rimpianti. Non il futuro, che spesso è solo fonte di illusioni. Anche un altro autore, lo statunitense Max Ehrmann, sarebbe in accordo con questa tesi: «[...] Conserva l’interesse per il tuo lavoro, per ciò che stai facendo ora. Per quanto umile, è ciò che realmente possiedi per cambiare le sorti del tempo [...]» [25].
Anche l’eccellente professionista di tiro con la carabina, già citato, pare in sintonia con tale accorgimento: «Quello che uno dovrebbe fare in quei momenti di attesa (quando è in attesa di premere il grilletto per l’ultimo sparo in una finale olimpica, nda) è rimanere nell’attimo presente, quindi cancellare il passato, non pensare minimamente al futuro ma stare nell’attimo presente [...]» [21].
Prepararsi in anticipo
Prepararsi in anticipo significa rinunciare alla dilazione [19, pp. 39, 73]. Prepararsi in anticipo significa però anche immaginare. Quindi potremmo tradurlo con “immaginazione”, e rientrerebbe nel “gioco” come vedremo.
Parigi! O meglio il tuo villaggio?
Ovvero: “Resta nel tuo!”. Il tuo lavoro con il paziente forse è immortale. Infatti potrebbe essere trasmesso, nel bene e nel male, anche ai discendenti, ai suoi figli e nipoti. All’opposto qualsiasi letteratura, anche quella inerente il tuo lavoro, potrebbe essere volatile. Perlomeno se non la fai diventare tua.
Fare il proprio lavoro sarebbe più efficace che attuare quello di colleghi, per quanto eminenti. Forse, descrivere la propria attività è più efficace che narrare la scienza di colleghi. Tolstoj: «Parla di Parigi e sarai provinciale, parla del tuo villaggio e sarai universale».
«Speriamo di aver inciso un disco di cui andare fieri e che possa resistere al tempo. Per i testi m’ispiro a Salinger, Orwell, Millman, ma le parole che uso sono figlie delle mie esperienze. Alla fine sono loro che funzionano» [Caleb Followill, leader della band Kings of Leon].
Efficacia
Rinuncia a disperdersi. Ergo concentrarsi. Tsunetomo: «Muovere cielo e terra senza sforzo è una semplice questione di concentrazione» [19, p. 86]. La totalità di energia viene incanalata, concentrata su ciò che stai immaginando qui e ora, per poi sperimentarlo. Ne risulta un’enorme forza applicata su un campo molto ristretto. Come nel caso delle arti marziali, se si confronta la cedevolezza del mezzo usato con la durezza dell’obiettivo raggiunto, vale a dire la sproporzione esistente tra la fragilità di muscoli ed ossa e la robustezza della pietra, come la mano del karateka quando spezza una pila di mattoni sovrapposti. Oppure, infine, l’efficacia del raggio laser, atto a tagliare il metallo grazie alla tecnica che sostanzialmente consiste nella “capacità di concentrare la luce generando radiazioni elettromagnetiche di uguale frequenza e in fase tra loro”. In metallurgia si usa per tagliare il metallo senza sbavature e in medicina per effettuare interventi di grande precisione ed autocicatrizzanti. La fisica del laser assomiglia in modo singolare alla capacità umana di concentrare pensiero e volontà nell’azione “qui ed ora”, senza dispersioni di sorta.
Se concentri le tue forze – sin dall’immaginazione – sulle risorse, sui punti di forza del paziente-famiglia alla fine riesci senz’altro a scovare queste risorse nella mente, per poi applicarle. Se ti concentri prevalentemente sul deficit (individuale, familiare, neurochimico), la fragilità, il male, servono a poco dal punto di vista operativo, in quanto ci focalizziamo sulla “mancanza” invece che sull’“abbondanza” di risorse autoriparative che, più o meno, ogni famiglia possiede, perlomeno potenziali. Forse farai un po’ male non solo al paziente, ma anche a te stesso poiché diventerai depresso: la tua rabbia girerà (monterà) in tondo tra considerarti un professionista incompetente e spregiare l’utente in quanto “resistente”, refrattario alla terapia.
La rinuncia a trattare il solo paziente: è più opportuna l’ottica trigenerazionale?
«Dice un proverbio inglese: ‘Saggio il figlio che sa chi sia il padre, più ancora che sa chi siano il nonno e il bisnonno» [26, p. 170].
Il trattamento del paziente grave, secondo la nostra esperienza, non dovrebbe riguardare solo lo stesso paziente, scotomizzato dalle sue radici, ma sarebbe d’uopo che il terapeuta tenesse presente i componenti della famiglia nucleare. Inoltre, secondo l’ottica trigenerazionale di Alfredo Canevaro [27], necessita collegare ciascun genitore del paziente alle relazioni attuali e pregresse con la rispettiva famiglia di origine del genitore stesso.
Troppo spesso avviene che le enormi energie (anche economiche) del sistema curante vengano spese nel curare il solo paziente. Con il risultato che il rapporto costi-benefici è molto sbilanciato verso i costi. Come scrissi altrove «nel caso di grave patologia psichica, il primo utente, in ordine cronologico e di importanza, non è il paziente ma un familiare» [3, p. 117]; di solito la madre che, generalmente dopo anni di tentativi terapeutici intrafamiliari infruttuosi, si rivolge esausta al Servizio pubblico, usualmente considerato l’ultima spiaggia. Quasi vergognandosi di inviare il figlio in un Centro sulla cui soglia, pensa, potrebbe ben essere affisso il detto dantesco: “Lasciate ogni speranza voi che entrate...”.
La rinuncia alla conflittualità coperta
Ricusare il conflitto coperto è una rinuncia, in quanto i due sistemi rinunciano a celare la propria reciproca ostilità, facendo quindi in modo di rendere esplicito il loro conflitto. Ma crediamo debba essere il curante che per primo esterna il conflitto con l’utente, in quanto gli è gerarchicamente superiore. Superiore, naturalmente, solo per ciò che concerne il percorso della terapia, la visione strategica.
GIOCO
Ruolo e simulazione
«Noi siamo ciò che facciamo finta di essere, e dovremmo porre più attenzione in ciò che facciamo finta di essere».
Kurt Vonnegut [28]
Il ruolo è finzione? L’attore, quando recita una parte, trae da essa verità profonde, che non verrebbero alla luce se non recitasse. Pare che il nostro lato più vero e intenso si manifesti quando svolgiamo un ruolo. In questo modo scopriamo nostre potenzialità prima inibite. Credo si basi essenzialmente su questo principio lo “psicodramma”, metodo psicoterapeutico ideato da Jacob Levi Moreno.
Per tentativi ed errori, le innumerevoli ipotesi fornite dall’immaginazione vengono selezionate e verificate nell’impatto con la realtà. Il simulatore di volo, l’apparecchio usato per l’addestramento dei piloti, viene giustamente usato perché gli eventuali errori di manovra rimangano virtuali, vale a dire che agli errori non consegua la catastrofe. L’atto del simulare permette una libertà di sperimentare vietata nel volo reale e pertanto consente di estrarre potenzialità prima nascoste.
Donald W. Winnicott
Winnicott in un suo libro, nel capitolo “Il gioco, formulazione teorica”, afferma: «La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace» [13, p. 79]. Il gioco vero non dovrebbe a nostro parere coincidere con semplice relazione gioiosa, ma corrispondere piuttosto a relazione sì vivace, in cui però ognuno dei due fa sentire le proprie dissonanze in un clima di fiducia. E quindi potrà permettersi di manifestare la propria contrarietà proprio perché nel gioco tutto è ammesso, crediamo. Si verifica, insomma, una sorta di conflittualità collaborativa con il sistema paziente, per cui questi non può che migliorare. Potremmo dire che la relazione instauratasi tra i due ha una valenza “amorosa”, come purtroppo talvolta accade in alcune psicoterapie, ma si tratterebbe di un errore, un abbaglio, poiché a questo punto la relazione si troverebbe in un vicolo cieco. Cieco riguardo la razionalità ma diremmo soprattutto per quanto concerne le emozioni. Ma forse serve proprio un autore non vedente per descrivere con più proprietà tale fenomeno: «Immagino che la saggezza sia più importante dell’amore. L’amore è mera felicità. C’è qualcosa di banale nella felicità. Yeats sapeva benissimo che noi possiamo diventare anziani senza raggiungere la saggezza. Saggezza che invece il nostro corpo conosce: ‘La decrepitudine del corpo è saggezza; da giovani ci amavamo ed eravamo ignoranti’» [29, pp. 81-82].
Tranquillità
Il gioco (quello ludico) dovrebbe essere caratterizzato da uno stato che definiremmo di “serena vivacità”. Stato che consentirebbe di effettuare due operazioni tra le più difficili, forse, per l’essere umano. La prima consiste nel tenere a bada l’intensità delle proprie emozioni, intensità che tanto più è elevata tanto più ci manda fuori controllo. La seconda è mantenere uno stato di tranquillità (di controllo) pur nel turbine delle emozioni, per esempio quando si è in preda all’entusiasmo.
Ispirazione
L’entusiasmo (particolarmente quando rasenta l’esaltazione, aggiungeremmo) non sarebbe affatto garanzia di creatività. Dobbiamo a Puškin, definito “il padre della letteratura russa moderna”, questa convinzione, là dove l’autore afferma «Il critico confonde l’ispirazione con l’entusiasmo. L’ispirazione è una disposizione dell’anima a cogliere vivamente le impressioni, a comprendere meglio le idee... L’ispirazione è necessaria in geometria come in poesia. L’entusiasmo esclude la tranquillità, che è una condizione indispensabile alla creatività. L’entusiasmo non presuppone il lavoro della ragione, che discrimina le parti nell’interesse del tutto [...]» [30, pp. XIX-XX].
Immaginazione
L’immaginazione, l’atto di fantasticare è una qualità che assimileremmo al gioco ludico poiché è gratuita, vale a dire senza ricompense né punizioni economiche. E riteniamo sia qualità umana (solo umana?) tra le più pregevoli perché avvalorata dal rinomato, e già citato, autore: «L’immaginazione è tutto direi. È di gran lunga più importante del coraggio fisico. Per esempio scrivere richiede immaginazione ed emozione, sentimento [...]» [31, p. 80].
Anche nel campo dell’arte, perlomeno quella barocca, un filosofo e critico d’arte italiano sembra dar molta importanza all’immaginazione, alla fantasia: «Il Barocco, in piena autonomia dalle canoniche, capace di sperimentare fino all’ebbrezza ed alla paradossalità [...] contro la tradizione che vede nel Barocco (specialmente romano) un fatto di decadenza, la morte dell’arte rinascimentale, l’informe contrapposto al formato, e dunque qualcosa di negativo e non di positivo [...]. È questo travolgente correre da un punto all’altro senza sosta e senza centri di riferimento fissi, che inquieta la fantasia e lancia in un moto senza fine la visione, per cui scompaiono le linee di definizione, gli spigoli degli edifici, e tutto gira in tondo [...]. Ma questa universale agitazione che sgorga dal sentimento, non sta senza un suo principio d’ordine, senza una sua legge ordinatrice. Questa nuova legge che il Barocco scopre, a volte sugli estremi limiti del caos, è la luce» [32, pp. 9-11, 13].
William Blake: «L’immaginazione non è uno stato mentale, è l’esistenza umana stessa».
Non prendere le “cose” troppo sul serio?
Diremmo che la relazione con il paziente si avvantaggerebbe se noi terapeuti ci prendessimo meno sul serio, vale a dire scendessimo ogni tanto dal pesante piedistallo del nostro ruolo. Pensiamo sia gioco non prendersi troppo sul serio. Un’arte in cui gli italiani, forse sempre pronti a sottovalutarsi in favore dell’esterofilia, sono maestri. Incidentalmente, val la pena notare che forse proprio questa relazione giocosa con se stessi – prima che con l’altro – consente a noi, professionisti della salute mentale, di tollerare la pesantezza del nostro ruolo con il paziente. Alleggerendo lui e alleggerendo noi stessi.
Le questioni gravi
La leggerezza nell’affrontare le situazioni più pesanti dovrebbe forse essere la regola, non l’eccezione. Così almeno suggerisce un autore: «Le questioni più gravi vanno trattate con leggerezza. Quelle meno gravi con serietà. I problemi da considerare seriamente sono pochi e, se vengono quindi esaminati con calma, possono essere compresi. Per risolverli immediatamente è necessario solo pensarci in anticipo, e poi trattarli con leggerezza quando giunge il momento» [19, p. 39].
Incedere con la leggerezza del gioco dovrebbe riguardare anche il mestiere di vivere, par suggerire un autore: «Ho ottantacinque anni. Se potessi vivere nuovamente la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori. Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più, sarei più stolto di quello che sono stato, in verità prenderei poche cose sul serio, cercherei più problemi reali e meno problemi immaginari. Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore e giocherei di più con i bambini [...]» [33, pp. 62-63].
RINGRAZIAMENTI
Sono tante – e talvolta dimenticate – le persone alle quali dobbiamo qualcosa. Vorrei comunque ringraziare qui Stefano Cirillo, che ha rivisto il testo di questo articolo, oltre che averne incoraggiato la stesura.
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