Narcisismo e dipendenza. L’uomo senza legami

Anna Paola Lacatena1



Particolarmente dedicato agli psicoterapeuti, l’articolo collocato in questa rubrica risponde all’esigenza di una sottolineatura: caratterizzando in modo diverso forme diverse di psicoterapia, non stiamo perdendo il senso dell’unità possi­bile intorno al concetto di psicoterapia?


Particulary addressed to psychotherapists, the article in this section answers to the need of focusing on the following consideration: by characterizing psychotherapy in different ways aren’t we loosing the sense of unity involved in the concept of psychotherapy?


Este artículo está dedicado a los psicoterapeutas, en él se trata de responder a la cuestión: definiendo de distintas maneras la psicoterapia, non se corre el riesgo de perder la unidad del concepto de psicoterapia?



«Io non posso più vivere senza una regola superiore nella mia testa!
Non lo capisci?
Io rabbrividisco se penso quanto tempo son vissuto senza di essa,
sui campi di manovre e nelle caserme,
fra barzellette militari e storie di donne!»
(Robert Musil, L’uomo senza qualità,
Einaudi, Torino, 1957, pag. 363)



Riassunto. L’eccesso di accudimento genitoriale e la mancanza dell’esperienza del limite nella società del “tutto è possibile” minano l’autonomia del giovane e la sua capacità di vivere e creare legami sociali, inducendolo spesso alla dipendenza patologica e ai comportamenti a rischio. Se la relazione risente di un’infinità di stimoli alla provvisorietà, all’instabilità, alla precarietà, Internet finisce per nutrirsene. La ricerca della libertà sembra essere diventata la negazione dell’interdipendenza che, spesso, sfocia nella dipendenza patologica. Una grossa parte della psicanalisi e della corrente della critica sociale della sociologia contemporanea intravede, dunque, nell’adorazione narcisistica di sé la sorgente della malattia della contemporaneità. Questo articolo intende puntare l’attenzione sulla necessità da parte degli adulti di prendersi cura del Narciso moderno perché, soprattutto attraverso la conoscenza di sé offline, il giovane possa davvero essere più di un semplice riflesso online.

Parole chiave. Narcisismo, dipendenza, libertà.
Summary. Narcissism and addiction. Humans without connections.
Excessive parental control, coupled with lack of control limits, in a society where everything is possible, undermines the independence of youngsters and their capacity to create and maintain social ties, frequently inducing pathological addiction and risk behaviour. If a relationship is affected by infinite stimuli of temporary, volatile, and unstable natures, the Internet becomes the nutrient. The search for freedom seems to become the negation of interconnections, which frequently results in pathological addiction. A large part of psychoanalyses and current social criticisms of contemporary sociology therefore provides a glimpse at the narcissistic adoration of oneself as the source of the sickness of today. This article intends to point out the necessity on the part of adults to foster modern Narcissus, more than anything through the recognition of their offline self, in order to allow the youngster to be truly more than a simple online reflection.

Key words. Narcissism, addiction, freedom.


Resumen. Narcisismo y dependencia. El hombre sin enlaces.
El cuidado excesivo de los padres y la falta del control de limites en una sociedad del “todo es posible” socava la autonomia del joven y su capacidad de vivir y crear enlaces sociales, induciendo a menudo la dependencia patológica y riesgosos comportamientos. Si la relación siente infinitos estímulos temporaneos, volátiles e inestables, acaba nutriendose con el Internet. La busqueda de libertad parece ser convertida a una negación de la interdependencia, que frecuentemente acaba en la dependencia patológica. Entonces la gran parte de psicoanálisis y de las corrientes de criticas sociales de sociologia contemporanea destaca, en la adoración narcicista de si mismo, la fuente de la enfermedad contemporanea. Este artículo pretende apostar la necesidad por la parte de adultos de atender al narciso moderno para que, sobre todo através la conociencia de si mismo offline, el joven pueda verdaderamente ser mas que un sencillo reflejo online.

Palabras clave. Narcisismo, dependencia, libertad.
INTRODUZIONE
Non passa certo inosservata la crisi delle relazioni interpersonali propria del terzo millennio. La menzogna capitalistica del “tutto è possibile”, ma soprattutto dell’opportunità di fare a meno dell’Altro, ha confinato nella dimensione dell’essere senza legami l’uomo della post-modernità. L’involuzione propria della capacità di stabilire legami significativi trova la sua probabile eziopatogenesi in almeno tre distinti fenomeni:
• lo specchio di Narciso a cui è assurto il web con tutte le sue offerte di “follower” e contatti virtuali;
• la ricerca di emozioni e sensazioni forti (sensation seeking), incuranti di ogni limite, capaci di consegnare all’individuo la percezione di un’esistere altrimenti difficile da dimostrare;
• la rinuncia e/o la sottrazione di ogni status e ruolo a vantaggio di un’ambiguità e di una liquidità di sistema, la cui diretta conseguenza non può non essere una sorta di deresponsabilizzazione, a partire proprio dalla relazione sociale. Come dire: ci sono nella misura in cui non ci sono con te e ancor più per una comune e condivisa progettualità.
Se la relazione risente di un’infinità di stimoli alla provvisorietà, all’instabilità, alla precarietà, la connessione finisce per nutrirsene. La ricerca della libertà sembra essere diventata la negazione dell’interdipendenza che, spesso, sfocia nella dipendenza patologica, nella fattispecie più moderna, da mezzi tecnologici. Piattaforma disponibile al narcisismo, all’emotivismo parossistico, alla fluidità, la connessione fa della velocità il proprio punto di forza [1].
Il social network, che potrebbe offrire l’affaccio illimitato sul mondo, su ciò che non è conosciuto, sull’Altro non noto, spesso si riduce al contatto tra conoscenti o alla ricerca di chi si è già incontrato, in un tempo più o meno recente.
Tutto sembra essere possibile o comunque accessibile virtualmente. Tutto, senza disdegnare il bluff, l’ambiguità, la mistificazione.
Sono eccitazione e godimento senza desiderio e per tale ragione mortiferi nel loro tendere all’illimitato e all’immediatezza. Sulle ceneri dell’incontro con l’Altro, mai veramente reale, finisce per celarsi la possibilità della compulsione e della dipendenza.
Se tutto è reso visibile e pubblico (o pubblicabile), nulla è, però, conosciuto profondamente. Dal verticale della conoscenza che da un punto scendeva in profondità si è passati all’orizzontalismo dei sistemi passanti, dove fugacemente si entra in contatto con tutto e con niente [2].
Il collegamento arriva sino in casa, nella cameretta, e se la connessione è ormai garantita a costi minimi (quando non gratuita) anche per 24 ore, la relazione con chi condivide gli spazi fisici reali di quella stessa casa sembra farsi difficile, impegnativa, pesante, diffusamente inusuale.
Tacciono gli adulti, tacciano i figli, “chattando”, allo stesso tempo, con chiunque e senza un ruolo sociale che non sia quello che si decide di rivestire nel momento del contatto. Disordine ed entropia dell’Io che non si riconosce una vita reale, inseguendosi in un virtuale che consegna al presente anche gli orizzonti apparentemente più lontani.
L’adulto ibrido da una parte, i nativi digitali dall’altra. Nel mezzo, l’emergenza educativa di chi non sa essere guida e riferimento [3].
Si tratta di genitori attenti ai bisogni materiali dei figli, accudenti e affettuosi, ma allo stesso tempo adulti che hanno quasi del tutto rinunciato a educare, ossia a trasmettere saperi, narrazioni, valori, principi, criteri di senso, soprattutto nella formulazione delle scelte.
Offrono molto, ricoprono i figli di beni e oggetti sino a determinare un’abbondanza che genera sperdimento. Lo sforzo, troppo spesso declinato in chiave contrattualistica, cerca di creare una persistente protezione da tutti i mali del mondo, sebbene molti di questi non sono che elementi imprescindibili nella costruzione dell’autodeterminazione e della fiducia in se stessi.
Come apistogrammi agassizii1, mettono al mondo pochi figli e li proteggono sino a soffocarli o a soffocarne potenzialità e voglia di mettersi in gioco senza viatici offerti gratuitamente.
È tacitato in questa maniera il desiderio nel bambino, anticipato e soddisfatto ancor prima che lo stesso ne manifesti anche il solo piacere di provarlo. È il trionfo del capriccio e il collasso della passione in termini di rinuncia all’eros e alla vita.
Il senso di insicurezza, di precarietà, di scarsa fiducia nel futuro propria del mondo dell’adulto, poi, non può non minare la possibilità stessa da parte del giovane di avere una visione per il futuro.
Le comunità tecnoreferenziate non sono le comunità dello stare con e, ancor più, dell’essere per l’Altro.
Gli adulti hanno perso la capacità di affascinare le generazioni più giovani, di entrarci in relazione, di raccontarsi, di considerare la libertà dell’Altro che svincola, emancipa, autonomizza. Nel trattenere sotto l’ala protettiva, il conflitto non sembra configurarsi più come scontro/confronto tra generazioni, ma come fallimento del processo di individuazione propria del giovane, inteso come elemento più fragile.
PSICODINAMICA DELLE DIPENDENZE PATOLOGICHE
Il comportamento umano non può essere spiegato per vie solipsistiche. Lo stesso non è, unicamente, frutto di pulsioni o meccanismi di natura biochimica, così come non può essere ridotto a soli fattori psicosociali. Il “Paradigma della complessità” suggerisce la necessità di una lettura complessa che impone la rinuncia a verità uniche e valide oggi e per sempre [4,5].
Le dipendenze patologiche sono espressione, per loro stessa variabilità dimensionale, del bisogno di una lettura multidisciplinare e multiparadigmatica.
Freud considerava le tossicomanie la risultanza di una fissazione della persona allo stadio orale; in seguito le stesse sono state collocate al centro di processi psichici più complessi, per arrivare a voci più recenti che hanno focalizzato l’eziopatogenesi della dipendenza patologica all’interno dell’alveo del deficit della regolazione degli affetti.
Goodman, Khantzian, Dodes e Taylor hanno accomunato, riportando quasi ad un’unica possibile sorgente i disturbi legati all’uso di sostanze (legali e illegali), i comportamenti compulsivi (gambling, disturbi del comportamento alimentare, sex addiction) e le dipendenze affettive (la ricerca di esperienze sentimentali e stati di innamoramento).
Non è, dunque, possibile comprendere e tentare di spiegare la dipendenza patologica in maniera avulsa da interventi multifocali in grado di considerare i processi evolutivi, psicodinamici, relazionali e socio-culturali.
I comportamenti additivi, nonostante le differenze legate alle singole sostanze e agli effetti perseguiti, sembrano riportare a tentativi disfunzionali di contenere e contrastare il dolore di vissuti, e non solo infantili, ad alto tasso traumatico.
Non sono poche le ricerche che sembrano confermare l’ipotesi dell’insorgenza della dipendenza patologica a seguito di eventi traumatici in tenera età, soprattutto per ciò che attiene all’area della relazione [5-9].
John Bowlby suggerì che le rappresentazioni mentali relative al Sé e all’Altro si costituiscono da subito nel neonato, attraverso lo sguardo della madre, organizzandosi in schemi definiti “modelli operativi interni” (MOI) [10]. Per lo studioso inglese è indubbia l’influenza esercitata dalla qualità delle relazioni cosiddette “significative” sulla costruzione della personalità e, particolarmente, dell’area cognitivo-affettiva dell’individuo.
Un MOI di tipo insicuro o problematico, spesso, sembra coniugarsi con esperienze trascuranti o negative dell’accudimento.
Identificare, mentalizzare, verbalizzare le emozioni e i vissuti (in modo particolare quelli dolorosi), dunque, sono meccanismi quasi del tutto assenti in quei soggetti con esperienze relazionali difficili nell’infanzia che propongono un Sé frammentato, dove sembra allargarsi la distanza tra psiche e soma.
La relazione traumatica, dunque, può essere considerata tra i fattori eziopatologici delle addiction, con il ricorso a meccanismi difensivi di tipo dissociativo [11,12].
Janiri et al. [13] definiscono il “craving” come un desiderio incontrollabile verso uno stimolo di rinforzo, da intendersi come elemento proprio dell’ambiente in grado di attivare un comportamento di approccio verso l’elemento stesso.
Questa puntualizzazione attribuisce allo stesso la possibilità di manifestarsi in relazione a diversi oggetti (o condotte), rimarcando processi psicodinamici ed elementi cognitivi comuni alle dipendenze patologiche con o senza sostanza.
Il craving sembrerebbe attivarsi, dunque, lì dove sono presenti stimoli nell’ambiente che riportano l’individuo alla relazione con l’oggetto (condotta), ma soprattutto in risposta a eventi stressanti sul piano emotivo.
Il funzionamento di questo meccanismo appare aprire alla comprensione di come la dipendenza patologica non sia solo legata agli effetti generati dalla sostanza o da un particolare comportamento. È molto probabile che, a monte, vi sia una psicopatologia di cui il craving è una sorta di accessorio che non cambia il carattere del fenomeno essenziale.
Sembrerebbe preesistere rispetto all’incontro con l’oggetto della dipendenza, da riportare a quell’area della motivazione, più o meno consapevole, che induce il soggetto a ricercare la medicazione della frammentarietà e del dolore [14].
Nell’ipotesi dell’automedicazione, il soggetto vede nella dipendenza e nei suoi oggetti implicazioni positive, foriere di benessere, quando non desiderabili, per riuscire a dare un senso a se stesso e alla propria vita [15].
In ragione di tali considerazioni, l’intervento terapeutico non può escludere l’area medico-farmacologica, sempre che questa non sia sganciata da un puntuale lavoro di mentalizzazione e regolazione della vita emotiva e relazionale del dipendente patologico [16,17].
Come si può, infatti, pur nella più ampia e rispettosa considerazione di ogni approccio scientifico, delegare esclusivamente al farmaco la cura di un disagio di cui l’eziopatogenesi è evidentemente multifattoriale?
Sarebbe un po’ come consigliare, per non turbare ciò che duole nel profondo, di consegnarsi esclusivamente alla superficie occupandosi del segnale, del sintomo, del riflesso.
Nell’intervento e nella cura, per troppo tempo si sono trascurati l’ambiente e il contesto socio-culturale che, altresì, determinano e condizionano il percepito e l’agito di ogni singolo individuo.
Offrire strumenti di lettura, alfabetizzare e sensibilizzare al vissuto e alla rielaborazione dello stesso è passo imprescindibile per armonizzare e valorizzare psiche e soma [18].
Fuggire, in maniera dissociativa, da tutto ciò che solo innaturalmente può abbandonare l’individuo, ossia il suo sentire profondo, può essere la soluzione del bambino maltrattato non certo dell’adulto.
Il grande accudimento, l’attenzione e l’iperprotezione non sono meno pericolose dal punto di vista della percezione della violenza psicologica e della trascuratezza, però, di ciò che è reale nell’individuo-bambino.
Per tale ragione dovrebbe essere favorito un processo di riappropriazione del Sé autentico, ripercorrendo precipuamente, ma non solo, le strade della relazione primaria, dell’infanzia e dell’adolescenza.
Ciò significa un grande lavoro del “terapeuta” su se stesso in primis per pronunciarsi, in un secondo momento, come adulto di riferimento con valenza compensatoria e riparatoria dell’esperienza traumatica [19,20].
Specificatamente, l’operatore delle dipendenze, in generale, dovrebbe sviluppare una puntuale consapevolezza rispetto al rischio di ricadute nel paziente e al senso di frustrazione che potrebbe accompagnare le stesse in maniera reciproca.
Appare necessario, però, soffermarsi – a fronte della generale diffusione della cultura del web – su quali siano i fattori che predispongono allo slittamento nella vera e propria dipendenza patologica.
Lo sviluppo di quest’ultima e la vulnerabilità all’addiction sono definite da una combinazione di fattori in grado di produrre un alto potenziale additivo.
In estrema sintesi, si possono individuare almeno due differenti aree: quella individuale con alterazioni neuro-psico-biologiche soprattutto in riferimento al sistema della gratificazione, con una contemporanea bassa efficacia del controllo prefrontale degli impulsi, e quella psico-socio-culturale, con fattori favorenti come trame e dinamiche familiari problematiche, eccesso di stimoli, particolari modelli comportamentali, facilità di accesso e reperibilità del soddisfacimento dello stimolo, capacità di creare un effetto gratificante e nel contempo un effetto inibente su ansia, pensieri ossessivi, depressione e noia.
Questo per puntualizzare che, pur essendo tutti esposti ipoteticamente alla possibilità di sviluppare una dipendenza patologica, in realtà, perché questa si determini in termini strettamente clinici sono necessari alcuni fattori e particolari risposte (o non risposte) del soggetto.
Ciascuno di noi, in fondo, è un sistema auto-organizzato per mantenere un equilibrio interno pur nel variare delle condizioni esterne. Omeostaticamente l’essere si basa su reazioni non esclusivamente retroattive per mantenere le stesse modalità di funzionamento.
Evidentemente, però, la capacità di assorbire le perturbazioni, riorganizzandosi e continuando a funzionare più o meno come prima non è una qualità data, ma tutta da costruire.
Specificatamente, per rilevare i predittori della dipendenza da smartphone, una ricerca condotta da Claire Pearson dell’Università di Derby nel 2015 [21] ha evidenziato come il 13,3% del campione, composto da 256 utilizzatori di età compresa tra i 20 e i 40 anni, fosse già dipendente da smartphone. Dallo studio è emerso che i punteggi più alti dei livelli di narcisismo e di neuroticismo, ovvero una personalità ansiosa e fortemente emozionale, sono strettamente connessi alla dipendenza, come anche che, secondo i dati qualitativi raccolti, esiste un forte legame con una tendenza egoistica del profilo narcisistico di personalità.
Il tratto grandioso, l’immagine di sé idealizzata, la rabbia ego-distonica, la depressione per la messa in dubbio del rifornimento continuo alla richiesta di ammirazione assurgono a cifra della società attuale, rintracciabile in tutti i suoi microsistemi, a cominciare dalla famiglia, finendo per determinare un terreno favorente per la vera e propria nosologia.
L’individuo sembra cercare l’Altro in quanto estensione di sé, del proprio bisogno di autostima, del soddisfacimento delle proprie necessità.
Ti amo perché mi ammiri, perché attraverso te non sento il mio vuoto, rafforzando una traballante autostima, perché non devo dirti grazie né scusa.
Quando nacque Narciso, figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso, il veggente Tiresia profetizzò che sarebbe vissuto fino a tarda età, purché non conoscesse mai se stesso.
Nelle “Metamorfosi” di Ovidio, Narciso muore quando si riconosce come riflesso, ossia difettivo, limitato, contingente.
Ci può essere anche un’altra possibilità: Narciso muore perché si conosce, si riconosce come riflesso, e sa che è riflesso di nulla e che non c’è nulla di cui egli sia riflesso. «Questi sono io, né la mia immagine mi inganna!».
Quando il sistema sociale è ingannevole, quando il genitore o l’educatore tradiscono il proprio autentico ruolo, mortificando l’Io del bambino, quando la stabilità del legame con la madre è carente, lo sviluppo psichico finisce per essere impedito così come il processo di simbolizzazione e del pensiero, aprendo con più facilità al rapporto esclusivo e compulsivo con una sostanza o con un comportamento di cui si finisce per diventare dipendenti.
DALLA CARENZA ALL’ECCESSO - LA DIMENSIONE “CONTRATTUALISTICA” DELL’EDUCAZIONE
Se appare pressoché acclarato lo stretto legame tra il deficit dell’accudimento e lo sviluppo problematico dell’integrità della persona, una domanda si impone di conseguenza: quanto l’eccesso dello stesso, a fronte di un analogo modello scarsamente educativo, non sia altrettanto foriero di “devianza”? Fermo restando che per “deviante” non va intesa la persona quanto l’ambiente che lo ha circondato o che, a tutt’oggi, lo circonda.
Se le emozioni, il dolore, la ricerca di individuazione e di autonomia, la fedeltà alla propria storia sono negate, il soggetto ricorre alle droghe per manipolare il corpo «affinché produca i sentimenti desiderati, positivi. Lo stesso meccanismo si attiva, peraltro, con il consumo di droghe legali come gli psicofarmaci» [8, p. 97].
Inoltre, a volte «il consumo di droghe legali (alcol, sigarette, farmaci) serve a cercare di colmare il buco che la madre ha lasciato aperto. Il bambino non ha ricevuto da lei l’alimento di cui aveva bisogno e nemmeno più tardi è riuscito a trovarlo […]. Forse la prima pietra della dipendenza è posta proprio all’inizio della vita, e con essa anche l’origine della bulimia e di altri disturbi dell’alimentazione» [8, p. 98].
Sinteticamente, la famiglia dovrebbe educare, nell’accezione di generare, ossia di dare connotazione umana e sociale all’individuo, non limitando la propria funzione alla riproduzione biologica.
Su di essa, dunque, ancora oggi si fonda la costruzione della persona e il suo prendersene cura. Per dirla con Urie Bronfenbrenner, la famiglia rende umani gli esseri umani [22].
La cura responsabile può essere tradotta in tre punti: dar vita, curare, lasciare andare [23].
Per l’equazione di Heckman si tratta di un investimento nelle risorse educative delle famiglie, prioritariamente di quelle con svantaggi, a cui sommare il sostegno allo sviluppo delle competenze cognitive e socio-emotive dei bambini a partire dalle fasi iniziali per giungere ad un eventuale guadagno a lungo termine della società, costantemente vigile in questo processo al contesto socio-culturale [24]. Si tratterebbe di contare, in un secondo momento, su cittadini di valore capaci di generare sviluppo economico e sociale anche per le generazioni future.
Il rapporto genitori-figli non sembra aver perso, dunque, la propria crucialità in termini di socializzazione primaria e non solo. Di fatto, però, nella società della post-modernità, il calo demografico non è leggibile come calo di interesse per la prole ma, al contrario, come volontà di concentrare l’attenzione e le possibilità di accudimento, incarnando nel figlio la rappresentazione del desiderio di maternità e paternità.
La cura dei figli, conseguentemente, sembra assurgere a massima espressione della propria capacità affettiva e protettiva, consegnando allo sfondo la dimensione etica della responsabilità e della storia familiare [25].
Daniel Marcelli, pedagogista e psichiatra francese, sostiene che oggi il genitore non sembrerebbe tanto orientato verso il compito di educare (dal latino educe˘re, ossia “tirare fuori”), quanto piuttosto verso quello di sedurre, attirando a sé, prevenendo ogni più piccolo bisogno del bambino, compiacendolo, caricandolo di tutta una serie di proiezioni e aspettative, rispondendo con zelo alle attese di una società a forte connotazione narcisistica [26].
A questo sembra ridursi l’anelata perfezione del genitore post-moderno, ossia al dispiegarsi del profilo “contrattualistico” del legame che, considerate le basi, finisce per auto-negarsi.
Da tutto ciò non possono non scaturire almeno due importanti conseguenze: difficoltà nella trasmissione dei patrimoni valoriali ed etici intergenerazionali e familiari; delega del compito educativo e di impartizione delle regole all’istituzione scuola.
Gli adulti (genitori, insegnanti, educatori), dunque, sembrano non riuscire a congiungere gli sforzi formativi ed educativi, finendo per negare la necessità della collaborazione, trincerandosi dietro autoreferenzialità e continue risignificazioni di compiti e ruoli, il cui senso profondo sembra sfuggire, prima ancora che ai ragazzi, agli adulti stessi.
La problematicità del passaggio generazionale in verticale fa pensare ad una orizzontalità che tutto equipara e massifica, tradendo quella missione generatrice la cui assenza ricade in prima battuta proprio sui più giovani.
Se, qualche anno fa, il disagio nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità personale, oggi, lo stesso sembra promanare da un genere di libertà propria della ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale [27].
La costruzione della funzione egoica, peraltro sempre in itinere nella persona, è per l’adolescente il vero compito nonché quello più complesso. Non si tratta di alimentare l’ipertrofia dell’Io propria dell’infanzia, ma di lavorare sulla costruzione di legami con gli Altri. L’impossibilità dell’esperienza dell’ascolto e della narrazione riduce le prerogative di un tale necessario percorso verso la piena realizzazione ed espressione di sé.
Se tutto è già tradotto, interpretato, acquisito dall’adulto, secondo i propri desideri e aspettative, il giovane rischia di non poter mai diventare veramente un adulto sociale. Tutto ciò, in primis, a danno della propria autenticità e maturità. L’afasia dei significati profondi, la negazione del sentire e la rimozione dei sentimenti definibili dal comune sentire poco desiderabili e apprezzabili arrestano nel giovane quel processo di conoscenza del proprio essere, finendo per connotare di distanza e incomunicabilità il rapporto con il mondo degli adulti.
Secondo i dati del 2014 della Società Italiana di Pediatria il rapporto tra adolescenti e internet è sempre più privato – il 71% dei tredicenni si collega alla rete con il proprio telefonino – e lontano dal controllo dei genitori.
Il 46% degli adolescenti passa da 1 a 3 ore al giorno sul web e il 26% supera le 3 ore. Per 6 giovani su 10 internet appare irrinunciabile e quasi uno su 4 senza i suoi amici virtuali avverte solitudine. L’uso di WhatsApp (il social network preferito dall’81% dei ragazzi italiani) e Facebook (3 adolescenti su 4 hanno un profilo) rende gli utenti raggiungibili in qualsiasi momento della giornata (notte compresa).
Negli Stati Uniti, secondo una ricerca del 2010 della Kaiser Family Foundation, i genitori sembrano aver ormai abdicato al loro ruolo di controllo, consegnando agli schermi luminosi (tablet, tv, telefonini e computer) anche i figli più piccoli. Una ricerca dell’aprile 2015 dell’Ospedale di Philadelphia Einstein Healthcare Network ha evidenziato come il 36% dei bambini inizi a maneggiare un tablet o un telefonino ancora prima di aver compiuto un anno.
La costruzione dell’identità non può essere affidata a strumenti tecnologici, così come non può ridursi all’assenza di controllo e delega, all’eccesso di affettività, non più reale e autenticamente tale proprio perché sempre un po’ parossistica. Essa necessita di un’etica del rispetto dell’Altro e della sua individualità. Qualunque essa sia.
È possibile costruire e individuare spazi nuovi di confronto intergenerazionale, ma non si può dimenticare che la famiglia resta, contestualizzandola in un milieu di deprivazione etico-morale però, il suo luogo privilegiato.
CONCLUSIONI
Riprendendo l’ipotesi iniziale e provando a percorrere la sua plausibilità, si può concludere che l’eccesso di accudimento e la mancanza di meccanismi favorenti la fiducia, l’autonomia del ragazzo e la sua capacità di vivere e creare legami sociali possono indurre il giovane alla dipendenza patologica e ai comportamenti a rischio.
Vivere di notte per non contattare la propria esclusione dalla società che progetta quel che resta del futuro con la consapevolezza della contrazione delle opportunità e delle prospettive, autoescludersi con l’anestetizzazione operata dalle droghe o scegliere la condotta pericolosa per provare a ricucire lo strappo dell’insignificanza sociale non possono non trovare origine da una fragilità culturale, emotiva e affettiva.
Se ogni generazione ha cercato di edificare il proprio costrutto morale, attaccando più o meno apertamente quello della generazione precedente, oggi, la mancanza di senso generale sembra impedire anche la sola fiducia nel futuro.
Il dolore che appare ammantare il mondo giovanile, però, finisce per connotarsi di nuovo inganno.
Günter Anders profetizzò che la vita dei ragazzi non appariva priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma insopportabile perché priva di significato. Se, infatti, per il filosofo tedesco la condizione del nichilista si esprime nella formula “io sono proprio io”, la condizione dell’uomo storico si riassume nella formula “io sono quello che ero” [28].
Il virtuale al posto del reale, la connessione in sostituzione del legame, il contatto fugace a fronte del bisogno umano di radicamento, la famiglia come luogo della sicurezza che soffoca l’individualità sacrificata sull’altare della precarietà, sembrano configurarsi come ingredienti di base di una torta dal sapore amaro per i più giovani mai come adesso tanto impreparati ad affrontare i normali ed inevitabili flutti della vita [29].
Come Lacan ha insegnato, fondamentale è il rapporto tra l’essere umano e lo specchio come luogo dove poter realizzare il riconoscimento positivo della propria immagine. È evidente il rischio di rimanerne fascinati aprendo alla fissazione incantatoria propria del mito di Narciso. La passione narcisistica e l’impossibilità di scorgere l’immagine di sé perfetta e ideale induce nel tempo all’aggressività contro se stessi e contro gli altri. Questa, strutturandosi sempre di più, si fa chiusura rispetto alla bellezza dell’Altro e della diversità, preferendo la rigidità di un’identità chiusa e autoreferenziale.
Nel testo “Schiavo delle mie brame”, Luigi Cancrini a proposito di narcisismo, riassumendo parte dell’ampio dibattito sviluppatosi negli anni, precisa: «Il fatto che un ambiente famigliare sia caratterizzato dalla tendenza a sopravvalutare i meriti di un figlio e a sottovalutare, nello stesso tempo, il suo bisogno di affetto e di vicinanza non esclude che questo tipo di ambiente famigliare sia caratterizzato, nello stesso tempo o in tempi diversi, dal timore che qualcosa di imprevedibile accada in qualsiasi momento. Il che spinge senza difficoltà il sovrapporsi o l’alternarsi, nel figlio “bersaglio”, di tratti del carattere riferibili al disturbo narcisistico e istrionico di personalità» [30, pp. 217-218].
Precedentemente, Béla Grunberger nel 1971, sintetizzando il frutto di lavori realizzati a partire dal 1956, nell’opera “Il narcisismo” [31] definisce quest’ultimo come un’energia psichica autonoma e specifica, che trova origine nello stato di elazione prenatale. Il feto vive una situazione particolare (elazione) che è costituita da una perfetta omeostasi, in assenza di bisogni, perché questi sono automaticamente soddisfatti.
Questo aspetto è nella condizione di formare quel nucleo narcisistico fonte di una specifica energia, che se non bloccata durerà nel tempo, per tutta la vita.
Dopo la nascita, il bambino deve confrontarsi con le naturali frustrazioni discendenti dal rapporto con la realtà. L’importante interprete della teoria psicoanalitica contemporanea afferma, inoltre, che per sopperire al crollo del suo universo narcisistico il bambino ha bisogno di elementi narcisistici provenienti dall’esterno. Di fatto, questi legge la propria conferma narcisistica negli occhi di sua madre che gli garantisce unicità e valore.
Le conferme narcisistiche, provenienti dall’esterno, daranno seguito alla fantasmatizzazione ed alla creazione di ideali in una relazione dialettica fra componente istintuale e componente narcisistica.
Se per Grunberger il narcisismo è da intendersi come fattore autonomo, e ancor più come una terza forza, non istintuale, che avrà enorme influenza per la formazione di un Io sano e coeso, Heinz Kouth non sembra discostarsi da tale posizione. Secondo lo studioso di origini austriache, il Sé grandioso del bambino esige empatia e tenerezza rispecchiante (mirroring) da parte della madre, che operando un’azione di rinforzo, evolverà gradualmente nelle forme dell’autostima e della fiducia in se stesso. Il sano sviluppo dello stesso determinerà un sempre minor bisogno di rispecchiamento. «Il narcisismo è definito non dall’obiettivo dell’investimento pulsionale, ma dalla natura e dalla qualità della carica pulsionale» [32,33].
In estrema sintesi, il narcisismo di Kohut è considerato un importante fattore di crescita dell’individuo. I bisogni narcisistici riguardano in primo luogo l’amore di sé e l’autostima: appare evidente come ogni bambino abbia il desiderio di sentirsi valorizzato. È in una giusta empatia genitoriale, però, che sostiene le aspettative onnipotenti del bambino favorendo la graduale formazione di una rappresentazione di sé che superi il senso di vulnerabilità infantile.
Ulteriori conferme alla necessità di un meccanismo di rispecchiamento che non sia fagocitante, ma che ad un certo punto della crescita del bambino consenta lo sviluppo della piena autonomia dello stesso, sono da ritrovarsi nella teoria strutturale delle relazioni oggettuali di Otto Kernberg. Per quest’ultimo la relazione interpersonale si configura come uno stato affettivo che consente al Sé di svilupparsi in un complesso processo di introiezioni, identificazioni e sintesi organizzative di questa esperienza (identità dell’Io). Il Sé grandioso del narcisista contiene, secondo le osservazioni di Kernberg, il Sé reale, il Sé ideale e le rappresentazioni oggettuali ideali. In questo modello la patologia nevrotica è caratterizzata dalla presenza di modelli operativi interni poco funzionali all’adattamento [34].
Al di là del rischio classificatorio di vera e propria nosografia psichiatrica, per Kernberg e Kohut, nella sfera individuale tutto ciò si traduce nella costruzione di legami instabili, precari, neutri, affettivamente blandi, che inneggiano al culto di un corpo standardizzato (per eccesso di cura o assenza quasi completa della stessa). Nella dimensione collettiva si finisce per proporre il particolarismo all’universalismo proprio della globalità. In ogni caso l’esito finale (e causa) è un narcisismo sempre più patologico. L’individualismo, dunque, appare attraversare trasversalmente la società attuale dall’Io al Noi. Quest’ultimo connotabile di senso solo nella misura in cui somiglia all’Io personale.
Una grossa parte della psicanalisi e della corrente della critica sociale della sociologia contemporanea intravede, dunque, nell’adorazione narcisistica di sé e nell’arroccamento sulla propria identità la cifra della malattia della contemporaneità. Quando il limite, infatti, chiamato a delimitare l’identità, si irrigidisce, ingessandosi nella fissazione di sé, la vita umana perde la sua prerogativa di scambio e confronto, lasciando il posto alla tristezza, alla depressione, all’inclinazione verso la dipendenza patologica. Il questo caso il mondo finisce per ridursi a uno specchio sempre uguale a se stesso che impoverisce la visione soprattutto dei più giovani, costretti dallo scarso valore di sé degli adulti, e da essi stessi trasmesso, a nascondere le proprie fragilità.
Il desiderio è rischio, è ingovernabilità. Nel controllo esasperato, nell’assenza dell’esperienza del limite, come esperienza formativa ed educativa, l’Io cede alla spinta narcisistica cessando la prerogativa generatrice e creativa propria dell’essere umano sano.
«Il tossicodipendente è una persona che ha alle spalle un’infanzia infelice, con cui è indispensabile mettersi in contatto attraverso quella che scientificamente è detta “alleanza terapeutica”. Il più grande ostacolo a questo dialogo è rappresentato da noi, dal nostro narcisismo, status sempre più dilagante nel nostro tempo: le persone narcisiste mancano totalmente di empatia, sia con le proprie emozioni che con quelle altrui. Per loro è impossibile curare i bambini, ascoltarli, capirli» [35].
In questa chiave di lettura non c’è possibilità che per una prevenzione in grado di operare sull’individuo per renderlo davvero un individuo sociale, ricco di tanti legami reali. L’Altro, dunque, come possibilità e non come frustrazione. L’Io come promotore di una diversità che sa includere e non escludere, quando non espellere completamente.
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