Quattro conversazioni sulla psicoterapia

Stefano Cirillo, Franco Colizzi, Antonio Romanello, Francesco Bruni



Il progresso scientifico si muove su due tipi di movimenti solo apparentemente contrapposti: quello delle ricerche che tende a verificare ipotesi già formulate e quello preparato dai dati che esso non spiega, portando alla formulazione delle nuove ipotesi. Inevitabile all’interno di una comunità professionale percepi­re come rassicuranti e lodevoli le prime, come pericolosi e da osteggiare i secondi. Sceglieremo per questa rubrica, all’interno di una letteratura ormai vastissima e spesso ripetitiva sulla terapia, lavori del secondo tipo. Parlando di “idea nuova” ne supporremo sempre il significato propositivo. Sperando di dare un contributo al­lo sviluppo di una scienza realmente “riflessiva”: capace cioè, nel senso di Bateson, di comprendere se stessa nel campo della propria osservazione.


Scientific progress moves along two lines which are only apparently in contradiction: one belongs to research which aims at verifying hypotheses already for­mulated, the other being prepared from data which the hypotheses do not explain and leading to no formulation of new. Inevitable, for the professional community to perceive the former as encouraging and praise worthy and the latter as dangerous and hostile. For this section, a careful selection has been made from the literature on therapy, today very extensive and often repetitive, concerning works of the second type. Referring to a “new idea”, we will always take it as a proposal while at the sa­me time we hope to bring a contribution to the development of a really “reflexive” science: that is, capable, as Bateson says, of looking carefully into itself.


El progreso científico evoluciona en dos direcciones opuestas: una lleva a realizar investigaciones que tienden a verificar hipótesis ya enunciadas y la otra a reali­zar investigaciones que formulan nuevas hipótesis. Es inevitable que la comunidad de profesionales considere el primer tipo de estudios más confiables y elogiables mientras que los segundos, se consideren peligrosos y generadores de hostilidad. En esta sección han sido seleccionados solo trabajos del segundo tipo, dada la amplitud y a menudo la repetición de la literatura dedicada a la terapia. Al hablar de una “idea nueva” lo haremos siempre desde un punto de vista de propuesta, esperando poder contribuir al desarrollo de una ciencia realmente reflexiva que en el sentido de Bate­son, sea capaz de auto observación.



Recensione e dialogo con Giuseppe Vinci

di Stefano Cirillo1


Confesso di essermi avvicinato con qualche diffidenza a questo libretto in forma di dialogo, essendo poco attratto da questo genere letterario, che pensavo avesse il carattere di un’intervista dell’(ex) allievo, Vinci, a chi è stato un tempo il suo maestro, Cancrini.
Invece la lettura mi ha molto coinvolto: nella conversazione del tutto paritaria tra i due sono rapidamente entrato anch’io, rispondendo a mia volta alle domande che i colleghi dibattevano e dibattendo a mia volta idealmente con loro.
Molto suggestiva la citazione di Goethe da cui il libro prende l’avvio: «Tutti i pensieri intelligenti sono già stati pensati, occorre tentare di ripensarli».
Le questioni che Cancrini e Vinci affrontano sono effettivamente quelle su cui tutti noi psicoterapeuti ci interroghiamo ogni giorno, che ci vengono poste con prepotenza dal lavoro con i nostri pazienti.
Come far sì che il mio rifiuto al signor T. di non fatturargli le sedute acquisti un senso all’interno della terapia e non abbia un sapore moralistico?
Devo accontentarmi dei progressi di C., venuto in terapia dopo un serio tentato suicidio, anche se dichiara di essere contento della sua solitudine esistenziale e vuole chiudere il trattamento?
Posso accettare il rifiuto di S. ad assumere degli antidepressivi anche se sua madre mi minaccia di denuncia nel caso cerchi di togliersi la vita?
Ho sentito Luigi Cancrini e Giuseppe Vinci condividere i miei dubbi e offrirmi una luce in più per affrontare la responsabilità di trovare la mia risposta.
Ho trovato echi e consonanze con le mie letture preferite: lo sforzo di radicare la professione in una dimensione etica mi ha più volte richiamato Doherty, la sottolineatura dell’autenticità del terapeuta mi ha fatto pensare agli insegnamenti di Yalom.
Un lettore più giovane di me resterà, credo, colpito dal sapore tutt’altro che trionfalista con cui due psicoterapeuti non più giovani tracciano il bilancio della loro traiettoria professionale. Una malinconia stoica e disincantata, forse più presente nelle argomentazioni di Giuseppe, che non confligge con il desiderio di combattere perché la psicoterapia sia uno dei modi con cui contribuire a liberare le persone dalla sofferenza e dall’ingiustizia. E le battaglie su cui i nostri due colleghi si impegnano con passione ed entusiasmo sono molteplici, dalla lotta al riduzionismo scientifico proposto dall’industria degli psicofarmaci, alla denuncia di una pratica della neuropsichiatria infantile che ancora si affanna a riparare un bambino che sta subendo violenze in famiglia, o alla critica ad una terapia puramente individuale che sostituisce e squalifica i genitori dei bambini e degli adolescenti. E l’azione di Cancrini e Vinci buca le pareti dello studio per proiettarsi in una dimensione sociale e politica, nel solco di Basaglia.
Peccato che la mia partecipazione al loro dibattito sia stata solo virtuale: avrei voluto discutere con loro su due aspetti della loro visione del ruolo dello psicoterapeuta su cui sono solo parzialmente d’accordo.
Una parte del volume, infatti, è dedicata alla formazione dello psicoterapeuta - e si apre con una fulminante citazione di Vito, tutt’altro che rassicurante: «Si tratta di un mestiere affascinante, ma estremamente difficile. Esso può dare grande soddisfazione, ma non sono infrequenti momenti di sconforto. Occorre chiedersi […] perché mai si sceglie un mestiere che racchiude in sé la pretesa che noi, parlando, possiamo guarire gli altri. Forse è un mestiere che andrebbe scelto solo da chi non può farne a meno».
In linea con questa visione, gli autori mettono in guardia contro “la ricerca di gratitudine” perché il ruolo, essendo stato cercato da chi lo riveste, non può essere percepito dal paziente come un dono. Così come il ruolo del genitore dal figlio.
Ma, dico io, non c’è modo e modo di spendersi come terapeuta? (E come genitore). Questo non suppone una reciprocità dello scambio nel quale è lecito attendersi anche la riconoscenza?
La seconda questione che avrei volentieri approfondito è quella su uno dei capisaldi della formazione del Centro Studi, cioè il prolungato lavoro sulle reazioni controtransferali durante la supervisione degli allievi. Questa pratica a me personalmente lascia perplesso: e mi colpisce come lo stesso Cancrini dica che «curiosamente, durante la [sua] formazione psicoanalica, … le supervisioni dei [suoi] didatti sono state più sul contenuto delle terapie che sulle [sue] reazioni controtransferali», prassi a me più congeniale.
Come si vede, la lettura mi ha trascinato nel vivo della discussione: e sicuramente lo stesso effetto avrà sui terapeuti, giovani e meno giovani, che si avvicineranno al testo con l’attesa di condividere interrogativi e ricevere piste di riflessioni e stimoli a progredire.
FEEDBACK DI GIUSEPPE VINCI SULLE DUE QUESTIONI APERTE DA STEFANO cirillo
1. «Ma, dico io, non c’è modo e modo di spendersi come terapeuta? (E come genitore). Questo non suppone una reciprocità dello scambio nel quale è lecito attendersi anche la riconoscenza?»
Conosciamo il senso di pienezza che produce in noi il sentire (anche solo col non-verbale) che il paziente si è sentito davvero aiutato e lo ri-conosce. La sua consapevolezza dell’aiuto ricevuto, della qualità dello scambio intercorso, dell’impegno comune che gli ha reso possibile una migliore qualità della vita è – in sé – un indicatore dell’efficacia del processo terapeutico. Il passo da tale consapevolezza a un libero e dolce sentimento di gratitudine è assai piccolo, e a sua volta può essere considerato un indicatore maggiore di qualità del processo terapeutico concluso. È bello, e profondamente umano, che tali sentimenti del paziente diventino sorgente di gratificazione del terapeuta. Oserei direi persino di una sua felicità, riprendendo la definizione che ne dà Faussone, il protagonista del romanzo di Levi che ho citato in conclusione del libro, dicendo delle gioie di questo nostro lavoro per me.
Ciò che secondo me non è lecito è l’attesa della riconoscenza, il pensarla come una giusta contropartita per l’impegno generoso che il terapeuta dispiega. Quell’attesa, secondo me, rischia di rendere la relazione terapeutica pericolosamente simile a un’amicizia, in cui la reciprocità dello scambio non può che essere attentamente simmetrica.
Il buon lavoro terapeutico assai spesso (non sempre, per ragioni troppo complicate da indicare qui) produce nel paziente il sentimento della gratitudine, come accade per il buon genitore con il figlio o per il buon governante con i suoi cittadini. Tale gratitudine arriva, però, proprio dalla percezione del ricevente della gratuità, della libertà, del dono ricevuto: l’impegno professionale generoso e qualificato, o l’attenzione costante del genitore verso i bisogni del figlio, o le caratteristiche illuminate ed efficaci del buon governante.
La gratuità dell’impegno, sciolto dall’attesa del riconoscimento, è anche un importante aiuto nel processo di responsabilizzazione del paziente verso se stesso e verso il proprio destino, ed è il fondamento della sua crescita, del suo poter diventare più forte e più libero grazie anche all’aiuto del bravo psicoterapeuta, ma innanzitutto grazie a sé stesso. «Non assumo mai su di me la responsabilità del cambiamento del paziente», dice la Benjamin [2], secondo me correttamente; e in questo non c’è disimpegno ma riconoscimento della preminenza dello sforzo che il paziente è chiamato a fare, rispetto all’aiuto che il terapeuta può dare, in riferimento al risultato del processo terapeutico.

2. «La seconda questione che avrei volentieri approfondito è quella su uno dei capisaldi della formazione del Centro Studi, cioè il prolungato lavoro sulle reazioni controtransferali durante la supervisione degli allievi. Questa pratica a me personalmente lascia perplesso: e mi colpisce come lo stesso Cancrini dica che «curiosamente, durante la [sua] formazione psicoanalica, … le supervisioni dei [suoi] didatti sono state più sul contenuto delle terapie che sulle [sue] reazioni controtransferali», prassi a me più congeniale».
Devo ammettere di essermi radicalmente convinto, invecchiando, della sussistenza di una precisa gerarchia esistente tra le due caratteristiche centrali dell’essere terapeuta, e cioè: 1) il suo equilibrio personale, la sua capacità di instaurare una relazione sana con una persona (in difficoltà, spesso con un disturbo) e 2) la sua competenza tecnica, il suo sapere scientifico. Se esiste un lavoro in cui queste due caratteristiche sono intrecciate al punto da essere inscindibili tra loro, questo è proprio il nostro. Secondo me, però, esiste tra questi elementi un ordine di importanza, e viene prima l’equilibrio personale, che nello psicoterapeuta deve comportare, anche e necessariamente, la conoscenza di ciò che gli accade dentro, di fronte a ciò che il paziente gli propone nel relazionarsi a lui.
L’equilibrio personale di chi si coinvolge in una relazione d’aiuto, da verificare e ri-acquisire in ogni momento, come accade al funambolo sulla sua corda, è la premessa di ogni reale relazione d’aiuto. Una relazione d’aiuto operata da chi non è in posizione di sufficiente equilibrio sarà disastrosa anche quando apparentemente efficace. Disastrosa perché nessuno cresce all’interno di relazioni intimamente falsate dai bisogni reali (onnipotenza, calore, seduzione, dominio, successo, rispecchiamento) di chi è in posizione di maggiore forza, neanche quest’ultimo. Per questo è prioritario provare a strutturare nel terapeuta in formazione una sua precisa attitudine ad ascoltare se stesso, i movimenti delle sue emozioni, insomma le sue reazioni controtransferali, per capire meglio se stesso e, come ci ha insegnato Kernberg, il paziente che ha di fronte. Se non c’è questo, difficilmente ogni sapere scientifico basterà a dare aiuto, anzi: come abbiamo visto osservando e studiando le violazioni del setting, queste erano nella gran parte dei casi agite da terapeuti particolarmente brillanti, competenti, sapienti. Per loro potremmo dire che la “competenza tecnica” è stata elemento di potenziamento dello squilibrio, sia in quanto ne ha facilitato gli alibi (la teorizzazione in positivo di ciò che in realtà era il proprio malfunzionamento), sia in quanto ne ha potenziato la seduttività e, in qualche caso, il potere carismatico. Sotto certi aspetti, il terapeuta maggiormente pericoloso per i pazienti è quello abile, che sa come entrare nel mondo del paziente, e perciò spesso prestigioso (magari ha pure scritto libri, o ha titoli accademici, o ha fondato scuole), ma non in equilibrio, e che una volta entrato profondamente nella relazione con il paziente, è guidato dalle proprie parti meno sane. Altri terapeuti inefficaci si lasciano più facilmente respingere (quando squalificanti o disimpegnati, o ignoranti, ad esempio) oppure non riescono neanche a iniziare una qualche forma di psicoterapia (quando palesemente inadeguati sul piano relazionale e/o delle competenze scientifiche).

L’allievo psicoterapeuta inizia la formazione con il desiderio di sapere “come si fa” a guarire le persone, con quali strumenti tecnici, con quali protocolli, con quali teorie e con quali trucchi del mestiere. Ho visto tante volte la delusione negli occhi degli allievi quando cominciano a capire che le cose stanno ben diversamente, e che dovranno coltivare più il loro “saper essere” che non il loro “saper fare”. La mia esperienza, però, è che quando la formazione centrata sulla persona del terapeuta, colto nel vivo delle sue reazioni controtransferali, prende consistenza, l’allievo cresce, si complessifica e si espande. Ed è consapevole e felice di quanto gli sta accadendo, sia pure pagando il sofferto prezzo della propria messa in discussione. Solo “da qui in poi”, secondo me, sono utili e benedette le conoscenze tecniche accumulate dagli studiosi e apprese con lo studio, le pratiche e le esperienze degli anziani e dei colleghi più creativi, l’uso di strumenti e protocolli costruiti per conseguire obiettivi specifici. Non prima.
REPLICA DI STEFANO CIRILLO
Giuseppe mi offre la possibilità di reagire a mia volta alle sue risposte, in un dialogo a distanza. Lo ringrazio.
Al suo primo chiarimento non ho nulla da aggiungere: sono soddisfatto che, senza contraddirsi, sia venuto a patti (anche lui) con l’umana aspettativa di essere ricordati con affetto da chi abbiamo accompagnato per un tratto di strada.
Quanto alla seconda risposta, vorrei chiarire che il mio dubbio non riguarda la necessità che il futuro terapeuta sia accompagnato a raggiungere un equilibrio personale, ma il fatto che il luogo per aiutarlo sia la supervisione.
Il fatto che Luigi ricordi che i suoi supervisori di approccio analitico a suo tempo lo facevano assai raramente, ci rimanda al tema del contratto.
È appropriato prendere in carico le difficoltà personali dell’allievo quando non ci domanda una psicoterapia ma una supervisione? A volte è necessario, ma a mio giudizio molto raramente: non mi scandalizzano i contratti complessi, come dimostra il mio lavoro nei contesti coatti (ma non parlo delle violazioni di contratto!). A volte mi capita di fare un accenno fuggevole e un po’ indiretto a una possibile risonanza personale, ma torno subito ai contenuti tecnici (a buon intenditor…). In altri casi, mi sembra più appropriato rimandare ad altri: “Ne ha parlato con il suo terapeuta?”, “Ha considerato che forse questo è il momento giusto per intraprendere una terapia personale?”, “Che ne pensano i suoi colleghi d’équipe di questa sua impasse?”. Nessuna obiezione dunque a contribuire alla formazione personale dei futuri terapeuti: mi appassiono tantissimo al lavoro sul loro genogramma in gruppo, fatto anche con il coinvolgimento delle loro famiglie di origine [3]. Le mie perplessità riguardano solo l’opportunità di caratterizzare fortemente in questo senso il contesto della supervisione.


Alcuni interrogativi e alcune considerazioni
filosofiche per un altro giro di conversazioni

Commento di Franco Colizzi2
LA PSICOTERAPIA NELLE STANZE DEL CSM
La psicoterapia mi pare viva un disagio che ha ragioni profonde, correlate ai suoi stessi vincoli interni, ai difficili rapporti con le discipline mediche e scientifiche, a vari condizionamenti sociali. Nella vita contemporanea viene spesso considerata come un bene alla moda o comunque di consumo (“mi piacerebbe fare una psicoterapia per capire qualcosa di più di me”), peraltro alla portata di pochi. Nella stessa rete dei servizi di salute mentale – almeno quelli di cui io ho contezza – non ha un ruolo forte, bensì ancillare, è in genere limitata a pochi casi (sul totale) e difficilmente ben strutturata.
Lo confesso subito: alle persone di cui mi occupo personalmente cerco sempre di offrire almeno un contesto relazionale psicoterapeutico, non riuscendo però il più delle volte a strutturare una classica psicoterapia né a rispettare un canonico setting, per il crescente groviglio di attività, di tempi e di interfaccia cui un CSM (e ancor più un direttore) non può sottrarsi. Del resto, in un CSM del Sud come quello da me diretto, che nel 2012 ha dovuto fornire molteplici risposte a 1600 persone, a chi si dovrebbe offrire la psicoterapia? Riferendoci alla sua versione iperspecialistica, la risposta è: a una piccola percentuale che la chiede e per cui è specificamente indicata. Ma se parliamo di un approccio alla domanda di tipo psicoterapeutico, variamente approfondito e articolato, la risposta è: a tanti. Gran parte dei pazienti in carico al CSM viene a contatto con medici, psicologi, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione ed infermieri più volte in un anno, anche decine di volte, trascinandosi domande profonde il cui ascolto e riconoscimento restano difficili. A tutti costoro non andrebbe offerto, tra le diverse “prestazioni”, anche “un aiuto dato con strumenti psicologici […] mantenendo un distacco ragionato dalle vicende dell’altro […] un contatto forte […] per attivare le risorse personali e di contesto utili alla crescita dell’autonomia di risposta personale al dolore che incontrano nella vita”? [4]. Ma, se così fosse, non andrebbero ripensati i modelli organizzativi dei servizi psichiatrici? Non andrebbe altresì modulata la formazione psicoterapeutica in rapporto alle esigenze di contesti ambulatoriali e domiciliari di natura pubblica? E non andrebbe data nelle ASL una priorità alla salute mentale (non alla psichiatria), nella consapevolezza, secondo l’enunciato dell’OMS, che non c’è salute senza salute mentale?
PSICOTERAPIA E RIABILITAZIONE
Una questione che è andata via via emergendo e amplificandosi, sin dalle prime esperienze di dismissione manicomiale, è l’imprescindibile intreccio tra riabilitazione dei pazienti psicotici e psicoterapia.
Commentando con animo distaccato il celebre, seppur ormai datato, studio di follow-up relativo ai pazienti della clinica privata di Chestnut Lodge (USA), dove avevano operato grandi psicoterapeuti (H. S. Sullivan, H. Bruch, F. Fromm-Reichmann e altri), T. Mc Glashan scriveva: «Secondo noi, gran parte dei disturbi schizofrenici sono cronici e le relazioni terapeutiche, comprese quelle psicoterapeutiche, possono diventare interminabili. Se è così, il terapeuta non può offrire una relazione limitata presentandola come un luogo in cui e attraverso cui il paziente matura fino a farne a meno. Egli dovrebbe essere pronto e disponibile, piuttosto, a diventare un oggetto reale e stabile nella vita del paziente, una parte significativa del suo mondo concreto» [5]. Qualcosa è cambiato dal 1984, epoca di pubblicazione dello studio, ma forse non tanto.
In un loro bel lavoro del 1990, Siani, Siciliani e Burti [6], focalizzandosi sul complesso e conflittuale rapporto tra le persone psicotiche, le loro famiglie e il servizio psichiatrico pubblico, sottolineavano la necessità di sviluppare strategie di psicoterapia e riabilitazione nei dipartimenti di salute mentale. Muovendo da una visione assolutamente empatica e nonviolenta di ogni approccio psicoterapeutico, tali autori assumevano che «inserire un approccio psicoterapeutico (o terapeutico-riabilitativo) in una strategia, che lo integri con altri approcci o momenti operativi, significa preservare la sua disarmata fragilità dall’annientamento che subirebbe ad opera della strategia violenta (razionale o più spesso irrazionale) messa in atto, nei vari contesti, dagli “attori sociali” del “gioco psicotico”». Anche se tale proposta non sembra aver avuto la possibilità di radicarsi sui territori, la questione posta è del tutto attuale. Anzi, con il proliferare di diverse tipologie di strutture riabilitative, di tipo sia semiresidenziale (i classici Centri Diurni) sia residenziale (da noi in Puglia le CRAP, comunità riabilitative di assistenza psichiatrica, e le Case per la vita, oltre alle Case-alloggio e ai Gruppi appartamento) essa si è perfino acuita, dal momento che la scarsità di studi valutativi dei risultati dei percorsi riabilitativi semina dubbi sulla loro reale efficacia. Eppure, non mancano significative esperienze cui guardare, come quelle realizzate da Carlo Perris ad Umea, in Svezia, raccontate nel volume “Psicoterapia del paziente difficile” del 1993 [7], vera e propria guida pratica, come recita il sottotitolo, all’approccio cognitivo nei servizi di salute mentale. Qui, non solo Perris tiene fede al titolo del volume, ma si spinge anche a tratteggiare l’applicabilità dell’orientamento psicoterapeutico cognitivo a strutture di tipo riabilitativo per pazienti gravemente disturbati. Ho citato volutamente due opere risalenti a vent’anni fa, proprio per evidenziare la distanza esistente tra la realtà della pratica psicoterapeutica nei servizi psichiatrici e nelle strutture riabilitative e le ampie potenzialità di utilizzo dell’approccio psicoterapeutico nei servizi territoriali, lasciate cadere da una strisciante controffensiva culturale e da una progressivamente calante attenzione del legislatore, nella collusione diffusa tra assetto della psichiatria italiana e amministrazione “manageriale” della sanità pubblica. La miscela che purtroppo prevale nel mondo reale (rispetto a quello della ricerca e dei convegni) è composta per lo più di terapie psicofarmacologiche e di assistenza, magari entrambe di buona qualità: ma quanta “liberazione” si riesce a ottenere così?
LA PSICOTERAPIA, PICCOLO VAGONE DEL TRENO DELLE NEUROSCIENZE
Il progressivo affermarsi del punto di vista globale, biopsicosociale, rispetto alla complessità delle psicosi, schizofrenia in primis, ha visto il sorgere di esperienze pilota (che tendono a restare tali) molto significative. Il famoso progetto pilota Soteria di Loren Mosher e Alma Menn, condotto dal 1971 al 1983 in una piccola comunità nei pressi di San Francisco, è stato positivamente replicato a Berna, in Svizzera ed ha avuto una qualche diffusione. Ma il formidabile percorso delle neuroscienze negli ultimi vent’anni sembra essere indirizzato verso un risultato paradossale. L’orientamento emergente, e che si va consolidando, è quello secondo il quale le malattie mentali gravi sono sì sindromi biopsicosociali, ma sarebbero determinate come primum movens da disfunzioni del sistema nervoso centrale (in gran parte a substrato genetico) e ad esse possono in definitiva, riduzionisticamente, essere ricondotte. A me pare che così si possa andare a finire ad una strana “recherche du temps perdu”, nel senso che le malattie mentali gravi tornerebbero, stricto sensu, nell’alveo della neurologia (o della ricostituita neuropsichiatria), quasi confermando l’assioma antipsichiatrico per cui la malattia mentale – psichiatrica – non esiste e, semmai, la sua presentazione pubblica dipende dalle risposte che la medicina e la società le riservano (stigma incluso). È un po’ come, nell’area della disabilità, tornare indietro, alla sequenza lesione/deficit/disabilità/ handicap che era l’asse portante dell’ICIDH e che da alcuni anni, a fatica, è stato sostituito opportunamente dall’ICF (processo classificatorio che mette al centro funzioni e diritti umani, riconosciuti nel 2006 dalla Convenzione internazionale delle persone con disabilità). È una mia sensazione erronea?
LA PSICOTERAPIA DEI POVERI NEl SUD DEL MONDO
Da circa tredici anni mi occupo, come socio e volontario in una ONG partner ufficiale dell’OMS (l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, di cui sono stato presidente nazionale dal 2005 al 2011), di progetti di cooperazione sanitaria internazionale. Progetti di lotta alla lebbra e alla grave esclusione che chi ne è colpito ancora subisce, progetti di intervento ampio sulle gravi condizioni di disabilità (attraverso la strategia OMS-ILO-UNESCO della riabilitazione su base comunitaria), progetti più recenti di salute mentale di comunità (uno scambio con l’Argentina, che ha deciso di chiudere i suoi manicomi nel 2010; un progetto di integrazione della salute mentale nella sanità di base in alcuni distretti della Cina, dove dal primo maggio del 2013 è in vigore una nuova legge per la salute mentale; un programma multicountry per validare un tool dell’OMS per la valutazione del grado di rispetto dei diritti umani delle persone colpite da disturbi mentali gravi). Gravissime sono le carenze di azione a favore delle persone con sofferenza mentale in moltissimi Paesi del mondo: spesso vi è abbandono (con ricorso a catene e metodi vari di contenzione di villaggio) perché manca qualsivoglia struttura, a volte c’è reclusione in pochi e malandati manicomi, quasi sempre mancano psichiatri, operatori della salute mentale, psicofarmaci (si vedano le tabelle del Mental Health Atlas dell’OMS). In tali condizioni, porre la questione della psicoterapia può sembrare una bestemmia o un semplice flatus vocis. Eppure, il tema si pone e va posto, sottolineando che esso riguarda i Paesi più poveri del pianeta, ma anche tante aree povere in Paesi emergenti o ricchi. Faccio solo un esempio, tra i pochi che hanno trovato spazi di valutazione scientifica. In Uganda, Paese di quasi trenta milioni di persone, gli psichiatri sono meno di uno per milione di abitanti e sono affiancati da poche decine di persone qualificate nel campo. Qui può sembrare ovvia la rinuncia a introdurre almeno un approccio psicoterapeutico generale. Eppure, nei primi anni del decennio appena trascorso, si è realizzata una positiva esperienza, in un’area rurale ugandese, di formazione di personale in grado di gestire gruppi di pazienti affetti da sindromi depressive utilizzando una forma adattata di psicoterapia interpersonale. Per la grande maggioranza dei pazienti, che vivevano in un’area ad alta prevalenza di AIDS, le alternative erano o i guaritori tradizionali (che avevano dichiarato di non essere in grado di trattare tali condizioni) o un raro ricovero o semplicemente nessun trattamento. È il caso, di fronte a un bisogno immenso di psicoterapia, di impegnarsi strenuamente per mantenere la purezza delle singole scuole, litigando anche aspramente, oppure si potrebbe mettere a frutto l’ampio sapere psicoterapeutico esistente per renderlo, pur in maniera imperfetta e inevitabilmente semplificata, disponibile anche per i poveri e gli ultimi della Terra?
UNA QUASI CONVERSAZIONE CON FILOSOFI, SCRITTORI E STUDIOSI DELLA PERSONA
Definizioni della psicoterapia come “arte della liberazione” o come percorso di “ripristino del Sé di diritto” le trovo belle, e non infondate, ma naturalmente asintotiche. Esse sono uno dei prodotti più maturi della Civiltà del rimedio che – nella lettura del filosofo Severino –, dall’età dei Greci in poi, si è impegnata a trovare medicamenti all’inevitabile dolore umano in un mondo vissuto come tragico. Ma, proprio seguendo Severino, e sulla scia di Nietzsche e di Heidegger, pare che ormai da tempo la Civiltà del rimedio sia pervenuta a un duro confronto con il dolore ontologico da cui è partita, il dolore del nulla, dell’annullamento degli essenti, del loro tragico divenire sporgenze transeunti del nulla. In un contesto, che più comprensivamente il sociologo Magatti chiama di capitalismo tecno-nichilista, qual è allora il compito della psicoterapia, davanti a psicopatologie sempre più pregne del dolore del nulla?
In un suo breve saggio del 1989, Dimmi chi erano i Beatles, il neuropsichiatra infantile Marco Lombardo-Radice sembra aver avvertito acutamente la questione. Nel succinto racconto di due psicoterapie con adolescenti, scriveva: «…vorrei tentare di chiarire […] come il problema della morte, e più in generale quello del senso della propria esistenza, possano nell’adolescente trovarsi strettamente intrecciati sia al “problema designato” che motiva la ricerca di aiuto sia allo sviluppo di un rapporto valido con l’adulto/terapeuta» [8]. Aveva notato, il giovane ispiratore del film Il grande cocomero, come Andrea descriveva il senso di vuoto delle sue giornate, prive di una riconoscibile meta da raggiungere, e come l’angoscia nel confronto con gli spazi aperti venisse estesa da Giorgio ai problemi filosofici della morte, del tempo e dell’infinito. La risposta del terapeuta, in queste terapie, era stata poco ortodossa: confessare di vivere talora le stesse angosce e di aver imparato a convivere con esse, attribuendo un senso alla loro esperienza. Una risposta da testimone, alla portata di tanti non psicoterapeuti. Del resto, la competenza psicoterapeutica è un tipo di capacità d’aiuto che esiste allo stato naturale negli esseri umani. È un dono di tutti, e per tutti, e mi affascina la prospettiva, non strettamente tecnica, che si possa potenziare in tante persone. Entrando nella nostra conversazione, Elias Canetti ci farebbe rilevare una potente assonanza della missione dello psicoterapeuta con quella dello scrittore, proprio in forza di questo dono (o carisma o talento) comune (che ricomprende l’ einfhulung, l’empatia, il transfert…). Per Canetti, alcune persone hanno il compito precipuo di preservare e sviluppare consapevolmente questa competenza: «Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi hanno ad ogni costo il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini […]. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati». La legge che Canetti riconosce operante nello scrittore, e che noi possiamo vedere all’opera nel terapeuta, è: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri […]. Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda» [9].
La visione della psicoterapia come una delle arti di liberazione umana chiama sicuramente a interloquire nella conversazione Aldo Capitini, il filosofo perugino, poco studiato, della nonviolenza. Per Capitini, l’essere umano nasce e si sviluppa all’interno di una “realtà condizionata” che confligge con l’apertura infinita propria della persona. Quest’ultima aspira naturalmente a una “realtà liberata” e tende ad avvicinarvisi attraverso la “libera aggiunta” del suo contributo. È sulla qualità e sulla consapevolezza di questa libera aggiunta che la psicoterapia può intervenire, approfondendo il suo sguardo anche su un vasto aspetto contestuale intergenerazionale, che Capitini chiama, in maniera complessa, “compresenza dei vivi e dei morti”. Nella prospettiva della compresenza, i defunti e le diverse generazioni passate, presenti e future sono tutte in gioco, come del resto può ben accadere, e accade, in psicoterapie di una certa profondità. Essere orientati alla liberazione significa dunque avere un’idea forte della persona, la cui vita non è mai, come teorizzava (e purtroppo trasferiva in pratiche disumane) il nazismo per i disabili fisici gravi e i gravi malati mentali, “indegna di essere vissuta” (quell’ Ausmerzen che ha efficacemente messo in scena l’attore Paolini). Al contrario, ogni persona, direbbe il filosofo Paul Ricoeur intervenendo, è “auspicio di vita compiuta, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste”. L’approccio filosofico tridimensionale alla persona che ci offre Ricoeur è, al contempo, un itinerario di salute mentale all’interno del quale l’essere umano porta a progressivo compimento la sua vita, anche attraversando la sofferenza estrema, costruendone i significati, che scaturiscono da una dedizione all’Altro e da una ricerca/lotta di liberazione condivisa con l’Altro. Questa “vita compiuta” si manifesta in un reticolo di strutture istituzionali, sempre storicamente imperfette, ma tese a rimuovere ogni forma di ingiustizia seguendo la traccia universalistica di “tutti i diritti umani per tutti” (incardinata saldamente in carte e convenzioni internazionali, come la Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità). È per questo che i percorsi individuali di liberazione e di ripristino del Sé di diritto mi pare alludano ai grandi percorsi storici delle lotte otto-novecentesche per il riconoscimento degli esseri umani nella loro condizione di lavoratori, di donne (e differenza sessuale), di bambini, di persone con disabilità, di popoli colonizzati e di minoranze etniche e tribali a rischio di estinzione. Tutto questo grumo storico – ancora fermentante e incompiuto per larga parte dell’umanità – può dare consistenza al discorso psicoterapeutico, ma questo incorpora indubbiamente qualcosa di più specifico. Si tratta del rimando fondativo a una vera e propria antropologia della fragilità e della cura (come propone ad esempio la studiosa del “diventare persone”, Martha Nussbaum), sovraordinata rispetto alle cure e alle terapie di ogni tipo, comprese le tecniche psicoterapeutiche. Questo basico prendersi cura (il “saber cuidar” del teologo della liberazione Leonard Boff) è la priorità umana, al punto che Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, ritiene lo si debba anteporre, in condizioni di grave dolore, allo stesso pensiero di Dio. In fondo, quando Franco Basaglia, alla domanda di Sergio Zavoli se fosse più interessato alla malattia o al malato, rispondeva senza esitazione che era il malato, la persona sofferente a interessarlo, stava dicendo che noi siamo cura. E questa antropologia della cura sta emergendo largamente e da tempo, attraverso le vaste esperienze del volontariato e della solidarietà (anche internazionale), nelle quali il dono, col suo paradigma elaborato progressivamente da Marcel Mauss in poi, e la gratuità, col suo rapporto im-mediato con l’altro (esemplificato stupendamente dall’atteggiamento di san Francesco verso i lebbrosi), sono elementi relazionali extraprofessionali sempre più accostati ed accostabili alle competenze tecnico-professionali.


Psicoterapia e formazione come atti d’Amore

Commento di Antonio Romanello3


In un mio recente articolo sulla supervisione diretta in terapia familiare avevo scritto: «La psicoterapia che noi intendiamo è altamente ecologica perché prova a intercettare l’essenza della nostra umanità per condividerla, via via che si rivela nello scambio intersoggettivo con i nostri pazienti, nel contesto della relazione terapeutica» [10].
Leggendo il testo di Luigi Cancrini e Giuseppe Vinci [1], ho potuto riconoscerne il suo valore maieutico avendo visto compiersi lo sviluppo pieno e coerente di questa idea che cerco di praticare nella clinica e nell’insegnamento.
“Maieutica” è la prima parola chiave che desidero introdurre per iniziare il mio commento.
Il Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale è Scuola di Formazione a un pensiero sistemico e a una pratica clinica in psicoterapia familiare, e questo testo ne permette di apprezzare anche, a mio avviso, il suo valore di comunità dialogica e scientifica, come, da tanti anni, fa la nostra rivista [Ecologia della mente]. Penso che molti di noi, leggendolo, abbiano avuto la sensazione di leggersi, di ritrovare connessi propri pensieri sparsi espressi, o impliciti e non espressi, riflettendo sulla propria pratica clinica e sul proprio insegnamento. Il metodo stesso del confronto tra i due autori, che si allarga ad altri di noi, ne qualifica il valore maieutico coerentemente con quanto avviene nel nostro modo di fare psicoterapia e di fare formazione. Per esercitare la maieutica c’è bisogno del dialogo, ovvero sviluppare una conversazione a seconda degli stimoli offerti dall’interlocutore: è proprio questo quello che accade nell’incontro con i nostri pazienti dal momento che il terapeuta non si definisce come depositario della verità, ma aiuta gli altri a cercarla in loro stessi.
Isomorfo a questo è ciò che accade nel processo formativo: chi insegna è depositario di un sapere, ma non di una verità assoluta. Il sapere, che unisce saper fare e saper essere, nel corso del training, si costruisce attraverso il confronto con gli allievi e nel fuoco della clinica, per verificarlo e rilanciarlo progressivamente, sviluppandolo in un percorso senza fine. È straordinario che lo stesso papa Francesco, rispondendo alla seconda domanda di Eugenio Scalfari su “Repubblica” del 7 agosto 2014, asserisca: «La verità è una relazione… essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita» [11, p. 42].
La psicoterapia, dunque è “arte della liberazione” [12] e ricerca di quella verità che non può avvenire se non attraverso il metodo maieutico ovvero, proprio in senso socratico, l’arte del far partorire la mente intesa come un enorme cumulo di erbaccia e, sotto di esso, ben nascosta, la verità, ovvero la giusta valutazione dei comportamenti, il senso delle cose.
La seconda parola con cui proseguire questa mia riflessione è “Ecologia”.
Intendere la psicoterapia come una ricerca comune che si sviluppa “con” la persona consentendo al paziente di guardare con occhi nuovi a cose di sé che ha sempre saputo intimamente e che non potevano essere viste, criticate, scelte o cambiate fuori dalla consapevolezza esplicita, qualifica il lavoro psicoterapeutico come strettamente connesso alla esperienza esistenziale di quel paziente in quella fase storica della sua vita. In questo senso sembra affermarsi il superamento della delega al “tecnico” che sa versus un paziente che ne deve accettare valutazioni e decisioni per il suo bene; l’incontro umano e lo scambio intersoggettivo che si definisce e si evolve permette la scoperta di nuovi occhi e apre a nuovi orizzonti come nel viaggio della vita quando c’è crescita, sviluppo. In questo senso non c’è soluzione di continuità tra un percorso di vita e un percorso di psicoterapia: così come la vita non può restare uguale a se stessa ma c’è sempre bisogno di rilanciarla, la psicoterapia diventa parte di una vita momentaneamente inceppata e che va rilanciata ritrovandone il senso perduto. Quindi un processo di liberazione altamente ecologico che restituisce alla persona la libertà di scelta fino a ripristinarne il “Sé di diritto” [13].
La terza e ultima parola che mi permette di concludere questo mio breve commento e che racchiude il senso profondo del lavoro psicoterapeutico, così come gli autori e noi insieme a loro lo intendiamo, è “Amore”.
Partirei dal sentimento espresso da Luigi Cancrini a proposito delle “gioie e dolori del lavoro psicoterapeutico”: «La cosa che mi ha sempre aperto il cuore e dato un senso di commozione e di gioia profonda è vedere un bambino che riesce a esprimere il suo dolore e la sua richiesta di aiuto mentre c’è qualcuno che lo ascolta. Ho la sensazione, in quei momenti, di assistere al miracolo del contatto vero, della relazione che aiuta, della vita che irrompe. Il bambino che riesce ad avere questa possibilità ha delle garanzie di poter continuare a crescere, e la sua vita può riprendere a fluire… In maniera più contenuta e rarefatta, ma con molti punti di somiglianza, questo succede anche con l’adulto quando insieme, nel colloquio, raggiungiamo il suo bambino, quello che non si era espresso a suo tempo» [1, p. 126].
Sentimenti così espressi sottendono amore per la vita e, nello stesso tempo, amore per il proprio lavoro, che gli autori manifestano implicitamente o esplicitamente lungo tutta la loro conversazione.
È un amore con la A maiuscola perché permea e integra vita quotidiana, lavoro psicoterapeutico, impegno sociale e rapporto con le nuove generazioni di psicoterapeuti. È il raggiungimento di una grande capacità intersoggettiva che ci fa operare con la stessa saggezza, senza soluzioni di continuità, nelle relazioni quotidiane, nella clinica e nell’insegnamento di una disciplina che non può essere appresa se non attraverso uno speciale percorso di vita che è il training.
Nella vita quotidiana, che è sempre vita di relazione, non possiamo essere immuni dall’errore: è la nostra saggezza, ovvero quella capacità di tenersi in continua allerta su quello che facciamo, come scrive Cancrini [1, p. 129], che ci permette di riconoscerlo e di riparare. Riconoscere l’errore, la ferita piccola o grande che si sia procurata all’altro, l’assunzione di una responsabilità, la condivisione di un sentimento di dolore che apre un varco al perdono non è un atto d’amore? E tutto questo non è isomorfo a quanto accade nella clinica? Il nostro lavoro con la famiglia reale o rappresentata dei nostri pazienti piccoli o adulti è sostanzialmente un percorso che ci porta a rivisitare quelle esperienze di vita quotidiana per ritrovare l’errore misconosciuto, attivare l’assunzione di responsabilità, riconoscere la ferita e il dolore procurato e, in questo modo, permettere la riparazione con il perdono. È la ricostituzione di quel naturale atto d’amore che permette a ciascuno di noi di crescere per se stessi e con gli altri.
Dicevamo della nostra pratica d’insegnamento e del rapporto con le nuove generazioni di psicoterapeuti. Nel mese di novembre di ogni anno, si concludono nella sede Change di Bari quelli che noi chiamiamo i passaggi di fase del nostro training in terapia familiare. Ai nostri allievi che hanno concluso il I anno con un lavoro particolarmente centrato sulla loro storia familiare trigenerazionale, a quelli che hanno concluso il III anno con il lavoro di supervisione diretta, a quelli che hanno concluso il V anno con il lavoro di supervisione indiretta, affidiamo un compito di autoriflessione sulla loro esperienza formativa sotto il profilo professionale e personale e questo ci permette di condividere con loro il processo di riparazione che si è andato sviluppando nei confronti di quel “bambino ferito” che si portano dentro, in corrispondenza con i processi di riparazione sperimentati nel lavoro clinico e i naturali processi di riparazione che hanno riguardato le relazioni nei gruppi e con i propri didatti. Tutto questo verso il riconoscimento di un atto di Amore che ha messo insieme clinica, formazione e vita quotidiana, come testimoniano le tante manifestazioni di affetto e gratitudine con cui si concludono i nostri corsi di psicoterapia. Fra tutte, ad esempio, gli stralci di due riflessioni particolarmente pregnanti: “Grazie... perché ho capito che i sentimenti grandi non fanno rumore, possono passare silenziosi come l’aria, ma far vibrare le corde più profonde dell’anima...”.
“Ero come Diogene con una lanterna in mano... posso finalmente guardarmi perché la formazione mi ha insegnato a guardare. La vita insegna agli esseri umani a vedere... guardare significa non avere paura di quello che si vede... E se è vero quello che diceva Saint-Exupery sull’amore vero... la formazione e la psicoterapia per me sono diventate tutto ciò; la più alta forma di amore”. Esse ci fanno comprendere la compiutezza di un primo importante traguardo da cui ripartire, la compiutezza di un percorso di riparazione che apre al perdono verso gli altri e se stessi, ma anche la forza di una idea e di una condotta che sviluppa grande corrispondenza ecologica tra il viaggio della vita, il viaggio della psicoterapia e il viaggio dei nostri percorsi formativi. Un traguardo da cui ripartire appunto, che mi invita a concludere con le stesse parole con cui Vinci chiude le Conversazioni: «Il fatto, bellissimo e drammatico insieme, è che questo continuo processo di attenzione all’altro e se stessi (di cui si sostanzia il ruolo del terapeuta/nda) non finisce mai perché, mentre il lavoro e la vita vanno avanti, cambiamo noi e cambia ciò che ci sta intorno. Ciò dà un senso che è insieme di vitalità e di sfinimento, di peso e di creatività, insomma il sentimento di essere ben dentro il flusso della vita, e protagonisti di scelte. Che è quel che proviamo a far riconquistare alle persone che incontriamo» [1, pp. 130-131].


A proposito delle Conversazioni sulla psicoterapia

Commento di Francesco Bruni4


Leggere le conversazioni di Cancrini e Vinci [1] sulla psicoterapia è un’esperienza appassionante per i continui rimandi alla dimensione etica e sociale della relazione di aiuto. Il dialogo fra i due autori segue un filo logico che parte dal significato della psicoterapia, il contesto e il suo campo d’azione, come arte della liberazione che richiede un lavoro delicato e impegnativo nella relazione con chi chiede aiuto per co-costruire un processo di cambiamento. Mi soffermo sui punti di questo dialogo che hanno suscitato in me alcune riflessioni.
LA CONNESSIONE FRA EMOZIONI E RELAZIONI
Il discorso si snoda sul “perché” e sul “come” consideriamo le cause del comportamento, tenendo conto che le differenze di funzionamento tra gli individui si spiegano con la loro storia e i fatti della vita e non il contrario. Altrimenti si cadrebbe nell’errore di leggere la complessità umana, non per la sua ricchezza, ma limitandola ai fenomeni comportamentali e biologi. Questo discorso riguarda il rapporto mente-corpo, la condizione umana e la malattia, il sintomo e il suo significato, le cure farmacologiche e la psicoterapia. Nell’incontro terapeutico, la relazione sostenuta dal linguaggio analogico e dalle parole, ci fa riconoscere gli eventi capaci di produrre cambiamento e di favorire il benessere [14]. Ognuno di noi si rispecchia negli altri e si definisce nella relazione con gli altri e ciò vale anche per le emozioni che proviamo come espressione dell’adeguatezza alle esperienze che facciamo.
Le espressioni delle emozioni, come aveva osservato nel 1872 Darwin [15], favoriscono le relazioni e l’adattamento all’ambiente. Esse sono un sistema di valutazione che si attiva ogni qual volta l’organismo incontra qualcuno o un oggetto [16] e prova un’esperienza sensoriale, come conoscenza non verbale del corpo e del suo stato. Le emozioni sono, quindi, espressione della nostra capacità di stare al mondo che ci aiutano a ritrovare una giusta posizione anche quando siamo a contatto con il dolore degli altri e questo incontro ci fa interrogare sulla nostra condizione umana e sul sentirci in relazione. Proviamo così un senso di colleganza e condivisione che ci stimola a impegnarci per migliorare le relazioni e attenuare la sofferenza. Pertanto il cambiamento terapeutico va visto anche come possibilità di ridurre la sofferenza, anche quando non si giunge a uno stato di pieno benessere che resta, il più delle volte, illusorio.
QUANDO SI HA BISOGNO DI PRENDERE IN MANO IL PROPRIO DESTINO
In questa chiave di lettura occorre quindi guardare alle storie degli individui e delle famiglie che vivono una condizione umana dolorosa, come percorso obbligato, una volta smarrita la possibilità di fare scelte, e di organizzare la propria vita in maniera autentica e a propria misura. In tal senso la psicoterapia si pone il compito di aiutare le persone a uscire da questa condizione e avviare un processo di autoguarigione.
Nello spazio della psicoterapia avviene un incontro fra destini, quello di chi chiede aiuto e quello di chi lo offre, dove si esprimono passioni, lealtà, obblighi e sofferenze come tratti caratteristici della condizione umana. Cosi nasce un esercizio relazionale articolato e complesso, con lo scopo di aumentare le possibilità di scelta e permettere a chi chiede aiuto di prendere in mano la propria vita.
IL PRIMATO DELLA RELAZIONE
Il primato della relazione è centrale in psicoterapia e richiede la maturazione personale dello psicoterapeuta nell’accogliere la sofferenza di chi gli chiede aiuto e nel contribuire a un’esperienza trasformativa. Ciò avviene lavorando molto nella relazione terapeutica e su di sé, nel dialogo con altri saperi, come ad esempio i risultati delle ricerche psicopatologiche, o le conoscenze delle scienze sociali, della medicina e della filosofia, anche alla luce delle recenti scoperte delle neuroscienze [17]. Saperi che ci aiutano a comprendere e affrontare la sofferenza, e ci sollecitano a considerare tratti di personalità, disturbi di personalità e storie familiari, nell’interconnessione fra il mondo interno e il contesto relazionale [18].
In ogni storia di sofferenza risiedono carenze affettive e traumi, perdite e separazioni, o episodi di maltrattamento fisico e abusi le cui vittime sono spesso i bambini. Quando ascoltiamo e accogliamo la sofferenza, proviamo a rivedere gli intrecci relazionali che la nutrono, ad attivare buone relazioni di aiuto e impegnarci ad attivare una rete sociale di sostegno e prevenzione del malessere psichico con le famiglie, la comunità, le scuole, il mondo del lavoro e le altre istituzioni. Cosa oggi difficile non solo per la pervasività delle problematiche che si affrontano, ma anche a causa della crisi economica che indebolisce la rete sociale.
LA CIRCOLARITÀ FRA PSICOTERAPIA E DINAMICHE SOCIALI
Volgere lo sguardo, guardare oltre la siepe [19], vuole dire considerare l’ambiente del setting e il suo contenuto permeabile alle dinamiche sociali con le interconnessioni fra questa forma di aiuto e la sua ricaduta sociale in una relazione circolare, poiché le condizioni di sofferenza che vi giungono sono anche espressione dei rapporti e dei processi che avvengono nella società. Quando siamo impegnati ad accogliere le persone che chiedono aiuto, siamo nello stesso tempo sollecitati a contribuire a un lavoro scientifico e culturale e a impegnarci socialmente anche con proposte civili e politiche. Sostenere il peso delle difficoltà, dalla genesi alla cura del disagio psichico, ricade sul sistema interpersonale che vi è coinvolto e richiede non solo responsabilità, ma anche saggia distribuzione dei compiti.
In psicoterapia ci si confronta con problematiche che vanno dalle caratteristiche biologiche e psicologiche di ogni membro della famiglia alla dimensione culturale e sociale del contesto nel quale viviamo. È questo il terreno nel quale ritroviamo elementi che hanno un ruolo nel disagio psichico e nella possibilità di cura: dalla storia familiare e personale di ognuno alle idee e alle aspettative sulla psicoterapia; dalle rappresentazioni sociali e culturali delle differenze in gioco all’organizzazione delle risposte sociali; dall’organizzazione delle risposte sanitarie e assistenziali a molto altro ancora.
Possiamo, allora, liberare gli individui dalla colpevolizzazione di sé o degli altri se riconosciamo la specifica importanza di ognuno di questi elementi nella comprensione del comportamento, e se prestiamo attenzione alle condizioni personali di ognuno.
GUIDA ALLA PSICOTERAPIA
Il dialogo sulla psicoterapia e sulla formazione dello psicoterapeuta ripercorre le tracce che ripercorrono la storia della psicoterapia in Italia e quella del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale. Una tappa importante alla quale associo le attuali Conversazioni di Cancrini e Vinci è stata Guida alla psicoterapia del 1982 [20] che Cancrini ha scritto per la collana dei libri di base degli Editori Riuniti diretta da Tullio De Mauro. Il contesto in cui matura quell’esperienza è diverso da quello attuale e, anche in quel caso, il testo si rivolge a un ampio pubblico e non solo agli psicoterapeuti. Le Conversazioni di oggi mi sembrano la naturale evoluzione del discorso allora avviato.
Negli anni Ottanta i diversi orientamenti in psicoterapia raggiungono una piena maturità che rende possibile il confronto fra essi per ritrovare matrici comuni e incominciare a fare un discorso unitario che non appiattisca le differenze, ma le consideri una ricchezza. In Italia la psicoterapia si diffonde a partire dagli anni Settanta con la nascita dei principali centri di formazione. Nei decenni precedenti la sua consistenza era modesta. Teniamo conto che nei primi anni Sessanta, in una fase che annunciava significativi cambiamenti, la medicina e la psichiatria esercitavano un controllo sulla psicoterapia. E quando la terapia familiare in Italia era ancora sconosciuta, nelle istituzioni si contavano 900 psichiatri e vi erano 100 analisti, di cui 60 freudiani e 40 junghiani [21].
Tuttavia, dopo pochi anni si apre una stagione di grandi riforme istituzionali che sulla scia del ’68 trasformano il paese. Fra le tante riforme ricordiamo nel 1978 la legge 180 con la chiusura dei manicomi e la riforma sanitaria. Intanto il movimento di terapia familiare, nato all’inizio degli anni ’70, con il contributo di Mara Selvini Palazzoli e Luigi Cancrini, si sviluppa nel terreno fertile del passaggio dalla psichiatria manicomiale alla psichiatria di comunità, con il coinvolgimento delle famiglie nella curare il disagio psichico [22].
Agli inizi degli anni Ottanta, Luigi Cancrini, a conclusione di un periodo di grande impegno nella politica, in seguito a una crisi personale che lo aveva allontanato dalla psicoterapia (vedi la prefazione all’edizione del 2004) e dalla formazione dei terapeuti familiari e relazionali, riprende il discorso che aveva interrotto e scrive Guida alla psicoterapia [20]. Trovo questo passaggio significativo, in quanto il momentaneo allontanamento dalla clinica, per dedicarsi alla politica e all’impegno sociale, e il successivo ritorno nel campo della clinica e della formazione, gli hanno permesso di guardare alla psicoterapia con la giusta distanza e con un atteggiamento aperto nell’accogliere le differenze fra le diverse teorie e i diversi orientamenti, ma anche ritrovare quegli elementi comuni per un discorso unitario. Discorso che caratterizzerà le ricerche successive e sarà approfondito dopo qualche anno con la pubblicazione di Psicoterapia: grammatica e sintassi [23] e in seguito con altri lavori per approdare alle attuali Conversazioni con Giuseppe Vinci.
LA PSICOTERAPIA COME SCIENZA DEI PROCESSI DI CAMBIAMENTO
La Guida alla psicoterapia presenta una serie di storie cliniche per far capire come operano le psicoterapie, onde fornire una visione d’insieme e ritrovare gli elementi comuni dei vari orientamenti. Negli anni Ottanta la lettura della Guida mi ha orientato verso la terapia familiare, proprio quando ero impegnato presso l’Università di Torino in una ricerca sul superamento dell’esperienza manicomiale. In quel periodo maturò in me il bisogno di formarmi alla psicoterapia e poco dopo iniziai la formazione presso la sede di Torino del Centro Studi.
Il libro esamina le differenze di orientamento fra i terapeuti individuali (in primo luogo gli psicoanalisti) e i terapeuti ecologisti (ovvero, i terapeuti sistemici). I primi lavorano a contatto diretto con il paziente in una relazione significativa per avere con lui una comunicazione privilegiata. I secondi s’interessano all’ambiente dove è stato sperimentato il disagio e si presenta il sintomo. Gli uni lavorano con l’individuo sulla costruzione e l’interpretazione del transfert e sono attenti alle resistenze interne, gli altri s’interessano al funzionamento complessivo del sistema interpersonale e sono attenti alle resistenze esterne. In tutti questi casi si opera contro le resistenze e l’equilibrio che si struttura attorno a esse. Si seguono strade diverse, per giungere a una riorganizzazione profonda e stabile dell’esperienza e ottenere un effetto comune, si va dall’interno all’esterno o viceversa.
Questo discorso unitario sulla psicoterapia come scienza dei processi di cambiamento ha stimolato nuove riflessioni e ricerche sia per quanto riguarda i disturbi psichici e la loro classificazione e sia nell’arricchire la pratica psicoterapeutica e porre maggiore attenzione ai processi di valutazione.
ALCUNI NODI DA SCIOGLIERE
Negli anni successivi, il movimento si è ulteriormente sviluppato, sono nati nuovi centri di formazione e il riconoscimento delle scuole di psicoterapia ha ulteriormente favorito il confronto e l’integrazione fra essi. Oggi la pervasività della crisi economica, con le conseguenti ripercussioni sociali, insieme alla presenza di nuove problematiche richiedono un aggiornamento sull’identità della psicoterapia: dalla sua finalità agli strumenti del processo terapeutico e alla formazione degli psicoterapeuti.
Le Conversazioni sono una sintesi di questo percorso e riportano queste riflessioni alla situazione attuale, dove la piena maturità della psicoterapia e il confronto fra diverse teorie e orientamenti permette di riflettere, con meno resistenze rispetto al passato, sulla natura della relazione di aiuto e sulle competenze comuni ai diversi orientamenti. Piuttosto resta ancora non risolto il rapporto con la psichiatria ancorata al riduzionismo biologico.
A mio parere un altro tema attuale è il discorso sulle competenze in psicoterapia, a partire da quelle di base comuni a tutti gli orientamenti. Esse compongono l’insieme delle competenze che riteniamo essere una risorsa dello psicoterapeuta nelle relazioni di aiuto e costituiscono: il sapere, come conoscenze per leggere la realtà che si incontra e le situazioni delle relazioni di aiuto; il saper fare, come procedure e cose che bisogna apprendere per farle e che si imparano facendole; il saper essere, in quanto apprendimento betsoniano di tipo tre, come avviene nel lavoro personale per essere uno psicoterapeuta. Queste competenze costituiscono un processo dinamico in continua evoluzione che ogni terapeuta integra in maniera personale trovando una propria armonia che caratterizza il suo stile terapeutico [24]. Penso che questo tema richieda un maggiore approfondimento anche in considerazione del dibattito aperto con le istituzioni e le associazioni che rappresentano la nostra professione.
UN PONTE FRA ESSERE E DOVER ESSERE
Ci serve quindi un ponte tra l’epistemologia e l’etica [25] così da poter collegare il modo di essere e di conoscere con il dover essere, in quanto dimensione etica [26] della psicoterapia. Nelle Conversazioni troviamo alcune parti di questo ponte, che sono di stimolo per ulteriori sviluppi.
La strada che stiamo percorrendo, sulla genesi del disagio psichico e sulle conoscenze relative alla cura e alla sua efficacia, è ancora lunga. Anche se oggi un campo di ricerca fecondo è quello sui disturbi di personalità che vede impegnati diversi studiosi, dalla Benjamin [2] a Cancrini [18,27], di cui le Conversazioni ci offrono alcuni spunti che connettono l’attività clinica con la dimensione sociale.
Sappiamo bene che la partita scientifica e sociale sul disagio e sulla malattia mentale si gioca sul terreno culturale, sociale ed economico, e non solo nella stanza di terapia. Su quel terreno occorre esserci per non trovarsi soli nelle situazioni complesse e quando ci si misura con un fallimento incomprensibile e, nello stesso tempo, saper stare con la sofferenza senza fuggirla o banalizzarla, restituendole la sua reale consistenza, trattandola insieme a chi la sta vivendo.
bibliografia
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