Il lavoro psicoterapeutico di gruppo con i minori e le mamme curate in comunità:
l’esperienza con la Fondazione Domus de Luna

Michele Vargiu1

Il progresso scientifico si muove su due tipi di movimenti solo apparentemente contrapposti: quello delle ricerche che tende a verificare ipotesi già formulate e quello preparato dai dati che esso non spiega, portando alla formulazione delle nuove ipotesi. Inevitabile all’interno di una comunità professionale percepi­re come rassicuranti e lodevoli le prime, come pericolosi e da osteggiare i secondi. Sceglieremo per questa rubrica, all’interno di una letteratura ormai vastissima e spesso ripetitiva sulla terapia, lavori del secondo tipo. Parlando di “idea nuova” ne supporremo sempre il significato propositivo. Sperando di dare un contributo al­lo sviluppo di una scienza realmente “riflessiva”: capace cioè, nel senso di Bateson, di comprendere se stessa nel campo della propria osservazione.


Scientific progress moves along two lines which are only apparently in contradiction: one belongs to research which aims at verifying hypotheses already for­mulated, the other being prepared from data which the hypotheses do not explain and leading to no formulation of new. Inevitable, for the professional community to perceive the former as encouraging and praise worthy and the latter as dangerous and hostile. For this section, a careful selection has been made from the literature on therapy, today very extensive and often repetitive, concerning works of the second type. Referring to a “new idea”, we will always take it as a proposal while at the sa­me time we hope to bring a contribution to the development of a really “reflexive” science: that is, capable, as Bateson says, of looking carefully into itself.


El progreso científico evoluciona en dos direcciones opuestas: una lleva a realizar investigaciones que tienden a verificar hipótesis ya enunciadas y la otra a reali­zar investigaciones que formulan nuevas hipótesis. Es inevitable que la comunidad de profesionales considere el primer tipo de estudios más confiables y elogiables mientras que los segundos, se consideren peligrosos y generadores de hostilidad. En esta sección han sido seleccionados solo trabajos del segundo tipo, dada la amplitud y a menudo la repetición de la literatura dedicada a la terapia. Al hablar de una “idea nueva” lo haremos siempre desde un punto de vista de propuesta, esperando poder contribuir al desarrollo de una ciencia realmente reflexiva que en el sentido de Bate­son, sea capaz de auto observación.


Riassunto. Un minore che entra in comunità porta con sé un’esperienza traumatica di drammatica deprivazione, maltrattamento o abuso. L’incontro con l’altro e con gli altri in comunità appare un mezzo per alimentare e sviluppare quella pro-socialità necessaria all’integrazione della persona nella società. I gruppi terapeutici in comunità si pongono come spazi di reciproca condivisione, sostegno ed elaborazione di quella eredità transgenerazionale traumatica che ogni bambino, adolescente e mamma portano con sé all’interno della struttura. I gruppi si pongono all’interno della comunità come significanti di un’appartenenza comunitaria a tempo limitato, dei contenitori emotivi dove sostare prima di un nuovo progetto di vita. Divisi per fasce d’età e metodologia cercano attraverso l’esperienza della psicoterapia di gruppo, di promuovere la pensabilità dei propri stati emotivi dolorosi attraverso le restituzioni che l’incontro con l’altro e gli altri gli mette di fronte.

Parole chiave. Bambini, adolescenti, comunità per minori, psicoterapia di gruppo, maltrattamento infantile.


Summary. The psychotherapic work in a team with minors and the mothers cured by the community: the experience with the Foundation Domus de Luna.
A minor who enters into the community takes with him a traumatic experience of dramatic deprivation, mistreatment or abuse. The meeting with others and with the community appears a way of feeding and developing that necessary pre-sociability needed to the integration of the individual into the society. The therapeutical groups inside the community present themselves as a way of reciprocal sharing, support and elaboration of traumatic hereditary characteristics accumulated through generations that every child, adolescent and mom take with him inside the structure. The groups are formed inside the community as significant, belonging to that community with limited time, emotional recipients where to pause before getting into a new project of life. Divided by age range and by methodology, through the experience of group psychotherapy, to develop the thinking of its own painful, emotional state, the feedback that the meeting with one another have them to face.
Key words. Children, adolescents, residencial communities for minors, group psychotherapy, child abuse and neglect.


Resumen. El trabajo psicoterapéutico en grupo con niños y madres atendidos en la comunidad: la experiencia con la Fundación Domus de Luna.
Un niño que entra en la comunidad trae consigo una experiencia traumática de dramática privaciones, malos tratos o abusos. El encuentro con el otro y con otros en la comunidad es una manera de fomentar y desarrollar la integración social necesaria a los individuos a integrarse en la sociedad. Los grupos terapéuticos en la comunidad se presentan como áreas de mutuo intercambio, apoyo y desarrollo de la herencia transgeneracional traumática que cada niño, adolescente y la madre trae dentro de la estructura. Los grupos se colocan dentro de la comunidad como significantes de pertenencia a la misma, por un tiempo limitado siendo ese un lugar donde se pueden contener a un nivel emocional para desarrollar un nuevo proyecto de vida. Divididos por grupos de edad y metodología se vean a través de la experiencia de la psicoterapia de grupo a promover el pensamiento de su proprio estado emotivo doloroso a través de lo que recibe en su encuentro con el otro.
Palabras clave. Niños, adolescentes, comunidades residenciales para menores, psicoterapia de grupo, infantil abuso.
INTRODUZIONE
L’autore di questo scritto è psicoterapeuta presso la Fondazione Domus de Luna Onlus, nata nel 2005 per assistere e curare bambini e ragazzi in situazioni di grave disagio, riconosciuta per i suoi scopi meritori dalla Presidenza della Regione Sardegna e dal Ministero degli Interni. Gli interventi di Domus de Luna sono volti sia a contrastare le manifestazioni di disagio riconosciute dai Servizi Sociali, dal Tribunale per i Minorenni e dalle altre istituzioni deputate, sia a prevenirne lo sviluppo attraverso campagne di sensibilizzazione e interventi di prevenzione.
Domus de Luna, in questi primi otto anni, ha aperto e gestisce quattro comunità di accoglienza e cura dedicate a minori allontanati dalla famiglia d’origine e a mamme con bambino che vivono storie di maltrattamento e incuria:
• Casa delle Stelle, una comunità per bambini fino ai 12 anni;
• Casa Cometa Ragazzi, una casa dedicata agli adolescenti;
• Casa Cometa Mamme, a fianco alla casa degli adolescenti, per l’accoglienza di mamme con figli preadolescenti o adolescenti;
• Casa del Sole, accanto alla comunità dei piccoli, per la cura di gestanti e mamme con bambini.

A supporto dei minori e delle mamme in cura nelle comunità, Domus de Luna utilizza il Giardino, uno spazio psicoterapeutico, così chiamato per i disegni sulle pareti, realizzati dai writers, che riproducono un ambiente naturale simile ad un giardino, ove si svolgono i colloqui individuali con le mamme ed i minori e, laddove possibile, con le loro famiglie. Oltre a questo spazio, gli ospiti di tutte le comunità possono usufruire di gruppi terapeutici settimanali, guidati anch’essi da uno psicoterapeuta e diversi per età e tematiche.
L’esperienza acquisita in comunità ha portato Domus de Luna ad ampliare il proprio intervento a quei luoghi, come le scuole difficili, i centri sociali giovanili, il carcere minorile, i campi rom, dove è possibile attuare percorsi di sensibilizzazione e prevenzione, usando la musica e l’arte come mezzo di espressione, possibilità formativa e magari di un lavoro per il domani, a cui si è scelto di dare come sede l’Exmè, un centro sociale che Domus de Luna ha realizzato in un ex mercato civico abbandonato in uno dei quartieri più degradati nella periferia di Cagliari e che ha l’obiettivo di dare ai ragazzi un’alternativa alla strada, di aiutarli a superare la situazione di disagio ed emarginazione in cui vivono, con il supporto di psicologi ed educatori. In questi anni, Domus de Luna ha iniziato a pensare anche al dopo comunità. È nata così la Locanda dei Buoni e Cattivi, un ristorante con camere in cui vengono impiegati lavorativamente ragazzi e mamme affidati alle varie case, giovani segnalati dal Centro di Giustizia Minorile o in situazione di disagio, che possono cercare così il proprio riscatto, compiendo un passo concreto verso la costruzione di un futuro migliore e l’autonomia. Si offre loro una possibilità concreta di formazione, un lavoro dignitoso per poter crescere, realizzarsi personalmente e professionalmente e conquistare l’indipendenza economica.
IL LAVORO DEI GRUPPI IN COMUNITÀ
Il lavoro sui gruppi prende idea e nutrimento principalmente da tutto il filone della psicoanalisi di gruppo, in cui a essere messo in risalto non è il singolo individuo, bensì il gruppo con il suo bagaglio di esperienze e vissuti che crea l’ordito e la trama di una nuova entità metaforica con sue regole e modalità d’esistenza. In quelle situazioni di drammatica deprivazione, l’incontro con l’altro è sicuramente il mezzo attraverso il quale poter alimentare e sviluppare nel bambino e nell’adolescente quella pro-socialità necessaria all’integrazione della persona nella società. Questo dato è ancora più vero in quelle situazioni in cui il bambino entra in comunità portatore di un’eredità transgenerazionale fatta di immagini traumatiche che si depositano nella sua mente, andando a creare pattern di comportamenti legati a quelle esperienze. Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall’adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva e sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l’ambiente esterno nel corso della sua evoluzione. Particolarmente importante è la relazione del bambino con i propri genitori, i quali offriranno la prima relazione oggettuale del bambino, sull’esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni interpersonali. Se questo rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel bambino si genereranno, dal punto di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno negativamente e spesso irreversibilmente, il suo sviluppo psicofisico. È il caso dei bambini che, per gravi deprivazioni, vengono accolti all’interno della comunità, in cui quello che più colpisce è la compromissione dello sviluppo affettivo che spesso si manifesta nella difficoltà di costruire con gli educatori, ma anche con gli stessi bambini relazioni vere e affettive. Ciò che viene a essere compromesso sembra essere proprio la costruzione sana del Sé del bambino. Come ricordano Fonagy e Target [1], lo sviluppo del Sé è il risultato dello scambio intersoggettivo prolungato e intenso con gli altri. Il bambino impara a riconoscere i propri stati interni proprio a partire dall’esperienza condivisa con l’altro delle sue emozioni e dei suoi pensieri. Alla base della costruzione sana del Sé vi è quindi un incontro di sintonizzazione efficace del bambino proprio con i suoi genitori, che è il primo gruppo in cui poter sperimentare tutta la gamma di stati mentali e sensoriali necessari alla formazione della sua mente. Se i genitori non saranno capaci di sintonizzarsi ai bisogni fisici, mentali e affettivi del bambino fungendo da specchio, il bambino non potrà vivere la sensazione della “comprensione condivisa”, cioè quella sensazione di rispecchiamento dei propri stati, sperimentando un ambiente ostile e persecutorio. Il bambino costantemente deprivato, violato e frustrato potrà così mettere in atto difese molto forti come l’inibizione espressiva, aggressività, onnipotenza narcisistica, fino alla più grave costruzione e uso di un falso Sé [2], ponendosi come un attore da teatro slegato dalla sua vera personalità e privandosi così della possibilità di vivere se stesso come vero, unico e capace di sperimentare la realtà per quello che è. La costruzione di un falso Sé sarà tanto più grave e problematica negli adolescenti il cui compito di sviluppo è proprio l’acquisizione dell’identità necessaria per diventare adulti capaci di collocarsi nella società attraverso relazioni vere e durature.
Come sottolinea la Selener [3], l’adolescente deve affrontare tre fondamentali processi del lutto: a) lutto dei genitori idealizzati nell’infanzia; b) lutto del corpo infantile; c) lutto della propria identità e del proprio ruolo nel mondo infantile; tutto ciò, in una situazione di grande instabilità e confusione. Queste sfide evolutive saranno ancora più difficili in quegli adolescenti che avranno sperimentato un’infanzia deprivata o violata andando a costituire a volte le forme più distruttive e pericolose della personalità umana, concretizzandosi in comportamenti auto ed etero distruttivi volti spesso ad attaccare il mondo degli adulti. Il gruppo dei pari diventa allora il contenitore e il mezzo con cui l’adolescente farà il suo grande viaggio verso l’acquisizione della sua identità e verso l’età adulta. Sia il bambino sia l’adolescente, da quando nascono, sono immersi in una gruppalità attraverso la quale sperimentare la possibilità e la speranza di poter sempre far fronte ai compiti di sviluppo che la vita chiederà di superare. Da qui il progetto di costituire dei percorsi di gruppo rivolti ai bambini, adolescenti e mamme con bambino, ospitati nella comunità, in cui proprio attraverso l’uso terapeutico del piccolo gruppo si possa restituire ad ogni membro che vi partecipa, piccoli frammenti di verità che provengono dalla condivisione delle storie che ognuno decide liberamente di scambiare con gli altri. I gruppi che si portano avanti sono attivi per tutto l’anno scolastico ma seguono un’interruzione durante la pausa estiva, necessaria ai bambini e agli adolescenti per potersi vivere le vacanze come un tempo e uno spazio libero da qualsiasi attività strutturata di tipo psicologico. Settimanalmente, il lavoro intrapreso con i gruppi dinamici dentro la struttura viene discusso all’interno dell’équipe formata dal responsabile e dalla psicoterapeuta della Comunità. Il lavoro con il gruppo équipe diviene molto importante nello sviluppare, nel tempo, una memoria e un patrimonio di risorse basati sulla condivisione, che tende a stimolare la ricerca, l’elaborazione, il confronto e, quindi, il contenimento creativo dei casi e del campo psichico che essi producono nel contesto istituito. Mensilmente, i gruppi vengono discussi anche con il direttore scientifico delle comunità. La supervisione ha lo scopo, per lo psicologo che si vuole occupare di gruppi in una comunità accoglienza, di fornire un sostegno nella riflessione e nella valutazione dell’agire professionale in relazione ai casi ed alle attività svolte. Nel gruppo di Supervisione il conduttore “lavora” su un particolare caso, descrive la sua modalità di intervento e il comportamento di quell’ospite all’interno dell’esperienza gruppale. La Supervisione si caratterizza, quindi, come strumento di valutazione di un servizio svolto dallo psicologo che si occupa di gruppi, per elaborare la coerenza necessaria tra approccio scelto e obiettivo prefissato. All’interno della supervisione lo psicologo dei gruppi può usufruire di uno strumento fondamentale, quale l’équipe multidisciplinare, che gli permette, tramite il confronto e la funzione di specchio che essa svolge, di riflettere, ed eventualmente mettere in discussione, sui modi di operare, oltre che di condividere le emozioni sperimentate con ogni singolo ospite all’interno del gruppo. In questo contesto lo psicologo dei gruppi trova spunto per pensare e sperimentare nuove tematiche, tecniche e modalità di interazione con il gruppo, riflette su come il gruppo può essere utile per quel particolare utente e, allo stesso tempo, arricchisce il lavoro dell’équipe perché, con le informazioni condivise, contribuisce ad una lettura ancora più completa del caso. Per tutto questo un’attività costante di supervisione significa sicuramente una realistica crescita professionale del conduttore dei gruppi.
IL TEMPO DELL’APPARTENENZA E APPARTENENZA A TEMPO
Come sottolinea Bion [4], un’esperienza emotiva è simile ad un’esperienza fisica, nel senso che si avverte che può avere un significato, cioè si avverte che è un’esperienza da cui si può apprendere qualcosa. L’esperienza emotiva che si sperimenta nel gruppo è vissuta in quell’unica seduta, nel qui ed ora dato dall’intrecciarsi di quei fili invisibili che ogni bambino o adolescente tesse all’interno del gruppo. Così, la dimensione temporale diventa una dimensione in cui spazio e tempo diventano unica espressione di una microstoria, un microfilm a sé stante. Il gruppo si pone come spazio in cui poter interagire e appartenere, un luogo in cui è il gruppo a essere il protagonista, ma dal quale ognuno individualmente conserva qualcosa di quell’esperienza. Il problema che si pone all’interno dei gruppi in comunità è proprio quello dell’appartenenza, ma di un’appartenenza a tempo. I bambini, gli adolescenti e le mamme che vengono ospitati e accolti nella struttura entrano con l’intento di seguire un percorso di accoglienza che li porterà prima o dopo ad uscire dalla comunità per iniziare un nuovo progetto di vita. Un percorso a tempo, quindi. La comunità diventa un contenitore liquido in cui sostare, essere curati, accuditi e ricevere affetto prima del nuovo viaggio. Il tempo limitato sembra essere quindi la caratteristica principale a cui bisogna far riferimento quando si costituisce un lavoro attraverso dei gruppi, identificando metodologia e setting specifici e adatti a soddisfare il bisogno che la comunità richiede. I gruppi che si attivano nella struttura devono essere in primo luogo dei facilitatori di un clima di appartenenza ad un gruppo che convive, utenti, educatori, coordinatori, terapeuti, ma nello stesso tempo portatori di un germe legato proprio alla separazione da quel gruppo, e quindi alla perdita di quell’appartenenza che spesso è la prima ad essere sperimentata come vera e affettiva. All’interno di queste due parole (appartenenza/rottura dell’appartenenza) si gioca tutto il lavoro dei gruppi. Come si può allora promuovere un percorso di appartenenza e di promozione della pro-socialità, includendo tra le sue regole che l’appartenenza avrà una scadenza? Mutuando due termini dalla filosofia (koinonia - intesa come capacità di entrare in comunione creando una relazione stabile di appartenenza con gli altri - e atopia -intesa non solo come sensazione di mancanza di un luogo, ma nel senso più tragico di solitudine e sradicatezza), possiamo intuire come all’interno dei gruppi svolti in comunità si debba sempre coesistere tra la necessità di appartenere ed entrare in comunione e la disperazione di perdere quel luogo e quel tempo in cui solitudine e sradicamento si fanno meno intensi. Così, non solo chi partecipa al gruppo deve continuamente oscillare tra queste due dimensioni, ma lo stesso conduttore deve essere preparato a far fronte al problema del dolore dell’atopia che attraversa ogni volta che un bambino o un adolescente finisce il suo percorso. Questo processo lo mette sempre in relazione con la propria solitudine costringendolo a essere parte di un gruppo in divenire sempre diverso, un luogo senza radici, in cui l’unica esperienza reale è quella del qui ed ora. Parafrasando Bion, tuttavia, possiamo considerare l’esperienza emotiva come un’esperienza fisica, che rimane nel corpo e nella mente. Così, partendo da questo vertice, possiamo ovviare alla concezione di un’appartenenza a tempo, convertendola nel tempo dell’appartenenza, intendendo con questo termine il tempo dell’esperienza condivisa dal bambino con altri bambini che, fissandosi come un quadro nella sua mente, può essere ripresa ogni volta che si vuole rendendo di fatto quell’esperienza un’appartenenza per tutta la vita.
IL SETTING DEI GRUPPI
Il “setting” in psicoterapia è il contesto entro il quale ha luogo la relazione terapeutica, volta alla “cura” del dolore psichico. È il contenitore all’interno del quale vi sono regole, principi, modelli, che danno forma a quello specifico evento che mira al benessere della persona sofferente. Più tecnicamente, è un “significante strutturale”, ovvero la matrice che dà senso alla situazione terapeutica, che la rende significante, che la inserisce in una realtà con un fine e con dei mezzi funzionali. Nelle terapie di gruppo, il setting diventa quel contenitore metaforico all’interno del quale andrà a concretizzarsi la storia relazionale di quel gruppo. Il setting perciò non è solo lo spazio fisico in cui si svolge una terapia di gruppo, ma è più l’insieme delle regole legate allo svolgersi del gruppo nel tempo (cadenza delle sedute, stanza in cui ci si incontra, durata della seduta e regole del gruppo). La difficoltà che si pone all’interno della comunità è proprio conciliare la ritualità che deve possedere un setting ben strutturato (stesso giorno, stessa ora, stesso ambiente in cui fare i gruppi) ad una struttura che deve provvedere a soddisfare tanti bisogni che gli utenti richiedono ogni giorno (colloqui, accompagnamenti, visite, compere, giochi, sport, socializzazione ecc). Per questi motivi è necessario che il conduttore del gruppo sappia accettare un setting aperto ed elastico che sappia conciliarsi con le esigenze della struttura senza snervare con questo l’efficacia che un buon setting preserva. Per fare questo è necessaria un’importante collaborazione con tutti i coordinatori della struttura che, in primis se coinvolti con professionalità, cooperazione e rispetto per il proprio lavoro, sapranno trovare i giusti incastri affinché per quanto possibile i gruppi rispettino gli stessi giorni e gli stessi orari, donando al conduttore la possibilità di rispettare quelle note metodologiche proprie di un’attività psicologica in gruppo. Sarà poi importante coinvolgere positivamente tutti gli educatori che a turno entreranno in alcuni gruppi ponendo in essere un lavoro di cooperazione, l’unico possibile ed efficace in una struttura che accoglie minori e che ruota su tante professionalità diverse. Anche la destinazione del luogo in cui fare le sedute di gruppo deve essere elastica ed utilizzare spazi come la stanza degli educatori o la sala della televisione in cui, con una tenda rossa posizionata al momento di iniziare, il gruppo si conformerà alle esigenze della comunità pur creando il setting, diventando lo stesso gesto di mettere e togliere la tenda rossa il ritmo della seduta. Ciò che bisogna tenere in mente quando si inizia un lavoro di gruppo in una comunità di accoglienza e cura, è partire dalla considerazione che il vero setting, quello più funzionale, è quello che si forma all’interno della mente del conduttore, che registra, ad ogni seduta oltre all’esperienza vissuta del qui ed ora, tutto l’intrecciarsi di patti, alleanze e leadership che andranno a formare l’impalcatura e la struttura su cui poi si andrà a lavorare. Strutturare un buon setting con bambini e adolescenti appare molto importante in comunità, soprattutto nel momento di riprendere i gruppi dopo le pause natalizie o estive. Per esemplificare si riporta un piccolo stralcio di una seduta avvenuta subito dopo le vacanze estive con il gruppo Gemini.
Lorenzo: sei pronto perché la devi pagare dobbiamo spaccare tutto 
Giorgia: sei in castigo, non muoverti
Lorenzo: ora faccio un pupazzo poi lo adotto
Terapeuta: questo è possibile ma bisogna conoscerlo bene questo pupazzo per poterlo adottare nel gruppo
Lorenzo: ora facciamo finta che il pupazzo è brutto e noi ti seppelliamo poi veniamo a vederti in cimitero a guardarti.
Terapeuta: merito di essere seppellito perché in estate non c’ero.
Lorenzo: si ci hai lasciato qui, sei morto.

I bambini creano un gioco che consiste nel far finta di seppellire il terapeuta creando un recinto-bara in cui deve rimanere immobile fingendo di essere morto, mentre i bambini discutono guardando il morto.
Vi è nel gruppo la fantasia dei bambini di sentirsi quel pupazzo brutto, che non è adottabile perché brutto e malato. Così, forse, il dolore per essere stati abbandonati in estate deve essere seppellito perché ancora troppo vitale. Solo da morto, dopo che la vendetta è stata compiuta, si può vedere il terapeuta e farlo rivivere nel gruppo chiedendogli di adottarli nella propria mente e amarli per come sono, apprendendo dall’esperienza che le separazioni, seppur dolorose, non portano sempre alla distruzione, ma si può riparare guardando in faccia il morto (la parte dolorosamente abbandonata).
IL RUOLO DELL’EDUCATORE NEI GRUPPI
Claudio Neri [5], ci ricorda che «nel piccolo gruppo non si parla del mare ma ci si immerge nel mare». Questa sembra una giusta frase per poter parlare del ruolo che l’educatore deve avere quando entra a far parte di un gruppo. L’educatore è la figura a cui bambini, adolescenti e mamme fanno riferimento per la maggior parte del loro tempo. È la figura che con la sua professionalità diventa modello e portatore di un messaggio di accoglienza e accudimento rappresentando il sistemi di valori e norme propri della comunità. Il suo entrare all’interno del gruppo segna per il bambino la possibilità di condividere uno spazio ancora più intimo e connotato da regole proprie del gruppo e dall’assenza di quelle regole e norme che vigono invece nell’esperienza comunitaria di tutti i giorni. Spesso l’educatore proprio per questo motivo può trovarsi a vivere una situazione di inadeguatezza data dalla sensazione del non sapere cosa fare, quanto coinvolgersi e come comportarsi. Il coinvolgersi all’interno di un gruppo di bambini significa spogliarsi per il tempo della seduta di quegli strumenti emotivi e difensivi che l’educatore utilizza nella sua professione tutti i giorni, diventando anch’esso parte di quell’esperienza per poi riprendere il consueto ruolo finito il gruppo. Questo meccanismo può portare in alcuni casi a creare delle difese dal contagio emotivo del gruppo in funzione del mantenimento del ruolo, allineandosi nel concreto in una distanza dallo stesso gruppo e creando delle interferenze nella possibilità di vivere un’esperienza condivisa da tutti. Il conduttore dovrà cercare in questi casi di alimentare nell’educatore un senso di vera partecipazione favorendo lo scioglimento di quei nodi difensivi che ostacolano la condivisione dell’esperienza totalitaria. Il ruolo dell’educatore diventa quindi importante soprattutto per i bambini, che vedono nella sua figura la sicurezza di un contenimento laddove la loro emotività troppo angosciosa li porti ad esprimersi con comportamenti molto esplosivi. Tanto più l’educatore sarà capace di immergersi e condividere l’esperienza del qui ed ora semplicemente come un partecipante all’esperienza, tanto meno frequenti saranno gli episodi esplosivi che andranno a limitarsi proprio in virtù del fatto che non vi sarà un soggetto da recuperare o da attaccare. All’interno del gruppo quindi l’educatore manterrà il suo ruolo, andando a intervenire solo in casi in cui il bambino manifesti la forte necessità di un contenimento, ma parteciperà come adulto senza un ruolo professionale, portando con sé solo la propria umanità e unicità. Come ci ricorda Cancrini [6] nel suo libro La cura delle infanzie infelici, i bambini che vengono accolti nelle comunità sono portatori sani di patologia, acquisita attraverso la trasmissione intergenerazionale della violenza nelle proprie esperienze relazionali con le figure di attaccamento. Questo è un dato importante quando si porta avanti un gruppo, laddove quella esperienza di violenza come pattern comportamentale appreso si riversa e manifesta proprio all’interno dell’esperienza gruppale. In alcuni casi questa violenza si trasforma in un attacco feroce verso il conduttore, oggetto relazionale sul quale proiettare i propri rifiuti emotivi rabbiosi. In alcuni casi limite si possono delineare invece delle manifestazioni comportamentali violente rivolte verso un membro del gruppo. Sono manifestazioni che vanno a trasformare il gruppo da mezzo transazionale per elaborare i propri conflitti interni nell’esperienza distruttiva del branco. A titolo esemplificativo si riporta ciò che è accaduto in un gruppo di preadolescenti.
un gruppo di preadolescenti
Il gruppo sta affrontando il dolore di Antonio che non riesce ad esprimere la rabbia per il fallimento del suo percorso in una famiglia affidataria, conclusosi dopo soli pochi mesi. Giorgio afferma che ci sarebbe da dare un cazzotto a qualcuno, ipotizzando di voler picchiare la famiglia affidataria che ha riportato Antonio in comunità. Antonio non vuole che se ne parli, e urla a Giorgio di smetterla e di farsi i fatti suoi. Il dolore per il rifiuto del percorso d’affido è troppo forte, brucia ancora. Il gruppo evacua il dolore trasformandosi nel branco che si coalizza contro Elisa, ragazzina tranquilla e timida del gruppo. Sandro chiederà al gruppo di cambiare argomento e di concentrarsi verso Elisa che verrà offesa con violenza.
In questi casi l’intervento del conduttore a ristabilire lo status quo del gruppo può non essere sufficiente, il gruppo va interrotto e la vittima consolata. Ciò che è importante tenere a mente è che i gruppi in comunità non possono basarsi sulle normali regole di conduzione applicate ad un percorso di psicoterapia di gruppo dove i partecipanti si vedono solo nell’ora della seduta. In comunità i minori convivono assieme tutto il giorno, per cui i movimenti persecutori che possono nascere in una seduta verso un membro possono ripetersi durante gli altri momenti di vita comunitaria. Inoltre i gruppi sono costituiti da bambini, adolescenti e mamme che portano dentro sé una fragilità in più, dettata proprio dalle esperienze dolorose vissute. Per questi motivi il conduttore e gli educatori che partecipano ai gruppi devono essere i garanti dell’eticità dello svolgimento del gruppo terapeutico intervenendo laddove necessario anche ad interrompere il gruppo.
TIPOLOGIA DI GRUPPI, TARGET E METODOLOGIA
Il progetto sui gruppi è un lavoro che ha portato alla costituzione e attivazione di cinque gruppi dinamici, metodologicamente pensati come percorsi diversificati per età e fase di sviluppo in cui la principale fonte teorica rimane la psicoanalisi di gruppo soprattutto legata al lavoro del gruppo di studio romano facente parte dell’IIPG, in cui nell’ultimo libro di Lombardozzi [7] si condensano lo studio e la passione di 20 anni di lavoro clinico e teorico sul lavoro in gruppo di bambini e adolescenti a partire dagli studi di Bion e Corrao. In aggiunta a questa linea teorica di riferimento i gruppi pensati anche come veri e propri percorsi laboratoriali sono stati arricchiti e modellati al contesto inserendo molti strumenti di arteterapia, e costituendo per quanto riguarda le mamme un gruppo maggiormente orientato all’auto-mutuo-aiuto. Nello specifico i gruppi attivati sono i seguenti:
• Gruppo Gemini con bambini di 3-6anni;
• Gruppo Andromeda con bambini di 6-11 anni;
• Gruppo Idra con preadolescenti di 11-13 anni;
• Gruppo Libra con adolescenti di 13-18 anni;
• Gruppo Venus con le mamme.
GLI ASSUNTI DI BASE
Gli assunti di base rappresentano delle modalità di funzionamento primitivo ed arcaico ed hanno come principale funzione quella di proteggere il gruppo dalle angosce e dalle paure legate al cambiamento, all’evoluzione ed alla presa di responsabilità.
La dinamica che si instaura è quindi quella di una contrapposizione tra forze del gruppo che vanno nella direzione del cambiamento, dell’apprendere dall’esperienza e dell’evoluzione in generale (gruppo di lavoro), e forze che invece si proteggono da tutto ciò poiché la trasformazione viene inconsciamente percepita come minacciosa e portatrice di tragedie (gruppi in assunto di base) [8]. In riferimento alla teoria sui gruppi di Bion [9], possiamo descrivere tre principali configurazioni o assunti di base sulla base dei quali si sono portati avanti anche i gruppi costituiti in comunità:
• assunto di base di dipendenza;
• assunto di base di attacco-fuga;
• assunto di base di accoppiamento.

Nell’assunto di base di dipendenza, nel gruppo appare come salvifica l’idea che qualcuno, generalmente designato nella figura del conduttore o del leader, si carichi di tutte le problematiche e angosce dei singoli membri, traghettando il gruppo verso una risoluzione definitiva dei propri problemi.
Nell’assunto di base di attacco-fuga la fantasia operante è che il gruppo non riesce a raggiungere i propri obiettivi perché minacciato da un nemico o da un pericolo esterno. Il gruppo crede che solo sconfiggendo tale nemico (attacco) o evitando i pericoli che questo può generare (fuga) sarà possibile soddisfare le esigenze del gruppo.
l’attività principale che il leader del gruppo si trova a svolgere è quella di individuare, o meglio ancora “creare”, un nemico da attaccare o da cui difendersi, sviluppando come sentimento di fondo la paranoia come meccanismo di difesa dalla disaggregazione. Il gruppo si tiene unito in funzione dell’attacco verso un designato del gruppo.
Nell’assunto di base di accoppiamento la fantasia che struttura il gruppo è la credenza di poter soddisfare i propri bisogni e desideri solo in un tempo futuro grazie all’arrivo di un messia salvatore, possibilmente generato dall’accoppiamento di due membri del gruppo. Il leader del gruppo non è ancora nato, ma questa speranza futura alleggerisce il gruppo dalla minaccia dolorosa esercitata dal cambiamento che il gruppo di lavoro cerca di portare avanti.
IL GRUPPO GEMINI
il gemello ritrovato: identificazioni proiettive, assunti di base e sviluppo dell’attaccamento
Il gruppo Gemini nasce con l’intento di attivare un gruppo dinamico con i bambini piccoli ospitati all’interno della struttura. Gemini, o costellazione dei gemelli, ci ricorda attraverso la mitologia il viaggio che i due gemelli Castore e Polluce affrontano insieme agli argonauti e a Giasone per trovare e appropriarsi del vello d’oro, arrivando alla salvezza. A partire da questo mito, l’idea da cui nasce il gruppo è quella legata ad uno spazio simbolico in cui bambini piccoli, che per gravi deprivazioni o abuso si trovano in comunità, possano andare alla ricerca di quel Castore o di quel Polluce. Assieme ai compagni di viaggio argonauti, i bimbi possono avvicinarsi a quel vello d’oro, rappresentante metaforico di una pelle psichica e affettiva [10] come contenitore di un Sé più vero, il tutto traducendosi nella possibilità di vivere relazioni affettive più calde e vere attraverso l’incontro con l’altro. Nello specifico il gruppo, composto da pochi bambini che vanno dai 3 ai 6 anni, è uno spazio libero in cui, attraverso il gioco in gruppo, i bambini una volta alla settimana e per un’ora possono simbolizzare i loro stati emotivi interni e rappresentarli attraverso il gioco con gli altri. I contenuti dell’esperienza del gruppo vengono espressi principalmente attraverso l’uso dei materiali (pasta modellabile, fogli e colori, una cucina giocattolo, alcune macchinine della polizia e dell’ambulanza, due telefoni giocattolo) contenuti nella scatola dei giochi all’interno del setting. L’uso dei materiali si converte all’interno del setting nelle più disparate rappresentazioni di un’esperienza, sia essa legata al fingere di essere adulti che lavorano in ufficio, sia relativa ad attività svolte insieme come bambini (essere dei bambini intenti a cucinare la pizza assieme). I giochi di finzione sono simbolici ma appaiono, nell’esperienza vissuta dai bambini in gruppo, come reali o rappresentano spesso vissuti traumatici realmente accaduti. Ciò che maggiormente colpisce all’interno del gruppo Gemini è l’utilizzo che bambini così piccoli fanno del conduttore e degli altri, traducendosi il gruppo in un contenitore di pensieri selvatici dove gli assunti di base si sviluppano attraverso un uso frequente di meccanismi di difesa come identificazione proiettiva e movimenti di scissione o dissociazione. Per identificazione proiettiva si intende il concetto di meccanismo di difesa caratteristico della posizione schizoparanoide, sviluppato da Melanie Klein [11], in cui appare attiva una fantasia inconscia di trasferire parti scisse di sé all’interno dell’oggetto (madre o caregiver) al fine di possederlo e controllarlo. Per spiegare meglio questo meccanismo all’interno dei gruppi in comunità, si riportano degli esempi di una terapia svolta con tre bambini visti in gruppo una volta alla settimana, per circa due anni.
Il gruppo è composto da Claudio, Lorenzo e Giorgia, rispettivamente in quel momento di 5 anni, 5 anni e 4 anni. Lorenzo, che si trova in comunità da circa un anno, ha subito gravi maltrattamenti e abusi. Circa un anno prima, Lorenzo ha perso la mamma, suicidatasi. Claudio è ospitato nelle nostre strutture assieme alla madre e al fratellino, così come Giorgia, la più piccola del gruppo. Lorenzo, spesso ha giocato a fare la donna, utilizzando dei vestiti di carnevale da donna e delle scarpe con il tacco, portando spesso delle bambole nel gruppo per pettinarle. Dopo circa due anni di terapia, i bambini sono capaci di porsi come gruppo di lavoro che unito gioca a fare la pizza o a rappresentare scene di vita comunitaria. Il percorso d’integrazione del gruppo è stato segnato da trasformazioni e spinte regressive. Per circa un anno il gruppo in assunto di dipendenza ha utilizzato il terapeuta in modo identificativo proiettivo, incarnando nella sua figura il personaggio di Edward mani di forbice. Il terapeuta utilizzato come contenitore-gabinetto dei “pensieri selvatici” come postulato da Meltzer [12] e delle emozioni più feroci del gruppo, è stato picchiato, insultato, a volte sputato e spesso ucciso attraverso il gioco. Le identificazioni proiettive possono anche svilupparsi nella direzione di un componente del gruppo. In un particolare gruppo, Claudio dopo essersi visto preso dalle mani con la forza un giochino, urla a Lorenzo con rabbia di essere un bambino solo e senza la mamma. Lorenzo impietrito e in silenzio scaglia il giochino sul pavimento e in quell’istante Giorgia sembra estraniarsi completamente. La minore non risponde al terapeuta e sembra dissociarsi per pochi istanti dalla realtà. Il gruppo si stringe intorno a Giorgia chiamandola e il terapeuta prendendole le mani ricontatta la minore che riprende a giocare con gli altri. In questo caso viene restituito al gruppo il coraggio per aver partecipato tutti assieme al dolore dell’affermazione fatta da Claudio: «tua mamma non esiste». L’emozione scaturita dall’impatto prorompente e doloroso con la realtà vissuto da Lorenzo, in un primo momento rifiutata e scagliata simbolicamente con il giochino, ha dovuto prima essere proiettata e dissociata, per poi essere ricontattata dal gruppo e insieme al terapeuta pensata. Appare necessario sviluppare nel terapeuta, che si occupa di bambini così piccoli in gruppo, la capacità di contattare in urgenza i bambini e le emozioni che da loro scaturiscono [13].
Il conduttore deve essere curioso e partecipare al gruppo ponendosi come facilitatore dell’esperienza vissuta nel momento, andando ad alleggerire eventuali rappresentazioni drammatiche (per esempio l’inscenare la morte di uno dei genitori o un maltrattamento subito), garantendo al gruppo la capacità di poter contenere emozioni tanto forti e stando perciò al gioco senza spaventarsi, ponendo il tutto su un piano simbolico. Sarà necessario sviluppare ad ogni passaggio del gruppo le capacità di Holding e Handling come postulato da Winnicott [14], necessarie per sviluppare nei bambini un contenimento emotivo duraturo, una pelle metaforica di gruppo con cui proteggersi e una pancia di mamma in cui far nascere nuovi pensieri e nuove emozioni. Dopo due anni di terapia i bambini hanno sviluppato un attaccamento più sano nei confronti dei cargiver della comunità, e in gruppo si avvicinano simbolicamente al proprio gemello ritrovato, come rappresentante di un Sé più vero e maggiormente capace di affrontare le separazioni della vita.
In un gruppo si costruisce una piccola capanna fatta con due lavagne giocattolo e una coperta posizionata al di sopra, che viene chiamata “pancia della mamma”. Lorenzo gioca con l’educatrice e gli chiede di improvvisare una mamma che sta per far nascere tre bravi bambini, che riceveranno tanti regali, Giorgia chiede al terapeuta di raccontare una storia sulla loro nascita. È un’emozionante nascita di nuovi pensieri e di un incontro con quel gemello ritrovato che, anche se ferito da tanti traumi, può ancora permettersi di diventare un bravo bambino, alimentando la speranza come processo vitale di evoluzione. Lorenzo, dopo questo episodio, non ha più giocato in gruppo a travestirsi da donna.
Per i contenuti emotivi e i pensieri selvaggi che denotano un gruppo di bambini così piccoli che vivono in comunità e possiedono queste problematiche, al conduttore che vorrà crescere professionalmente lavorando con gruppi di bambini, è sicuramente consigliata un’analisi personale, necessaria a riequilibrare ed elaborare vissuti emotivi nati dall’incontro con il gruppo.
GRUPPO ANDROMEDA
la funzione tessitrice del mito
Il mito di Andromeda, la bella ragazza salvata da Perseo prima di essere mangiata dal mostro mandato da Zeus, porta in sé la struttura letteraria maggiormente utilizzata nelle fiabe classiche e nella maggior parte dei miti. Il gruppo Andromeda viene pensato con l’intento di attivare un percorso di gruppo con i bambini ospitati nella struttura attraverso l’uso della narrazione fiabesca e mitica. Il mito è il modo di raccontare l’esperienza umana, di proteggerla, di farla evolvere. Lo stesso mito non è mai uguale a se stesso, come i sogni ricorrenti dove alcuni elementi cambiano e possono portarci ad una interpretazione nuova ed opposta ad altre precedenti. I miti rappresentano soprattutto una funzione del pensiero, un’incognita, diverse vie percorribili di un mistero da svelare e soprattutto da affrontare. Il mito come il sogno è innanzi tutto un’esperienza di conoscenza di sé e degli altri, del mentale e del reale, del mondo e delle cose. L’utilizzo dei principi di arteterapia legati soprattutto all’uso di strumenti come il linguaggio filmico e del teatro rappresenta, all’interno del gruppo, l’espressione più importante di quelle trame narrative che i bambini portano e possono simbolizzare attraverso la mediazione di questi strumenti. Il percorso di gruppo si caratterizza nello specifico proprio nell’uso integrato della cinema terapia e teatro terapia. La cinematerapia si avvale del potente effetto evocativo, simbolico e allegorico delle immagini filmiche (analogamente a quanto facevano e fanno ancora le favole, i miti, le leggende, i sogni notturni, ecc.) per comporre ed elaborare le emozioni grezze in processi complessi che hanno la finalità di stimolare nel bambino lo sviluppo di nuove competenze. La teatroterapia implica, invece, l’educazione alla sensorialità e alla percezione del proprio movimento corporeo e vocale; agisce attraverso la rappresentazione di personaggi extraquotidiani (principalmente improvvisati). Improvvisando una scena, l’attore bambino entra in contatto con la sua realtà originaria, il suo Sé profondo, ma non lo può afferrare né fissare in quanto esso è in continua trasformazione. Egli può, attraverso la momentanea scissione della personalità, intravederne l’altra immagine e farla sua nell’azione scenica. Il personaggio mostra così a chi osserva (il gruppo in questo caso) il riflesso del Sé dell’attore, della sua realtà originaria, quella che si dice essere vera. Nello specifico il gruppo composto da bambini dai 6 agli 11 anni si incontra una volta alla settimana per un’ora per guardare un film dalle tematiche pensate in funzione delle caratteristiche personali di ogni componente del gruppo e dalla quale visione nascerà una rappresentazione teatrale libera sullo stesso film di un’ora in cui non sarà più il film a essere rappresentato, ma l’esperienza evocativa ed emotiva che il film ha prodotto sullo stesso gruppo. L’idea del laboratorio risponde agli obiettivi peculiari che si pongono la cinematerapia e la teatroterapia. I film proiettati, per la maggior parte fiabe (Cenerentola, Biancaneve, Capuccetto Rosso) o film con tematiche mitiche, svolgono la funzione di andare a lavorare attraverso il linguaggio filmico su conflitti emotivi che i bambini ospitati in struttura portano. Per es., Hansel e Gretel è stato usato e proiettato più volte proprio in funzione della necessità del gruppo di andare ad elaborare i vissuti di abbandono sperimentati in comunità).
Il linguaggio metaforico delle fiabe viene utilizzato nel gruppo per contattare emozioni e stati d’animo sperimentati dai bambini che risulterebbero di difficile elaborazione attraverso una metodologia di gruppo classica [15]. Per comprendere, si riporta l’esempio di una seduta in cui, a partire dalla rappresentazione della fiaba Hansel e Gretel, in gruppo hanno potuto esprimere i propri sentimenti di abbandono per essere in comunità.
Dopo la rappresentazione del cartone, tutti i bambini si presentano calmi. Sara tra le lacrime afferma che le manca la famiglia. Il gruppo si dispone a rivelare un forte senso di abbandono in conflitto con la sensazione di mancanza delle proprie famiglie (“sono stato/a abbandonato/a dalla mia famiglia e quindi la odio, provo rabbia ma mi mancano e quindi gli voglio anche bene, provo amore”). Questo conflitto scinde inizialmente il gruppo, sviluppando all’interno due assunti di base tre bambini in attacco/fuga: «falla smettere di piangere, noi ci mettiamo lontani»; e l’altro: in un forte assunto di dipendenza, si avvicinano a Sara e le dicono: «Dai adesso passa, ci sono loro», riferito al terapeuta e all’educatrice. Il terapeuta tranquillizza il gruppo prima chiedendo all’educatrice di accarezzare Sara, che riesce in questo modo a mostrarsi al gruppo mentre piange. Poi si rimanda al gruppo che le lacrime di Sara hanno spaventato il gruppo che a quel punto però si è affidato al terapeuta e all’educatrice. Da questo racconto si sviluppa un’integrazione del gruppo volta ad eliminare la scissione (tutti si metteranno in piedi sul divano di fronte al terapeuta, l’educatrice e Sara). Da questo momento inizia un gioco in cui ognuno, rivolgendosi a Sara, racconta un piccolo episodio in cui ha pianto a partire dalla scelta di un personaggio del cartone rappresentato. Dopo un anno di lavoro è la prima volta che i bambini si dispongono come gruppo di lavoro capace di affrontare i sentimenti di tristezza e abbandono attraverso la condivisione del proprio vissuto, dicendosi tra le altre cose che se si accetta di essere bambini si può anche accettare di voler bene alla propria famiglia («Ricordo quando avevo sentito la canzone bellissima che mi cantava mia madre») pur essendo tristi e arrabbiati per essere stati abbandonati («era una bella canzone ma io sto piangendo»).Sara smette di piangere e a fine seduta fa un gioco particolare in cui prende diversi pupazzi conservati in un armadio. Ad alcuni che mette nel centro del divano dà i nomi della sua famiglia, poi mette tanti pupazzi nel divano quanti sono tutti i bambini e gli educatori di Casa Stelle. Esprime al terapeuta di non poterlo mettere nel divano perché spettatore di quel gioco. Dentro il divano la bambina, ma il gruppo tutto, sembra mettere i propri oggetti interiorizzati (buoni e cattivi) accedendo in quello spazio e in quel momento ad una maggiore integrazione della propria personalità e della propria affettività.
GRUPPO IDRA
il corpo perduto
Tra le dodici fatiche che Eracle deve affrontare vi è anche l’uccisione dell’Idra, mostro a nove teste che, attraverso uno stratagemma, l’eroe riesce ad ammazzare anche se una testa immortale del mostro verrà solo nascosta e sotterrata. L’Idra si pone nel cammino di Eracle come una sventura, un danno da affrontare. Ed è in qualche modo una sventura quella che capita al bambino quando il suo corpo inizia a prestare attenzione ai richiami fisici ed ormonali che la sua crescita comporta. Così dovrà iniziare quel viaggio che lo porterà all’adolescenza e poi al diventare adulto in un corpo ancora bambino che inizia a trasformarsi mettendolo nella condizione di dover affrontare il lutto per il suo corpo e per quello che esso rappresenta. Il corpo diventerà allora il rappresentante di quel lutto e di quel bambino perduto connotando le più varie risposte mentali ed emotive a quell’evento (paura per la propria trasformazione, eccessiva eccitazione e sessualità, disgusto per la disarmonicità con cui alcune parti del corpo cambiano e nei casi più gravi a dei veri e propri disturbi legati all’odio di quel corpo-Idra che si sente di non aver scelto di avere). Il percorso del gruppo Idra si pone come laboratorio di accompagnamento per i preadolescenti ospitati in comunità che potranno stazionare un periodo nella comunità di accoglienza per i bambini prima di essere inseriti nella struttura di accoglienza per adolescenti. Il gruppo Idra è un gruppo dinamico che si pone come un atelier di arteterapia in cui, attraverso i linguaggi dell’arte, si promuove l’informazione e la sensibilizzazione intorno alla specialità dell’arte di contattare le emozion i e favorire processi di crescita, di sviluppo e di creatività volti all’acquisizione di quella nuova conoscenza di sé, necessaria affinché si avvii in modo funzionale il processo di lutto per il bambino perduto. Nello specifico, una volta alla settimana, per un’ora, ci si ritrova sempre nella stessa stanza per incontrare il gruppo e attraversare assieme le diverse tappe del percorso. Il percorso si divide in otto moduli:
1. Raccont-Arti: la finalità di questo modulo è utilizzare la narrazione come costruzione di un canale comunicativo che faccia emergere attraverso il sé autobiografico di ogni ragazzo, un Noi narrante in cui Io-Tu si fondono in un unico grande contenitore di senso, capace di costruire una versione di noi stessi nel gruppo e quindi nel mondo.
2. Scriverti: in questo modulo ai ragazzi sarà richiesto di inventare e scrivere una breve storia, una canzone, ecc. in cui il protagonista principale sia proprio il ragazzo. Le storie, anonime, verranno poi lette nella seconda parte del modulo.
3. Vederti: verrà fatto vedere un film a carattere educativo-emozionale che verrà successivamente discusso all’interno del gruppo.
4. Improvvis-Arti: i ragazzi daranno vita a libere improvvisazioni teatrali inerenti situazioni di vita quotidiana, scelte dagli stessi ragazzi.
5. Pittur-Arti: in questo modulo i ragazzi avranno una loro personalissima tela in cui dipingere il loro personalissimo “io nel mondo, io nel gruppo”. I dipinti realizzati saranno conservati e utilizzati nel successivo modulo.
6. Sogn-Arti: in questo modulo si potranno raccontare i propri sogni (sognati, immaginati o immaginabili) e si potranno condividere con l’intero gruppo.
7. Rappresent-Arti: tutto il materiale prodotto verrà discusso in gruppo e delineerà in modo unico ogni partecipante.
8. Restituirti: restituzione finale da parte del conduttore sul lavoro svolto.

I materiali prodotti sono diversi, da collage rappresentanti la propria storia alla scrittura di alcune canzoni rap. Presentiamo qui di seguito una canzone rap creata dai ragazzi del gruppo.
illuminato futuro rap
Ciao sono Lucia mi sento un po’ bambina mi trovo a Casa Stelle e mangio tagliatelle.

E poi mi presento sono Mauro il tormento in comunità c’ero anche ieri e anche oggi non mi son lavato i piedi.

Ciao sono Tore non chiedetemi un piacere mangio tanto pane se mi scociate sarò un caneeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee.

E poi è arrivato il Gianni incavolato, mi hanno tolto molto ma rimango sempre folto.

Siamo tutti qua il gruppo della strada, faremo un gran futuro perché terremo sempre duro.

In tutto questo male di fame e pentimento, siamo troppo giusti, ci mettiamo sentimento.

A te che non ci credi che siamo ancora in piedi, guardaci fra un po’ che non avremo messo i freni.

Adesso è terminato, il gruppo incavolato, e se abbiam visto un po’ di nero, il futuro è illuminato.

In questa canzone c’è più di un’emozione, mangioni, incavolati e sempre arrabbiati, ci troviamo tutti quanti qui alla Casa della Luna che a vederla sembra brutta ma invece è una fortuna.
GRUPPO LIBRA
pensare il proprio dolore
Eracle, entrato nella casa di Libra, cattura il cinghiale, animale impulsivo, che rappresenta la mobilità della mente emotiva. La cattura dell’emotività da parte della forza di volontà bilancia le paia degli opposti, dando prova che l’equilibrio interiore è conseguito. Il gruppo Libra, pensato per gli adolescenti ospitati nella struttura, è uno spazio d’incontro in cui poter promuovere la pensabilità dei propri stati emotivi attraverso le restituzioni che l’incontro con l’altro e gli altri gli mette di fronte. Spesso i ragazzi che ritroviamo nel gruppo sono adolescenti feriti, hanno alle spalle storie difficili, esperienze laceranti che hanno creato un vuoto incolmabile, in cui i pensieri e le emozioni trasformati spesso in atti anche esplosivi sono la manifestazione di una lotta e ribellione verso quel mondo adulto che non li ha saputi pensare come degni di essere amati. Quella che arriva dai ragazzi adolescenti che partecipano al gruppo è una richiesta di attenzione senza responsabilità, attraversata dall’incapacità di fondo di elaborare e poter pensare quella sofferenza che, come nel cinghiale di Eracle, non riesce ad essere arginata. Questo rende il lavoro in gruppo spesso molto difficile perché sono adolescenti che paradossalmente più sentono il bisogno dell’altro meno sentono di poter ricevere qualcosa, trasformando l’altro in un soggetto minaccioso da cui scappare o da attaccare. Spesso i vari intrecci ripetuti delle esperienze frustranti sperimentate nei gruppi di appartenenza (familiare, scolastico, ecc.) distrugge l’equilibrio già di per sé fragile dell’adolescente, portandolo a scegliere comportamenti devianti nell’illusorietà di recuperare la propria identità. È in questi casi che l’adolescente non userà il gruppo come mezzo transazionale per elaborare i propri conflitti interni, ma lo trasformerà nell’esperienza distruttiva del branco.
Costituire un gruppo con gli adolescenti ospitati in una struttura di accoglienza comporta per il terapeuta l’esercizio di tanta pazienza. Deve essere un luogo di libera espressione, non contraddistinto da regole rigide se non l’unica necessaria che è quella del non farsi male a vicenda. Il terapeuta deve essere in grado di adeguarsi al linguaggio tipico dell’adolescenza, coinvolgendosi mentalmente e in modo sempre caldo con il gruppo, ma rimanendo fuori nei momenti in cui il gruppo avrà bisogno di attaccare o difendersi dal mondo adulto. Il gruppo Idra nasce con un germe di speranza, come uno spazio in cui l’adolescente possa sperimentare attraverso l’incontro con gli altri la pensabilità del proprio dolore, arrivando lentamente a capire che, recuperati gli oggetti intatti della propria storia, un futuro può ancora esserci.

Dopo due anni i ragazzi sono capaci di porsi come gruppo di lavoro conversando su tematiche adolescenziali come la lealtà, l’amicizia, l’amore e la trasgressione. È il gruppo di Roberto, ospitato in struttura da anni e ormai disilluso da una famiglia originaria distrutta e oramai lontana e la difficoltà di trovare una nuova famiglia. Il ragazzo oscilla tra periodi di regressione con comportamenti infantili a periodi di crescita in cui accetta di recuperare qualcosa della propria storia. È in uno di questi periodi che Roberto porta in gruppo un video della propria comunione, facendo nascere nel gruppo una conversazione su quella giornata. Così anche gli altri ragazzi hanno condiviso i ricordi del giorno: Giovanna ha affermato di avere un ricordo bellissimo del giorno («Troppo bello quel giorno, mi ricordo che mia madre ha fatto grandissimi sacrifici per comprarmi un vestito molto prezioso, ero bellissima»), mentre Salvatore ha ricordato la grande festa fatta dagli zii e l’uccisione del maiale come simbolo dell’importanza del giorno.
Ma è anche il gruppo di Andrea, con una famiglia separata e con madre psichiatrica, ospitato in struttura dopo essere stato mandato via dalla propria famiglia affidataria che in gruppo, dopo la visione del film “Il bambino Cattivo”, esprime la consapevolezza nel comprendere di non poter aiutare sua madre, ma di poter solo lottare per creare un nuovo progetto di vita. In gruppo i ragazzi cercano di trasformare in pensieri raccontabili il proprio dolore, recuperando tra tutte le macerie gli oggetti buoni della propria storia che ancora rimangono intatti.
GRUPPO VENUS
atopia e koinonia, esperienze di condivisione
Venus, o Afrodite per i Greci, è la dea della bellezza e della fertilità. Da questa accezione della divinità prende idea il gruppo delle mamme che per diversi problemi vengono ospitate nelle strutture per madre-bambino. Il gruppo, composto da due o tre mamme che si incontrano settimanalmente per un’ora, prende la forma tecnica, più che di un classico gruppo dinamico, di un gruppo di auto-mutuo-aiuto. Il gruppo Venus è formato da mamme che condividono simili problemi o perseguono identici obiettivi e si sostengono reciprocamente. Nel gruppo si trova uno spazio per conoscersi, confrontarsi, individuare modalità costruttive per fronteggiare momenti di disagio; le persone si impegnano per il loro cambiamento e per quello sociale, in un clima di fiducia e amicizia, promuovendo le proprie potenzialità attraverso il coinvolgimento personale. All’interno del gruppo le tematiche più trattate sono relative alla convivenza delle mamme nella struttura, convivenza spesso problematica e difficile perché alimentata dalla difficoltà di accettare proprio la permanenza nella stessa struttura che racchiude in sé anche la prova tangibile di un senso di fallimento, ancor prima che genitoriale, personale. L’altro aspetto fortemente analizzato e discusso dal gruppo è quello relativo alle difficoltà incontrate nel prendersi cura dei propri bambini o della relazione difficile con i propri figli adolescenti. I bambini e gli adolescenti ospitati nella struttura insieme alle mamme partecipano ai gruppi assieme agli altri bambini ospitati nelle altre strutture con l’obiettivo di costruire quel clima di appartenenza di cui si è parlato prima. All’interno del gruppo partecipa anche la coordinatrice della struttura madre-bambino o, in sua assenza, un’educatrice. Il ruolo della coordinatrice/educatrice si situa nella figura di un facilitatore che, conoscendo in modo più dettagliato la quotidianità della struttura e delle mamme, può fungere da garante innanzitutto della presenza costante all’interno del gruppo, in secondo luogo può facilitare il discorso tra mamme proponendo per esempio vissuti quotidiani di vita all’interno della struttura da discutere insieme, alleggerendo così le mamme dal sentirsi in dovere di pensare e immettere nel gruppo un discorso. Infine, la figura della coordinatrice o educatrice rappresenta un modello femminile oggetto di proiezioni e identificazioni, oltre che uno stimolo e un bersaglio di emozioni sperimentate dalle donne partecipanti al gruppo. Il ruolo del conduttore nel gruppo Venus è molto delicato soprattutto in relazione a quei movimenti proiettivi transferali che la conduzione da parte di uno psicologo uomo può alimentare proprio in mamme che spesso alle loro spalle hanno storie difficili, magari di maltrattamento o di abuso da parte di figure maschili. Allora il problema che si pone davanti al terapeuta è trovare la giusta impostazione metodologica capace di limitare al minimo proiezioni anche di tipo sessuale da parte delle mamme partecipanti al gruppo. Sembra allora necessario per il conduttore seguire un’impostazione del setting strutturata e rigida, in cui vi sia sempre la presenza di un facilitatore donna (coodinatrice/educatrice), limitando al minimo indispensabile la possibilità di poter incontrare una mamma facente parte del gruppo negli altri ambienti della struttura (ufficio, giardino, sala da pranzo o della tv) al di fuori del setting costituito per il gruppo.
Il gruppo Venus è inizialmente il luogo dell’atopia, della solitudine che ogni mamma cerca di colmare attraverso i propri comportamenti distruttivi e attraverso l’attacco profondo alla comunità, e alle mamme che condividono gli spazi. Così Luisa, ospitata nella comunità, in gruppo esprime tutto il suo dolore per aver compreso di non poter tenere i propri bimbi, affidati ad un’altra famiglia dal tribunale. Ed è un attacco feroce quello che Luisa porta avanti verso l’istituzione e gli educatori, unici portatori sani dell’ascolto del suo dolore e della sua rabbia. Ma diventa lentamente il luogo dove sperimentare esperienze di koinonia e condivisione. Così Lucia, mamma di 23 anni e con due bimbi piccoli, dopo i racconti delle altre mamme, condivide come regalo prezioso un episodio della sua storia personale e della scelta che l’ha portata ad iniziare il percorso comunitario: «Io ho scelto brutalmente, in casa stavo diventando pazza, a Claudio gliene facevano di tutti i colori, stavo malissimo, ho avuto tantissima paura ma me ne sono scappata, l’ho fatto per Claudio e per il bambino che avevo in pancia. Ho dormito una notte su una panchina, è stato terribile, ma ora so che ho fatto la scelta giusta, ho deciso di cambiare».
Il gruppo ora composto sia da mamme ospitate nella struttura, sia da mamme ospitate in precedenza e che ora seguono un progetto d’inclusione sociale all’esterno della struttura, appaiono maggiormente capaci di condividere le proprie esperienze.
Francesca, mamma di 44 anni con due figli di cui uno adolescente, inizia a ricoprire nel ruolo da leader da cui Rosalba cerca di imitare alcuni comportamenti. Sonia, la più piccola delle mamme, con i suoi 17 anni e con un secondo bambino nella pancia, sperimenta il contenimento delle mamme più grandi («Ma allora non sono sola»).

Anche in questo caso, ma in generale per una buona conduzione dei gruppi dinamici, è consigliabile allo psicologo che dei gruppi vuole fare anche la sua professione di mantenere una passione e una forte motivazione alla formazione continua specifica, intraprendendo inoltre un percorso analitico sia individuale sia di gruppo, come strumento di alta professionalizzazione, ma anche come strumento di protezione ed elaborazione delle tante dinamiche che i gruppi, per loro natura, alimentano.
bibliografia
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