L’integrazione della diagnosi di personalità e
dei funzionamenti post-traumatici
nel pensiero sistemico

Matteo Selvini1



In un mondo che cambia con incredibile velocità, medici e terapeuti sono al centro di domande cui non è facile rispondere utilizzando la propria esperienza. Divulgare l’esperienza di chi ha lavorato per primo su temi dotati di un alto coef­ficiente di novità sarà, dunque, lo scopo principale di questa sezione della rivista.


In a fast world, practitioners and therapists are the target subjects of many questions to which it is not easy to answer using one’s previous personal expe-rience. The principal aim of this section will be to disseminate the experience of those who have been the first to work arguments with a high percentage of novelty.


En un mundo que cambia rápidamente, médicos y terapeutas se ponen una serie de preguntas que no son fácil de contestar recurriendo solo a la experiencia personal. Nos interesa divulgar acá, los aportes de aquellos que han trabajado por primera vez sobre algunos temas nuevos.



Riassunto. La diagnosi di personalità è indispensabile correzione per terapeuti esclusivamente sistemici. È necessario integrare nel pensiero sistemico una diagnosi di personalità basata sulla teoria dell’attaccamento, le riorganizzazioni dell’attaccamento disorganizzato e gli adattamenti post-traumatici. Idee fondamentali per combattere i rischi dell’estremismo sistemico e dei conseguenti stereotipati psicopedagogismi, come ad esempio quelli della depatologizzazione o del mancato svincolo del paziente designato. Dobbiamo recuperare la ricchezza della dimensione individuale: il paziente non è vuoto simbolo dentro l’organigramma di una struttura familiare.

Parole chiave. Estremismo sistemico, tratto chiave della personalità, strategie di riorganizzazione dell’attaccamento, riconciliazione.


Summary. The integration of the diagnosis of personality and post-traumatic functioning in systemic thinking.
Personality diagnosis is essential to correct too systemic therapists. It’s necessary to integrate the systemic model with a diagnosis of personality based on the attachment theory, on the possible re-organizations and the post-traumatic accomodations. This is a fundamental idea to fight the risks of systemic extremism, such as those of de-pathologization or of the failed emancipation of the designated patient. We have to re-evaluate the richness of the individual dimension: the patient is not a void symbol into the organogram of the family structure.

Key words. systemic extremism, key personality trait, strategies of reorganization attachment, reconciliation.


Resumen. La integración del diagnóstico de las operaciones de la personalidad y post-traumáticas en el pensamiento sistémico.
El diagnóstico de la personalidad es la corrección esencial para los terapeutas exclusivamente sistémicos. Es necesario integrar el pensamiento sistémico en el diagnóstico de la personalidad basado en la teoría del apego, la reorganización de apego desorganizado y adaptaciones post-traumáticos. Ideas básicas para combatir los riesgos del extremismo sistémicos y los psicopedagogismos resultante estereotipados, tales como los de la despatologización o el fracaso para liberar al paciente designado. Necesitamos redescubrir la riqueza de la dimensión individual: el paciente no es símbolo vacío en el organigrama de la estructura familiar.

Palabras clave. Extremismo sistémico, característica clave de la personalidad, estrategias de reorganización del apego, reconciliación.
PREMESSA
L’identità della terapia sistemica si è formata contro la diagnosi, nella contrapposizione alla psichiatria e psicoanalisi ed alle loro stigmatizzanti etichettature dei pazienti. Non è solo storia passata: tutti i terapeuti della famiglia si confrontano con famiglie e contesti che cercano di portarci un matto, un malato, un mostro. Lavoriamo contro il mortifero veleno di tali irrigidimenti per fare emergere altre “verità”, cioè una storia, un processo, un dramma esistenziale, dove una serie di sofferenze si sono incatenate e agganciate tra loro nella confusione e nei fraintendimenti. Cerchiamo di portare un po’ di luce: facendo scoprire a ciascuno il suo pezzo di risorsa e di fatica/responsabilità.
Su questa idea fondamentale abbiamo combattuto e combattiamo le letture riduzioniste di quegli psichiatri e psicoanalisti che escludono le relazioni familiari nell’analisi dei co-fattori di malattia e di guarigione; tuttavia anche tra noi “storici” terapeuti sistemici si è corso e si corre il rischio di eliminare la specificità della persona disinteressandosi del funzionamento individuale.
Due rischi opposti nella clinica: “oscillare” tra terapie centrate esclusivamente sul paziente e terapie esclusivamente centrate sulle famiglie e sulle relazioni.
PERCHÉ SERVE LA DIAGNOSI DI PERSONALITÀ
La diagnosi di personalità ci aiuta ad avere in testa il nostro paziente: pensarlo, conoscerlo, prevederne certe sue evoluzioni, paragonarlo a persone simili che abbiamo conosciuto.
Ad ogni diagnosi può infatti corrispondere l’idea di un percorso, un protocollo, un tipo di terapia [1], una modalità di presa in carico, uno stile comunicativo più appropriato.
La diagnosi ci serve a mettere in discussione le nostre strategie terapeutiche, a combattere gli interventi automatici stereotipati. Ogni fallimento può insegnarci molto, così come ogni successo può confermare una teoria sul cambiamento in psicoterapia appropriata per quel tipo specifico di personalità [2].
La diagnosi di personalità da sola però serve a poco, va abbinata ed integrata con altre “mappe del territorio”: ad esempio, tipo di domanda, psicopatologia descrittiva, diagnosi sistemica, modello di attaccamento, diagnosi trigenerazionale, emozioni del terapeuta.
Ritengo essere un fattore terapeutico fondamentale trovare un senso che armonizzi e renda coerente questi poli o tipi di diagnosi. In questo modo la teoria diventa isomorfica alla terapia: la fondamentale ricerca di senso alla base di ogni psicoterapia.
Ad esempio, la mia paziente Sara funziona in un certo modo (troppo accondiscendente), ma questo suo “tratto chiave” che la mette in difficoltà come l’avrà imparato? Una domanda che immediatamente collega Sara agli “infiniti” pazienti che funzionano più o meno come lei.
Per ogni terapeuta sentirsi anche un ricercatore è un antidoto potente contro il rischio professionale di essere travolti dal senso di impotenza, dalla confusione, dall’inutilità, dal fallimento: siamo così poca cosa davanti a tanto dolore!
Sentirci attivi protagonisti di una grande comunità terapeutica che lavora con noi e come noi è un fattore di protezione: a questo servono i continui confronti in équipe, le supervisioni, i congressi, i libri, la lettura delle riviste specializzate.
In una di quelle sedute individuali che ci fanno amare questo mestiere, Sara si apre e racconta la sua grande fatica nel fare una cosa che sua madre disapprova: il suo fidanzato l’ha spinta a comprarsi un iphone, ma la madre ha reagito con gelo, anche se i soldi sono tutti di Sara. La ragazza non ha dormito tutta la notte. Ha ventun anni, è una grave anoressica restrittiva, appena dimessa dopo due mesi di ricovero salvavita. La nostra diagnosi di personalità ci porta immediatamente nell’area complessa del tratto dipendenza/sottomissione, correlato con un aspetto di parentificazione. L’avevamo capito, ma con la testa, fin dalla prima seduta familiare: l’esordio coincide infatti con un forte conflitto di lealtà in cui Sara è presa in mezzo tra il suo primo fidanzato e la mamma. Tuttavia, ritrovare la nostra diagnosi nell’intensità e nel contatto diretto con le parole della paziente, nel vivido racconto di un esempio del giorno, è proprio il cuore battente della psicoterapia.
La diagnosi di personalità abbandona così polverose, accademiche o stigmatizzanti classificazioni, per diventare carne e sangue del nostro lavoro: come si aiuta una ragazza (per la quale già abbiamo il dato e la fortuna di provare un gioioso trasporto affettivo) ad abbandonare il grave handicap di quel condizionamento alla sottomissione, ai desideri e pensieri altrui, che annulla lei stessa? È un grande sollievo che non dobbiamo inventare proprio da capo. Già negli anni Cinquanta, Hilde Bruch [3] ha scritto pagine memorabili sulla compiacenza delle anoressiche, e noi le abbiamo lette! Non siamo soli!
La diagnosi di personalità è dunque una cura indispensabile per noi terapeuti “troppo sistemici”. Al contrario il grave morbo del purismo sistemico dei tempi di Paradosso e controparadosso [4] ha traslocato pari pari nel costruttivismo post-moderno (o narrativismo) rischiando di causare danni alla credibilità clinica del modello sistemico.
Sara è stata trattata per un anno e mezzo in una terapia familiare con un didatta sistemico costruttivista, prima di essere ricoverata in fin di vita. Scopro che per tutto questo tempo la paziente, intelligente e capace di comunicare, non è mai stata convocata da sola, ma sempre con la famiglia o i fratelli. Credevo che queste pratiche fossero ormai ricordi del passato: un estremismo espressione di una sorta di malattia infantile dei puristi sistemici! Invece scopro un’incredibile attualità del dogma del depatologizzare il paziente designato.
Per schivare questo ostacolo i terapeuti sistemici devono studiare ed usare le diagnosi di personalità: per evitare il rischio di “perdere” il paziente nelle nebbie delle sue vicende relazionali e di smarrire il contatto diretto con l’unicità della sua propria storia di vita. Per fuggire il pericolo di fallire il contatto, l’alleanza terapeutica, dobbiamo conoscere una persona vera e non una sorta di burattino manovrato da condizionamenti familiari. La diagnosi di personalità dunque ci guida, ma continuamente ce la dimenticheremo, dobbiamo dimenticarla, nell’immediatezza del rapporto con una persona irripetibile come tutti noi.
La strada maestra del cambiamento in psicoterapia passa per l’aiutare il paziente a sospendere le accuse ai familiari ed interrogarsi sui propri limiti ed errori: mettere in luce un tratto disfunzionale di personalità è quindi la via più diretta per facilitare questo decisivo processo autocritico di co-responsabilizzazione. Di qui il fondamentale movimento terapeutico: collegare un sintomo con un tratto chiave della personalità. Ad esempio, un sintomo psicosomatico con il tratto evitante dell’incapacità di chiedere aiuto [2].
La depatologizzazione del paziente designato deve accompagnarsi ad una sua responsabilizzazione, facilitata da una costruttiva e specifica autocritica dei familiari, altrimenti alimenta nel paziente sterili vittimismi e negazione dei suoi limiti.
UN TENTATIVO DI SINTESI TEORICA
Verso la fine degli anni Novanta, nel corso dell’ultimo lavoro d’équipe [5] con Mara Selvini Palazzoli (la ricerca sul follow-up delle anoressiche trattate nei primi diciassette anni di terapie familiari storiche e pioneristiche, condotte con i paradossi [4] e le prescrizioni invariabili [6]), ci eravamo resi conto dell’importanza della diagnosi di personalità. Si era infatti dimostrato errato pensare che tutte le pazienti avessero lo stesso tipo di funzionamento, cioè una personalità anoressica, come sostenuto da molti (tra cui autori cognitivisti, organizzazione di personalità DAP, disturbi alimentari psicogeni) [7]. Iniziammo così a tratteggiare quattro tipi, ancora un po’ grossolani: dipendente, borderline, ossessivo-compulsiva e narcisista. Già in nuce avevamo la distinzione fondamentale tra l’area dell’attaccamento ambivalente (dipendenti e borderline) e quello evitante (ossessive e narcisiste).
La riflessione su questo tema è continuata in modo specifico all’interno del nostro gruppo, dato che molte scuole sistemiche ci sono sembrate battere altre due strade: ignorare (almeno esplicitamente) la dimensione individuale (i costruttivisti) o mantenere con la psicoanalisi una sorta di doppio binario, cioè un’alternanza di pensiero che non ci pareva e non ci pare ben integrata, anche se i riferimenti psicoanalitici sono stati indubbiamente molto utili per combattere gli estremismi sistemici [8] e per aprire la strada ad un’integrazione della dimensione individuale. Si veda l’autocritica di Andolfi sulle terapie familiari degli anni Ottanta e Novanta: «Prassi terapeutica che insisteva nell’utilizzare il problema del paziente come indicatore di una difficoltà dei genitori: quel che accadeva era che i problemi personali del paziente venivano ignorati» [9, p. 212].
Il nostro tentativo è stato quello di costruire un modello di diagnosi di personalità (in altre parole di funzionamento individuale o modello operativo interno…) basandoci soprattutto sulla teoria dell’attaccamento, sui lavori della Benjamin [10] e sui ricercatori dello specifico campo: Johnson [11], Di Maggio e Semerari [12], Gunderson et al. [13], Young et al. [14], Millon e Grossman [15-17], per citare quelli che mi hanno più influenzato.
Anna Maria Sorrentino pubblicò nel 1999 l’articolo “Il problema della diagnosi in terapia familiare” [1], insieme scrivemmo nel 2004 un materiale didattico: “Tratto disfunzionale di personalità, costellazioni di tratti e diagnosi di personalità come guida del trattamento psicoterapeutico” [18].
Nel 2006 ho elaborato una prima stesura delle mie riflessioni sull’utilizzo della diagnosi di personalità nella clinica sistemica, articolo che poi sarebbe stato pubblicato nel 2008 sulla rivista Ecologia della Mente [2]. Questo lavoro ha suscitato un certo interesse, la traduzione francese è uscita su Thérapie Familiale con un commento di Nicolas Duruz. Nel 2010 è uscita la traduzione spagnola sulla rivista Redes di Barcellona. Essendo passati alcuni anni, varie idee sono state messe alla prova e nuovi spunti hanno colpito la mia attenzione. Cominciai a proporre nei nostri seminari e lezioni delle esercitazioni del tipo: “Che adulto diventerà il bambino che è stato usato, o odiato, o posseduto, o sopraffatto ecc.”, ispirandomi alle proposte di Stephen Johnson ed integrandole con le nostre esperienze cliniche.
Ho quindi pensato di poter aggiungere qualche nota per dar conto dello sviluppo del dibattito e chiarire alcune contraddizioni.
INTERVENIRE SU COME I FAMILIARI MISCONOSCONO IL PAZIENTE
Il nostro lavoro terapeutico è molto spesso finalizzato a combattere due fondamentali drammatizzazioni patogene delle relazioni dei familiari con il paziente: l’ostilità e la rassegnazione all’incurabilità. Frequentemente gli stessi familiari confliggono tra loro proprio nel polarizzarsi su queste opposte dimensioni. Ci confrontiamo così con l’ostilità di atteggiamenti del tipo: “Dipende tutto da lei/lui”, “Non possiamo farci niente”, “Fa apposta a non mangiare”, “È un capriccio”, “Vuol togliermi la pelle di dosso”, tutte espressioni della negazione della sofferenza in cui i sintomi del paziente vengono letti come una lotta per il potere, cioè all’interno di un sistema motivazionale competitivo. In questo contesto cognitivo il pensiero sistemico sul modello di I giochi psicotici nella famiglia [6], cioè i concetti di provocatore attivo/passivo, di imbroglio e di istigazione, possono risultare pericolosi in quanto collusivi con questa ottica competitiva/conflittuale.
Il rischio opposto è quello della patologizzazione o etichettatura come rinuncia: “È malato”, “Non c’è niente da fare”. Un atteggiamento altrettanto negativo per la perdita di speranza e per la sfiducia in ogni possibile cambiamento. Noi lavoriamo per trovare una terza via intermedia, individuando un limite, una sofferenza, cioè un tratto disfunzionale, un dramma esistenziale che può essere affrontato, magari risolto, o perlomeno reso più sopportabile.
Con un linguaggio diverso, sono gli stessi concetti che il filone psichiatrico dell’Emotività Espressa [19] ha mutuato dalla tradizione sistemica: ipercriticismo e ipercoinvolgimento e che abbiamo già commentato in passato [20]. Combattere l’ipercriticismo vuol dire costruire empatia ed accoglienza, mentre per ipercoinvolgimento si deve intendere un’iperprotettività che risulta tossica in quanto squalificante/cronicizzante. Al contempo non abbandoniamo certo la grande tradizione sistemica della connotazione positiva, nel senso della ricerca/valorizzazione delle risorse vive e vitali dei nostri interlocutori.
COME FARE LA DIAGNOSI?
In questo campo ipercomplesso abbiamo bisogno del “rasoio di Occam”, cioè della teoria più semplice possibile. Per la diagnosi serve una teoria che sia strutturalmente individuale e relazionale. A questo scopo il migliore strumento è oggi la teoria dell’attaccamento, mentre è da ridimensionare la psicoanalisi: troppo oscura, contraddittoria, individualista proprio nelle sue matrici. Dobbiamo conoscere la psicoanalisi ovviamente, la grande parte del sapere psicoterapeutico viene da lì, ma poi metterla da parte.
Qual è la diagnosi del tipo di attaccamento del nostro paziente? È sul versante ambivalente o evitante? Di conseguenza il terapeuta dovrà essere direttivo o accogliente? Ci sono sia elementi evitanti che ambivalenti? Ci sono indizi di una storia di legami primari spaventati e spaventanti? Se sì, ci orientiamo verso un’ipotesi di disorganizzazione dell’attaccamento e della personalità. Ed anche questo guiderà la nostra terapia verso l’integrazione di parti della persona che convivono in scarsa armonia.
E come sono nate queste parti? Da quali esperienze negative e da quali difese/tecniche di sopravvivenza [21]?
Considero indispensabile tenere presenti le ricerche sugli adattamenti post-traumatici: fondamentale il testo della Herman Guarire dal trauma [22].
Fight: ipervigilanza.
Flight: dissociazione.
Frozen: congelamento depressivo.
Sottomissione, credo si debba aggiungere, rovinando purtroppo l’estetica della tripla F. Ma forse possiamo considerare la sottomissione come una variante del congelamento, come tentativo di superamento del blocco.
Qual è, nel nostro paziente, la combinazione/integrazione difensiva di queste quattro tecniche della resilienza?
Le recenti ricerche e riflessioni sulla dissociazione [23] sono molto più chiare ed utilizzabili degli analoghi psicoanalitici: negazione, scissione, rimozione, ecc., “zavorrati” da antiche confusioni pulsionali e basate su teorie evolutive largamente superate (le fasi preedipiche e gli stadi dello sviluppo psicosessuale) [24, p. 150].
LE CINQUE STRATEGIE DI RIORGANIZZAZIONE
Ricerche recenti su popolazioni non cliniche calcolano circa al 15-20% i soggetti con un attaccamento disorganizzato; tale percentuale sale al 50-80% [25] nelle popolazioni di pazienti in trattamento. È quindi altamente probabile che una grande parte dei nostri pazienti presenti questa matrice nella storia evolutiva.
Liotti e Monticelli [26], seguendo Lyons-Ruth et al. [27] concepiscono la disorganizzazione come una frattura, cioè come uno stato soggettivo di angoscia elevata nel dilemma paura-bisogno rispetto alla/alle figure di riferimento: un tipo di angosciata ambivalenza impossibile da sopportare. Gli storici concetti di difesa possono essere riletti come necessità di trovare una via di uscita rispetto a vissuti insopportabili. Lyons-Ruth e altri ricercatori hanno individuato sull’attaccamento due fondamentali strategie per riprendere il controllo, cioè per riorganizzare la disorganizzazione:

Protettiva: il salvatore. Si tratta della classica inversione dei ruoli, il bambino diviene nonno di se stesso ponendosi come genitore del proprio genitore/figura di riferimento. Risulta evidente che il prevalere di questa scelta esistenziale condurrà all’identità (o sottoidentità nei tipici quadri disorganizzati) del tipo parentificato.
Punitiva: il carnefice. Il bambino diviene tirannico/dominante sulla figura di riferimento. Troviamo questa riorganizzazione soprattutto nei quadri border (il vertice “carnefice” del triangolo drammatico), però è possibile sia anche una delle matrici delle personalità antisociali o narcisiste.

A queste due fondamentali strategie Liotti ne aggiunge altre tre:

Sottomissione: la vittima. Il bambino può apprendere che per controllare la figura di riferimento, e quindi renderla meno minacciosa e più prevedibile, funziona il suo mettersi totalmente “ai suoi ordini” in uno stato di totale compiacenza/assoggettamento. Questa idea mi ha molto colpito perché risolve una grossa contraddizione che mi aveva tormentato nella descrizione del tipo “dipendente-simbiotico”.
Infatti l’esperienza clinica molto spesso non confermava affatto la presenza di un contesto di apprendimento iper-protettivo, al contrario incontravamo storie di gravi carenze al limite con il maltrattamento; parallelamente, nella letteratura troviamo anche il riferimento alla genitorialità di tipo autoritario. Posso così ipotizzare l’esistenza di due tipi di personalità dipendenti, così diversi tra loro da far seriamente dubitare della sensatezza di conservare un identico termine. Infatti questo bambino sottomesso sembrerebbe meglio rimandare alla genesi di un tratto masochista o passivo aggressivo, cioè appunto ad un’identità basata sulla sottomissione alla volontà della figura di riferimento. Dobbiamo quindi ben distinguere tra l’incapacità a pensare e fare da solo sulla base di una infantilizzazione provocata da un accudimento ansiosamente iperprotettivo e la medesima incapacità costruita sulla base della strategia di sottomissione ad un riferimento inattendibile/minaccioso.
Seduttiva: il manipolatore. Arriviamo qui su un terreno classico della storia della psicoterapia: le famose isteriche di Freud oggi ribattezzate istrioniche: bambine spaventate dal non essere viste che cercano di esistere con attive strategie di ipercoinvolgimento della figura di riferimento (usando appunto la seduzione ma anche il malessere e la malattia). Ben mi guardo dal negare che queste bambine siano, in molti casi, soprattutto vittime di abusi, tuttavia l’idea di questo tipo di riorganizzazione ci aiuta ad ipotizzare una loro parte attiva, appunto sul terreno specifico della ricerca dell’attenzione.
Autarchica: l’autosufficiente. Quella che Liotti definisce lo «staccare la spina dell’attaccamento», cioè gli attaccamenti fortemente evitanti che rimandano al retroterra delle personalità ossessive, schizoidi o paranoidi ma che incontriamo spesso come instabilmente presenti nei quadri border e psicotici: se la mia figura di riferimento mi fa paura la cancello, ne farò a meno. È ovvio il collegamento tra queste strategie e molti disturbi della fiducia nell’altro.
Questo semplice modello di cinque tipi di riorganizzazione mi pare clinicamente assai utile, innanzitutto per rifondare su basi più etologiche il classico concetto di difesa. Inoltre, ci aiuta a vedere in una luce più chiara i possibili percorsi evolutivi che portano ai diversi tipi di personalità.
IL CONCETTO DI DIFESA
Per combattere l’ostilità dei familiari, dare a comportamenti sgradevoli del paziente il senso di una difesa dalla sofferenza è molto utile ed efficace. Ad esempio, il bambino/adolescente tirannico può essere visto come un piccolo spaventato che ha imparato a cancellare le sue paure facendo il cattivo, il duro, il prepotente (la riorganizzazione punitiva). Conoscere la vasta letteratura psicodinamica sui vari tipi e livelli di difese è quindi certamente utile, tuttavia si deve tener conto che quella tradizione si è sviluppata dentro un modello di sistema motivazionale di tipo pulsionale. Questo ci richiede una traduzione/trasposizione di quei concetti e di quei linguaggi nei sistemi motivazionali della teoria dell’attaccamento (attaccamento/accudimento, competizione, corteggiamento, esplorazione, cooperazione) [24].
Come per tutti i tipi di personalità, anche queste cinque riorganizzazioni (che ai tipi di personalità si sovrappongono come spiegazione della genesi del difetto evolutivo) difficilmente verranno incontrate nella pratica clinica in una forma pura di prototipo. Sono molto più comuni le forme miste in cui i pazienti oscillano tra due tipi di riorganizzazione. Ad esempio Federica, un’anoressica bulimica, passa bruscamente dalla totale autarchia “attaccamento cancellato” alla totale sottomissione quando entra in una relazione affettiva; oppure Veronica, una giovane fortemente obesa, che presenta una depressione, un blocco di tutta la sua vita, oscilla tra tirannia e sottomissione in tutte le sue relazioni fondamentali.
MATRICE DI PERSONALITÀ EVITANTE ED AMBIVALENTE
Per usare la diagnosi di personalità come guida della nostra presa in carico è opportuno partire dal livello di classificazione più semplice per poi via via, nel corso del trattamento, renderlo più complesso e specifico.
Voglio quindi ribadire e spiegare meglio che nella prima seduta è utile classificare il nostro paziente rispetto ad una matrice ambivalente piuttosto che evitante. Infatti, questa classificazione rimanda ad un’immediata linea-guida da seguire: il paziente ambivalente richiederà soprattutto guida e contenimento (mastering), quello evitante accoglienza e benevolenza (mirroring). Con il primo è infatti più facile entrare in contatto, ma la relazione terapeutica deve dare da subito una bussola, una direzione. Con i secondi c’è invece da superare una chiusura, una sfiducia di base e l’entrare in contatto è obiettivo fondamentale. Invece, a proposito di pazienti narcisisti e antisociali si fa spesso riferimento al tema della sfida [2], ma qui pare proprio emergere una chiara contraddizione. Ripensando alla nostra esperienza clinica ricostruisco che la sfida si riferisce al contesto della terapia familiare, dove le personalità narcisiste ed antisociali arrivano come familiari cosiddetti “accompagnatori sani” di figli o coniugi pazienti. Metterli in crisi fa parte allora di una fondamentale strategia di tutela del paziente, di attacco alla leadership patologica di certi familiari, all’interno delle classiche strategie sistemiche della “parificazione” delle responsabilità del paziente con quelle degli altri familiari.
Il narcisista può diventare richiedente solo quando ha subìto una seria batosta, l’antisociale quando è in carcere [28], ma anche in questi casi la sfida non è certamente la strategia d’ingresso, quanto piuttosto quella del valorizzare le parti migliori del paziente (connotazione positiva) [29].
Certamente con narcisisti ed antisociali non possiamo nemmeno cadere nel ciclo disfunzionale della sottomissione, permettendo loro di dominarci, tuttavia la dimensione dell’accoglienza e della cooperazione fornirà le linee-guida per la costruzione dell’alleanza terapeutica: specifici aspetti di sfida saranno possibili solo dopo che una relazione positiva si sia consolidata.
È più che probabile che lo stesso classico concetto di “connotazione positiva”, negli anni di Paradosso e contro paradosso [4] sia stato inventato per consentire la costruzione di una relazione terapeutica con pazienti e familiari fortemente evitanti (spesso narcisisti).
CONCLUSIONI
La psicoterapia è attraversata da ideologismi, ricette generiche, psicopedagogismi, che hanno fatto gravi danni con il trasferire idee e tecniche che hanno funzionato con certe famiglie e certi pazienti, su altri, che, essendo molto diversi, non vengono così aiutati.
Abbiamo visto i problemi dell’ideologismo sistemico della depatologizzazione. Rispetto al campo grandissimo delle psicoterapie individuali di bambini, adolescenti e giovani adulti sono ormai più di trent’anni che, ricevendo spesso pazienti gravi pluritrattati, constato i danni dell’ideologismo della separazione/individuazione, ribattezzato, in campo sistemico, dello “svincolo” [30].
Pazienti di area border, che sarebbe molto più giusto chiamare personalità da post-trauma complesso/prolungato perché hanno vissuto esperienze sfavorevoli infantili, avrebbero bisogno “come il pane” della vicinanza di genitori, certo disorientati, ma spesso “sufficientemente buoni”. Invece, come un cuneo maligno, si inserisce l’affiliazione, benintenzionata, ma esiziale, del terapeuta individuale di turno, che impedisce processi di ri-attaccamento e riconciliazione, gettando squalifiche e veleni sui genitori e alimentando fittizie e molto dolorose pseudo-autonomie, che lo lasciano rabbioso, sperduto, con le valigie desolatamente vuote! [31]. A me stesso, ancora recentemente, è capitato di commettere questo errore: puntare troppo sulle risorse, che avevo sopravvalutato, del paziente adolescente e perdere l’alleanza con i genitori, alimentando involontariamente sterili contrapposizioni tra il ragazzo e i suoi genitori.
Pensare la diagnosi di personalità, per poi lentamente dimenticarla durante la specifica conoscenza di quella persona e famiglia, per farsi guidare da altri tipi di diagnosi, è quindi fondamentale per combattere il rischio di trattamenti ideologici e stereotipati, orientati magari più dalle nostre risonanze che dai bisogni delle persone!
Dobbiamo progettare/condurre terapie collaborative partecipate, creative, che siano contemporaneamente uniche, tanto quanto raggruppabili in strategie differenziate.
Ogni professionista, ogni terapeuta deve valorizzare il suo lavoro in uno spirito di ricerca, sentendosi parte di una comunità in grado di confrontarsi seriamente sui risultati delle terapie.
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