Tre conversazioni sulla psicoterapia


Una delle difficoltà più serie per il terapeuta è quella di interpretare un rac-conto. Evidenziando i fatti in linea con la sua ipotesi di lavoro, egli ne trascura al-tri potenzialmente più importanti e, proponendo letture di parte, mortifica la ricchezza dell’esperienza vissuta nelle situazioni interpersonali con cui si confronta. Scopo della rubrica “La pagina letteraria” è quello di fornire proposte di lettura e di riflessione intorno alla possibilità di un racconto esaustivo. Potere del poeta, dello scrittore e dell’artista in genere è quello di costruire, con mezzi apparentemente semplici, una informazione efficace sulle situazioni interpersonali considerate nella loro complessità. Dovere del ricercatore è quello di partire da descrizioni di questo genere, per separare con precisione l’informazione sui fatti dalla teoria che li interpreta.


One of the most difficult tasks for the therapist is to relate a case-story. Stressing facts in line with the working hypothesis, the therapist overlooks other ones potentially more important. By proposing only certain interpretations the therapist damages the wealth of first hand experience coming from interpersonal situations. The section devoted to the literary page aims to provide suggestions and meditations towards the possibility of an exhaustive report. The power of poets, writers and artists in general, apparently using simple tools, cre­ates clear information on interpersonal situations seen in their complexity. The researcher, starting from such descriptions, has to separate precisely information on facts from the theory which explains them.


Una de las mayores dificultades encontradas por el terapeuta es la interpreta-ción del relato. El terapeuta evidenciando solo los hechos que concuerdan con su hipótesis de trabajo, descuida otros potencialmente más importantes. Además proponiendo interpretaciones parciales envilece la riqueza de la experiencia vivida en las situaciones interpersonales con las cuales se confronta. El objetivo de la sección “la página literaria”, es el dar sugerencias y puntos de reflexión sobre cómo obtener en la medida de lo posible, un relato exhaustivo. Poetas, escritores y artistas en general tienen en sus manos el poder de construir con elementos aparentemente simples, una información eficaz sobre situaciones interpersonales observa­das en su globalidad y complejidad, mientras que el investigador tiene el deber de basarse sobre las descripciones para separar con precisión los hechos de la teoría que los interpreta.


Primo commento

di Matteo Selvini1


Mi ha molto fatto pensare la sezione sulla formazione dello psicoterapeuta ed in particolare le affermazioni di Giuseppe Vinci sul fatto che un terzo degli allievi inizi una terapia personale (pag. 104) e che la formazione stessa assomigli sempre di più ad una terapia (pag. 106).
Mara Selvini Palazzoli non fece mai un’analisi personale e/o didattica. Giovane psichiatra iniziò la sua formazione con uno psichiatra e psicoanalista svizzero, Gaetano Benedetti [1], con lunghi e probabilmente assai meditativi viaggi a Basilea. (Mara era del 1916, ed è impressionante – nonché incoraggiante - calcolare oggi che erano poco più che trentenni!). Benedetti, che diventerà poi importante autore nel campo della psicoterapia psicoanalitica individuale degli schizofrenici, sconsigliò caldamente Mara dall’avvicinarsi alla Società psicoanalitica di Milano, erano gli anni Cinquanta, quelli di Cesare Musatti e Franco Fornari. Sosteneva che tutta quell’impalcatura dogmatica avrebbe rovinato la sua creatività. E i fatti sembrerebbero avergli dato ragione. Fu così che Mara propose ai suoi allievi/collaboratori lo stesso modello di lavoro in équipe e supervisione reciproca che lei per prima aveva incarnato. Così nemmeno io ho mai fatto una terapia personale [2]. Tuttavia, quando nel 1992 con Stefano Cirillo e Anna Maria Sorrentino progettammo una scuola di psicoterapia [3,4] decidemmo che il nostro modello non poteva essere riproposto agli allievi, probabilmente perché avevamo vissuto sulla nostra pelle i pessimi risultati dell’assenza di formazione personale nei training gestiti da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin.
La matrice storica della formazione del Centro Studi, così come dell’Accademia di Andolfi ed altri filoni sistemici, è molto diversa perché, come è stato per Luigi Cancrini, molti direttori e fondatori di scuole sistemiche hanno fatto importanti analisi personali. Una simile “ibridazione” è stata storicamente soprattutto un fattore di ricchezza clinica e teorica, ma oggi è sbagliato riproporre tale modello: niente psicoanalisi per gli allievi delle scuole sistemiche! Infatti, se nell’epoca pionieristica servivano idee sul funzionamento individuale, per contrastare le molte assurdità dei vari purismi sistemici, seconde cibernetiche e costruttivismi post-moderni, oggi non è più necessario perché in questi quarant’anni i formatori sistemici, che purtroppo tendono a rimanere sempre gli stessi (ma questa è un’altra storia…) sono cresciuti e hanno imparato un pensiero molto più integrativo e complesso. Per questo il problema attuale credo sia quello di selezionare/formare dei bravi terapeuti sistemici che sappiano aiutare gli allievi in difficoltà con un approccio coerente con quello che viene proposto nella formazione. Ormai moltissime volte ho constatato quanto fossero in difficoltà allieve della scuola in terapia con psicoanalisti (o anche sistemici della vecchia scuola): pietra dello scandalo soprattutto l’assenza dell’esperienza degli allargamenti ai familiari significativi [5] vissuta come un serio limite della propria terapia tutta e solo individuale.
BIBLIOGRAFIA
1. Benedetti G. La psicoterapia come sfida esistenziale. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1997.
2. Selvini M. Un’esperienza multifamiliare per la maturazione di terapeuti esperti. In: Canevaro A, Ackermans A (a cura di). La nascita di un terapeuta sistemico. Roma: Borla, 2013.
3. Cirillo S, Selvini M, Sorrentino AM. Il genogramma. Percorso di autoconoscenza, integrato nella formazione di base dello psicoterapeuta. Terapia familiare 2011; 97.
4. Cirillo S, Selvini M, Sorrentino AM. Il coinvolgimento delle famiglie di origine nel percorso di formazione alla psicoterapia della Scuola Mara Selvini. In: Canevaro A, Ackermans A (a cura di). La nascita di un terapeuta sistemico. Roma: Borla, 2013.
5. Canevaro A. Quando volano i cormorani. Roma: Borla, 2009.


Secondo commento

di Gianmarco Manfrida1

Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente.
Dagli Epigrammi, Giuseppe Giusti (1809-1850)


Non è certo facile scrivere all’altezza del requisito richiesto da Giusti [1], ma… che senso ha altrimenti? Non è detto che l’autore possa garantire il risultato, ma almeno dovrebbe avere l’intenzione, secondo me, di esprimersi per cambiare il mondo attraverso gli altri, tanti o pochi che siano i suoi lettori. È innegabile che questo libro di Luigi Cancrini e Giuseppe Vinci su che cos’è la psicoterapia sia tra quelli che Giusti avrebbe apprezzato; dice molto a noi che conosciamo gli autori e che condividiamo con loro l’idea e la passione per questo modo di vedere la nostra attività, figuriamoci quanto può dire a chi giunge all’argomento impreparato. Per me tanti anni fa fu una rivelazione un piccolissimo libro di Cancrini, Guida alla psicoterapia[2]… al di là di quel che c’era scritto contavano le idee che mi faceva venire, la spinta che sentivo a pensare oltre, per conto mio. Forse, in fondo, ogni libro significativo per qualcuno di noi contiene qualità psicoterapeutiche, intese, come fanno gli autori, come arte della liberazione, come contatto forte e attivazione di risorse, ed è questo anche il significato dell’epigramma del Giusti.
Sappiamo benissimo che non sono spunti a pensare in modo autonomo che gli allievi ricercano all’inizio della formazione, quanto piuttosto indicazioni tecniche elementari, guide pratiche, esercizi da riprodurre per dare e avere la sensazione, magari fondata, che in quell’ora di incontro con il paziente si è effettivamente fatta psicoterapia. Molti medici, come Vinci spesso ripete nel testo, danno medicine in modo eccessivo e incongruo perché è quello che è stato loro insegnato a fare… molti psicologi, che non hanno un’identità professionale assicurata dalla prescrizione farmacologica, utilizzano invece un linguaggio “psicologhese” fondato su parole estranee all’uso comune, ascoltano con rassicurante interesse e usano se stessi come antidepressivi o ansiolitici o placebo. Tanto più quanto più sono insicuri delle loro capacità e timorosi di un insuccesso… con il rischio di una cronicizzazione o di una perdita di fiducia del paziente nell’intervento psicoterapeutico. Il medico può ascoltare per poco tempo il paziente, lo psicologo può ascoltarlo troppo a lungo… ambedue così facendo mostrano, come dicono del resto anche Cancrini e Vinci, il timore del rapporto con l’altro, che inevitabilmente costringe a guardare se stessi senza filtri professionali protettivi. Se la realtà condivisa è frutto di una definizione sociale, il paziente che fa il bravo, parla solo di sintomi e di malattie e segue scrupolosamente (o almeno così lascia intendere…) le prescrizioni mediche e psicologiche non fa altro che confermare l’identità competente e/o benevola del medico o dello psicoterapeuta, che può uscire dalla visita molto rassicurato e meno ansioso! Si può creare un circuito relazionale in cui paziente/i e curanti passano il tempo a confermarsi identità professionali, sociali, familiari e personali piuttosto che a cambiarle, che si usino o no i farmaci. Le tecniche di lavoro psicoterapeutico possono trasformarsi in strumenti di stabilizzazione e di conferma non meno dei farmaci…
Per questo il lavoro dello psicoterapeuta non può prescindere da quella componente etica, da quell’altruismo, da quella disponibilità al dubbio, da quella insoddisfazione per le spiegazioni scontate e tautologiche a cui Cancrini e Vinci richiamano costantemente. Parlano anche di psicoterapia dura, di fermezza necessaria per dire anche quello che si pensa non sarà gradito… tirando in ballo un argomento a me caro e capace invece di suscitare molta diffidenza, come quello del coraggio necessario per fare lo psicoterapeuta. L’aspetto confortante, catartico, forse di derivazione ecclesiastica, del rapporto psicoterapeutico ha infatti messo in ombra troppo spesso nella letteratura specifica una qualità come il coraggio richiesta dalla assunzione di responsabilità per la vita altrui. Si è responsabili per quel che si fa, ma anche per quel che non si fa, e un terapeuta, ad esempio, deve decidere con coraggio quando è il caso di consolare e aiutare a sopportare e quando di esporre dubbi a favore di un cambiamento. Molti pazienti raccontano di aver svolto anni di terapia prima di arrivare da noi, senza soddisfazione… e se si chiede loro perché questa insoddisfazione non l’hanno affrontata con il loro terapeuta precedente rispondono che era così accogliente e consolante e che quando tornavano a casa piangevano un poco e poi per 24 ore si sentivano meglio. È una spiegazione valida e frequente per aver rinviato un problema per anni e anni, ma il terapeuta non è stato connivente con questo rinvio, fino al punto che magari ora cambiare strada è diventato troppo difficile? E non ha fatto credere che la psicoterapia fosse tutta lì, in un ascolto consolatorio e in una assoluzione? Non avrà tratto da questo rapporto terapeutico una conferma della propria identità di benevolo, competente e affezionato professionista dell’aiuto interpersonale? Ci vuole coraggio per non nascondersi quando ci sarebbe più utile e facile, per esprimere i nostri dubbi quando si sa che non saranno graditi, per dare la scelta alle persone tra sopportare e cambiare invece che illuderle che stanno facendo l’unica cosa, l’unica psicoterapia possibile… il coraggio della responsabilità. Ma per fare lo psicoterapeuta, ci vuole fede nel determinismo e passione per la dignità umana che viene dalla assunzione di responsabilità per se stessi e per gli altri; non con queste parole, ma Cancrini e Vinci lo dicono, e per fortuna non sono i soli.
L’intero ultimo numero dello Psychotherapy Networker è dedicato a una revisione dell’impatto delle neuroscienze sulla pratica clinica psicoterapeutica: la conclusione dei diversi autori è che se anche si inizia a capire un poco meglio il funzionamento del cervello le ricadute in termini di indicazioni psicoterapeutiche sono nulle. Sapere che determinate aree e certi mediatori hanno a che fare con la paura dei cambiamenti non aiuta affatto a cambiare... Per questo invece B. Ecker, R. Ticic, L Hulley [3], C. Armstrong [4], S. Andreas [5] indicano la psicoterapia, intesa in modo simile a Cancrini e Vinci, come la strada migliore, con tutte le sue componenti di saggezza umana, di ricerca inesausta di significato, di responsabilità e di coraggio. Nonostante la difficoltà dei tempi e la crisi mondiale politica, sociale, economica e morale, anzi, proprio per questi motivi, forse si profilano ora le avvisaglie di un cambiamento non solo della psicoterapia, ma anche della società in un senso più relazionale… di una nuova realtà condivisa in cui essere tutti un po’ più psicoterapeuti e soprattutto più dignitosamente esseri umani.
BIBLIOGRAFIA
1. Giusti G. Opere (a cura di N. Sabatucci). Milano: UTET, 1976.
2. Cancrini L. Guida alla psicoterapia. Roma: Editori Riuniti, 1982.
3. Ecker B, Ticic R, Hulley L. Unlocking the emotional brain: Is memory reconsolidation the key to transformation? Psychotherapy Networker 2013; July/August.
4. Armstrong C. Creating adventure and play in therapy. Psychotherapy Networker 2013; July/August.
5. Andreas S. Therapy isnt’t brain science. Psychotherapy Networker 2013; July/August.



Terzo commento

di Mauro Squeo1


È come entrare in una stanza col camino acceso dove due amici stanno piacevolmente conversando. Questa è la sensazione prevalente che la lettura di Conversazioni sulla psicoterapia evoca. Una lettura gradevole con un bel ritmo leggero, mai greve, anche affrontando temi seri. Si legge molto volentieri, perché, oltre a ragionare di psicoterapia, incrocia, catturando l’attenzione, argomenti complessi della vita, individuale e collettiva. Li organizza in una visione organica, e tendenzialmente armonica, integrando, in maniera persuasiva, concetti, solo apparentemente distanti dalla psicoterapia, ma fondamentali per lo stare insieme, per la società. L’etica, i diritti, la giustizia, l’antiautoritarismo, la libertà; solo per citarne alcuni. La prospettiva nella quale, in questo modo, viene inquadrata la psicoterapia, e lo psicoterapeuta, è giustamente quella di una insolubile continuità tra ciò che avviene nella stanza di terapia e il suo modo di stare al mondo. Che deve essere complessivamente coerente, per non compromettere ogni sua credibilità.
Un altro versante dell’etica è quello del dubbio. Il dubbio che sostiene sempre la tensione positiva verso la ricerca di altre strade, altre possibilità. Rispettando profondamente le persone e la complessità della vita. Una linea di pensiero che, quando innerva positivamente anche altri ambiti cruciali della vita collettiva, dalla politica al diritto, riduce drasticamente il rischio di cieche generalizzazioni o forzature ad personam, umanizzando gli interventi e avvicinandosi al miglior punto di equilibrio tra le esigenze collettive e la specificità della vita degli individui.
Il dubbio, inoltre, non ancorandosi a fissità, a certezze, alimenta la creatività e l’immaginazione. Quando non si blocca in un impasse paralizzante, il dubbio induce spostamenti, riconnessioni, riarticolazioni dei pensieri. Uno scarto nel quale trovano spazio tante “invenzioni” originali in psicoterapia. Haley, Erickson, Minuchin, Caillé ne sono testimonianze.
Tra i tanti stimoli del libro, un argomento sul quale vorrei proporre due considerazioni, è il rapporto tra psicofarmaci e psicoterapia La prima, riguarda l’ imponente tentativo, sostenuto dalle case farmaceutiche, con campagne milionarie e spesso menzognere, di egemonia culturale dei farmaci. Tentativo realizzato sfruttando l’onda lunga della grande speranza (illusione?) suscitata negli anni Sessanta dall’avvento degli psicofarmaci. Progressivamente, tuttavia, mi sembra che si stia facendo strada un atteggiamento più riflessivo e critico, in linea con le posizioni citate di Garattini. Atteggiamento che va appoggiato e diffuso con convinzione, nella direzione di un uso razionale e ponderato dei farmaci, integrato ed al servizio di un approccio psicoterapico. Non trascurando di segnalare un possibile nuovo inganno, insito nell’idea montante che la mancata realizzazione delle aspettative sia dovuta essenzialmente “solo” al cattivo impiego degli psicofarmaci. E nello spostamento, quindi, delle aspettative sui risultati delle neuroscienze e sulla scoperta di nuove molecole altamente precise ed “intelligenti”. Scenario che evidentemente continuerebbe ad eludere, più o meno colpevolmente, il nodo già messo in evidenza da Damasio nel 1994: «Non basta infatti aver scoperto le sostanze chimiche coinvolte per spiegare quel che sentiamo. Sapere che una sostanza provoca un certo sentimento agendo in certi circuiti o recettori non spiega perché ci sentiamo tristi o felici» [1].
La seconda considerazione riguarda il riconoscimento del farmaco in quanto oggetto simbolico e complesso nel quale si intrecciano fili diversi, e che probabilmente attinge ad un livello mitico che interseca le origini stesse della storia dell’uomo. Eccone un esempio in un mito appartenente ad un gruppo etnico tibetano: la popolazione del Na-khi, che racconta dell’origine dell’uomo e dei medicamenti: «Nel tempo in cui il cielo, le stelle, il sole, la luna e i pianeti comparvero e in cui comparve la terra, allora nacque Ts’o-Dze-P’er-Ddu, eroe primordiale, che, assente per tre giorni da casa trova al suo rientro i genitori morti. Decide allora di partire alla ricerca di un medicamento che impedisca la morte e se ne va nel paese del Capo degli Spiriti. Dopo molte avventure ruba i medicamenti miracolosi ma, inseguito dallo Spirito, cade a terra e i medicamenti si disperdono, dando origine alle piante medicinali» [2].
Strettamente correlati al farmaco (pharmakon) ci sono, inoltre, aspetti di ambivalenza e duplicità. Basterebbe citare il mito greco relativo all’origine della medicina. Laddove le arti terapeutiche di Esculapio, affidate al centauro Chirone, hanno avuto origine dal dono di Atena, il sangue della Gorgona, quintessenza della duplicità: quello colato dalle vene di sinistra possiede infatti il potere di un potente veleno, mentre quello raccolto dal braccio destro contiene un potere altamente benefico e terapeutico [3]. L’ambivalenza semantica del pharmakon, medicamento giovevole e malefico, significato che “fluttua” tra medicina che guarisce e veleno che uccide, ci aiuta a comprendere a livello clinico l’ambivalenza intrinseca del farmaco, e l’impossibilità di ridurlo ad una semplice sostanza chimica che possa operare obiettivamente e asetticamente. Esso diventa uno strumento terapeutico “vissuto” che può, a seconda dei casi e delle circostanze, essere desiderabile, affidabile o diffidabile. Sempre inserito nel contesto di una relazione terapeutica e mai indipendente da colui che lo riceve e da chi lo somministra.
Da un lato, quindi, si può ipotizzare la connaturata tensione umana alla ricerca di un rimedio salvifico, dall’altra si può, si deve, scommettere sulla possibilità di inscrivere il farmaco all’interno di una strategia psicoterapeutica nella quale tener conto sia degli aspetti simbolici specifici per il paziente, sia dello “stile” prescrittivo, delle motivazioni e delle aspettative, consce ed inconsce, del medico prescrittore. Oltre che dell’ambiente circostante, comprendente sia la dimensione familiare che quella più vasta culturale. E senza, tuttavia, rinunciare a mettere il paziente di fronte alle sue responsabilità. Responsabilità di effettuare scelte che contribuiscano ai cambiamenti emancipativi che, venendo in terapia, chiede di voler introdurre nella sua vita. Pur riconoscendogli, infatti, una parte fragile, debole, per la quale si ricorre anche all’aiuto del farmaco, del paziente resta intatta e va messa al centro, considerandola l’interlocutrice principale della terapia, una parte sana e responsabile. Con la quale costruire insieme le ipotesi di cambiamento e di rilettura nuova e più consapevole della sua storia.
A cosa intendo riferirmi parlando di parte fragile, debole del paziente? Mi riferisco alla parte del paziente che oggettivamente è difficile tenere sotto controllo senza un aiuto farmacologico. Per esempio, le crisi di panico di una nevrosi, l’eccesso di impulsività tipico di alcuni disturbi border, le manifestazioni allucinatorie di alcuni quadri psicotici. Tutte situazioni che non escludono, tuttavia, un’assunzione di responsabilità, che deve risultare evidente anche nella gestione e nelle dinamiche delle crisi, opportunamente analizzate in seduta, di un paziente che vuole farsi carico della sua cura e del cambiamento.
Poi, Conversazioni sulla psicoterapia si legge anche volentieri per la schiettezza e la levità garbata con le quali interloquiscono i due autori, “intorno al caminetto”. Promana dalle sue pagine tutta l’affettuosità che circola nel rapporto tra l’“allievo” Vinci e il mentore di tanti di noi, Cancrini. Un esempio, sì, di scambio culturale, ma soprattutto di intensa umanità tra due persone che sembrano contente di essersi incontrate, in quel momento e nella vita. E che, con generosità e naturalezza, mettono a valor comune questa esperienza di arricchimento. È una bella immagine. Di quelle che rincuorano.
Un ultimo punto vorrei toccare. Riguarda il tentativo, riuscito, di proporre il “bene” insito nella psicoterapia con umiltà, senza nessuna spocchia. Credo che questo sia un passaggio decisivo, per noi (mi ci inglobo nel mio piccolo) politicamente impegnati, militanti. Più o meno sempre tentati da un’ idea di superiorità morale del nostro modo di essere. E quindi sempre a rischio di mandare un messaggio un po’ giudicante agli altri. Mi viene in mente la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij. Laddove viene sviluppata la riflessione sui confini spesso molto sfumati ed incerti tra il bene e il male, ed il fatto che, nella zona grigia della limitatezza e della fragilità, si colloca la grande maggioranza delle vicende degli uomini. Uomini sui quali Conversazioni sulla psicoterapia mantiene sempre uno sguardo di curiosità e di comprensione per gli inciampi dolorosi che accadono nelle loro vite. Con l’equilibrio di chi riesce a tenere insieme la fedeltà ai propri principi con la capacità di esercitare flessibilità e autocritica.
Grazie per averlo scritto.
BIBLIOGRAFIA
1. Damasio A. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi Edizioni, 1995.
2. Rock (1952). Citato in Nielsen NP. Pillole o parole. Roma: Raffaello Cortina Editore, 1998.
3. Grimal (1979). Citato in Nielsen NP. Pillole o parole. Roma: Raffaello Cortina Editore, 1998.