(Dis)amore
Pierluigi Nicoletti1


Portiamo avanti con la storia raccontata da Pierluigi Nicoletti la sezione dedicata alla migliore delle storie cliniche preparate per l’esame di fine training dagli allievi del Centro Studi. Un gruppo di didatti ha verificato, in un lavoro precedente pubblicato su “Ecologia della mente”, la validità terapeutica di questi interventi.


With the history by Pierluigi Nicoletti we continue the section devoted to the best clinical case prepared for the final examination by the students of the Centre. A group of teachers has verified, in a previous work published in “Ecologia della mente”, the validity of these interventions.


En esta sección dedicada a la mejor de las historias clínicas estudiadas para el examen de final de training de los alumnos del Centro Estudios, presentamos la historia escrita por Pierluigi Nicoletti. Un grupo de autodidactas evalúan la efica­cia y validez de estas acciones terapéuticas ya publicadas anteriormente en “Ecologia della mente”.



Riassunto. Il lavoro ripercorre le tappe di una psicoterapia di coppia condotta secondo il protocollo di Philippe Caillé. Il racconto della storia di Daniela e Olivia è il racconto di una rottura amorosa appassionata quanto una storia d’amore. Le sculture fenomenologiche e mitiche, attraverso immagini e senza parole, hanno permesso di rappresentare il problema della coppia e la sua unicità, come ognuna delle due partner li vedeva. Sovrapporre i due punti di vista ha permesso di svelare l’intreccio della coppia. All’interno del loro percorso terapeutico, Daniela e Olivia hanno scoperto la possibilità di concepirsi, di narrarsi e rinarrarsi in forme flessibili, evolutive. La fine del loro amore, benché le abbia fatte soffrire, ha rappresentato l’opportunità di esplorare le proprie zone d’ombra e di mettere a punto le distanze e ridisegnare i confini di un rapporto che era cambiato insieme a loro. La tensione fra le due donne sembrava a tratti poter contagiare anche la mia relazione e l’altra terapia, quella che mi vedeva come paziente e, soprattutto, come uno dei partner della coppia. La supervisione ha accolto le mie emozioni di giovane terapeuta e ha offerto spunti di pensiero creativo.

Parole chiave. Psicoterapia di coppia, protocollo di Caillé, sculture fenomenologiche e mitiche, confini, controtransfert, supervisione.


Summary. (Dis)love.
The work goes over the steps of a couples psychotherapy according to Philippe Caillé’s protocol. Daniela and Olivia’s story tells both a passionate, loving breaking off and a love story. Phenomenological and mythical sculptures, by images and with no words, allowed to portray the couple’s problem and its uniqueness, as each of the two partners saw them. Overlapping the two views let the plot unravel. Through their psychotherapy Daniela and Olivia discovered they could conceive and tell about themselves again and again, in flexible evolving forms. The end of their love, though painful, gave them the opportunity to explore their inner dark sides, to set the distances and reshape the boundaries of a relationship which had changed along. At times, it seemed the tension between the two women could also infect my own relationship and the other therapy, where I was the patient and, above all, one of the two partners. The supervision housed my emotions as a young therapist and offered hints of creative thinking.

Key words. Couples psychotherapy, Caillé’s protocol, phenomenological and mythical sculptures, boundaries, controtransfert, supervision.
Resumen. (Des)amor.
El trabajo realizado atraviesa las fases de una psicoterapía de pareja llevada a cabo según el protocollo de Philippe Caillé. El relato de la historia de Daniela y Olivia es el relato de la historia de una ruptura amorosa apasionada y a la vez una historia de amor. Las esculturas fenomenológicas y míticas, a través de imagenes sin palabras, han permitido representar el problema de pareja y su unicidad, según cada componente de la pareja. Sobreponer los dos puntos de vista ha permitido descubrir la trama de la pareja. A través del proceso terapeútico, Daniela y Olivia han descubierto la posibilidad de concebirse, de narrarse y renarrarse de manera flexible y madura. El final de su historia de amor, a pesar del dolor, ha representado una oportunidad para explorar las propias sombras, marcar las adecuadas distancias y redefinir los confines de una relación que había cambiado al mismo tiempo que ellas cambiaban. La tensión entre las dos mujeres parecía a veces poder contagiar tanto mi relación personal de pareja como otra terapía, aquella en la que yo era el paciente y, sobretodo, un miembro de la pareja. La supervisión terapeútica ha sostenido las emociones de un joven terapeuta y me ha dado ispiración de pensamiento creativo.

Palabras clave. Psicoterapía de pareja, protocolo de Caillé, esculturas fenomenológicas y míticas, confines, contratransfert, supervisión terapeútica.

«Dormiva con le labbra aperte.
Avrei voluto mettere l’orecchio sul suo fiato per ascoltarlo.
Non c’era solo fiato in quel sonno, ci dovevano essere parole.
Avrei voluto mettere il naso su quel fiato, fiutarlo dal fondo del petto.
Non avrei voluto mettere la mia bocca sul suo fiato:
la mia bocca non avrebbe capito nulla di quello che esalava dalla sua,
avrebbe solo succhiato alla cieca, da ladra spudorata di aria del suo respiro»
Erri De Luca, Tu, mio

«Uno si congeda, insensibilmente, da piccole cose
proprio come un albero in tempo d’autunno muore nelle sue foglie.
Alla fine la tristezza è la morte lenta delle cose semplici,
cose che restano dolenti dentro al cuore»
César Isella, Canción de las simplas cosas
PREMESSA
«Avevo fatto riempire un flacone di acido cloridrico che tenevo sempre a portata di mano, con l’idea di mirare agli occhi e scappare. Mi sentivo stranamente calmo da quando mi ero procurato quel liquido ambrato e corrosivo, che rendeva piccanti le mie ore e affilava i miei pensieri. Marie si chiedeva, con una preoccupazione forse giustificata, se non sarebbe finito nei miei di occhi, quell’acido, nel mio stesso sguardo. O sulla sua di faccia, sul suo volto in lacrime da tante settimane. No, non credo, Marie, e con la mano, senza distogliere lo sguardo da lei, accarezzavo lentamente il profilo del flacone nella tasca della giacca» [1].
Così comincia il romanzo di Toussaint. E così comincia il racconto della storia di Daniela e Olivia, il racconto di una rottura amorosa appassionata quanto una storia d’amore. Daniela aveva pregato la compagna di accompagnarla in terapia, perché diventasse il luogo della loro separazione. Olivia le aveva chiesto, e le sue lacrime erano state insaziabili, se fosse davvero la soluzione migliore, quella di “viaggiare” ancora una volta insieme, se era solo per rompere. “Probabilmente sì” – aveva risposto d’un fiato Daniela. Perché se la vicinanza le straziava, l’allontanamento avrebbe potuto, invece, riavvicinarle. Le due ragazze erano, in effetti, così fragili e disorientate che l’assenza dell’altra sembrava la sola cosa che le potesse ancora riunire, mentre la sua presenza accanto, al contrario, non poteva che accelerare lo strappo in corso e sigillare la rottura.
Mentre si snodano i giorni dell’abbandono, Daniela e Olivia percorrono a ritroso le tappe della loro storia d’amore: la gioia dell’innamoramento, la terribile paura di lasciarsi andare, la lacerante separazione. Comincia così un percorso sentimentale di elaborazione e rinascita. Ma il ricordo di quello che è stato, e soprattutto il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere, non rendono facile ricominciare a vivere. Olivia si sentiva stupida e debole perché era in costante attesa, perché sentiva che poteva stare bene o male come sempre ma che non dipendeva affatto da lei, perché voleva stare tutto il giorno a guardare la sua donna, voleva baciarla come la prima volta che l’aveva vista entrare alla tavola calda. Daniela, invece, sentiva il bisogno di non guardarla, di non parlarle… Col tempo tutto le era sembrato più chiaro, non era altro che una recita, «un continuo rimandare altrove il dolore che ci prende ogni volta che ci accorgiamo che c’è qualcuno che stravolge completamente la tua vita e allora ti inventi delle cose per tenere occupato il tempo, per non accorgerti del tempo, per non sentire il rumore del cuore che diventa sempre più forte e che dice sentimi, adesso esisti, adesso esisti e tu cerchi di impazzire, di non capire più nulla, di capire tutto quello che non c’entra nulla…» [2].
La storia di Daniela e Olivia rappresenta la prima terapia di coppia che ho svolto in supervisione indiretta. Ma non ho scelto di raccontarla per questo. O per lo meno, non solo. “Quella storia non c’entra un tubo con la tua, non c’entra niente. Quelle sono due lesbiche, cosa c’entrano con te?” – mi aveva chiesto l’ottimo collega-amico. Si sbagliava. C’era, inoltre, da chiedersi «se anormale o anomalo sia il desiderio che si indirizza verso l’identico (l’omo) e non, piuttosto o altrettanto, quello che si indirizza verso il diverso (l’etero). E cosa, comunque, faccia di un individuo un simile o un diverso per l’altro individuo» [3].
In realtà, ho scelto la storia di Daniela e Olivia anche perché la tensione fra le due donne sembrava poter contagiare la mia vita e penetrarmi nelle ossa più forte di un’ubriacatura, perché l’alcol dopo un po’ ti lascia in pace e tutto ritorna come prima. Al contrario di Olivia, il giorno in cui la mia metà della mela – e io odio le mele – aveva accettato di accompagnarmi in terapia, non ero consapevole di quelle che sarebbero state le nostre posizioni durante il viaggio. Solo a metà del percorso ho capito che era pronta a bruciare le nostre ultime riserve d’amore. Mi sembrava un conto alla rovescia segreto, che solo nei momenti più strani della vita si può sentire, una guerra per continuare a restare affacciati sullo strapiombo delle cose che diventano sempre più piccole, e lontane. Ma anche noi eravamo come Daniela e Olivia. Eravamo come dentro un piccolo cerchio magico, in balia di un incantesimo che ci faceva sentire vicini ma era facile da sciogliere per sempre. Tutto andava a pezzi e nessuno di noi riusciva a capire che il cuore batteva così forte ogni volta che pensavamo a chi avremmo voluto che fosse con noi e che aveva cambiato, per sempre, le nostre vite. Il rumore del cuore che non capiva più nulla, che si arrampicava in tutte le direzioni e non arrestava la corsa.
Così, mettere insieme i pezzi della storia di Olivia e Daniela non è stato per niente facile… ma una storia la dovevo raccontare. «Questa. Quella che avrei dovuto, voluto dimenticare. L’avrei dovuta ricordare con la massima chiarezza. Nei dettagli. Perché era stata. Perché era una storia. Le storie vengono da un luogo lontano dove siamo già stati. Forse non noi. Forse non esattamente noi. Racconti di prove. Di madri. Di padri. Inizi e morte. E poi di nuovo l’inizio. Come si esce dal fuoco. Come si attraversano le fiamme. Come oltre il fuoco ci sia un’altra luce. Come dietro ogni perdita ci sia una rinascita. Come il mondo continui ad apparirci bello e completamente incomprensibile. Mentre scrivo queste parole. Mentre qualcuno legge» [4].
La mia vita stava deragliando in una fantasia continua e le nostre emozioni sembravano binari che scorrono dappertutto senza incrociarsi mai. Emozioni che riportano non solo ai momenti vissuti nel corso della terapia, – “Quale terapia? La mia? Quella di Olivia e Daniela? Entrambe?” –, ma anche alla preparazione e alla presentazione dei casi, al nuovo supervisore e al nuovo gruppo. Perché all’inizio del quarto anno di training, i gruppi precedenti si rimescolano e subentra un nuovo didatta. Bisogna rimettersi in gioco, provare a costruire nuovi legami, elaborare il vissuto di perdita e il confronto con il gruppo precedente. “Fortuna” che, come nella linea di un cerchio che si chiude, Sara e Elena sono ancora con me e “zio Nanni” e gli altri “efelanti” – Massimiliano, Simona, Dora e Sabina – barriscono insieme a me da altri luoghi che continueranno ad esserci sempre… i luoghi in cui noi tutti prendiamo coscienza del limite e dell’orizzonte…
Nell’arco dei cinque anni, la supervisione indiretta viene ad essere il complemento di una sorta di ciclo vitale di formazione. Durante i primi tre anni, i movimenti dell’allievo possono essere paragonati a quelli del giovane adulto: egli conduce la terapia con un’autonomia crescente ma parziale, sotto la supervisione attenta e costante del proprio terapeuta/genitore dal quale, progressivamente, si allontana per farvi ciclicamente ritorno. Nel corso del biennio finale ci si prepara, inevitabilmente, alla fine del training con la “presunzione” che l’allievo, ormai in fase di svincolo avviata, sia in grado, in modo adulto, di procedere da solo e di confrontarsi con il sistema familiare. «La stanza all’inizio ci protegge, ci accoglie, ci preserva, ci fa sentire al sicuro, ci trattiene nell’illusione di essere immuni. Poi la stanza reprime, troppe esigenze compresse in poco spazio, la stanza non può contenerle. Allora sono costrette ad uscire verso la strada. La strada come guadagno, come uscita da sé» [5].
Solo, senza più la presenza del didatta dietro lo specchio, l’allievo si ritrova, quindi, più esposto all’eco delle proprie emozioni, alle proprie “risonanze”, al timore di non essere all’altezza, alla paura del giudizio, al desiderio di approvazione da parte del nuovo didatta e del nuovo gruppo, all’angoscia di essere “fermato”. Nel percorso formativo del training, la fase di supervisione indiretta presta, dunque, particolare attenzione all’analisi «[…] delle specifiche modalità relazionali e delle risposte emotive dell’allievo con il sistema terapeutico e permette di evidenziare la sua capacità, non solo di organizzare il processo terapeutico ma anche di governare il proprio mondo interno, il proprio Sé in terapia, in modo progressivamente più autonomo. Il lavoro centrato sulla persona del terapeuta, quindi, costituisce un filo progressivo e continuo che attraversa e permea tutto il percorso formativo […]» [6].
Spesso, inoltre, si deve attendere un po’ prima di ripresentare il proprio caso, rispettando le esigenze dei colleghi che sono nella stessa situazione. Gli incontri con il cliente/paziente, tuttavia, non possono fermarsi; ci si trova di fronte alla situazione di dover in ogni modo procedere con la terapia. Attraverso l’adozione di una diversa prospettiva, con cui guardare la terapia e le difficoltà che essa presenta, l’allievo si trova nella necessità di riorganizzare il materiale clinico ma anche, e forse soprattutto, le emozioni che lo guidano nel suo intervento. È a partire da questa riorganizzazione, che il supervisore, attraverso un’osservazione “esterna” e dunque diversa dell’accadere in terapia, ed attraverso l’attivazione di “perturbazioni emotive”, permette al giovane terapeuta «[…] di guardare con occhi diversi la relazione che lo lega a quello specifico sistema» [6]. Gli incontri con il gruppo diventano perciò anche occasione di meta-confronto. Le trame narrative costruite in terapia si modificano per divenire storie comprensibili anche per chi non è presente direttamente in stanza e la discussione e riflessione del gruppo contribuisce all’apertura di possibili scenari alternativi, utili a sostenere cambiamenti non evidenti ma possibili. «Le connessioni creano zone di frontiera in cui si aprono terre di nessuno, sentieri in attesa di essere percorsi, possibilità in cerca di nuovi esiti» [5].
Grazie al recupero di nuove lenti, il giovane terapeuta può quindi tornare dentro la stanza di terapia, con una diversa “competenza” emotiva ed un bagaglio ricco di strumenti che gli permetteranno di restringere o ampliare il focus del proprio intervento. «La supervisione può essere definita come un processo che produce un cambiamento nel modo di essere di chi vi partecipa, che determina un modo diverso di sentirsi, di vedersi, di comportarsi e di vedere e percepire gli altri ed il mondo […]» [7].
LA TELEFONATA, 4 febbraio 2009
«Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rilevato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto su un gradino mentre gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto» [8].

Tutto ha inizio con la telefonata di Daniela in un pomeriggio freddo e piovoso, che sembrava ricalcare uno dei proverbi che mia nonna ripeteva puntualmente in questo periodo: “Se Fervér a’n fervaraza Mérz al mel pensa”. A dire il vero, una settimana prima, una ragazza che seguivo in psicoterapia individuale da circa un anno mi aveva chiesto il permesso di dare il mio numero di telefono ad un’amica di una sua amica. Daniela mi aveva chiamato qualche giorno dopo. Secondo Cancrini «[…] una psicoterapia inizia prima del primo colloquio. Il momento in cui una persona o un gruppo di persone entrano nella stanza del terapeuta è preceduto da un insieme di passaggi, formali e informali, il cui effetto complessivo è quello di sviluppare un’ipotesi che è parte integrante e significativa del comportamento comunicativo del terapeuta e, dunque, del contesto che egli definisce» [9,10].
Daniela aveva una voce incerta, a tratti soffocata da un nodo che sembrava tardare a sciogliersi, e che tradiva un accento inequivocabilmente sardo: “… Aiutami a lasciare la mia ragazza. Ci ho provato più volte, ma non ci sono riuscita. Non posso più continuare così…”. Daniela affermava di avere tentato di resistere alla violenza dei sentimenti che la portavano verso Olivia, ma era stato sempre troppo tardi: “Il suo fascino, la sua fragilità, il suo bisogno di essere amata, e protetta… hanno sempre agito su di me…”. Aveva paura di lasciarsi trascinare ancora una volta in quella spirale di lacerazioni, di drammi e di passione. E non poteva/voleva permetterlo. Un evento così doloroso non poteva non coinvolgere Olivia. La ragazza era al corrente della telefonata? Cosa pensava della posizione di Daniela? Quale era la sua? E, ancora, era d’accordo a intraprendere questo viaggio? Era evidente che la relazione di coppia fosse in difficoltà. E c’era un equivoco che volevo chiarire subito: lo scopo della terapia non è né la separazione né lo stare insieme, ma una verifica di quelle che sono le regole della coppia. Il terapeuta ha il compito di allargare il campo delle scelte possibili, ma l’esito del processo non potrà che essere imprevedibile. Non era possibile fare previsioni adesso, e Daniela e Olivia dovevano essere d’accordo.
Le riflessioni che seguirono questo primo contatto si incentrarono sulla necessità di permettere alle due ragazze di sentirsi accolte e libere di far circolare le emozioni; di non colludere con le posizioni, le richieste e le fantasie di uno solo dei due partner; e di non forzare il sistema assecondando i miei tempi piuttosto che quelli propri della coppia. Un’ultima sensazione riguardava il timore di lasciarmi contagiare dai fantasmi che aleggiavano sulla mia terapia. L’altra terapia, quella che mi vedeva come paziente e, soprattutto, come uno dei partner della coppia. Per tutto questo, avevo un paracadute: la supervisione poteva accogliere le mie emozioni di giovane terapeuta e offrire spunti di pensiero creativo.
IL PRIMO INCONTRO, 12 febbraio 2009
«Ogni incontro non è tanto dove, mentre si svolge, ma nel suo sfondo, nell’ingegnarsi ognuno nel proprio campo in una revisione delle cose» [5].

È trascorsa una settimana dal colloquio telefonico, quando incontro per la prima volta le due ragazze. Daniela si adagia comodamente al centro del divano mentre Olivia siede contratta sul lato vicino a me. Olivia è una donna minuta, ha jeans a vita bassa e una camicia bianca. I capelli sono rossi, lunghi e lisci e con una frangetta corta, gli occhi sono grandi e color nocciola, la pelle bianca come il latte. Daniela indossa pantaloni larghi e una felpa nera che nasconde le sue forme rotonde. Ha i capelli ricci del colore della pece, fermati dietro la nuca da una matita, carnagione olivastra e occhi piccoli e neri che disegnano rapide orbite.
Dopo essermi presentato, chiedo alle due donne di raccontarmi qualcosa di loro. La prima a parlare è Olivia. Dice che la giornata gira male dall’inizio: “Non avevo voglia di svegliarmi, di lavarmi, di vestirmi, e di venire all’appuntamento. Poi ho chiamato la tata di Emma ed eccomi qui!”. Olivia appare emaciata, tenebrosa, algida e aristocratica, sottilmente compiaciuta del suo malessere che, all’occorrenza, doveva fungere da efficace arma di seduzione. La sua voce è bassa, rallentata, e strozzata da un nodo che non tarda a sciogliersi in una serie di piccole lacrime. Daniela è immobile, e scruta la compagna con occhi furtivi. Sulla sua pelle sbocciano piccole macchie viola, che le danno un’aria da naufrago su un mare in tempesta.
LA STORIA DI OLIVIA
Olivia ha 37 anni, è nata a Milano e ha vissuto lì fino all’età di 5 anni. Il papà, Giuseppe, 58 anni, grafico pubblicitario di origini siciliane, era emigrato al Nord in cerca di lavoro e nel capoluogo lombardo aveva conosciuto Maria, 60 anni, salernitana, cassiera in un supermercato. Olivia non sa quasi nulla della storia d’amore fra il papà e la mamma: “Non mi viene molto da chiamarlo papà, anche perché come padre l’ho visto poco. Se vogliamo dire padre è nel senso che ha avuto una storia con mia madre e ha pensato bene di metterla incinta. Si sono conosciuti alla Standa dove lei lavorava e lui andava la sera a fare la spesa. Erano due alieni, due profughi, in balia delle loro solitudini… Si sono sposati pochi mesi dopo, perché lei era incinta, e hanno divorziato subito, avevo 2 anni e mezzo”.
Dopo il divorzio, il padre è tornato in Sicilia dalla sua famiglia e si è risposato con una ragazza più giovane dalla quale ha avuto due figli: Giacomo, 33 anni, e Marta, 28 anni. Qualche anno più tardi, anche la madre si è risposata: ha incontrato Fernando – “il mio secondo papà” –, 62 anni, sindacalista napoletano e se ne è innamorata. Maria e Fernando hanno deciso quasi subito di trasferirsi nel capoluogo campano e dalla loro unione è nata Francesca, 29 anni. Olivia ha avuto un’infanzia serena, accesa dalla passione per la danza classica. Unico neo, il rapporto con la madre: “…non siamo mai andate d’accordo, siamo diverse… a volte ho pensato che non mi volesse bene perché le ricordavo mio padre”. Olivia non ha più visto il padre fino all’età di 19 anni, quando si è rifatto vivo, dopo l’esame di maturità artistica, per darle dei soldi: “Prima di allora, lo avevo sentito due volte al telefono. Non avevo nemmeno una sua foto…”. La madre non si è interessata del rapporto fra Olivia e il padre: “…mi ha sempre detto che secondo lei un padre è una cosa in più che se uno ce l’ha bene, se non ce l’ha non cambia granché. Quello che è importante è averci la madre”.
Così, quando la donna le aveva detto che Giuseppe voleva incontrarla, Olivia ne era stata felice. “Ho preso la metro e sono uscita alla fermata dove avevamo appuntamento. Quando ho visto un tipo sui quarantacinque con i capelli rossi che attraversava la strada e muoveva una mano verso di me, ho sentito qualcosa che mi saliva nella pancia fino al cuore… Ero emozionata e agitata”. La ragazza racconta che hanno fatto un pezzo di strada senza dirsi niente, poi sono entrati in una trattoria e si sono seduti uno di fronte all’altra. Lui ha dato un’occhiata ai suoi capelli rossi e ai suoi occhi scuri e hanno fatto finta che tutto fosse normale… “ma io me la stavo facendo sotto”. Finito di mangiare, l’uomo ha guardato l’orologio, le ha consegnato una busta con dei soldi e ha detto che doveva correre a prendere il treno. “Non avevi curiosità di conoscermi?” – gli aveva chiesto Olivia con una voce un po’ strozzata. Lui era diventato tutto pallido: “Io quando tu sei nata ero molto giovane, avevo vent’anni… non me la sentivo di fare una famiglia. A Milano mi sentivo di troppo e con tua madre non andava granché bene e così sono tornato in Sicilia”. Poi, ha iniziato a parlare dei testimoni di Geova: “…voleva catechizzarmi… a me che sono atea! …e sono nati i primi scontri, anche ideologici. La mamma mi aveva avvertita di non aspettarmi troppo, eppure non ho potuto fare a meno di essere delusa”.
Come te lo eri immaginato tuo padre? Avevi delle aspettative? C’erano delle cose che avresti avuto voglia di chiedergli? Olivia aveva mille domande… eppure, in quei pochi momenti, la sua testa sembrava galleggiare sul collo. “Senti una cosa, ti piacerebbe che ci rivedessimo ancora?” – fu la sola cosa che venne in mente alla ragazza. “Mmh… sì vediamoci” – le parole scarne di quello strano padre. Per tre anni, dal ’91 al ’94, Olivia e il padre si sono visti saltuariamente: la ragazza è stata in Sicilia, ha conosciuto i nonni e gli zii ma le cose fra lei e Giuseppe non sono cambiate. Quando si vedevano, lui la portava nei ristoranti più chic ma sempre di nascosto… la seconda moglie e i loro due figli non dovevano sapere di loro… Poi, un giorno, in occasione della morte del nonno, Olivia, informata da una zia, ha telefonato a casa del padre. Ne è nata una crisi familiare feroce, culminata con una telefonata da parte dei carabinieri di Catania che la informavano di essere stata querelata dal padre e dalla moglie perché non si facesse più né vedere né sentire. “Ero sconvolta, sono entrata in analisi e ci son rimasta tre anni!”.
È stato un periodo terribile: nel frattempo, Olivia si era trasferita a Roma per frequentare la facoltà di lettere e inseguire il sogno di fare teatro. I suoi genitori, e soprattutto sua madre, avrebbero preferito che si dedicasse a qualcosa di più pratico: legge, economia, medicina. Per pagare l’affitto di una stanza e le tasse universitarie, Olivia aveva trovato lavoro in uno studio commercialista dove, però, si trovava malissimo perché lei era molto timida e il responsabile della ragioneria la molestava.
Nel 1996 la ragazza si laurea con una tesi sul cinema di F. Truffaut. Si licenzia dallo studio, e prova diversi lavori: cameriera, barista, addetta alle pulizie, commessa… Contemporaneamente, entra a far parte di una compagnia di giovani attori e comincia a esibirsi in piccoli teatri della capitale. Olivia ricorda con nostalgia quel periodo pieno di entusiasmo, di incertezze, e di belle speranze. Nella primavera del 2001 inizia una relazione con Giulio, un attore della compagnia e, pochi mesi dopo, scopre di essere incinta in modo drammatico. Una mattina di luglio, mentre faceva colazione, ha un’emorragia improvvisa e, una volta in ospedale, i medici la informano che era al secondo mese di gravidanza. Olivia era incinta di due gemelli ma il maschio non ce l’ha fatta. È un dolore atroce, la lama di una spada che affonda nella carne. La ragazza ha dovuto interrompere la tournée e restare a letto perché il rischio di perdere anche la bimba era altissimo. Sulle prime, la mamma di Olivia non è stata contenta di questa gravidanza: “… e poi, degli uomini capaci di innamorarsi al primo appuntamento non è generalmente consigliabile fidarsi!”. Probabilmente, la donna aveva paura che la figlia seguisse le sue impronte. Ma, alla fine, anche lei deve aver sentito qualcosa che un po’ si avvicinava alla felicità.
Eppure, il dolore era ancora in agguato. Giulio dice ad Olivia di non sentirsi pronto per avere una figlia e, messo alle strette, confessa di avere una relazione con un’altra donna. Olivia è distrutta. Ha come una goccia nera, dentro, che inquina tutto. Il 12 gennaio del 2002, al settimo mese di gravidanza, la ragazza partorisce Emma. La bimba è sana ma ha bisogno dell’incubatrice. Olivia telefona subito a Giulio ma l’uomo non ha nessuna voglia di andare in ospedale, e ha deciso di non riconoscere la figlia.
Cosa sa Emma del suo papà? Ha mai chiesto di lui? “Me lo ricordo bene, quel giorno. Emma aveva tre anni… era appena tornata dall’asilo. Le ho raccontato come ci siamo conosciuti e che eravamo molto innamorati, e le ho spiegato che a un certo punto il nostro amore è finito. E che ci siamo lasciati prima che lei nascesse”. Olivia sapeva che quelle parole non sarebbero bastate. Emma voleva capire perché il suo papà non desiderasse vederla. Non era facile risponderle. Olivia le ha detto che non lo sapeva, e che all’inizio lo ha cercato ma lui non ha voluto parlarle. “È arrabbiato con te? … e anche con me?” – Emma era attenta ai dettagli. Olivia ha cercato di rassicurarla: “No, Emma. Non è arrabbiato con te. I grandi, a volte, fanno confusione, o dimenticano le cose, anche quelle importanti, e poi non sanno come risolverle. Anche il mio papà, quando ero piccola come te, non c’era. Poi, un giorno, l’ho conosciuto e abbiamo parlato di tante cose”. Olivia le ha mostrato alcune foto di Giulio che aveva conservato per lei. Emma le ha guardate attentamente, voleva scoprire se ci fosse in quell’uomo qualcosa di familiare. “I tuoi bellissimi capelli biondi e la bocca a cuoricino sono uguali a quelli del tuo papà”. Olivia ha chiesto alla sua bambina se volesse tenere una foto ma Emma ha preferito che fosse lei a conservarle. “Puoi vederle tutte le volte che vuoi, e quando sarai più grande, se vorrai cercare il tuo papà, io ti aiuterò”.
Olivia non riesce a trattenere le lacrime ma, a fatica, riprende il racconto. Dieci giorni dopo il parto, la ragazza ha una trombosi cerebrale: “Sono rimasta in ospedale per due mesi… un vero carcere!”. La trombosi, purtroppo, fa insorgere l’epilessia e Olivia è costretta a chiedere aiuto alla madre. Maria arriva subito ma, quando la figlia viene dimessa dall’ospedale, vorrebbe portare lei ed Emma con sé a Napoli. Olivia non sente ragioni: “… noi due non abbiamo mai avuto buoni rapporti, e poi volevo la mia intimità, costruire il mio nido”.
Così, dopo le molte insistenze di un amico da tempo innamorato di lei, Olivia accetta di andare a convivere con lui. Marco le promette di essere un compagno innamorato e un padre per Emma. Olivia stabilisce ottimi rapporti con la famiglia di Marco, assapora quel rapporto familiare che lei aveva sempre desiderato e mai avuto. Eppure, dopo due anni di convivenza, anche questa relazione si incrina: “Ho scoperto che Marco aveva una tresca… e poi, da parte mia, non c’era una passione forte… c’era il legame con i suoi, il desiderio e il bisogno di sentirmi parte di una famiglia…”. È il 2004: Olivia chiude anche questa storia. Sceglie una tata per Emma e per un po’ continua a recitare in teatro e a fare l’assistente alla regia in alcune piccole produzioni per il cinema e per la tv. Poi, il bisogno di una stabilità economica e il desiderio di essere una mamma più presente per la sua bimba, la spingono a lasciare a malincuore il teatro e a lavorare part-time in un ristorante. Parallelamente, Olivia si dedica con entusiasmo alla fotografia e realizza dei documentari per il web e per la tv. Ma è proprio nella tavola calda che, a maggio del 2006, incontra Daniela: “Un vero colpo di fulmine per me… ma lei non se ne era nemmeno accorta”. La voce di Olivia scricchiola, mentre gli occhi sono allagati di malinconia.
LA STORIA DI DANIELA
“Io ci metto cinque minuti. La sua storia sembra un romanzo, la mia, invece, non ha niente di particolare…” – Daniela tenta di non tradire il nervosismo mordicchiandosi i polpastrelli, “abitudine che ho purtroppo ereditato da mia madre”.
Daniela ha 30 anni, è nata in un paese dell’entroterra sardo e ha vissuto lì fino al 2005. Dopo la maturità all’istituto d’arte, ha aiutato i nonni nella loro salumeria prima di trovare lavoro in uno studio di grafica e web design. Il papà, Alfonso, 60 anni, è un ex muratore che, dopo la caduta da un’impalcatura, si è riciclato prima come vigilante notturno e poi come centralinista. Da pochi mesi, ha avviato un’azienda agricola. La madre, Simona, 54 anni, è segretaria amministrativa in una scuola del paese. I suoi genitori si sono sposati nel ’78. Non hanno mai parlato molto di come si sono conosciuti. “È una città piccola, dice sempre mio padre. Ci conoscevamo tutti. Si sono messi insieme da ragazzi, ma credo che mio padre non avesse tutta questa voglia di sposarsi… non che non volesse bene a mia madre… è solo che stava bene così. E allora lei si è fatta mettere incinta e si è sposata prima che tutto il paese potesse scoprire il pancione…”. I primi anni di matrimonio non devono essere stati facili: i soldi erano troppo pochi per prendere in affitto una casa e Alfonso aveva dovuto accettare a malincuore di vivere con i genitori della moglie. L’uomo non aveva un lavoro stabile, di giorno faceva l’operaio in una piccola impresa di costruzioni e il pomeriggio cercava di arrotondare facendo l’idraulico, o l’elettricista. Simona, invece, lavorava part-time nello studio di un commercialista e aiutava i genitori nella loro salumeria.
Sei anni dopo la nascita di Daniela, è venuto al mondo Marco, 24 anni, laureato al DAMS di Bologna, che da un anno l’ha raggiunta nella capitale. Daniela ricorda di essere stata una bambina silenziosa e curiosa. “Quando ero piccola, mio padre mi portava a pescare lungo il fiume. Spesso lanciavamo pezzetti di legno nell’acqua cercando di non perderli di vista mentre venivano portati via dalla corrente e l’acqua che scorreva ingoiava anche le nostre voci”. Tanto il padre ha un carattere taciturno e solido, quanto la madre è una donna loquace e istintiva. Daniela sente di essere più simile al padre: con lui non servono le parole, bastano uno sguardo, e un sorriso per intendersi al volo.
Nel ’93 è nata Laura, 16 anni, studentessa liceale: “È nata per sbaglio! Mio padre, quando ha saputo che mia madre era incinta, ha fatto un casino… non era contento, voleva che mia madre abortisse…”. Daniela aveva 14 anni e ricorda bene quel periodo pieno di angoscia e di ombre lunghe che si addensavano sulla sua casa. Il padre era caduto da un’impalcatura un paio di mesi prima e non avrebbe potuto più fare il muratore. Aveva lavorato moltissimo, per finire di costruire la loro casa, e non c’erano più soldi. Quell’uomo di poche parole ma concreto e devoto si era sempre più isolato: “Credo che fosse contrario ad avere un altro figlio perché aveva paura di non potergli dare tutto… Si sentiva inutile, era depresso”.
Cosa ricorda di quel periodo? Quali emozioni e sensazioni conserva? Daniela era stata felice di sapere che avrebbe avuto una sorellina ma la tensione fra i suoi genitori l’attraversava come una corrente elettrica. Per un istante, aveva sperato che la bimba non fosse mai entrata nella sua vita, e che non nascesse. “Una notte mi ero svegliata per andare in bagno e avevo trovato mia madre stesa nella vasca, al buio, avvolta in una coperta”. Un’altra sera, dopo l’ennesimo litigio, la madre si era messa a piangere in silenzio, e senza dire nulla aveva preso per mano lei e Marco ed erano andati a dormire dai nonni. Quella notte, i due ragazzi sono stati fermi, senza dirsi una parola, senza sapere niente di ciò che accadeva eppure sapendo già tutto, già troppo. Il mondo era così lento allora che nulla sembrava muoversi più. E poi, grazie al cielo, la mattina è arrivata l’ora di tornare a casa. “Non è niente di grave. La soluzione si trova, la troveremo insieme” – aveva detto Alfonso a Simona. Daniela racconta che, quando Laura è nata, la morsa che aveva stretto il petto e la pancia del padre mollò la presa e l’uomo provò una tale gioia che sentì di averla attesa da sempre. “…anche se, di tanto in tanto, mia madre non ha perso occasione di ricordaglielo…”. Da lì in poi, tutto è stato come prima, come sempre.
L’adolescenza di Daniela corre dentro un groviglio inestricabile. I rapporti hanno molte variabili e le persone hanno segreti che si intrecciano, a volte contraddittori o conflittuali. Solo Davide sa tutto di lei: Daniela gli ha confidato quasi subito la sua omosessualità e il fratello ha giurato di non dirlo a nessuno. La prima ragazza, a 15 anni, è la sua compagna di banco, e il primo bacio se lo danno in bagno a scuola. È una storia spensierata, che dura due anni. Poi, arriva Teresa: “L’ho conosciuta una sera in un locale, suonava il basso in un gruppo rock di sole ragazze. È stato un colpo di fulmine… un amore che era più simile a una roulette russa… e mi sembrava di essere entrata in una dimensione onirica in cui un’allegria senza limiti conviveva con una disperazione incontenibile”. Daniela chiede al fratello di reggerle il gioco – “… sto facendo questa cosa, ma giura che non lo dici a nessuno” – e il ragazzo l’aiuta a far credere ai genitori che Teresa è la sua ragazza. La relazione rimane segreta e in bilico per sette anni, mentre i battiti del suo cuore si impennavano e le sue speranze o il desiderio di riscatto giravano a vuoto.
Nel 2005 Daniela decide di trasferirsi a Roma: “Stavo male, avevo bisogno di andare via. Teresa mi aveva raccontato una serie di bugie e poi mi aveva lasciata per un’altra, e l’angoscia mi stava paralizzando” – la sua voce sembrava arrivare da un altro pianeta. La ragazza abbassa lo sguardo e si copre la parte destra del viso con la mano, sembra volersi schermire dagli occhi vigili di Olivia. Poi, scruta furtivamente le increspature sul volto della compagna.
Ai genitori Daniela ha raccontato di avere ricevuto un’offerta di lavoro da un’importante agenzia di grafica pubblicitaria della capitale. Solo il fratello e pochi amici conoscono le ragioni di quella decisione improvvisa, e le sono stati vicino quando è finita la storia con Teresa. A Roma, Daniela prende in affitto una stanza e, con i soldi messi da parte, si iscrive alla Scuola Romana dei Fumetti dove frequenta il corso di Sceneggiatura. Per mantenersi, la ragazza si impegna in mille lavoretti: operatrice call center, commessa, promoter, cameriera. E proprio in un piccolo ristorante del centro storico, Daniela conosce Olivia. È il maggio del 2006 e Daniela sembra impermeabile all’amore: “Ho fatto un po’ di resistenza… pensavo ancora molto alla mia ex ed ero spaventata dal fatto che Olivia avesse una bambina”. Le parole ora si fermano come in una bolla d’aria e Daniela riesce ad emettere solo un soffio rauco.
IL SECONDO INCONTRO, 26 febbraio 2009
diario di un (dis)amore
«L’amore è come quei cani selvaggi. Se ti salta addosso, non molla la presa. E quello che non puoi mai sapere all’inizio è con quale intensità e quanto a lungo amerai; in quali modi un amore finito ti darà la caccia, un salto dopo l’altro, come fuoco misterioso che ti scorre nelle vene. I cani selvaggi esistono davvero. Sono lì fuori, oltre la sicurezza delle strade e delle case, oltre le luci della città. E uno di quei cani è il mio» [11].

Daniela si abbandona al centro del divano, ha gli occhi socchiusi dietro la montatura nera da miope, le braccia aperte e la testa sullo schienale. Indossa un giubbetto di pelle, sotto il quale si intravede una maglia scura, e pantaloni neri piuttosto ampi. Olivia si siede sul lato sinistro, i gomiti sulle gambe e le mani a sorreggere il viso. Ha una camicia rossa stretta sui fianchi e una minigonna nera. Ha delle occhiaie scure sotto gli occhi, un po’ lucidi. Sono questi occhi che danno alla sua faccia un’aria triste e malinconica. Un’aria disperata. Daniela, invece, si definisce un “impiastro goffo”, dentro un pantano di incertezze. L’una sembrava di spugna, l’altra – almeno in apparenza – impermeabile. Le due ragazze si incontrano nel maggio del 2006. Olivia lavorava da diversi mesi alla tavola calda: “Ricordo bene quando è entrata, è stato un colpo di fulmine. La prima volta che mi innamoravo di una donna… ma lei non mi filava, credo non se ne fosse nemmeno accorta”. Era proprio così? Daniela rivela che il sospetto ce l’aveva ma non era certa. E poi pensava ancora alla sua ex e la spaventava il fatto che Olivia avesse una bambina.
«[…] E pensare che poco tempo prima, parlando con qualcuno, mi ero messo a dire che oramai non sarei più tornato a credere all’amore, a illudermi, a sognare. Ed ecco che poi… Ho capito che ti amo e già era troppo tardi per tornare. Per un po’ ho cercato in me l’indifferenza, poi mi son lasciato andare nell’amore» [12].

Olivia e Daniela si sono fidanzate i primi di agosto. Nelle settimane precedenti, Daniela aveva provato a sondare il terreno e le aveva raccontato che, quando si innamora di qualcuno, non riesce ad accettare di non essere corrisposta. Olivia sulle prime non aveva capito. E Daniela aveva preso coraggio e le aveva confidato di essere lesbica e di pensare molto alla sua ex. Dopo quella rivelazione, Daniela si era sentita più libera e aveva iniziato a fare apprezzamenti sulle ragazze che incontravano. Olivia, invece, era disperata all’idea che Daniela fosse ancora innamorata di Teresa. Inoltre, i commenti e le battute sulle ragazze la infastidivano: “… rosicavo di brutto. Mi sentivo invisibile, peggio di un camionista, ma mi sforzavo di non farlo vedere”. Così, quando Daniela le aveva detto che sarebbe rimasta a lavorare alla tavola calda tutta l’estate, la ragazza aveva accompagnato Emma a Napoli dai nonni e aveva deciso di restare con lei a Roma. Qualche giorno più tardi, finito il turno di lavoro, Olivia chiede a Daniela un passaggio in moto e, una volta arrivate sotto casa, la invita a salire su. Sono le quattro del mattino. Daniela accetta l’invito. Le ragazze iniziano a bere. Olivia la provoca, la prende in giro perché per tutta la sera non aveva tolto gli occhi di dosso da un gruppo di turiste americane. Le due ragazze continuano a bere. A un tratto Daniela si avvicina a Olivia, la abbraccia, la bacia e poi va via. “È stato romantico. Ero a Roma da meno di sei mesi. Mi ha coperta di una tale quantità di attenzioni. E mi è sembrata così sicura di quello che voleva. E questa era una cosa nuova per me, e molto attraente. Era difficile resistere, comunque”.
Tuttavia, l’indomani, al lavoro, Daniela è imbarazzata, fredda, teme di aver travisato tutto. Olivia è dispiaciuta, ha paura che la ragazza sia pentita di ciò che è accaduto fra loro. In realtà, entrambe pensavano che ciascuna avesse attribuito quel bacio all’alcool. Così, il giorno dopo, Daniela telefona a Olivia per invitarla al cinema ma, a causa di un banale equivoco, la ragazza la aggredisce. “Da quel momento è stato tutto così… Olivia sclerava e io mi turbavo. La serenità è durata un solo giorno, anzi poche ore la notte del bacio…”. Mentre parla, Daniela sembra cercare un punto del campo visivo equidistante da me e Olivia. La ragazza, invece, ascolta in silenzio e i suoi occhi si riempiono di lacrime.
Il 5 agosto del 2006 Daniela e Olivia fanno l’amore per la prima volta. È Daniela, ancora una volta, a rompere il silenzio fra loro. Quella notte d’amore suggella il loro fidanzamento. Daniela si trasferisce da Olivia… ma la lama si fa strada, sa come inoltrarsi, apre, separa, conosce tutti i punti vitali. Daniela ha un rapporto complicato con la sua nudità, non si spogliava mai del tutto, non lo aveva fatto nei sette anni d’amore con Teresa. Olivia sente di essere da sola, fa i conti con le sue paure popolate di fantasmi e il primo della lista ha il nome di Teresa. Se Daniela riceve un suo messaggio o si allontana per cinque minuti, Olivia sta male: “Il terrore di perderla, la paura di non poterle più dire queste cose… C’è qualcosa che mi sale nella pancia, come la voglia di spaccare tutto”. Il loro amore assomigliava sempre più a una di quelle tempeste estive, senza preavviso, che non ti lasciano il tempo di guadagnare nemmeno il rifugio più vicino, e ti lasciano fradicio e inzaccherato. Quando stavano bene, invece, le due ragazze passavano notti intere a parlare. A bere gin tonic. A fantasticare su possibili futuri e a progettare viaggi, lontano. Loro, tutte e due, avrebbero costruito un mondo nuovo, percorrendolo tutto.
A metà dicembre Daniela decide di andare in Sardegna per il matrimonio del cugino. La notte della partenza, la ragazza sogna di rivedere Teresa: è un incontro sereno, pacifico al termine del quale ciascuna va per la sua strada. Daniela aveva promesso a Olivia che non avrebbe avuto più niente a che fare con Teresa ma alla sua ex non aveva voluto raccontare del suo nuovo amore. Olivia non l’aveva presa bene e aveva cercato di rassicurarsi pensando a ciò che Daniela le aveva sempre detto sull’inaffidabilità di Teresa ma, dopo aver saputo del sogno, erano esplose le sue fragilità: “Ero arrabbiata, turbata, non le rivolgevo la parola…”. È il momento di partire. Quando Daniela si avvicina per salutarla, Olivia le dice di essere convinta che la ragazza voglia rivedere Teresa. Daniela risponde di sì e accende la rabbia di Olivia come un fuoco esplosivo che scorre nelle vene e sale fino al cuore. “Sei peggio del padre di Emma… Ti odio. È finita! Vai via, e non tornare più”. Olivia aveva il terrore di rimettersi ancora una volta in una storia in cui la persona che ama sta già con un’altra e decide di chiudere. Emma assiste alla scena, disorientata, in lacrime, prega la “zia Dani” di non partire… La ragazza le si avvicina, la abbraccia forte e la rassicura che tornerà presto. Daniela decide di fermarsi in Sardegna per il Natale. In quelle settimane, telefona più volte a Olivia ma la ragazza, che è a Napoli con Emma, non le risponde. Poi, una sera, incontra Teresa e fa l’amore con lei.
Daniela e Olivia si rivedono a Roma alla tavola calda. Sono i primi giorni del 2007. Questa volta è Olivia a fare il primo passo e a chiedere alla ragazza di incontrarsi dopo il lavoro per parlare di loro. Daniela acconsente ma le dice che non vuole riprendere il loro rapporto. Due giorni dopo, cambia idea e chiede a Olivia di essere più leggera, di non appesantire ogni cosa. Le due ragazze ritornano insieme. Sono felici. Fino a che, due settimane dopo, Daniela decide di raccontare a Olivia la notte d’amore con Teresa. Olivia doveva avere intuito qualcosa e le aveva chiesto più volte di raccontarle cosa fosse accaduto in Sardegna. Le sue domande si erano fatte sempre più pressanti ma aveva rassicurato Daniela: “[…] Puoi dirmi tutto perché sono capace di accettarlo”. Daniela non avrebbe voluto ma alla fine si era lasciata convincere… e se ne era immediatamente pentita! Olivia, stanca dei suoi segreti, la aggredisce, la accusa di averla tradita e di non sapersi comportare da adulta. Le sue crisi si fanno sempre più frequenti: le convulsioni, le assenze, la rabbia, l’alcool e il vomito, le corse notturne al pronto soccorso investono come un torrente in piena la vita delle due donne e quella di Emma e degli amici. Daniela, incapace di sostenere il fuoco di quegli occhi sotto le palpebre pesanti, la fissava senza parlare, in bilico fra desiderio e sospetto, indecisa se restarle ancora accanto o cercare una via di fuga. “Che marcisca pure nella sua gelosia” – si era detta qualche volta ma, poi, vederla così le faceva venire le lacrime.
Daniela pensava che Olivia fosse pazza, o che si servisse della sua malattia per tenerla legata a sé, acuendo il suo senso di colpa di per sé ingombrante. Dal canto suo, Olivia era spaventata dal fatto che Daniela avesse quella storia in sospeso, le sembrava che fosse in agguato l’ennesimo abbandono; in più, vedeva che Daniela spesso arrivava a casa “bevuta” e pensava che avesse bisogno di bere per trovare il coraggio di stare con lei.
«[…] Ma se è tutto un maledetto imbroglio, l’amore, dove niente appare come è, all’esistenza di tutti i giorni, non ci si può abituare. Nessuna strada, tranne una, corre verso casa e lo farà per sempre. Allora niente dolore, ma forse poco amore, è la normalità» [13].
La Pasqua a Napoli è un momento di silenzio e di perdono. Il vento soffia leggero sul Golfo e il sole del mezzogiorno trasforma scintille in stelle. Ma i giorni in arrivo sono bugiardi, sono duri. Una volta tornate a Roma, la presenza ingombrante di Teresa s’insinua puntuale e furtiva fra loro. A luglio Olivia dà un ultimatum a Daniela: non deve più vedere né sentire Teresa. Daniela non ci sta, ribatte che Teresa è per lei un mentore prezioso perché la conosce più di ogni altro, ma le assicura che quella storia è chiusa. Olivia sente un pugnale che affonda nel cuore. L’aria diviene stretta, il suo urlo travolge il sole, e ingoia l’ultima bestemmia… dietro gli sguardi di vetro di Emma. Olivia beve ogni giorno, fuma moltissimo e vomita, smette di prendere i farmaci, scivola nel gelo delle sue assenze, minaccia di tagliarsi le vene. È l’ennesima rottura. Daniela decide di lasciare il lavoro alla tavola calda e parte per la Sardegna. Qualche giorno dopo, Olivia e Emma partono per Napoli. L’estate del 2007 corre sul filo di giorni perduti fra lacrime e fumo. Di tanto in tanto le due ragazze si sentono. Daniela descrive a Olivia le sue giornate, le parla del videoclip di un gruppo underground di cui sta curando la regia, le racconta di vedere Teresa… Olivia trascorre le vacanze al mare con Emma, i genitori e la sorella. E chiede a Daniela se stia di nuovo con la sua ex… una domanda che nel suo cuore è già una dolorosa certezza. Sul finire dell’estate, le telefonate si intensificano. A settembre, Daniela torna a Roma e va a casa di Olivia. Sulle prime, le due ragazze sono imbarazzate, poi riprendono a frequentarsi. Inizialmente, senza dirsi nulla… qualche giorno dopo, Olivia chiede a Daniela cosa voglia e cosa provi per lei. “Quella sera Daniela aveva bevuto. Mi ha detto che voleva tornare con me… e io le ho risposto che dovrebbe essere sempre così perché così è più dolce”. L’amore ritrovato manda giù tutto, il dolore e i vecchi rancori. Sa ingoiare occasioni mancate, disperazione e offese. Sopporta la solitudine e il viaggio della propria amata.
Nei due mesi successivi, Daniela è impegnata in Sardegna con il montaggio del videoclip. Olivia la aspetta a Roma tutti i weekend perché sa che Daniela sa aspettarla nonostante i suoi sbalzi d’umore che le sa perdonare. La ragazza sembra aver rammendato le sue ferite, ha ripreso i controlli e la terapia farmacologica. Daniela e Olivia trascorrono il Natale e il capodanno nella capitale: è la prima volta insieme e le due ragazze confessano l’una all’altra di non aver mai provato un sentimento simile con nessuno, una tale vertigine, una simile ondata di dolce e calda malinconia.
«[…] Ti troverò quando non saprò dove andare. E mi terrai compagnia quando non avrò da fare. E troverai in me qualcosa di te che ti farà rabbrividire. Le paure, il dolore, l’amore, il sentire. Cose che si stratificano sulla pelle. Lasciano segni che non si cancellano. […] Ti cercherò nel profondo del mio cuore. E riderò così tanto che mi sembrerà di aver pianto. E troverò in te un silenzio che mi farà dimenticare. Le paure, le angosce, l’odio, il dolore. Cose che si modificano con l’andare del tempo. Ma non si cancellano» [14].

A marzo del 2008 Daniela deve ripartire per la Sardegna per la laurea di una sua amica. La ragazza non sa se ci sarà anche Teresa ma Olivia non le crede, si arrabbia, non ce la fa più a sopportare l’eventualità che le due donne possano rivedersi. “Sto male… Non passa un giorno senza il rancore che provo. Se parti anche stavolta, sarà perché non mi vuoi!” – l’urlo di Olivia diventa febbre e sputa sangue, sputa l’amore… non riesce più a mangiare, vuole solo vomitare. Al ritorno, Daniela cerca di rassicurare Olivia e le ragazze si rimettono insieme. Da allora, però, qualcosa si rompe. Il loro amore sembra una storia che si annoda e non si scioglie più. Le due ragazze si lasciano e prendono ogni dieci giorni. Fino a ottobre del 2008, quando la rottura è lunga venti giorni. Poi, Daniela scrive una email a Olivia e le chiede di rimettersi insieme. Il giorno dopo si incontrano e fanno l’amore. Daniela chiede a Olivia come possano riprovare a stare insieme senza farsi male. Olivia le propone di farsi aiutare da uno psicologo ma Daniela non si sente pronta e non ha soldi. Tuttavia, per mostrarle il proprio impegno, la ragazza decide di non sentire più Teresa… anche perché, per ben due volte, aveva chiamato Olivia proprio con quel nome.
A dicembre Daniela e Olivia partono con Emma per la Sardegna. Trascorreranno il Natale e il capodanno con la famiglia di Daniela. Inoltre, le due ragazze hanno deciso di realizzare con un’amica di Daniela un “documentary short” itinerante sull’identità sessuale e i ruoli familiari delle donne sarde. Lavorare insieme non è facile: Daniela è insicura, nervosa, sempre più pentita di una simile decisione. Anche Olivia è stressata e le aveva espresso le sue preoccupazioni. I primi quindici giorni rotolano uno sull’altro e stordiscono il cuore. Ma due giorni prima del termine delle riprese, Daniela dice a Olivia che preferirebbe che la ragazza restasse a casa dei suoi con Emma mentre lei finirà di girare con l’amica. Scendono i fulmini e il vento tira contrario, mentre i tuoni fanno tremare perfino i muri.
I primi di gennaio del 2009 Daniela, Olivia e Emma tornano a Roma. Qualche giorno dopo, mentre sono impegnate a montare il corto, iniziano a litigare… È sabato notte, e verso le due Olivia ha un dolore allo stomaco e al torace, tanto forte da sembrare un infarto. La ragazza vomita, ha difficoltà a respirare. Daniela l’accusa di provocarsi il vomito ma Olivia le urla che sta male, e che sta male per colpa sua. Daniela accompagna Olivia in ospedale: i medici dicono che la ragazza ha un’ernia iatale e un esaurimento nervoso. Olivia resta in ospedale la notte e fino al mezzogiorno, e per alcuni giorni dovrà restare a riposo, non potrà andare al lavoro. Daniela le resta accanto e, quando la ragazza si riprende, le parla: “Ho deciso di staccare, sono scioccata, mi sembra di essere tornata al 2007…”. Olivia non è d’accordo: “Non è la stessa situazione… tranne il mal di stomaco che ho da sempre e le mie stupide crisi di pianto, non c’è nulla”. Le due ragazze si lanciano accuse violente che squarciano il petto e la schiena. Daniela decide di trascorrere la notte dal fratello. Qualche giorno dopo, telefona a Olivia: stavolta è lei a proporre alla ragazza una terapia di coppia.
Perché oggi sono qui? In cosa vorrebbero essere aiutate? A cosa può servire la terapia? “Me lo sono chiesta anch’io… Poi, ho capito che Daniela stava escogitando il modo di liberarsi di me il più in fretta possibile…”. Olivia risponde d’istinto, socchiude gli occhi e li riapre. Fa questo gesto diverse volte, come per riportare la sua vita ad uno stato normale. Poi si rivolge a Daniela, con il cuore accartocciato dal dolore: “Ho fatto male a venire… So che mi lascerai e so che ti amerò per sempre. È una tua decisione, a cui non posso sfuggire. Alcuni lati del mio carattere che prima ti piacevano, ora li trovi intollerabili. Non hai voluto quello che potevo darti. Ciò che non volevi ero io, e riesco solo a pensare che non sei stata onesta con me, che non provavi ciò che dicevi di provare, che non eri davvero innamorata”. Daniela ascolta in silenzio. Le parole le bruciano in testa ma non vogliono uscire. Ha la gola secca come carta vetrata, e gli occhi pesano come ancore. Olivia vorrebbe andare via, per non farsi travolgere dalla rabbia e dalla tristezza. Poi tira il fiato, curvando le spalle, e cerca ancora lo sguardo della ragazza: “Tu sei più condizionata dalla paura di quanto pensassi. Non è stato facile per te aprirti a qualcun altro e non sei riuscita a sopportarlo. Hai dovuto chiudere, voltarmi le spalle. Non c’era alcuna speranza che io potessi avere la meglio. L’amore che provo per te non può essere più forte della tua paura o della tua indifferenza. Non ho alcuna possibilità”.
Daniela si sente braccata, tira fuori un sorriso che sembra una coltellata sulla sua faccia: “Penso che per tutte e due la vita sia stata dura e che il nostro amore, invece di risolvere la solitudine, il dolore e la rabbia che c’erano dentro di noi, ci abbia legate in un modo che a un certo punto è diventato soffocante. E io sento il bisogno sempre più urgente di tornare in superficie…”. Olivia non riesce più a trattenersi. Si prende la testa tra le mani e comincia a piangere. I singhiozzi e le sue lacrime invadono rapidamente la stanza. Daniela si avvicina alla ragazza e accarezza la sua schiena e ha il volto atteggiato a un misto di tenerezza e insofferenza, come stesse vedendo uno spettacolo commovente e ripugnante. Olivia sembra troppo stanca e triste per capire se le faccia piacere o no.
«Lo ripete anche l’aria che quel giorno non torna. La finestra deserta s’imbeve di freddo e di cielo. Non serve riaprire la gola all’antico respiro, come chi si ritrovi sbigottito ma vivo. È finita la notte dei rimpianti e dei sogni. Ma quel giorno non torna. Nel ricordo notturno l’estate era un giorno dolorante. Quel giorno è svanito, per noi. Torna a vivere l’aria e la gola la beve nella vaga ansietà di un sapore goduto che non torna. E nemmeno non torna il rimpianto ch’era nato stanotte. La breve finestra beve il freddo sapore che ha dissolta l’estate. Un vigore ci attende, sotto il cielo deserto» [15].
IL CONTRATTO
«Siamo gli uni per gli altri dei pellegrini che, per strade diverse, cercano con fatica di arrivare in tempo all’appuntamento fissato» [16].

I terapisti sistemici hanno compreso quanto sia determinante nel lavoro con le coppie prestare attenzione ai processi inconsci, tenendo conto non solo delle dinamiche interpersonali (consce ed inconsce) tra i due partner ma anche di quelle intrapsichiche, dei copioni relazionali già scritti che ciascuno di noi si porta dentro e che tende a ripetere, tanto più coattivamente quanto più determinano sofferenza. «Il luogo psichico della coppia va considerato contemporaneamente punto di partenza e punto di arrivo, territorio costellato di vincoli (ostacoli o impedimenti, resistenze e difese, regole comunicative date e trame ripetitive) ma ricco di possibilità (sentimenti, affetti ed emozioni, legami, interessi comuni e missioni da portare avanti)» [17]. Watzlawick [18,19] scrive che la relazione tra due oggetti membri di una coppia è qualcosa di qualitativamente diverso dalla sommatoria delle caratteristiche di ciascun individuo. Quando crescita individuale e crescita della coppia si distanziano o differiscono, si verifica una minaccia per la continuità della coppia e una prospettiva di rottura del rapporto.
Il punto di partenza per la terapia di coppia è quindi la conflittualità del rapporto di coppia, nell’ambito di una abnorme stabilità e di una ripetitività dei comportamenti inadeguati: essi sono frutto della situazione di stallo a cui un simile tipo di coppia è costretto. Non si tratta di guarire una coppia malata, ma di affrontare la coppia come prevalente – quando lo è – luogo di emergenza del conflitto e del bisogno insoddisfatto; e di fare evolvere una coppia che ha costruito un mondo comune, in parte reale, ma in gran parte fantasmatico, un mondo che condivide in modo stabile e che non perirebbe neppure se la convivenza fosse interrotta [20]. Nella sua telefonata, Daniela aveva esplicitato immediatamente quale fosse il motivo della sua richiesta: “Aiutami a lasciare la mia ragazza. Ci ho provato più volte, ma non ci sono riuscita. Non posso più continuare così”. Da parte sua, nel primo incontro di coppia, Olivia aveva espresso con altrettanta chiarezza la sua posizione: “Ho fatto male a venire… So che mi lascerà e so che la amerò per sempre. Non riesco a pensare che sia finita tra noi” . Era evidente che la relazione di coppia fosse in difficoltà, e che fosse importante riuscire a conciliare i due punti di vista emotivi discordanti. Sovrapporre i due punti di vista avrebbe permesso, quindi, di svelare l’intreccio della coppia.
Era emersa una modalità di interazione ridondante e aggressiva da parte di entrambe. Se Olivia aveva una aggressività più esplicita e diretta, Daniela tendeva ad essere più passiva nei litigi con la compagna. Non avevo dubbi che si volessero bene, ma era altrettanto evidente che non si incastravano più, e che il male che si facevano era diventato intollerabile. Olivia avrebbe potuto rassegnarsi a quel fato beffardo che la condannava all’abbandono, o continuare a urlare tutta la sua disperazione, e a mostrare i segni della sua sofferenza, confidando nel ritorno di Daniela… Avrebbe potuto, certo, e, forse, avrebbe ottenuto che qualcuno continuasse a prendersi cura di lei. Da parte sua, Daniela avrebbe potuto continuare ad entrare e uscire dalla vita di Olivia, – concedendosi di tanto in tanto un’ora d’aria –, o fermarsi in quell’abbraccio sofferente e faticoso, – magari coprendosi entrambi gli orecchi, o alzando gli occhi al cielo, in bilico fra sentimenti di tenerezza e fastidio, e sensi di colpa. Avrebbe potuto farlo, e, probabilmente, avrebbe continuato ad anestetizzare il fantasma della solitudine.
Era importante ridefinire che l’atteggiamento terapeutico non aveva come obiettivo la “cura” (che presupporrebbe la possibilità di distinguere ciò che “fa bene” da ciò che “fa male”), bensì l’attivazione di processi di conoscenza. Dunque un processo terapeutico non può in ogni caso stabilire in che modo o in quale direzione ogni sistema debba cambiare, non è cioè costituito da interazioni istruttive, ma ha, come scopo possibile, l’attivazione di processi di cambiamento, nella direzione consentita esclusivamente dalla particolare struttura di ogni sistema.
Compito del terapeuta è, dunque, essenzialmente quello di allargare il campo delle scelte possibili ma l’esito del processo non potrà che essere imprevedibile perché, come ci ricorda Bateson [21], sarà la coppia stessa a «diventare l’artefice della propria guarigione». Il terapeuta si sforza di «dare risposta all’implicita richiesta di aiuto senza dare risposta alla esplicita richiesta di direzione» [20]. Lo scopo della terapia non è né la separazione né lo stare insieme ma una verifica di quelle che sono le loro regole. L’esito può portare a trovare nuovi modi di stare insieme o a separarsi. Adesso è difficile fare previsioni e Daniela e Olivia devono essere d’accordo. Il lavoro durerà 5-6 mesi. Le due donne andranno avanti come hanno fatto fino ad ora, magari – ce (glie) lo auguriamo – con una conflittualità minore. Si stabilisce quindi di lavorare su questi temi in un percorso terapeutico a cadenza quindicinale.
LA PRIMA SUPERVISIONE, 3 marzo 2009
«Se l’emozione non si libera, essa si ritorce sugli organi, alterandone il funzionamento. Il dolore che riesce ad esprimersi mediante gemiti e pianti è dimenticato, mentre l’afflizione muta, che rode incessantemente il cuore, finisce per spezzarlo…» [22].

Dopo i primi due colloqui, era il momento di raccontare la storia di Daniela e Olivia. Da quando il quarto anno di training era iniziato, avevo già chiesto più volte la supervisione al prof. Cancrini. Eppure, la paura di balbettare, di sentire la mia faccia prendere fuoco, e non riuscire a tradurre i pensieri in frasi dotate di significato era sempre altissima. Avevo bisogno di un consiglio per sapere in che direzione muovermi. In realtà, un’idea in testa ce l’avevo.
Daniela e Olivia stavano insieme da tre anni. Presto, però, era emersa tra loro una modalità di interazione ridondante e aggressiva che le aveva private della capacità di scoprire nuove soluzioni. Si lanciavano accuse violente che squarciavano il petto e la schiena. Dolore e vecchi rancori, occasioni mancate, disperazione e offese, e solitudine erano un fuoco esplosivo che scorreva nelle loro vene e saliva fino al cuore. Dietro gli sguardi di vetro della piccola Emma. Le parole, troppe e sempre uguali, confondevano e complicavano le loro vite, non lasciandole respirare. Per questo, ritenevo utile adottare con la coppia il protocollo di Caillé.
Nella sua telefonata, Daniela aveva esplicitato immediatamente quale fosse il motivo della sua richiesta: “Aiutami a lasciare la mia ragazza. Ci ho provato più volte, ma non ci sono riuscita. Non posso più continuare così”. Da parte sua, nel primo incontro di coppia, Olivia aveva espresso con altrettanta chiarezza la sua posizione: “Ho fatto male a venire… So che mi lascerà e so che la amerò per sempre. Non riesco a pensare che sia finita tra noi”. Era evidente che fosse importante riuscire a conciliare i due punti di vista emotivi discordanti. Perché sovrapporre i due punti di vista avrebbe permesso di svelare l’intreccio della coppia.
Il prof. Cancrini era d’accordo sull’utilizzo del modello di Caillé, e mi ha suggerito di fermare l’attenzione sul contratto che avevo negoziato con Daniela e Olivia: “Devi insistere che lo scopo della terapia non è né la separazione né lo stare insieme ma una verifica di quelle che sono le loro regole. L’esito può portare a trovare nuovi modi di stare insieme o a separarsi. Adesso è difficile fare previsioni e loro devono essere d’accordo. Il lavoro durerà 5-6 mesi e loro andranno avanti come hanno fatto fino ad ora, magari – speriamo – con una conflittualità minore”.
Il terapeuta ha il dovere di assistere a quello che succede senza interferire attivamente, senza dare consigli o indicazioni esplicite. E la rilettura finale sarà sempre rigorosamente organizzata sul discorso delle due strade. “Quello che verificheremo e tendenzialmente potremo ‘correggere’ nel corso degli incontri di supervisione sarà la tua eventuale tendenza, implicita e inconsapevole, a ‘spingere’ verso l’una o l’altra soluzione”. L’ultimo importante aspetto cui prestare un’attenzione costante sarà quello relativo alle preoccupazioni per la bambina.
IL PROTOCOLLO DI CAILLÉ
«[…] perché dove d’amore – o di amori – si tratta… […] ciò che sta alla base di molte di queste storie è una difficoltà di comunicazione, una zona di silenzio al fondo dei rapporti umani…» [23].

Philippe Caillé [24] parte dalla considerazione che «la coppia è un sistema che esiste solo nel momento in cui due persone si definiscono tali». La coppia è, dunque, autocreatrice della relazione che la costituisce. Il modello proposto da Caillé [25] suggerisce che non è possibile parlare della coppia senza considerare l’esistenza di un “terzo”, quel “più uno” che la accompagna la coppia fin dal suo costituirsi. Ciò che egli chiama l’“assoluto” della coppia corrisponde alla «rappresentazione condivisa che i due partners hanno della loro coppia e su cui si struttura il loro sentimento d’appartenenza»; un patto implicito, specifico di quella coppia, in cui il livello “fenomenologico” delle interazioni, più immediatamente accessibile allo sguardo (il livello pragmatico), è sempre ricorsivamente collegato col livello “mitico” (il livello semantico), il livello più profondo e sommerso delle rappresentazioni, dei valori, delle credenze condivise [26].
I problemi nascono quando la coppia sembra perdere contatto col proprio “terzo” relazionale, quando lo misconosce o ne cancella l’esistenza. Il ruolo del terapeuta nel progetto di Caillé non è quello di “riparatore” del guasto ma quello di un “interlocutore” che accompagnerà la coppia nel processo di esplorazione del proprio modello organizzatore. In questo modo l’“assoluto” della coppia può emergere, rioccupare il posto che gli è proprio ed essere incluso nel processo terapeutico (lo spazio intermedio). Anche se sarà solo la coppia a decidere, alla fine, se questo assoluto è ancora vivo e può essere rigenerato oppure se appartiene al passato. In quest’ultimo caso, la coppia deve essere aiutata ad accettare ed elaborare la perdita [24]. Quando una coppia viene in terapia, infatti, lo fa abitualmente sull’onda di una crisi destinata ad avere sbocco in una nuova negoziazione del rapporto. Gli esiti di tale negoziazione possono portare al rinforzo della coppia o alla rottura della stessa, e scelte di questo tipo non possono essere fatte altro che dai suoi membri [27].
Come scrive Caillé [25], la terapia di coppia presenta particolari criticità, in quanto è difficile ottenere informazioni pertinenti con un metodo di indagine abituale. Inoltre, coppia e terapeuta formano una triade, configurazione che espone il terapeuta a forti rischi di triangolazione. Il metodo ideato da Caillé fa ampio ricorso a strumenti metaforici e analogici, preferendo ad atteggiamenti troppo direttivi o prescrittivi un processo terapeutico inteso come “costruzione a due”, e come ricerca, condivisa tra terapeuta e coppia, di strategie di cambiamento. La metafora e l’analogia hanno il vantaggio di “evocare” senza “esplicitare”, e consentono, perciò, di afferrare ciò che è essenziale ma non può essere detto, l’“assoluto” della coppia, il modello che guida i due partner senza che essi lo sappiano: per modificare in modo stabile il funzionamento del sistema, occorre modificare il suo modello fondante [28].
Il protocollo invariabile ideato da Caillé si articola in dieci sedute, alcune di coppia, e altre in cui i colloqui con i due partner sono individuali, ma paralleli.
Nelle due sedute iniziali, Caillé propone l’uso delle “sculture fenomenologiche e mitiche” che, attraverso immagini e senza parole, rappresentano il problema della coppia e la sua unicità, come ognuno dei due partner li vede. Le sculture fenomenologiche e mitiche rientrano nell’insieme di quegli strumenti metaforici o tecniche analogiche definiti dagli autori “oggetti fluttuanti”. Nelle sculture fenomenologiche (“statue viventi”) ciascun membro “mette in scena” il problema della coppia, rappresenta le relazioni con l’altro così come le percepisce nella realtà quotidiana e spiega il proprio comportamento come una risposta a un comportamento dell’altro. Nelle sculture mitiche (“quadri di sogno”) i membri della coppia comunicano il modo in cui concepiscono la natura, l’essenza della loro relazione, e rappresentano l’aspetto unico, peculiare e specifico della coppia, ciò che rende quella coppia originale e diversa da tutte le altre. Non è possibile dire quale delle due spiegazioni sia quella più plausibile, ma soltanto cogliere le diverse prospettive, le interpunzioni differenti della stessa situazione che determinano un processo circolare autorinforzantesi. Il contenuto del livello fenomenologico viene utilizzato nella prima fase della terapia (prescrizione del cambiamento comportamentale), mentre il contenuto del livello mitico è riservato alla seconda fase del trattamento che comporta la messa in evidenza del modello fondante della coppia.
Nei successivi tre colloqui individuali, il terapeuta sulla base del contenuto delle sculture viventi, prescrive a ciascuno dei partner dei “compiti antiomeostatici” che propongono di attuare piccoli cambiamenti (ad es., una mezz’ora due volte a settimana) del comportamento rappresentato nelle sculture stesse. Al di fuori di tali compiti, ciascuno dei partner riceve l’istruzione di comportarsi nel modo più naturale possibile. Nella scelta del compito, il terapeuta si informa degli antecedenti familiari e delle abitudini del partner per integrare le informazioni delle sculture viventi. La procedura serve a dimostrare la difficoltà di modificare i comportamenti di una coppia bloccata; lo scopo è quello di rendere consapevoli i due partner di tali difficoltà anche se i cambiamenti richiesti sono piccoli e apparentemente desiderati.
Nella sesta seduta, di coppia, il terapeuta fa emergere le contraddizioni tra il bisogno di cambiare e la difficoltà a farlo, evidenziate attraverso il fallimento dei compiti, il loro sabotaggio o la loro dimenticanza. I problemi della coppia sono visti, pertanto, come il modo fallimentare con il quale i partner cercano di risolvere una difficoltà nella loro relazione. La soluzione rappresenta il problema stesso. Il tentativo di interrompere questo ciclo di interazioni, prescrivendo a ciascuno dei partner dei compiti antiomeostatici, che implicano tipi di comportamento diversi da quelli attuati abitualmente nella relazione, incontra delle resistenze che sono comprensibili solo se si osserva il modello mitico della coppia. Un cambiamento nella relazione deve, infatti, necessariamente implicare un cambiamento di tutta l’idea della relazione perché la coppia pone i due modelli di rappresentazione (fenomenologico e mitico) in relazione causale.
I due partner sono quindi intrappolati in un paradosso. Nei tre colloqui individuali successivi, viene esplicitato il patto inconsapevole alla base della relazione, espresso attraverso le sculture di sogno. Unica possibilità di risposta da parte del terapeuta rimane quella di porsi allo stesso livello, cioè in modo controparadossale. Il controparadosso comprime i livelli già intricati della rappresentazione della relazione di coppia in un modello monolitico in cui ogni cambiamento è escluso. Le rappresentazioni di coppia sono messe così fortemente sotto stress. Quest’intervento può liberare la coppia della sua interazione rigida e ridarle la sua capacità di scoprire nuove soluzioni. In questa fase, si verifica abbastanza frequentemente un certo numero di reazioni inattese, in cui i partner incominciano a cambiare nel momento in cui il terapeuta ha enunciato il pericolo di farlo. Questi cambiamenti, se si producono, non ricevono il sostegno del terapeuta che al contrario connota positivamente la nobiltà dell’atteggiamento di non voler mettere il partner e la coppia in pericolo.
Nella decima seduta, che si svolge con i due membri della coppia, il terapeuta riconosce il contributo dato dalla coppia ma rimanda alla stessa l’impossibilità di attuare il rinnovamento desiderato. I due partner sono complici di un modello che si è deificato nel corso delle loro difficoltà e che loro non vogliono né modificare (il che implicherebbe che l’uno o l’altro inizino un cambiamento) né abbandonare (il che implicherebbe l’uscita dalla relazione). «Pur senza evidenziare l’ambiguità della domanda di modificare una relazione senza apportarvi nessun cambiamento, il terapeuta ha scosso l’aspetto narcotizzante della situazione terapeutica e, implicitamente, ha lanciato una sfida alle capacità auto-trasformatrici del sistema diadico, alleandosi al non cambiamento» [29]. L’appello positivo alle possibilità creatrici della coppia è implicito nel fatto che il terapeuta dichiara la situazione confusa e domanda alla coppia di interrompere ogni rapporto terapeutico per un periodo di sei mesi, sapendo per esperienza che possono insorgere sviluppi spontanei durante tale periodo, che potrebbero invece essere inibiti nel contesto di una terapia.
A distanza di circa sei mesi viene effettuata una seduta di controllo.
«Da chimico un giorno avevo il potere di sposare gli elementi e di farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore. Affidando ad un gioco la gioia e il dolore» [30].
LE SCULTURE FENOMENOLOGICHE, 12 marzo 2009
Sono trascorsi quindici giorni. Daniela indossa una maglia nera sulla quale è disegnato un teschio bianco e pantaloni scuri larghi. Olivia ha un vestito grigio chiaro e una giacca nera.
È arrivato il momento di introdurre le sculture fenomenologiche, uno strumento analogico che permetterà a Daniela e Olivia di mettere in scena il problema della coppia, il modo in cui si trattano l’una l’altra, il tipo di comportamenti che le due donne si scambiano nella loro realtà quotidiana. Le parole, infatti, logorate dall’uso, finiscono per perdere significato e lasciano il campo ad un canale alternativo che è quello del corpo, che deve essere modellato come un blocco di argilla.
Le due ragazze fanno domande, alcune dipanate fino in fondo, altre che inciampano tra le parole. Olivia è incuriosita e per un istante sembra dimenticare la sua malinconia e tristezza, come da tempo non le capitava. Daniela, invece, se avesse potuto, si sarebbe fatta invisibile. Sembra impacciata, e piena di dubbi e ride imbarazzata. È lei a iniziare per prima, il volto mesto e la camminata esitante.
LA STATUA VIVENTE DI DANIELA
Daniela è in piedi di fronte alla finestra e fissa un punto al di là dell’orizzonte. Olivia è circa due metri dietro di lei, ha le braccia tese nel tentativo di toccarla e le parla con foga. Daniela ha la mano destra appoggiata sul davanzale e l’orecchio sinistro coperto con l’altra mano per sentire meno le sue urla. Olivia è disperata perché le cose fra loro non funzionano, non riescono ad “acchiapparsi”, e osserva Daniela con un atteggiamento di rabbia e di dolore. Anche Daniela vorrebbe risolvere la situazione, non ce la fa più a sentire le urla di Olivia e a vederla star male e vorrebbe sollevarsi dal senso di colpa…
Tutto ad un tratto, accade qualcosa. Daniela incurva le spalle, libera l’orecchio e si dirige verso la porta, cercando di fuggire. Olivia smette di urlare, cade per terra e inizia a piangere forte. Daniela si ferma, poi torna indietro, si inginocchia vicino a Olivia e la abbraccia. Le due ragazze si stringono l’una all’altra, e per qualche istante sembrano essere contente e rasserenate. Tuttavia, Daniela sa che quell’abbraccio non risolverà la situazione, è un abbraccio sofferente e faticoso, e la ragazza alza gli occhi al cielo in segno di impotenza, invocazione e rabbia.






Così la donna si distacca dalla compagna e, coprendosi nuovamente l’orecchio, si allontana e ritorna vicino alla finestra… mentre Olivia, in balia del suo dolore roboante, si rialza in piedi e riprende la sua posizione iniziale.
LA STATUA VIVENTE DI OLIVIA
Daniela è seduta sulla poltrona, al centro della stanza, con le gambe distese e allargate. Il suo gomito destro è appoggiato sul bracciolo e la sua mano sorregge la testa mentre lo sguardo è rivolto verso il basso. Daniela è stanca, stufa della situazione che c’è fra loro, e sembra essere chiusa ad ogni contatto. Olivia è in piedi, di fronte a Daniela, le mani tese a cercare un contatto, piange a dirotto e i suoi occhi cercano disperatamente lo sguardo della compagna. Olivia è addolorata e dilaniata dal senso di colpa, si sente responsabile perché Daniela appare sempre più scocciata e distante.
A un certo punto, Olivia si avvicina a Daniela piangendo, poi si siede sul bracciolo, quasi dietro la compagna, e la abbraccia stringendola forte a sé. Daniela resta seduta, ma si gira verso di lei e ricambia l’abbraccio con un atteggiamento “materno”. Olivia si sente finalmente tranquilla, protetta, e accudita. Anche Daniela, per alcuni istanti, sembra rilassata.
Poi, Daniela si scioglie dall’abbraccio e ritorna nella posizione iniziale. La donna è ricaduta di nuovo in letargo, è stanca, sembra non credere più nell’amore con Olivia, si risiede sulla sua poltrona e smette di guardarla. In piedi da sola, e in preda a un senso di colpa struggente, Olivia ricomincia a piangere, sente di non riuscire a fare entrare Daniela nel suo mondo. Lei, per una serie di ragioni, non si lascia più attraversare dalle sue parole, dai suoi gesti…




LE SCULTURE MITICHE, 26 marzo 2009
Sono trascorsi altri quindici giorni. Daniela indossa la stessa maglia e un paio di jeans neri con catene mentre Olivia ha una maglia bianca e jeans stretti a vita bassa. Le due ragazze hanno un atteggiamento che è un misto di curiosità e rassegnazione.
Questa volta non è più necessario convincerle della possibilità di potersi esprimere senza fare uso delle parole. Nelle sculture mitiche cercheranno di comunicare il modo in cui concepiscono la natura della loro relazione, e rappresenteranno l’aspetto unico, peculiare e specifico della loro coppia, ciò che la rende diversa da tutte le altre. Ciascuna darà all’altra una forma scelta liberamente e che potrà essere minerale, vegetale, animale ma non umana, così come talvolta avviene nelle immagini dei sogni. Dal momento che non si evidenzia alcuna differenza fra le due ragazze, stavolta è Olivia a iniziare.
IL QUADRO DI SOGNO DI OLIVIA
È una domenica di primavera, al mare, poco prima del tramonto. Il cielo è libero e sereno. Olivia si vede come un sole rotondo e caldo. Daniela è un vento fresco, dinamico e curioso.
Olivia è in piedi su una sedia, al centro della stanza, ha le gambe divaricate e le braccia e le dita aperte a rappresentare i raggi, e osserva il vento dall’alto. Olivia è allegra, perché il vento la rende leggera e le permette di respirare. Daniela è poco distante, più in basso, ha il braccio destro proteso in avanti e il sinistro all’indietro, le gambe sono leggermente piegate e lo sguardo in avanti. Anche Daniela è serena, il sole le dà energia e calore.






A un tratto, il sole si abbassa sul mare, cerca di avvicinarsi al vento e di farsi dondolare dalla sua brezza. Il vento fa un breve capolino al sole, gli fa “cucù”, e poi soffia a curiosare più in là. Ora, il sole ha i brividi, ha paura di congelare e fa appello alle sue riserve di energia. Il vento soffia via lontano, teme che il sole possa bruciarlo e soffocarlo, e si nasconde dietro una nuvola. Olivia e Daniela, all’interno di questo sogno, cercano senza tregua di prendersi le misure, sperando di trovare quella giusta distanza emotiva che permetta loro di stare insieme senza scottarsi o congelare. Ciò sembra difficile e, alla fine, il vento e il sole tornano nella posizione iniziale.
Olivia riferisce di aver sentito inizialmente un’atmosfera serena ma, pian piano, ha preso il sopravvento un’angoscia profonda. C’è un legame fra lei e Daniela ma è qualcosa di fugace, che non ha trovato tutto il nutrimento. Olivia è un sole caldo e pieno che guarda continuamente a questo vento libero e fresco, e cerca di danzare e farsi cullare dalla sua brezza leggera e di essere il suo punto di riferimento. Tuttavia, il vento passa più tempo a curiosare qua e là che a fermarsi vicino al sole, e sembra cercare qualcosa che gli manca.
IL QUADRO DI SOGNO DI DANIELA
È un pomeriggio d’estate, il sole è caldo e una brezza leggera agita dolcemente i petali di un girasole. Daniela dice che è lei quel girasole posto in un angolo all’interno di un vaso d’argilla sul terrazzino di un appartamento. Tutto è tranquillo, e intorno non vi sono altre piante. Olivia è un gattino maschio, a pelo corto, di colore nero con una macchia bianca intorno al collo.
Daniela è in piedi, le braccia sui fianchi simbolizzano le foglie, e i capelli in alto sono i suoi petali. Ha lo sguardo verso il sole, è serena e spensierata, e si lascia dondolare dal vento. Olivia è accovacciata a poca distanza, ha gli occhi chiusi e la coda ferma fra le zampe posteriori, e sembra dormire tranquilla. È rilassata perché sa che il girasole la osserva e vigila su di lei.
Di tanto in tanto, il gatto si alza, annusa e marca il territorio, poi si avvicina al girasole, si struscia contro il vaso e cerca di arrampicarsi sul gambo e afferrarne i petali. Il girasole trema, ha paura che il gatto possa fargli male, spezzarlo, che possa fare la pipì e bruciare le sue radici, e agita con forza le foglie per allontanarlo. Ora anche il gatto è nervoso, il suo pelo è arruffato, la coda vibra e soffia forte contro il girasole. Anche in questo sogno, Daniela e Olivia cercano di mettere a punto le distanze, di ristabilire i confini, ma la vicinanza sembra pericolosa e alla fine il gatto si allontana e ricade in letargo mentre il girasole può farsi nuovamente cullare dal vento.
Daniela dice di essersi sentita come in trappola, in pericolo. Lei è un girasole positivo, allegro, si apre al movimento del sole ed è felice: è questa la sua natura vera e autentica, non il cattivo umore. Tuttavia, il gatto sembra essere menefreghista, non si accorge che il fiore è delicato e che potrebbe fargli male, e così la distanza sembra l’unico antidoto alla paura dell’aggressività.






LA SECONDA SUPERVISIONE, 31 marzo 2009 
«Le cose che si comprano al supermercato scadono. L’amore uguale. Sui surgelati c’è scritta la data di scadenza. Nell’amore la scadenza arriva all’improvviso, senti un odore micidiale, devi andare via di lì. È l’amore, che odora» [2].

Era il momento di mettere in scena, con l’aiuto di due colleghe, le statue viventi e i quadri di sogno realizzati da Olivia e Daniela. E i miei appunti erano una bussola e un antidoto efficace per le mie incertezze. Dopo aver ascoltato la mia esposizione e osservato la rappresentazione delle sculture, il prof. Cancrini mi ha aiutato a chiarire l’interpunzione della coppia:
Olivia: “Io ti urlo il mio amore, piango per te ma a te non importa nulla di me e di noi, non mi ascolti e fuggi via!”.
Daniela: “Non è vero che non mi importa. Io ti ascolto ma mi allontano perché le tue urla e il tuo amore disperato mi stanno soffocando!”.
Il prof. ricorda che il terapeuta è un attivatore che dà risalto alle potenzialità individuali delle persone: attento ai messaggi che gli arrivano dal mondo degli altri, capace di distinguere i livelli della comunicazione che li esprimono, pronto ad usare i propri sentimenti e le proprie fantasie quando fa le sue costruzioni; attento a condurre il suo lavoro sulla base dei feedback che riceve, intento a contribuire allo sviluppo di una nuova organizzazione delle esperienze interne. È importante guardare alla coppia e alle loro ferite. Occorre del tempo per capire cosa si è rotto, e qual è il meccanismo che le ha fatte precipitare, ma le due donne sembrano essere sulla strada giusta perché mostrano loro stesse il desiderio di chiarirsi.
Poi, un prezioso suggerimento per i prossimi tre incontri che saranno strutturati in colloqui individuali separati. Nel primo colloquio individuale, sarà opportuno ricostruire la “storia” e la “geografia” del problema rappresentato. Farsi raccontare i fatti importanti della loro vita di coppia in cui si è verificato ciò che hanno rappresentato nelle sculture fenomenologiche. Focalizzarsi sugli episodi specifici del passato. Andare poi sulla quotidianità. Nel secondo colloquio individuale, sarà utile farsi raccontare quali tentativi ciascuna delle due ha fatto per cambiare questa situazione. Cercare di capire quali di questi tentativi hanno funzionato. Quindi, invitare ciascuna delle due donne a immaginare qualcosa di nuovo e di completamente diverso che potrebbe fare. Nel terzo colloquio individuale, infine, si procederà alla prescrizione dei compiti antiomeostatici. Nel far questo, «Bisogna sempre avere in mente il tema che ciascuna delle due donne porta nella propria scultura fenomenologica e fare spesso riferimento ad essa. Il fatto che le sculture di sogno possano aiutarti a prevedere l’esito più probabile del processo che si mette in moto nel corso della terapia, può esserti d’aiuto solo nella misura in cui ti permette di essere più rapido e più diretto, quando ciò ti viene richiesto, nel dare pareri o indicazioni di comportamento a decisioni cruciali già assunte dalle due donne».
Il promemoria si chiude con l’invito a continuare a monitorare il mondo della piccola Emma.
IL PRIMO COLLOQUIO INDIVIDUALE, 9 aprile 2009
In sala d’attesa c’è un’aria stordente, piena di sorrisi lievi e di imperscrutabili intrecci. Vorrei riuscire ad afferrare qualcosa senza che mi scivoli via. Prima che il vento del cuore e il caldo della testa lo cancelli per sempre. Saluto Daniela e Olivia e ricordo loro che, come già anticipato nell’incontro precedente, le vedrò separatamente. “Prima lei” – Daniela stabilisce così la scaletta.
IL COLLOQUIO CON OLIVIA
«Hai viso di pietra scolpita, sangue di terra dura, sei venuta dal mare. Tutto accogli e scruti e respingi da te come il mare. Nel cuore hai silenzio, hai parole inghiottite. Sei buia. Per te l’alba è silenzio. […] Tu non muti. Sei buia» [31].
Olivia ha una maglia fucsia e i jeans. E gli occhi umidi e disperati di chi ha rinunciato a qualcosa di straordinario ma non l’ha sostituito con qualcosa di altrettanto soddisfacente, che richieda cioè il genere di dedizione tipico di una forte dipendenza. Una dipendenza d’amore.
La ragazza inizia il suo racconto. Finita la terapia, lei e Daniela sono rimaste a parlare per strada – “ero agitata, e angosciata…” –, perdendo molti autobus. Hanno deciso di fare una passeggiata a piedi fino alle Terme di Diocleziano e… “ci siamo abbracciate, baciate… poi, Daniela ha proposto di andare in un albergo… abbiamo fatto l’amore, è stato bellissimo”. La mattina dopo, Olivia ha rassicurato Daniela di non voler dare un valore aggiunto a quello che era accaduto perché, pur essendo ancora innamorata di lei, sa bene che la ragazza è decisa a lasciarla. Daniela ha annuito, e le ha detto di avere deciso di trasferirsi dal fratello. Quando si sono salutate, Olivia ha avuto paura, il cuore ha iniziato a batterle forte, e le lacrime hanno allagato i suoi occhi… “Avrei voluto urlarle che era tutta colpa sua ma sono innamorata di lei. È una cosa meravigliosa, ma anche terribile. A volte mi fa diventare una specie di bambina. A volte mi sento quasi morire. Mi lascia inerme, mi spaventa. Non sono in grado di controllarla”. Quella mattina, Olivia ha deciso di lasciare il lavoro in trattoria ma ha avuto paura di restare a casa da sola, senza Emma… Così, ha deciso di raggiungerla a Napoli e di partire con lei e i genitori per una breve vacanza in Puglia. Prima di prendere il treno, Olivia ha fatto recapitare una rosa a Daniela per alleggerire ciò che era accaduto fra loro: “Era solo una cosa bella e non bisognava pentirsi”. Daniela le ha risposto con un sms che era stata contenta del regalo ma che non sapeva cosa dire, non aveva altro da aggiungere a quello che Olivia già sapeva. Olivia ha pensato che i suoi timori fossero reali, cioè che Daniela avesse preso male quello che era accaduto tra loro e, pur con molta fatica, ha rispettato il silenzio della donna. “La verità è che voglio che torni. Non riesco a pensare che sia finita tra noi. Non credo che ciò che era destinato a noi fosse così breve” – la ragazza dà voce al proprio senso di abbandono e di incredulità.
Tornata a Roma, Olivia ha deciso di accettare un lavoro part-time come commessa in un negozio d’abbigliamento. Stamattina ha ricevuto la telefonata di Daniela e, mentre venivano qui, le due ragazze hanno riparlato di quella notte. Olivia ha rassicurato ancora una volta Daniela di non essersi illusa, poi le ha chiesto se l’avesse presa male. Daniela le ha risposto di sì, e Olivia le ha spiegato che ha cercato di prendere da quel che è accaduto fra loro solo ciò che di bello poteva darle. Quella sera Daniela le ha dato amore “perché così si fa quando si va a letto insieme…” ma Olivia, pur amandola, non si è illusa. È consapevole che se Daniela non si è più fatta sentire è il segno che è pentita ed è ancora decisa a lasciarla.
È il momento di parlare di Emma. Mi sono chiesto spesso cosa la bambina sapesse o avesse percepito della relazione fra la madre e Daniela. Olivia gliene aveva parlato? E se lo aveva fatto, quale era stata la reazione di Emma? Olivia dice che ha cercato di spiegarle da subito che lei e Daniela si volevano bene. “Emma aveva poco più di quattro anni, mi guardò per un istante negli occhi con un sorriso dolce e disse: «Anche a me piace la zia Dani. Qualche volta posso dormire nel lettone con voi?». Non le abbiamo mai nascosto un abbraccio, o un bacio… I bambini sanno leggere l’amore senza spaventarsi. Siamo noi adulti a banalizzare tutto”. Emma ha assistito a tutte le fasi del loro amore. Come sta oggi? Olivia racconta che al ritorno dalla Puglia, Emma le ha chiesto dove fosse Daniela, perché non fosse a casa ad aspettarle. Olivia le ha spiegato che le cose fra loro sono cambiate e che Daniela è andata a vivere dal fratello. Le volte precedenti, Emma chiedeva con insistenza quando avrebbero fatto la pace ma stavolta Olivia ha usato parole dolci e sincere… “le ho spiegato che io e la zia Dani ci vogliamo bene ma in modo diverso e che questo non avrebbe cambiato il loro rapporto. La zia Dani continuerà a volerle bene e a trascorrere del tempo con lei”. Non era facile per Emma. Non lo era per nessuno di loro. La bambina è rimasta qualche istante in silenzio, e poi ha chiesto alla madre: “Mammina, sei tanto triste, vero?”. Emma l’ha abbracciata stretta e le ha chiesto quando avrebbe potuto rivedere Daniela.
La voce di Olivia ora si fa più incerta e i suoi occhi, immobili, danno il via libera a una scia di lacrime. La ragazza non si rassegna alla fine della sua storia. Si ritiene colpevole, è convinta che i suoi problemi e la sua gelosia morbosa abbiano finito per logorare il rapporto. Per lei è stato un sacrificio enorme lasciare Daniela ma non avrebbe potuto trattenerla, anche perché la ragazza era stufa delle continue tensioni fra loro: “Semmai, sarà lei a farsi sentire. Come accadeva in passato…”. Olivia aggiunge di avere solo rispettato la decisione di Daniela e di avere scelto di non chiamarla durante il suo soggiorno in Puglia perché la donna aveva il diritto e il bisogno di stare da sola. Il suo è stato un grande gesto d’amore. Cosa si aspetta ora? “Non so esattamente… Ti aspetti che le cose cambino o che le persone cambino; ma è stupido, no? Le persone e le cose non cambiano. Non veramente. Bisogna solo farci l’abitudine. Ho molti dubbi, molte cose lasciate in sospeso. Vorrei mi aiutassi a metterle in ordine.” – sono le ultime parole di Olivia prima dei saluti.
IL COLLOQUIO CON DANIELA
«Colpevole, di averti incontrata, non so neanch’io perché. Colpevole, di un palpito che mi ha toccato nel profondo. Colpevole di averci provato con quello sguardo in più. Colpevole o debole di averti detto ancora sì!» [32].

Daniela raccoglie i capelli e si adagia sul divano. Sul suo volto olivastro non c’è un filo di trucco, le gambe sono leggermente divaricate e le mani intrecciate dietro la nuca a sorreggere la testa.
Indossa una maglia un po’ scolorita, e pantaloni neri larghi. La ragazza sembra in difficoltà: i suoi occhi neri e rotondi sono socchiusi, ma non separati dal mondo, e il suo respiro rumoroso e pigro ricorda lo sbuffo di un vecchio ferro da stiro. Poi, alla richiesta di condividere con me le sue emozioni, balbetta sottovoce qualcosa: “Non so da dove cominciare…” . Daniela inizia il suo racconto dalla notte trascorsa con Olivia in albergo. “Abbiamo avuto una notte di passione. Non so cosa mi sia preso… ho preso io l’iniziativa… ma rimango della mia idea”. Quante volte avevano fatto l’amore per l’ultima vota? Perché stavolta era diverso? La ragazza motiva tutto con l’attrazione fisica e l’affetto. È stata male per due giorni, dopo quella sera, soprattutto all’idea di avere illuso Olivia e di farla soffrire ancora. Molte volte, in passato, è accaduto che si lasciassero e poi l’affetto, la nostalgia, la paura della solitudine… “Mi sembra di avere una coazione a ripetere, non riesco mai a chiudere le storie che ho. Ora, però, è diverso perché sono disincantata, disillusa da questa storia”. Daniela dice di non dare peso a quello che è accaduto, è come se lei e Olivia avessero formalizzato il loro addio facendo l’amore. Ha solo preteso che non lo facessero in quella che era stata la loro casa perché le sarebbe rimasto il magone.
La mattina dopo, Daniela avrebbe avuto voglia di aprire la finestra e di urlare. “Ero allo stesso tempo appagata e frustrata. Mi sembrava di avere preso una droga talmente violenta che una dose unica era bastata ad alimentare una dipendenza fortissima”. Così, prima di lasciare l’albergo per andare a lavorare, ha comunicato a Olivia di aver deciso di trasferirsi dal fratello. Ha guardato le lacrime sciogliersi sulle guance della donna, avrebbe voluto abbracciarla, darle un bacio per consolarla. “Dio sa quanta voglia avevo di baciarla, molta di più adesso che ci stavamo separando per sempre che non la prima volta che l’avevo baciata…”. Poi, ha chiuso gli occhi, le ha fatto una carezza ed è andata via… pensando che, forse, non l’amava più… “Ho sentito che il mio amore per lei l’aveva resa vulnerabile e bisognosa, e io disprezzavo questo in lei. Volevo che fosse più forte. Lei, invece, aveva lasciato cadere la sua vita nella mia in un modo che trovavo claustrofobico”. Daniela ha uno sguardo preoccupato, come se dovesse stare sempre attenta, come se corresse sempre il pericolo di rimanere in trappola.
Nei giorni successivi, la ragazza ha visto che Olivia non andava alla tavola calda e, d’istinto, ha pensato di chiamarla – “ero preoccupata perché era sola, senza Emma” – ma, alla fine, ha deciso di non farlo, e anche quando ha ricevuto la rosa, ci ha pensato bene prima di risponderle. “Il nostro amore era diventato un peso, mi faceva sentire in obbligo. Pensavo che la solitudine che avevamo risolto stando insieme ci avrebbe rese libere. Invece ci aveva legate in un modo che è diventato soffocante”. Le labbra di Daniela sono strette in una linea severa e lo sguardo è fisso in avanti, stordito, come chi si volta a guardare un mondo diverso ma non ancora riconoscibile. Daniela ha poi saputo da una comune amica della partenza di Olivia per la Puglia e si è sentita più sollevata. Inoltre, il silenzio della ragazza l’ha piacevolmente sorpresa. Negli ultimi giorni, ha pensato spesso al ritorno di Olivia. Aveva voglia di rivedere anche Emma e di stare un po’ con lei. Così, stamattina, vincendo il suo pudore, ha telefonato a Olivia per accordarsi sull’incontro di oggi e hanno parlato anche della bambina.
Mentre venivano qui, le due ragazze hanno riparlato della notte d’amore in albergo. Daniela ha riconosciuto di essere stata assalita dai rimorsi ma Olivia ha cercato di rassicurarla e le ha detto che, pur amandola ancora, non si illude che possano tornare insieme. Quali sono ora le sue sensazioni? Quali le sue aspettative? Daniela riconosce che Olivia è entrata nella sua esistenza con una forza tale che l’ha cambiata per sempre. Tuttavia, “Olivia avrebbe potuto esasperare il suo dolore, prendere più psicofarmaci ma ha scelto di pensare a sé e mi ha permesso di emergere lentamente, come da uno di quegli orribili sogni da cui non ci si riesce a liberare per un’intera giornata”. La ragazza trattiene il respiro, la sua voce è fredda e le parole sembrano congelarsi nell’aria. Poi, prima dei saluti, mi (si) chiede se è questo – dolore – che l’amore rende possibile. Se è così che può andare a finire… “Ho deciso che l’amore non è buono. Ti fa solo venire una gran paura di perdere quello che ami, e poi, visto che la paura crea le condizioni perché accada, alla fine accade davvero. Non voglio essere così. Non voglio provare mai più questo dolore. Che senso ha?”. Lo spazio di terapia sembra acquisire nuove sfumature, impensabili fino a poco tempo fa. Una terra di mezzo dove esplorare le sue emozioni e gettare un occhio di bue sulle sue zone d’ombra.
DOPO L’INCONTRO
«Deve essere questo il segno del vero amore. Non semplicemente l’amore che ti fa girare la testa come una vertigine, ma l’amore che ti pianta al suolo come la gravità» [33].

Avevo in testa le domande che avrei dovuto fare a Daniela e Olivia, e le cose che credevo di sapere… ma mi sbagliavo. Mi ero tenuto stretto al protocollo di Caillé [25] come il boia al suo carnefice… ma non è andata così. Fortuna che arriveranno in mio aiuto le vacanze di Pasqua e con esse l’opportunità di fissare il prossimo incontro dopo aver condiviso ed esplorato i miei dubbi e le mie sensazioni con il prof. Cancrini e il mio gruppo di supervisione.
Olivia e Daniela hanno disegnato traiettorie che corrono al di fuori – e al di là – dei binari che avevo immaginato di percorrere con loro. Mi sono chiesto se fosse tutto vero, se fosse possibile cioè che le sculture avessero avuto un effetto evocativo e suggestivo così violento, potente, e repentino… Non avevo dubbi che Daniela e Olivia si volessero bene, ma era altrettanto evidente che non si incastravano più, e che si sopportavano sempre meno. Anche se probabilmente continuavano a farsi nell’insieme più del bene che del male, quel poco di male che si facevano era diventato intollerabile.
“Sono innamorata di te…” – sembrava gridare disperatamente Olivia, mostrando il suo senso di impotenza, la paura rabbiosa e l’angoscia di un altro abbandono. “E il tuo amore mi (ci) sta quasi uccidendo…” – sembrava replicare Daniela, perennemente in bilico fra sentimenti di tenerezza e fastidio, e sensi di colpa. Ho offerto alle due donne uno spazio protetto in cui accogliere e dare voce e significato alle loro emozioni più profonde e violente. Una zona bianca in cui esplorare i loro stili relazionali e cominciare a mettere in campo e sperimentare le alternative possibili. Utilizzando un’espressione di L. Smith Benjamin, l’obiettivo è quello di «cambiare il forte desiderio di essere dipendente e rafforzare quello di diventare competente» [34].
LA TERZA SUPERVISIONE, 21 aprile 2009
«Niente di realmente nuovo insorge negli individui e nei sistemi interpersonali seguendo gli interventi terapeutici: il cambiamento che essi possono produrre è il risultato di un processo di riorganizzazione che consente la realizzazione di alcune potenzialità esistenti all’interno del sistema» [35,36].
Qualche settimana prima, avevo incontrato Daniela e Olivia per il primo dei colloqui individuali. Mi ero preparato bene. Avevo in testa le domande che avrei dovuto fare, e le cose che credevo di sapere. Invece, le due donne mi avevano spiazzato, avevano disegnato traiettorie al di fuori – e al di là – dei binari che avevo immaginato di percorrere con loro. “Fortuna che arrivano in mio aiuto le vacanze di Pasqua – mi ero detto – e la possibilità di fissare il prossimo incontro dopo aver condiviso i miei dubbi e le mie sensazioni con il prof. Cancrini e il gruppo”.
Olivia e Daniela si erano lasciate. Dopo aver rappresentato attraverso i quadri di sogno l’unicità del loro rapporto, avevano concluso la giornata – e la loro storia – facendo l’amore in un albergo. La decisione di chiudere l’aveva presa Daniela, ma Olivia l’aveva accolta senza illudersi. Almeno così diceva. Ero confuso, e disorientato. Mi chiedevo se fosse possibile che le sculture avessero un effetto così dirompente, e repentino. La supervisione arrivava puntuale. Come l’antidoto che azzera il veleno. O come il boia che presenzia al patibolo. Il prof. mi osserva e accenna un sorriso. Io resto in silenzio, aspetto, cercando di decifrare il suo sguardo. “Le preoccupazioni del terapeuta possono rischiare di snaturare l’incontro. Il paziente dice sempre molto di sé e lavorare nel qui ed ora significa ascoltare il paziente. Sei un terapeuta sensibile: devi avere cura di coltivare un clima emotivo che faciliti il cambiamento. Aiuta le ragazze a dare parole al dolore, a dare significato alle proprie richieste, e a far emergere le loro voci”.
Ero più sereno, sentivo che il mio viso stava ritrovando il suo colore naturale. La mia confusione nasceva dall’ansia e dalla “necessità” di dover rispettare un protocollo. Meccanismi difensivi che probabilmente erano legati all’altra terapia di coppia – quella che mi vedeva come paziente e che si era interrotta dopo pochi incontri. Era facile ora ricordare le parole del prof. sul compito del terapeuta: quello di allargare il campo delle scelte possibili perché, come diceva Bateson [37], è la coppia stessa a diventare l’artefice della propria guarigione. “Se l’atmosfera rimarrà invariata e la coppia continuerà a portarci miglioramenti, bisognerà «allargare la rete» e iniziare a vederle prima dopo un mese, poi dopo due mesi... Se la crisi arriverà, si andrà avanti col protocollo, altrimenti si asseconderà l’evoluzione che ci porteranno”.
Era il momento di parlare di Emma. Al ritorno dalle vacanze, la bimba aveva chiesto alla madre perché la “zia Dani” non fosse a casa ad aspettarle. Le volte precedenti, Emma le aveva chiesto con insistenza quando avrebbero fatto la pace ma, stavolta, Olivia le aveva spiegato con parole semplici e sincere che alcune cose erano cambiate: la mamma e Daniela si volevano sempre bene, ma in modo diverso. Poi, aveva rassicurato la figlia che la zia Dani avrebbe continuato a volerle bene e a trascorrere del tempo con lei. Olivia, inoltre, aveva lasciato la tavola calda e ora lavorava part-time come commessa. In questo modo, avrebbe avuto il tempo – e soddisfatto il desiderio – di trascorrere i pomeriggi con la sua Emma.
UN MESE DOPO, 7 maggio 2009 
Le stanze sono stranamente silenziose, e l’unico rumore è quello di una lieve brezza calda che soffia dalle finestre. Ad attendermi in sala d’attesa c’è solo Olivia. La ragazza mi accoglie con un sorriso e mi informa subito che Daniela è al lavoro alla tavola calda ma arriverà in tempo per il suo colloquio.
IL COLLOQUIO CON OLIVIA
«A volte la mancanza è la misura dell’amore... il suo calco vuoto... a volte sembra l’opposto, e forse lo è... l’opposto dell’amore non è l’odio... ma il vuoto che ci resta quando ci manca l’altra parte di noi... una sola parola per dire più di tutto... mancanza» [38].
Olivia indossa un top bianco e un paio di jeans con un cinturone beige in pelle. Il trucco violaceo disegna traiettorie di un viso più deciso, le labbra rosse sembrano tradire una certa impazienza mentre i suoi occhi marroni si muovono timidi e leggeri.
La ragazza racconta che, il giorno dopo il nostro incontro, Daniela è andata a casa sua e insieme hanno parlato con Emma. Olivia aveva già spiegato alla sua bambina che alcune cose erano cambiate ma era importante che lo facessero anche insieme. Le due donne l’hanno rassicurata che la zia Dani, qualche volta, andrà a prenderla all’asilo e passerà il pomeriggio con lei; qualche altra volta, invece, potranno cenare tutte e tre insieme. È stato un momento molto commovente, suggellato da un lungo abbraccio. Il sabato successivo, Olivia e Daniela hanno festeggiato la loro separazione con un gruppo di amici perché “…abbiamo deciso di lasciarci in modo meno doloroso”. Hanno scelto di dirsi addio proprio dove il loro amore era cominciato, nel momento cristallizzato del primo incontro, alla tavola calda. Quella sera, Olivia ha sperato che il giorno non sorgesse, che il tempo si fermasse lì, in quel ristorante dove stavano così bene, avvolti dal fumo di questa bettola e dal calore illusorio della notte, poiché sapeva che l’avvento del giorno avrebbe portato con sé la prova che il tempo passava, irrimediabile e distruttivo, ed era passato sopra al loro amore. Al suo amore.
Qualche giorno dopo, Olivia ha deciso di partire con Emma per Napoli, e di festeggiare la Pasqua con la sua famiglia. In quei giorni, Olivia ha fatto il suo coming out. Ha raccontato della sua storia d’amore con Daniela e di quanto sia stata male quando è finita. I suoi genitori l’hanno ascoltata in silenzio, senza fare domande: “Me l’aspettavo, in fondo. Sono molto discreti… e poi credo se ne fossero accorti…”. La sorella, invece, l’ha abbracciata e le ha detto che l’aveva intuito subito ma aveva preferito aspettare che fosse lei a parlargliene. Olivia aggiunge che ha voluto mettere le cose in chiaro – “perché non c’era niente da nascondere e di cui vergognarmi” – e fugare eventuali dubbi o malintesi. Una scelta che le ha dato ancora più tranquillità perché “io sono una molto visibile con tutto il resto dell’universo e non lo ero invece con la mia famiglia”.
Nella settimana trascorsa a Napoli, Olivia non ha sentito Daniela ma ha pensato molto a lei: “Io… io l’ho delusa. Lo capisco adesso e me ne dispiace. L’ho esasperata con la mia gelosia e lei ha avuto paura”. Olivia fa fatica ad andare avanti. Il suo amore interrotto è un pensiero fisso. Spera che ci pensi la sua mente da sola a darle pace. Magari, addormentandosi con quel pensiero in testa, sognerà finalmente la storia che le manca. E al suo risveglio scoprirà che non è solo un bel sogno. Purtroppo, non va mai così. Non sogna nulla.
Il rientro a Roma, sulle prime, lo ha vissuto un po’ male: la città le è sembrata enorme e vuota. E poi ha pensato che Daniela in Sardegna avrebbe incontrato Teresa e avrebbe fatto l’amore con lei… o che sarebbe stata con qualcun’altra. Perché, stavolta, era diverso. Per la prima volta la ragazza le aveva espresso il desiderio di incontrare qualcuno… La voce di Olivia si fa incerta, e lo sguardo tradisce un’incredibile tristezza. Poi, tira il fiato e racconta che quando aveva capito di amare Daniela, molto prima di confessarglielo, aveva deciso che nulla avrebbe potuto fermarla. “Era come se non mi fossi mai resa conto del vuoto che avevo dentro, come se ci fosse sempre stato un filo nero di solitudine a stringermi la testa e il cuore. Non ho mai provato per altri ciò che ho provato per lei, ed è ancora così, nonostante quello che è successo. Ma ho deciso di andare avanti”. Il giorno successivo, dopo avere accompagnato Emma a scuola, Olivia ha ricevuto la telefonata di Daniela. Le due ragazze hanno parlato un po’ di loro, e di Emma. Si sono accordate sul fatto che Daniela andasse a riprendere la bambina a scuola e trascorresse il pomeriggio con lei. Per un istante, Olivia ha sentito un brivido attraversarle il petto. Poi è salita sulla sua bicicletta ed è andata al lavoro. Il fine settimana, ha ripreso la sua videocamera digitale e ha coinvolto Emma nella realizzazione di un documentario da presentare al festival internazione del giornalismo. Olivia non riusciva a ricordare l’ultima volta che lei e la sua bambina avessero riso tanto, e insieme. Così, ha pensato che la primavera romana esercitava ancora un incredibile fascino su di lei. E che, tutto sommato, era felice di essere tornata a Roma.
IL COLLOQUIO CON DANIELA
«Preferisco così, senza troppo rumore, come quando si sta soli dietro una porta a guardare che spiove. Preferisco così, senza niente da dire, che un amore si sa prima o dopo rubato sarà. Preferisco così che non c’è niente da fare, solo stare seduti a una porta qualunque a guardare che spiove» [39].

Daniela arriva con dieci minuti di ritardo. Indossa una camicia blu e un paio di jeans. È affannata e stanca. I suoi capelli ricci sono ancora arruffati, e sul viso si osservano piccole goccioline di sudore e occhiaie bluastre, nascoste solo in parte dietro le sue lenti da miope.
La ragazza racconta che, al termine dell’incontro precedente, lei e Olivia hanno deciso di parlare insieme con Emma. Il giorno dopo, Daniela è andata a casa di Oliva: “Le abbiamo detto la verità sul rapporto tra me e sua madre… E le abbiamo spiegato che, anche se non dormiamo più nella stessa casa, continuiamo a volerci bene e che lei può chiamarmi tutte le volte che vuole”. Emma le ha abbracciate con la sua dolcezza e poi sono andate tutte e tre a pranzare al McDonald’s. Daniela prosegue il racconto. Ora la sua voce è più bassa, le parole inciampano fra le pause e tradiscono un certo pudore. È il momento di parlare della “festa della separazione”. Daniela dice che è stata un’idea di Olivia, e che sulle prime lei non era convinta ma, alla fine, si è lasciata coinvolgere. Le due ragazze hanno prenotato una tavolata nella trattoria dove tutto è iniziato e hanno festeggiato con un gruppo di amici fino alle tre del mattino. “A un certo punto, Olivia ha alzato gli occhi verso di me, mi ha sorriso e ha avvicinato il suo bicchiere di vino rosso verso il mio per invitarmi a brindare…”. Daniela rivela di essere rimasta interdetta e stordita per un istante, come davanti a un gesto inspiegabile, quasi sconveniente, un’offerta inattesa di dolcezza… Poi, “passato il momento di sorpresa, mi sono sentita stranamente bene”, ed è stata grata a Olivia per il sollievo che le dava. Si sentiva come se la ragazza la restituisse a un’esistenza che non si era nemmeno accorta di avere perso in un modo così definitivo.
Pochi giorni dopo, Daniela e il fratello sono partiti per la Sardegna. Daniela avrebbe voluto restare a Roma ma il fratello l’ha convinta a partire con lui con la scusa della Pasqua. I loro genitori sono stati felici di rivederli e la sorella non ha perso occasione di sfottere “i due romani”, nel tentativo di mascherare la sua gelosia. L’unica sera che è uscita, ha incontrato Teresa in un pub. La ragazza era con un gruppo di amiche e Daniela ha avuto la sensazione che flirtasse con una di loro. Le due ragazze si sono lanciate uno sguardo fugace e un saluto da lontano. Daniela dice che non si aspettava nulla perché era convinta che oltre non ci fosse nulla: solo l’indifferenza, il vuoto, la superficie secca del suo cuore inaridito… “Non so cosa voglia dire felicità. Ci penso spesso, perché felicità è il nome che ho dato solo al primo giorno che ho passato con Olivia, anche se non sono sicura che sia il modo giusto di chiamare quei momenti”.
In quale altro modo poteva chiamarli? Che cosa le torna in mente quando pensa a Olivia? “Penso che per tutte e due la vita sia stata dura e che a volte ci sia capitato di accontentarci quando non avremmo dovuto farlo, e che al centro delle nostre vite ci sia un misto di dolore, rabbia e solitudine”. Daniela sentiva il bisogno di tornare in superficie. E aveva paura di non riuscirci. Come quando, da bambina, si lanciava nel fiume insieme a suo padre e aveva paura di non arrivare all’altra sponda. Ma aveva la tenace speranza di riuscirci.
Tornata a Roma, Daniela ha ripreso il suo lavoro alla tavola calda con un’aria malinconica. Forse perché aveva ripensato alla “festa della separazione”. O forse perché aveva dato fondo alla sua riserva di sogni. “Quand’è che ho smesso di amare Olivia?” – si è chiesta prima di chiamare la ragazza. Però era un pensiero troppo spaventoso… e lei era troppo esausta… Daniela dice che le sembrava di aver vissuto la vita di qualcun altro, non la sua: “Era come se fossi stata strappata via dal tempo e poi ci fossi stata rituffata dentro e dovessi riprendere da dove avevo lasciato”. Non le restava davvero più nulla da desiderare? Che cosa poteva fare? La ragazza dice che forse ciò che sta cercando di fare è sgomberare uno spazio in mezzo alle macerie, attraverso tutte le ansie e le incertezze, dove possa semplicemente esistere, facilmente e in modo naturale, integra, per tutto il tempo che rimane.
LA QUARTA SUPERVISIONE, 19 maggio 2009
«Non ci si toglie la vita per amore di una donna. Ci si toglie la vita perché un amore ci rivela nella nostra nudità, nella nostra miseria, nel nostro essere indifesi, nella nostra nullità» [40].
L’ultimo dei colloqui individuali con Olivia e Daniela si era svolto a distanza di un mese da quello precedente. Ero stato attento a seguire il suggerimento del prof. Cancrini: “Aiuta le ragazze a dare parole al dolore, a dare significato alle proprie richieste, e a far emergere le loro voci”. Perché quando si è feriti ci si può far accarezzare, ma si può anche mordere ferocemente l’altro, mossi dalla frustrazione, dall’impotenza, e dalla rabbia.
Il “clima emotivo” fuori e dentro lo spazio di terapia stava cambiando. Olivia e Daniela avevano festeggiato la loro separazione con un gruppo di amici perché “…abbiamo deciso di lasciarci in modo meno doloroso”. Olivia aveva fatto coming out con la sua famiglia e, per la prima volta dopo molto tempo, si era sentita libera e leggera. Il suo amore interrotto era ancora nei suoi pensieri ma la ragazza aveva deciso di andare avanti da sola, con la sua bambina. Di tanto in tanto, anche Daniela aveva un’aria malinconica. Tuttavia, desiderava trovare uno spazio – il suo – in mezzo alle macerie, le ansie e le incertezze. Entrambe stavano cercando di mettere a punto le distanze e di ridisegnare i confini di un rapporto che cambiava con loro, e di avventurarsi gradualmente verso l’esterno, con maggiore sicurezza e meno paura. Inoltre, Olivia e Daniela avevano parlato con Emma e insieme l’avevano rassicurata che la zia Dani, qualche volta, sarebbe andata a prenderla all’asilo e avrebbe passato il pomeriggio con lei; qualche altra volta, invece, avrebbero potuto cenare tutte e tre insieme. Era stato un momento molto commovente, suggellato da un lungo abbraccio.
Il prof. osserva che le due ragazze sembrano confermare il mantenimento della separazione, e l’assenza di tensione e scontri: “…in questo caso il terapeuta aiuterà la coppia nel processo di elaborazione della perdita”. Contemporaneamente, entrambe si stanno muovendo verso una maggiore realizzazione personale, riprendendo quel percorso di individuazione che forse si era interrotto al momento della costruzione della coppia. Infine, il prof. mi suggerisce di allargare ancora le maglie per verificare la tenuta delle due ragazze. “Se confermeranno il trend positivo, le rivedrai dopo l’estate per un ultimo incontro. In questo caso, è preferibile suddividere l’incontro in due colloqui individuali e uno comune, in cui restituire il senso del lavoro svolto e congedarle con l’idea che ora possono continuare da sole. Se non ci saranno crisi, farai un follow up telefonico dopo un annetto”.
Il giorno che avevo sentito Daniela al telefono, non ero certo che le due ragazze avrebbero intrapreso un percorso di coppia. E quando avevo conosciuto Olivia, le mie mezze certezze avevano subito un duro colpo. Mi sbagliavo. Benché la fine del loro amore fosse straziante, le due ragazze erano decise a percorrerla tutta. Io ero lì, di fronte a loro. Un po’ disorientato, e un po’ felice. E con uno sguardo rivolto a quell’altra terapia di coppia – la mia – che si era interrotta.
DUE MESI DOPO, 9 luglio 2009
Sono le sei di pomeriggio e il sole è ancora caldo e rotondo. In sala d’attesa, Olivia legge con voce smorzata ma udibile l’articolo di un giornale mentre Daniela la ascolta in silenzio, fissando qualcosa fuori dalla finestra. Dopo i saluti, Olivia chiude il giornale e lo appoggia sulla sedia. “Vengo io, per prima” – dice con un sorriso largo e impacciato.
IL COLLOQUIO CON OLIVIA
«[…] E fra mille e mille ti riconoscerei. Dimmi anima mia la paura dell’amante, dell’amante che in me cerca te. Dimmi anima mia come nascere dal niente. Se non ho che te resta con me. Dimmi anima mia il segreto dell’amante, dell’amante che resta con me» [41].
Olivia indossa un vestito chiaro da mercatino vintage e un paio di sandali rossi. Ha uno sguardo dolce e aperto, e un’aria più serena e leggiadra.
La ragazza racconta che, nei due mesi precedenti, lei e Daniela hanno continuato a vedersi: “Ci stiamo prendendo le misure, stiamo provando a disegnare il perimetro di un nuovo rapporto”. Emma è serena, trascorre molto tempo con la zia Dani, ed è felice. Ora tra le due donne è rimasto un sentimento semplice e profondo. A Olivia era mancato l’affetto di Daniela, parlare con lei, il suo modo goffo di vedere il mondo, ma “…non mi mancava la persona che ero con lei. Era come se una parte di me stesse cercando di uscire da una specie di vortice che tentava di trattenermi”. Non era facile, e non c’era da illudersi che lo sarebbe stato. Una settimana dopo la fine della scuola, Olivia ha accompagnato Emma dai nonni a Napoli ed è tornata a Roma. Il giorno dopo, non aveva voglia di ritrovarsi nella sua casetta, svegliarsi, lavarsi, vestirsi, andare al lavoro… È stata sul punto di chiamare Daniela e di chiederle aiuto, però “ce l’ho fatta da sola. Mi sono messa la mia camicia bianca, e i miei jeans a vita bassa che mi ncocciano un po’ sui fianchi ma secondo me mi stanno bene, mi danno un’aria aggressiva. Ho preso il mio zaino, mi sono sistemata i capelli con le mani, un po’ di rossetto, e poi mi sono data un’occhiata allo specchio… Mi sono appiccicata un bel sorriso in faccia, ho preso la bicicletta e sono uscita”. Dopo il lavoro, si è incamminata nella piazza ancora piena di sole, ha telefonato a una sua vecchia amica della compagnia teatrale che l’aveva cercata nei giorni precedenti e ha preso un aperitivo con lei. E poi, alla fine, sono andate al cinema. È stata una serata piacevole, e strana. Era come ritornare in superficie dopo essere stati sputati in una fogna.
“All’inizio ero così sconvolta perché Daniela se ne era andata da non riuscire a fare nulla, da non riuscire a pensare a nient’altro. Poi è arrivata la rabbia, perché merito di più del modo in cui mi ha lasciata. Sono una collezionista di abbandoni. Il primo è stato mio padre, poi è stato il turno del papà di Emma, poi Marco, e ora Daniela…”. Olivia dice di essere stata tradita così tante volte che il tradimento è una realtà che conosce bene e, probabilmente, lei stessa ha contribuito a creare le condizioni perché potesse ripetersi. “Cosa c’è in me che non va? Sembra che io faccia di tutto per farmi abbandonare, e per restare sola… È questo, forse, che si deve temere sempre – che ciò che scegliamo di amare, sceglierà di abbandonarci?”. Riesco a sentire nelle parole di Olivia una potente combinazione di inquietudine e di attesa.
È possibile rintracciare un fil rouge che leghi le sue storie? Olivia dice che, forse, questa sua attitudine a presentarsi come una ragazza bisognosa, sofferente, da accudire, possa aver finito col mettere in fuga le persone che le vogliono bene, perché è una responsabilità troppo grande quella che lei richiede, e poi alla lunga può annoiarle. “Mi ustiono o mi taglio” – aveva pensato qualche volta, quasi fosse la soluzione del problema. Perché un’ustione o un taglio potevano essere mostrati, curati, potevano cicatrizzarsi o guarire; comunque sarebbero stati lì, ben visibili, sulla superficie del suo corpo, piuttosto che divorarlo da dentro.
E oggi? Quali sono le sue sensazioni, i suoi pensieri? Olivia intravede un qualche elemento di novità? Qual è il suo orizzonte di crescita? “Non lo farò. Non mi farò del male per Daniela, sperando che se ne accorga e torni da me, impietosita e arrabbiata”. Olivia dice che stavolta non resterà in attesa del ritorno di Daniela, ha deciso di non tornare indietro. Anche se il pensiero di essere da sola la spaventa molto. Quali sono le fonti di sostegno sulle quali può investire in questo momento? Olivia le riconosce nel lavoro e nel rapporto con Emma, e in quelle che definisce le sue due risorse principali: la curiosità e la tenacia. Non si sente, invece, sostenuta dalla madre. Anche se, probabilmente, è lei stessa che rapportandosi con la madre da figlia sofferente e bisognosa, la induce a trattarla come una bambina da consolare e controllare e, all’occorrenza, redarguire. La ragazza, inoltre, si è chiesta perché avesse accettato, all’inizio, di venire in terapia sapendo che sarebbe servita solo a Daniela, visto che era come aiutare Daniela a lasciarla. Ora, però, è diverso. Sente che la terapia ha (avuto) un senso anche per lei. “Sento che è il momento di rimettermi in gioco, anche se ho paura di sbagliare i passi… e qui sono in una zona protetta in cui proseguire le mie esplorazioni”.
Olivia lavorerà fino a fine luglio, e poi raggiungerà Emma a Napoli. Non sa ancora cosa farà durante l’estate. Noi ci rivedremo i primi di ottobre, per un ultimo incontro.
IL COLLOQUIO CON DANIELA
«Sono solitaria come l’erba. Che cos’è che mi manca? Lo troverò mai, questo qualcosa che non so?» [42].

Daniela si adagia al centro del divano. È esausta, e si sfrega con forza gli occhi. Il turno alla tavola calda è stato faticoso, in questo periodo ci sono molti turisti. Dopo il lavoro è passata da casa, il tempo di una doccia e riprendersi un po’. Ma è servito a ben poco: “Sull’autobus, al calore del sole credo di essermi perfino assopita qualche minuto”.
La ragazza racconta che in questi due mesi lei e Olivia hanno ripreso a vedersi con più frequenza e che si stanno impegnando per avere un dialogo più disteso e aperto. Anche Emma è più serena, e hanno trascorso molto tempo insieme. A Daniela piace stare con la bambina. Le piace sentire che c’è un luogo al quale appartengono. C’è un legame speciale tra loro.
Daniela dice che, all’inizio, parlando con Olivia si è resa conto che la ragazza in questi pochi mesi stava facendo molti progressi mentre lei sembrava essere rimasta ferma, e questo le ha fatto venire l’ansia, l’angoscia. “Le ore erano vuote, lente e pesanti, il tempo sembrava essersi fermato, non scorreva più niente nella mia vita. Non essere più con Olivia, era come se, dopo giorni e giorni di tempesta, il vento fosse cessato”. Ogni istante, con lei, era esasperato, sconvolgente, teso, drammatizzato. Per tutto il tempo della loro storia, Daniela aveva sentito continuamente il suo potere magnetico, la sua aurea, l’elettricità della sua presenza nell’aria, la saturazione dello spazio nei luoghi dove lei entrava. E ora più niente, la calma del pomeriggio, la fatica e la noia, il susseguirsi delle ore… La solitudine la stava chiudendo. Costringendo a vivere senz’aria. La ragazza aveva ristretto la sua vita a una sola stanza, a una manciata di pensieri, alle stesse stanche, tristi abitudini.
Quale significato ha questa spia rossa, questo allarme intermittente che colpisce il cuore e congela i pensieri? In che modo può essere disinnescato? Daniela dice di essersi trovata davanti a un bivio. Poteva scegliere di tornare indietro e ripercorrere sentieri faticosi ma già battuti, oppure rischiare ed esplorare nuove strade e nuove relazioni. La ragazza ha deciso di puntare sulle sue forze. E, pian piano, qualcosa è iniziato a cambiare, facendola venire fuori da questo torpore. La semplice presenza di alcune amiche è stata sufficiente a srotolare di nuovo la sua vita. “Ho smesso di controllare tutto ciò che mi circondava, e mi sono sentita meno fuori controllo”. Una sera Daniela era in un pub vicino al Colosseo, aveva accettato l’invito di alcune ragazze con cui aveva frequentato la scuola dei fumetti. Quella stessa sera è accaduto l’ennesimo pestaggio ai danni di due ragazzi omosessuali. “Ho pensato a com’è facile per un uomo e una donna. Possono stare in strada a parlare, a flirtare… possono tenersi per mano, baciarsi, o qualsiasi altra cosa… e il mondo si mostra indulgente nei loro confronti. Mentre, due uomini o due donne…” – le sue parole e i suoi occhi sono pervasi da un senso di infelicità e rabbia.
Daniela ha pensato a cosa avrebbe potuto fare. Ha deciso di impegnarsi attivamente nella lotta all’omofobia e ha iniziato a collaborare con un noto circolo di cultura omosessuale. “Vorrei che il mondo fosse diverso. Detesto dover vivere di nascosto. Perché non possiamo anche noi sposarci, e adottare dei bambini?”. Le hanno proposto di realizzare un documentario sulla vita dei ragazzi gay a Roma e sulla diffusione sempre più crescente di episodi di tipo omofobico. La ragazza ne ha parlato con Olivia che si è mostrata subito entusiasta, e l’ha incoraggiata.
Daniela dice di avere il desiderio di conoscere qualcuno, di innamorarsi… “A volte mi chiedo se quello che mi ha fatto sentire più in trappola – l’amore – non fosse, paradossalmente, il mondo nel quale sarei potuta entrare. Forse, amare significa fidarsi completamente. Cosa sarebbe successo se mi fossi fidata davvero di Olivia?”. La ragazza racconta che questi pensieri le arrivano solo di notte, quando si sveglia col cuore che batte veloce. Durante il giorno, “mi convinco che ho fatto bene a lasciare Olivia”. Daniela dice che non può definirsi felice ma è senza dubbio più serena. Il suo orizzonte appare più aperto: “Vorrei riuscire a fidarmi dell’amore… e di me stessa”. La ragazza lavorerà fino a fine luglio, poi tornerà in Sardegna per l’estate. Anche con lei, appuntamento ai primi di ottobre, per un ultimo incontro.
DOPO 3 MESI, 8 ottobre 2009
L’autunno romano saltella fra gli alberi mentre l’ultimo sole getta una rete dorata su ogni cosa, prima che il buio penetri le ore e la luce si spenga con un bagliore. Daniela e Olivia mi accolgono con un sorriso aperto e leggero. «È tempo di migrare», anche per noi. Quest’ultimo incontro sarà suddiviso in due colloqui individuali e uno comune. “Stavolta comincio io” – chiosa Daniela.
IL COLLOQUIO CON DANIELA
«Senza nessun bisogno di affrettarsi. Nessun bisogno di mandare scintille. Nessun bisogno di essere altri che se stessi» [43].
Il viso di Daniela è disteso, e mostra ancora i colori dell’abbronzatura. I capelli sono più corti, e hanno sfumature ramate. La ragazza ha lavorato alla tavola calda fino alla prima settimana di agosto. Poi è partita per la Sardegna e ha trascorso l’estate con la sua famiglia.
Qualche giorno dopo, Daniela ha raccontato ai genitori e alla sorella della sua omosessualità. Davide – il fratello – le ha offerto la sua presenza e il suo sostegno. Laura sulle prime non l’ha presa bene. Era arrabbiata, furiosa, e forse anche gelosa. Daniela ha cercato di spiegarle le sue ragioni, poi le ha lasciato il tempo di decidere quando ritornare. Quella stessa sera, Laura l’ha raggiunta in giardino, e si è avvicinata a lei, stropicciandosi gli occhi con le mani. Daniela le ha tenuto il viso fra le mani, come faceva quando era piccola. Poi, le due ragazze si sono guardate dritte negli occhi, ed è stato come se sentissero la stessa cosa nello stesso istante, e il fatto di saperlo le ha rese più forti e vicine di quanto pensassero di essere qualche minuto prima. Come si spiega la reazione emotiva di Laura? Quali sensazioni le ha restituito? “Si è sentita presa in giro. Lei si confidava con me, mi chiedeva delle mie storie… e io l’ho delusa. Proprio io che volevo vivere l’amore alla luce del sole, le ho mentito… Pensavo di proteggerla, – da cosa, poi? – e, invece, stavo proteggendo me stessa. E mi sbagliavo”.
Daniela ha gli occhi lucidi e leggeri, e un filo di voce. È convinta che i suoi genitori l’avessero capito da tempo e che fingessero di non saperlo per discrezione e perché rispettavano i suoi tempi: “È stato come se mi leggessero dentro. Ho risposto alle loro curiosità precedendo ogni domanda. In fondo, erano domande ovvie… e loro sono stati tranquilli”. La ragazza ha deciso di fare coming out perché le sembrava di occultare una parte importante di sé e della sua vita. Perché proprio ora? Daniela dice di averlo fatto perché ha ritrovato una certa serenità e che la scelta di Olivia l’ha incoraggiata. Daniela racconta di una lunga passeggiata col padre lungo il fiume, quello stesso fiume dove lui la portava da bambina… Con il padre ha sempre avuto un rapporto speciale, fatto di poche parole e di molti sguardi complici, e di buon vino rosso. E proprio per questo, forse, Daniela ha avuto paura. Ha temuto che il loro rapporto potesse cambiare e ha deciso di parlargli come mai avevano fatto. Gli ha raccontato delle sue tre ragazze e il papà, con un sorriso sornione, le ha detto che erano molto belle.
Daniela prosegue il racconto della sua estate: a mezzogiorno andava al mare con la madre e un’amica, nel tardo pomeriggio tornava a casa, dormiva un paio d’ore e poi usciva la sera. La ragazza dice di avere pensato molto alla terapia… A volte, quando era da sola in camera, abbinava a quei luoghi del suo paese ricordi ed emozioni spiacevoli,… “ma ho lottato molto per non lasciarmi condizionare…”. Daniela dice che il suo paese la fa stare bene e male, e a un certo punto le sembrava che tutti avessero problemi, paranoie. Così, il 26 agosto ha sentito di non poter più reggere e ha deciso di tornare a Roma. “Un rientro perfetto”.
Durante l’estate, ha sentito spesso Olivia, e ha chiamato più volte anche Emma. Olivia è stata la prima a cui Daniela si è rivolta quando ha deciso di rivelare alla famiglia la sua omosessualità. Probabilmente, nessuno meglio di lei avrebbe potuto comprendere ciò che provava. Daniela, inoltre, è stata felice di sapere che la ragazza stava trascorrendo l’estate in giro con le sue amiche e che si divertiva… “Dai suoi racconti, mi sembrava che fosse in una specie di comune di lesbiche… e confesso di averla invidiata un po’…”. Tornata a Roma, Daniela ha lasciato il lavoro alla tavola calda, ha ripreso la sua attività al circolo di cultura omosessuale e ha trovato lavoro in un’agenzia di grafica – “…era l’unico lavoro decente a portata di mano”. I primi di settembre, sono tornate anche Olivia ed Emma. La ragazza ha deciso di far loro una sorpresa e le ha raggiunte in stazione. Poi, sono andate a pranzo tutte e tre insieme, e nel pomeriggio, hanno accompagnato Emma a scegliere quaderni, penne, e matite, per il suo primo giorno di «scuola elementare». Una settimana dopo, “è stata un’emozione fortissima vederla entrare a scuola…”.
Quali erano/sono le sue aspettative? “Quando ti ho telefonato, volevo il tuo aiuto solo per lasciare Olivia. Non sapevo come, e non pensavo al dopo…”. Pian piano, anche grazie a questo spazio, le sue aspettative si sono modificate. “Abbiamo cercato di risolvere alcune cose che ostruivano le nostre vite, e siamo più serene. Non penso che sia finita qui ma ora ho meno paura”. Era stato necessario mettere a punto le distanze e ridisegnare i confini di un rapporto che cambiava insieme a loro. Solo così, era possibile stare vicine senza farsi male. Ora Daniela era tutta presa dalla sua nuova avventura, e dalla realizzazione di un documentario con Olivia.
IL COLLOQUIO CON OLIVIA
«Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti» [44].

Olivia indossa una blusa bianca e con merletti, un paio di jeans a vita bassa e un cappello beige. La sua pelle diafana appare distesa e serena, e gli occhi hanno una luce morbida che non saprei dire. Olivia sorride e mi sembra diversa, arrivata da non si sa dove.
La ragazza racconta di aver lavorato in negozio fino a fine luglio e poi, i primi di agosto, si è regalata una bella vacanza – “non prevista e meritatissima” – in Emilia e in Lombardia dalle sue migliori amiche. In quelle settimane, Olivia è stata benissimo: “Le mie amiche mi hanno messa in ‘terapia’, e mi hanno tenuta occupata, impegnata… E mi hanno fatto conoscere molte coppie di donne con storie diverse”. Cosa ha imparato da questa esperienza? Quali emozioni le ha evocato? In che modo può esserle utile nella vita di tutti i giorni? “Avrei potuto continuare a urlare la mia disperazione, mostrarne i segni sulla pelle, e imprecare contro un destino che mi voleva sola… e, probabilmente, avrei ottenuto che anche qualcun altro si prendesse cura di me. E mi sarei chiesta, ancora una volta, se non fosse per pietà piuttosto che per amore. Non potevo permettermelo. Le mie amiche non me l’hanno permesso. Invece di coccolarmi, mi hanno sbattuto in faccia il dolore degli altri, e il coraggio quotidiano di lottare. Avevo toccato il fondo, ed era il momento di risalire. E stavolta, con le mie forze”.
Nel corso del mese, Olivia e Daniela si sono sentite più volte, e si aggiornavano costantemente sulle proprie esperienze. Olivia è stata felice di sapere che la ragazza aveva deciso di fare coming out con la famiglia e, anche se a distanza, le ha offerto il proprio sostegno emotivo. Da parte sua, Daniela ha espresso la propria soddisfazione nel sapere che Olivia trascorresse l’estate con le sue amiche e si divertisse. Olivia ha sentito spesso la sua bambina: Emma aveva nostalgia della sua mamma, come lei sentiva la mancanza della figlia. Tuttavia, Olivia è convinta che abbia fatto bene anche alla bimba stare un po’ via… “Emma si è divertita, al mare con i nonni, e sembra essere tornata dalle vacanze molto più serena”. A fine agosto, Olivia ha raggiunto la sua famiglia a Napoli e, i primi di settembre, è tornata a Roma con Emma. Daniela ha fatto loro una bella sorpresa ed è andata a prenderle in stazione. Hanno pranzato tutte e tre insieme e poi sono andate a scegliere la cartella, i quaderni, il diario, e l’astuccio con le penne e i colori… perché “Emma era eccitata all’idea di iniziare la scuola dei bimbi grandi”.
Due giorni dopo, Olivia ha chiamato Daniela e hanno deciso di cenare insieme. Le due donne si sono raccontate i dettagli delle rispettive esperienze e i progetti. Olivia ha sostenuto la decisione di Daniela di lasciare la tavola calda e l’ha incoraggiata a riprendere il lavoro di grafica. Anche Daniela ha fatto i complimenti a Olivia, e la ragazza le ha risposto che… “il merito è delle donne che ho conosciuto. Mi hanno fatta sentire un sex symbol…”. Daniela le ha ricordato di averglielo riconosciuto più volte anche lei ma Olivia le ha risposto che, in questo caso, lei non c’entrava niente, e ha aggiunto che vedere tutte quelle donne che, in mezzo alle difficoltà, sono felici di stare insieme, l’ha fatta riflettere molto e le ha dato grande forza e tranquillità… “questa era una cosa che mi piaceva della famiglia di Daniela”. Quali sono le sue aspettative? Come immagina i prossimi mesi? “Ora che anch’io sono più serena, posso organizzarmi per seguire Emma al meglio, senza privarmi dei miei spazi. Sono molto orgogliosa di lei… è una bambina dolce e coraggiosa… ho provato un’emozione fortissima il suo primo giorno di scuola… io e Daniela sembravamo due idiote, mentre lei con la mano ci faceva segno di andare via”.
Da quando è tornata a Roma, Olivia ha realizzato una mostra fotografica sulla storia di quelle donne, accompagnata da un breve filmato: “Oggi c’è la prima ma ho avvertito che sarei arrivata con un po’ di ritardo perché volevo essere qui per l’ultimo incontro…”. La mattina, invece, ha ripreso a lavorare – part-time – in negozio, anche se non ne è molto contenta. Pochi giorni fa, un’associazione arcilesbica emiliana le ha proposto di realizzare un documentario da presentare all’interno di un evento nazionale sull’omogenitorialità. La ragazza ne ha parlato con Daniela e le ha proposto di farlo insieme. “È una bella occasione professionale ed economica. Siamo lesbiche, non tonte!” – è stata la risposta entusiastica di Daniela. E le due ragazze hanno già iniziato a buttare giù qualche idea.
Siamo arrivati al termine di questo viaggio. Cosa porterà con sé? Olivia ha uno sguardo leggiadro e trasparente. Dice che la fine della sua storia con Daniela, benché l’abbia fatta soffrire, ha rappresentato l’opportunità di esplorare le proprie zone d’ombra e di mettere a punto le distanze e ristabilire i confini “intorno a noi, fra noi e le nostre vite, fra noi e la nostra libertà”. Ciò ha permesso ad Olivia di avventurarsi gradualmente verso l’esterno, con maggiore sicurezza e meno paura. E ha reso possibile, alle due ragazze, riannodare i fili di un rapporto sincero e autentico, e diverso.
IL COLLOQUIO COMUNE
«I rasoi fanno male, I fiumi sono umidi, L’acido lascia tracce, E le pillole danno i crampi. Le pistole sono illegali, I cappi cedono, Il gas ha una puzza orrenda, Tanto vale vivere» [45].

Sembra trascorsa un’eternità dalla prima volta in cui ci siamo incontrati. Siamo nel punto dove siamo sempre stati, eppure qualcosa è cambiato. Il divano bianco, a quattro posti, è un mare aperto che racconta il coraggio di nuove imprese. Daniela e Olivia sono in alto a poppa, con gli occhi luminosi sulla ruota del timone. Ma non è stato sempre così facile. A volte, il vento soffiava forte e faceva increspare le onde. In quei momenti, bisognava essere attente a scrutare la bussola o le vele, perché il rischio di perdersi e di non ritrovarsi più era in agguato. La paura dell’abbandono e della solitudine erano altissime. Una paura così forte che aveva prodotto una specie di cortocircuito relazionale. Era importante approfondire la storia di Olivia e Daniela e lavorare sulla coppia.
All’inizio, Olivia si è sentita costretta ad accettare la scelta di Daniela di venire in terapia, sapendo che sarebbe servita solo a lei, visto che era come aiutare Daniela a lasciarla. “Ogni volta che lei andava via, restavo in attesa cercando i segni di un suo ritorno. Tutto, anche le cose più stupide, sembravano alimentare in me una minima speranza”. Daniela tornava puntuale nella sua vita, ma la sua vita – e la loro – non cambiava. Le crisi di Olivia erano sempre più frequenti: le convulsioni, le assenze, la rabbia, l’alcool e il vomito, e le corse al pronto soccorso sembravano investire la vita delle due donne e quella di Emma. “Io ti urlo tutto il mio amore, e piango per te… ma a te non importa nulla di me e di noi, non mi ascolti e fuggi via!” – aveva scolpito Olivia nella sua statua vivente. Daniela sentiva che quell’amore aveva reso Olivia sempre più sofferente, bisognosa, aggressiva, e aveva iniziato a disprezzare quel sentimento perché era claustrofobico. La ragazza si sentiva come in trappola, in pericolo. “Di tanto in tanto, il gatto si alzava, marcava il territorio, e poi si avvicinava al girasole, cercando di arrampicarsi sul suo gambo e di afferrarne i petali. Il girasole tremava, aveva paura che il gatto potesse spezzarlo, fare la pipì e bruciare le sue radici, e allora agitava con forza le sue foglie per allontanarlo”. Nel suo quadro di sogno, Daniela (il girasole) sentiva che la vicinanza di Olivia (il gatto) fosse sempre più pericolosa e la distanza l’unico antidoto alla paura dell’aggressività.
“Non è vero che non mi importa. Io provo ad ascoltarti, ma mi allontano perché le tue urla e il tuo amore disperato ci stanno quasi uccidendo” – Daniela era incapace di sostenere il fuoco degli occhi e del cuore di Olivia. Nella sua statua vivente, la ragazza la ascoltava senza parlare, con la mano su un orecchio, indecisa se restarle ancora accanto. E, poi cercava, inutilmente, una via di fuga. “A un tratto, il vento soffiava via e andava a curiosare lontano dal sole. Il sole aveva i brividi, e, per non congelare, faceva appello alle sue risorse di energia. Il vento aveva paura di bruciare e di soffocare, e si nascondeva dietro una nuvola”. Nel suo quadro di sogno, Olivia (il sole) cercava di danzare e farsi cullare da Daniela (il vento) e di essere il suo punto di riferimento. Tuttavia, il vento, preferiva allontanarsi e curiosare qua e là, invece di fermarsi vicino al sole, e sembrava cercare qualcosa che gli manca.
Daniela e Olivia cercavano di mettere a punto le distanze, e di ristabilire i confini. Non avevo dubbi che si volessero bene, ma era altrettanto evidente che non si incastravano più, e che il male che si facevano era diventato intollerabile. Olivia avrebbe potuto rassegnarsi a quel fato beffardo che la condannava all’abbandono, o continuare a urlare tutta la sua disperazione, e a mostrare i segni della sua sofferenza, confidando nel ritorno di Daniela… Avrebbe potuto, certo, e, forse, avrebbe ottenuto che qualcuno continuasse a prendersi cura di lei. Da parte sua, Daniela avrebbe potuto continuare ad entrare e uscire dalla vita di Olivia – concedendosi di tanto in tanto un’ora d’aria –, o fermarsi in quell’abbraccio sofferente e faticoso – magari coprendosi entrambi gli orecchi, o alzando gli occhi al cielo, in bilico fra sentimenti di tenerezza e fastidio, e sensi di colpa. Avrebbe potuto farlo, e, probabilmente, avrebbe continuato ad anestetizzare il fantasma della solitudine.
E, invece, le due ragazze hanno scelto di rischiare e di investire nel loro processo di crescita. Daniela ha prenotato due biglietti e Olivia ha accettato di viaggiare con lei, ancora una volta. Non è stato facile. La tentazione di ritornare indietro e di chiamare casa e amore i luoghi abituali era forte. Come era possibile sopravvivere al loro amore? – si erano domandate più volte. Daniela e Olivia non si sono fermate e hanno proseguito il loro viaggio. La fine del loro amore, benché le abbia fatte soffrire, ha rappresentato l’opportunità di esplorare le proprie zone d’ombra e di mettere a punto le distanze e ridisegnare i confini di un rapporto che era cambiato insieme a loro. E ha reso possibile riannodare i fili di un rapporto sincero e autentico, e diverso.
IL FOLLOW-UP TELEFONICO, marzo 2011
«Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro ma non posso. Troppo ho peccato di peccati non miei, attribuiti a posteri, mancati inganni. Cerco amori nuovi, violente sere. Perdono chiedo a chi non amai. Forse verrò domani ad un prato verde, - e non sarò più solo» [46].

È passato un anno e mezzo dal nostro ultimo incontro. Ho pensato molte volte al momento in cui avrei sentito Olivia e Daniela, e ho fantasticato sui mille e più mille scenari che potevano essersi aperti e chiusi e poi riaperti sulle loro vite. Avevo paura di scoprire quali traiettorie avessero disegnato. C’era un solo modo per fugare ogni dubbio. Chiederlo a loro.
Quando ho deciso di telefonare era un pomeriggio plumbeo e io ero uscito sul balcone per impedire che i miei gatti brucassero le margherite. Olivia ha il cellulare spento. Daniela, invece, risponde subito e il suo tono di voce ha sfumature di affanno ed estraneità. Anche la mia voce inciampa, ma l’accento emiliano mi riconosce. Daniela mi racconta di avere smarrito il mio numero e che lei e Olivia si erano recate al mio vecchio studio ma nessuno aveva saputo dar loro mie notizie. Mi hanno cercato anche su facebook, inutilmente, e alla fine si sono arrese. Qualche giorno dopo, è Olivia a rispondere alla mia chiamata. La donna è stata avvertita da Daniela e la sua voce è decisa e accogliente.
IL COLLOQUIO CON OLIVIA
Olivia mi dice che molte cose sono cambiate nella sua vita da quando ci siamo conosciuti. Lei e Daniela hanno recuperato pian piano un rapporto di fiducia e di amicizia… “Non è stato facile ma, nonostante tutto quello che è successo, ci siamo riuscite. Non ho mai provato per altri un amore così forte, ed è ancora così, anche se non può essere identico. Per tutte e due la vita è stata dura ma il nostro legame non ha mollato la presa… e Daniela è un punto fermo nella mia esistenza e nella vita di Emma”.
Daniela ha conosciuto l’ultimo compagno di Olivia. La ragazza racconta di avere avuto un nuovo amore e di essere stata felice con lui fino a poche settimane fa. Flavio è un avvocato che conosceva già da qualche anno e l’amore è arrivato poco per volta, quando non se l’aspettava e, soprattutto, quando aveva creduto che la sua vita affettiva fosse orientata in altre direzioni. Dopo tre mesi, i due hanno deciso di convivere e hanno cercato casa insieme. Anche Flavio aveva una relazione sentimentale alle spalle e una bambina dell’età di Emma… “ma, stavolta, non è stata una relazione piena di sofferenza e di ansia come quella con Daniela… con Flavio è stato un amore sereno, almeno fino a quando non ho saputo di aspettare un bambino”.
Olivia ha scoperto di essere incinta per caso, e che quello che credeva essere un ciclo irregolare, era in realtà una minaccia di aborto. La donna dice di essere stata felice alla notizia di aspettare un bambino. Anche Emma non stava nella pelle all’idea di avere un fratellino. Flavio, invece, non ha fatto salti di gioia. Ha detto di essere molto preoccupato per la reazione della figlia, ne sarebbe stata di certo gelosa. In quell’occasione, Olivia ha scoperto che Flavio continuava ad essere legato alla madre di sua figlia e che non aveva mai interrotto del tutto quella relazione.
“Un’altra volta… prima Giulio (il padre di Emma), poi Marco, e anche Daniela… e ora Flavio! È una persecuzione, una maledizione…” – la sua testa galleggia sul collo, non sente la terra sotto i piedi… ma, stavolta, la ragazza è decisa, affronta il compagno e gli chiede di scegliere da che parte stare. Olivia voleva un uomo per sé, non un uomo a metà.
Purtroppo, al terzo mese di gravidanza, Olivia, nonostante osservasse scrupolosamente il riposo forzato richiesto dal medico, ha perso il bambino. È stato un dolore fortissimo, lancinante… sentire, per la seconda volta, la lama di una spada che affonda nella carne. Due settimane dopo l’aborto, Flavio è tornato dalla (ex) compagna. Emma ha pianto per giorni, per la bambina l’uomo è stato un buon papà. Olivia ha creduto di non farcela, ha avuto paura che il suo cuore riprendesse a battere forte e si è rivolta al suo psichiatra… “Stavolta è stato diverso. Ho deciso io!”. Daniela le è stata accanto, è sempre con lei ed Emma: loro tre sono una famiglia. Anche la mamma e il “secondo papà” di Olivia sono arrivati da Napoli per esserle vicini e si sono fermati finché la ragazza non si è ripresa del tutto. Per la prima volta, Olivia non si è sentita giudicata dalla madre: “Mi ha abbracciata forte e ho capito che contavo qualcosa per lei… e che mi considerava padrona della mia vita”. Nel corso degli anni, la ragazza si era persuasa di avere ripetutamente deluso la madre, soprattutto a causa delle proprie scelte affettive, e che ciò le avesse fatto perdere il suo amore. Si era spiegata così una simile durezza. D’altra parte, la madre aveva promesso a se stessa che avrebbe protetto la sua “bambina” ad ogni costo. Probabilmente, perché rivedeva in lei la parte più buia di sé. Ma non ci era riuscita. Eppure, proprio ora che il mondo sembrava caderle addosso, la vita concedeva alle due donne una seconda chance.
Olivia non ha perso tempo e ha ripreso a lavorare con entusiasmo. Ora fa la videoreporter freelancer e la fotografa, ma non ha rinunciato alla sua passione per il teatro, e lo scorso anno ha partecipato a un festival internazionale di giornalismo. Dopo aver parlato di sé, Olivia mi dice brevemente che Daniela sta male. Da quando è morto il padre, ha gli attacchi di panico, ma tiene tutto dentro, dice di non avere bisogno di aiuto: “Io cerco di tirarla su ma lei - la conosci - ha la testa dura… è proprio sarda!”. Stavolta è stata Olivia a suggerire a Daniela di contattarmi ma le ragazze non ci sono riuscite. Olivia è molto preoccupata per l’amica, e spera che mi chiami. Sono felice del colloquio con Olivia: la sua vita, anche quella recente, è stata dura. All’inizio era così sconvolta perché Flavio se ne era andato da non riuscire a fare nulla, da non riuscire a pensare a nient’altro. Poi, “è arrivata la rabbia, perché merito di più del modo in cui mi ha lasciata”.
IL COLLOQUIO CON DANIELA
Daniela mi chiede subito se abbia sentito Olivia e, anticipando la mia risposta negativa, mi rivela che hanno pranzato insieme, e che la ragazza è appena andata via. Poi, aggiunge: “Scusami, posso chiamarti più tardi? Sono con mia madre, stiamo andando in aeroporto… è stata da me due settimane e ora riparte per la Sardegna…”. Sono imbarazzato, e confuso. Almeno in parte. È evidente che le due ragazze sono in contatto. Mi chiedo se ciò possa suonare ambiguo e se sottintenda il risveglio di sentimenti trascorsi, o se violi i confini invisibili dell’amicizia. Inoltre, se mi hanno cercato insieme vorrà dire che qualcosa non va! Ma cosa? Avevo immaginato molte volte questa telefonata e – chissà perché – non avevo mai messo in conto l’opzione di non riuscire a soddisfare subito la mia curiosità.
È passata una settimana da quella breve conversazione, quando Daniela mi telefona. La ragazza ha saputo che io e Olivia ci siamo sentiti. “Sai, è cambiata moltissimo. Ammiro il suo entusiasmo, la sua testardaggine nel costruire la sua vita ogni giorno, senza compromessi e senza smettere di lottare per ciò in cui crede. Io, invece, pensavo di essere forte e mi sono scoperta l’ultima nella fila dei deboli”. Credo di sapere cosa Daniela stia per raccontarmi. La sua voce è diventata più bassa, e incerta. Daniela racconta che la mattina del 23 dicembre suo padre è morto di infarto mentre beveva il caffè. Non è riuscita a rivederlo vivo per poche ore. Come tutti gli anni, la ragazza aveva deciso di trascorrere il Natale con la sua famiglia e il suo arrivo in Sardegna era previsto nel primo pomeriggio. Così non è stato. Il dolore e la rabbia hanno ingoiato le sue lacrime, e tutto è diventato improvvisamente nero e senza tempo.
I primi di gennaio, Daniela è ripartita per Roma. Il fratello, invece, ha deciso di tornare a vivere in Sardegna per essere vicino alla madre e alla sorella, e occuparsi dell’azienda agricola. “Se uno di noi muore, l’altro vivrà anche per lui. Se uno di noi muore, l’altro prenderà il suo posto” – ripeteva sempre suo padre. Daniela però è rimasta a Roma, sbranata dai sensi di colpa: “Dovrei essere con loro e penso solo a me stessa…”. Sono tre mesi che le manca il respiro, i battiti del suo cuore si impennano, la notte non riesce a dormire… “Ho gli attacchi di panico, vero? Certe volte non riesco a credere che sia successo, e certe volte mi sembra che non potrò sfuggire a tutto questo. E mi sembra che entrambe le cose siano vere”. La ragazza sa di avere l’aria di chi si è lasciata andare, in preda al suo dolore, trascurando perfino di mangiare e guardarsi allo specchio. Più che il dolore, Daniela sentiva come una paralisi mai provata, un chiodo enorme che la infilzava al pavimento come un insetto.
Le sue piccole certezze sembrano essersi infrante al capezzale del padre, quell’uomo taciturno e solido al quale assomigliava dentro e fuori. Per questo, Daniela non aveva mostrato molte resistenze quando Olivia l’aveva incoraggiata a chiamarmi. Le due ragazze mi avevano cercato a lungo, inutilmente… perché io sembravo svanito nel nulla. Sulle prime, Daniela si era arrabbiata anche con me, che “ignoravo” la sua richiesta d’aiuto. Olivia non si è arresa e l’ha accompagnata dal suo psichiatra… “Non ce l’avrei fatta senza di lei. Tutto il resto è scomparso… le difficoltà, il brutto modo in cui è finita tra noi, tutte le parole che sono state e non sono state dette”. Ero felice di sapere che le due ragazze si fossero ritrovate, e riscoperte.
Alla fine della telefonata, Daniela mi chiede se possiamo rivederci. “Stavolta, – precisa – la richiesta è solo per me”. L’appuntamento è fissato tra due settimane.
UN NUOVO VIAGGIO
«Ero tanto silenziosa quando c’era l’Amore che Lui fece uno sbadiglio e se ne andò; adesso che il Dolore s’è appeso ai lacci del mio grembiule, ho sempre tante cose da dire» [45].

È un pomeriggio di primavera, c’è un sole timido, e io non sono così sorpreso della formazione che è schierata di fronte a me. L’unica novità è rappresentata dalla presenza di Emma. Sono felice di conoscerla. È una bambina bellissima, ha gli occhi marroni dolci e vivaci, e una treccia bionda e lunga. Ha nove anni e frequenta la terza elementare: ha ottimi voti e le sue materie preferite sono italiano, scienze e disegno… e la scorsa estate ha recitato in una commedia teatrale di cui Olivia ha curato la sceneggiatura. Olivia è orgogliosa della sua bambina, e ha una luce diversa negli occhi. I suoi capelli sono un po’ più corti, le forme più morbide, evidenziate da un abito grigio che scopre il ginocchio. Sembra serena e più consapevole, Olivia. Madre e figlia hanno lo stesso sguardo, dolcemente malinconico, e un sorriso aperto e contagioso. Ora possono accomodarsi in sala d’attesa e lasciare spazio a Daniela.
Daniela è più magra, i suoi capelli neri e ricci sono più lunghi e raccolti sempre dietro la nuca. Ha cambiato la montatura degli occhiali e indossa una camicia verde e un paio di jeans, e ha un aspetto più femminile e curato. A settembre ha aperto, con cinque colleghi, uno studio di “web maker” – “… era arrivato il momento di rischiare e di realizzare una cosa mia”. La scorsa estate, invece, ha curato la regia di un videoclip per un gruppo di musica etnica sardo. È il momento di parlare del padre. La voce di Daniela si fa incerta, e lo sguardo obliquo come il cuore. Mi racconta dell’amore silenzioso e complice che li legava e che è stato spezzato all’improvviso, e del suo senso di colpa per non essere tornata più spesso dai suoi nel corso degli anni e per averli abbandonati anche ora. La ragazza descrive i suoi attacchi di panico, si sente come scivolare fuori dal tempo mentre il mondo attorno a lei va avanti frenetico, e la tentazione di non uscire più da casa è diventata molto pressante. Ha un desiderio cronico di piangere ma ha paura di non esserne capace…
Quando le chiedo se abbia con sé una foto del padre, Daniela apre il portafogli e ne tira fuori una che li ritrae insieme, la scorsa estate, abbracciati e sorridenti. Ora il dolore rompe gli argini e allaga i suoi occhi. Daniela si abbandona come a un fiume in piena, poi mi chiede di aiutarla a risalire la corrente: “Non riesco a ricordare mio padre felice. Non ricordo di aver mai visto i miei genitori ridere insieme, o con me e i miei fratelli. Ricordo solo momenti isolati che non sembrano legati alla storia della nostra famiglia”. La ragazza riprende fiato, si avvicina alla finestra e poi aggiunge: “Non riesco a immaginare niente per me. Dopo la storia con Olivia, ho avuto due avventure. Io non chiedevo niente e loro altrettanto. Solo una ha iniziato a fare richieste, e ho troncato subito. Nella mia vita ho fatto molte cose, e l’unica cosa che ho imparato è quello che non mi piace fare. Anche oggi non ho la minima idea di quello che voglio”. Ripartiamo da qui. Dal dolore e dal vuoto e dalla consapevolezza di ciò che non le piace. Emozioni che risuonano da lontano e che sembrano mandare in cortocircuito il presente.
CONCLUSIONI
«Avevo ancora il flacone di acido cloridrico in mano, e non sapevo dove andare. Mi fermai contro un albero e trattenni il respiro. C’era vicino a me, nell’ombra, fragile, minuscolo, un piccolissimo fiore isolato nella terra. Non sapevo che fiore fosse, un fiore selvatico, una violetta e, senza fare un passo in più, stanco, affranto, esausto, per farla finita, vuotai il flacone di acido cloridrico sul fiore, che si contrasse d’un colpo, si accartocciò in una nuvola di fumo e un odore spaventoso. Non rimase più niente, solo un cratere che fumava nella flebile luce del chiaro di luna, e la sensazione di essere stato l’origine di quel disastro infinitesimale» [1].

Così finisce il viaggio a Tokyo dei due amanti nel romanzo di Toussaint. Lo scrittore belga lascia al lettore immaginare cosa accadrà dopo: l’uomo e la donna torneranno arricchiti alla propria vita, nel mondo dal quale sono arrivati e che non hanno mai rinnegato, oppure questo viaggio potrà indirizzarli verso nuovi percorsi inesplorati.
Quando Daniela l’aveva pregata di viaggiare insieme ancora una volta, Olivia le aveva chiesto se fosse davvero la soluzione migliore, se era solo perché diventasse il luogo della loro separazione. È iniziato così un percorso sentimentale di elaborazione e rinascita. La tentazione di ritornare indietro e di chiamare casa e amore i luoghi abituali era forte. “Com’è possibile sopravvivere al nostro amore?” – si erano domandate più volte durante il viaggio. La paura dell’abbandono e della solitudine erano altissime. Una paura così forte che aveva prodotto una specie di cortocircuito relazionale. Olivia avrebbe potuto immolarsi a quel fato che immaginava l’avesse condannata all’abbandono, o continuare a urlare tutta la sua disperazione, e a mostrare i segni della sua sofferenza, confidando nel ritorno dell’amata. Da parte sua, Daniela avrebbe potuto continuare ad entrare e uscire dalla vita della compagna, – concedendosi di tanto in tanto un’ora d’aria –, o fermarsi in quell’abbraccio sofferente e faticoso, – magari coprendosi entrambi gli orecchi, o alzando gli occhi al cielo, perennemente in bilico fra sentimenti di tenerezza e fastidio, e sensi di colpa. Non avevo dubbi che si volessero bene, ma era altrettanto evidente che non si incastravano più, e che il male che si facevano era diventato intollerabile.
La tensione fra le due donne sembrava poter contagiare anche la mia relazione, come uno di quei piccoli terremoti notturni che scuotono le fondamenta di una casa lasciandone intatte le strutture. Anch’io e la mia metà della mela eravamo come Daniela e Olivia. Eravamo come dentro un piccolo cerchio magico, in balia di un incantesimo che ci faceva sentire vicini ma era facile da sciogliere per sempre. Mi sembrava che fosse iniziato un conto alla rovescia segreto, che solo nei momenti più strani della vita si può sentire, una guerra per continuare a restare affacciati sullo strapiombo delle cose che diventano sempre più piccole, e lontane.
Ha detto Antonio Tabucchi [47] che, se perdessimo definitivamente la capacità di narrare, «non riusciremmo più a vivere dentro noi stessi; la vita diventerebbe un caos completo, una grande schizofrenia in cui esplodono come un fuoco d’artificio i mille pezzi delle nostre esistenze», perché per ordinare e capire chi noi siamo dobbiamo raccontarci. Limitati nello spazio e nel tempo, opachi a noi stessi, ci affidiamo ai racconti per trascendere i confini della nostra realtà e per elaborare la nostra esperienza, per riconoscerci e per farci riconoscere. Se è vero, come scrive Demetrio, che «la memoria è un camminare a ritroso. Quando i cammini cessano di costituire soltanto le esperienze che attraversiamo, lungo le quali ci inoltriamo, questi divengono ben presto i labirinti sotterranei della nostra interiorità. Un cammino – il camminare in esso, abbandonare in esso, abbandonarne uno e provarne un altro – accende mappe della ragione ed evanescenze imprevedibili affidate alle emozioni» [48].
La possibilità di ricevere una supervisione è stata determinante nel farmi sentire meno solo e nel farmi da bussola per i giorni senza colore. Harrison [49] a proposito della relazione didattica, che ritiene molto simile alla relazione di coppia scriveva: «[…] il processo di coppia è l’incontro di due processi vissuti e attuati da due individui: il processo dell’unione e il processo dell’individuazione. Entrambi i partecipanti alla relazione di coppia oscillano in una altalena ansiogena tra i poli della dipendenza e della autonomia. Quando A e B si incontrano, i processi di individuazione devono poter continuare senza disturbare né essere disturbati dal processo dell’unione. La relazione di coppia, la relazione allievo-didatta, come la relazione sistema familiare-sistema terapeutico è sempre un processo stocastico a rischio di schismogenesi complementare o simmetrica». Una buona relazione favorisce l’individuazione dei due partner ai quali consente nuove opportunità di scelta. Più l’unione è incerta e più l’individuazione è percepita come pericolosa. «L’unione è in pericolo quando si vede l’altro e non se stessi capaci di individuarsi» [50].
Non era facile. Non lo era per nessuno di noi. Al contrario delle due ragazze, io e la mia metà della mela abbiamo abbandonato la nostra terapia dopo tre incontri. Stiamo ancora insieme, abbiamo un altro gatto e io continuo a odiare le mele. Probabilmente, l’unica cosa positiva di un frutto così invadente è quella di essere caduta in testa ad Isaac Newton, facendogli intuire la legge di gravitazione universale! Di tanto in tanto, ho ripensato alla nostra decisione e mi sono chiesto se non sia stata piuttosto una fuga… Daniela e Olivia, invece, non si sono fermate e hanno proseguito il loro viaggio. Sembrava un viaggio nel passato, e invece era un riappropriarsi del passato per poi andare avanti. Hillman scrive, infatti, che la possibilità della psicoterapia di favorire nel paziente il riavvio del processo di crescita «dipende dalla sua capacità di continuare a riraccontarsi, in rinnovate letture immaginative delle sue stesse storie» [5]. All’interno del loro percorso terapeutico, Daniela e Olivia hanno scoperto la possibilità di concepirsi, di narrarsi e rinarrarsi in forme flessibili, evolutive che le vedevano finalmente esprimere in modo diverso quello che sentivano e quindi poter accedere a forme di indipendenza affettiva, e non solo, quasi inconcepibili all’inizio.
La fine del loro amore, benché le abbia fatte soffrire, ha rappresentato l’opportunità di esplorare le proprie zone d’ombra e di mettere a punto le distanze e ridisegnare i confini di un rapporto che era cambiato insieme a loro. E ha reso possibile riannodare i fili di un rapporto sincero e autentico, e diverso. Oggi, come allora, le due donne camminano su strade divergenti. Olivia ha una bambina bionda, con gli occhi marroni e lo sguardo di principessa, non si sottrae all’amore, ha una casetta profumata di torta di mele, un balcone fiorito anche in inverno, tende ricamate alle finestre da cui ogni tanto si affaccia per vedere che effetto fa il mondo fuori. Daniela è spettinata e stropicciata, prende appunti sulla carta igienica e sogna una ragazza con gli occhiali tondi che sogna la rivoluzione proletaria, ha un monolocale che sembra una Cambogia – come direbbe sua madre –, e una finestra da cui anche le piante grasse si suicidano. Eppure, oggi, come allora, continuano a tracciare linee che si incrociano e le uniscono. E continuano a percorrerle stupite, talvolta tenendosi per mano, o guardandosi senza capirsi.
A distanza di tempo, penso come possa sembrare più semplice ora, capire ciò che unisce le due donne e ciò che resta di un (dis)amore bello e feroce. Fra Daniela e Olivia c’è un legame forte, riesco a capirlo dalla sintonia fra loro, una spontaneità che trapela dai gesti e dalle parole. Sono due sorelle, quasi gemelle, legate nell’anima da un amore reciproco e forte. Nel corso degli anni, sono rimbalzate da una parte all’altra, si sono inseguite e urtate violentemente, e sono finite in un grande buco nero, inghiottite dalla paura, dall’insoddisfazione e dalla rabbia, e dal desiderio di essere amate. Sono due donne che nessuno – o quasi – ha difeso e che hanno dovuto imparare tutto da sole, e insieme. Non ci sono atteggiamenti di difesa o giustificazione, fra loro. “Solo” sentimenti di amicizia, desiderio di felicità, e speranze di risoluzione delle proprie solitudini.
«Eppure non più di quanto dicono semplici amici ti dirò, o forse soltanto un po’ di più: ti terrò la mano, come ogni altro potrebbe» [51].
Ragionamento semplice, ascolto rispettoso nell’accogliere la difficoltà e la sofferenza, come dice Cancrini “dare parole al dolore”: questo è il modo attraverso cui, a mio sentire, le parole diventano storie, i racconti vengono narrati, le attribuzioni di nuovi significati innescano, laddove possibile, un processo trasformativo di cambiamento, lo stesso che collega quegli eventi di vita quotidiana che possono apparire a chi ce li racconta così inspiegabili e dissimili tra loro. Il mio intento, attraverso questo lavoro, è stato quello, oltre che di illustrare l’evoluzione dell’iter terapeutico e i riferimenti teorici adottati, soprattutto di “narrare” di una coppia che ha gettato un “occhio di bue” sul mio modo di “essere” nella stanza di terapia, grazie alle storie e alle emozioni che Daniela e Olivia mi hanno raccontato e a come queste si sono intrecciate alle mie, dandomi la possibilità di crescere.
APPENDICE
QUALI TERAPEUTI PER PAZIENTI GAY E LESBICHE?
«[…] Perché colui che amavo giaceva addormentato accanto a me. Nel silenzio, nella luce dei chiari raggi della luna, il suo viso rivolto verso di me. E il braccio leggero sul mio petto – e quella notte fui felice» [52].
L’omosessualità ci interroga tutti, dal di dentro. Intanto come individui, quando la liquidiamo come qualcosa di cui sappiamo tutto, per non toccare quanto può essere presente nel nostro inconscio, come aspetti omosessuali rimossi e oscuri timori relativi a forme di omofobia non percepite. In secondo luogo, nel lavoro con i pazienti omosessuali, all’interno delle dinamiche di transfert e controtransfert, quando mettiamo in gioco i nostri affetti, specie quelli a noi meno noti. E la disponibilità al contenimento emotivo si fa più difficile perché il paziente utilizza identificazioni proiettive, ci chiede cioè di vivere dentro di noi quanto lui ci comunica, qualcosa che potremmo far fatica a sentire condivisibile [53,54].
Thanopulos, sulle sue esperienze di analisi con pazienti omosessuali, scrive che «l’omosessualità è una parte importante del mondo interno di tutti e non si riduce alla scelta di un partner dello stesso sesso. Con pazienti etero e omo, la condizione necessaria per una libera comunicazione è che l’analista non abbia rimosso eccessivamente la parte omosessuale o quella eterosessuale di sé» [55]. Non basta, quindi, un’elaborazione intellettuale, né la consapevolezza che esistono terapie discriminatorie. È necessario un lavoro emotivo. Heimann, infatti, aggiunge che «il controtransfert è uno strumento di ricerca nell’inconscio del paziente» e che «il terapeuta non è un cervello meccanico, che produce interpretazioni sulla base di procedure puramente intellettuali», ma deve essere «capace di sostenere i sentimenti che si agitano in lui, invece di scaricarli come fa il paziente» [56]. Come indicato da Gabbard [57], che cita Kernberg, «il controtransfert è uno strumento diagnostico e terapeutico fondamentale, che dice al terapeuta molto del mondo interno del paziente». E molto mi ha detto del mondo interno di Daniela e di Olivia.
Sensibilizzare i futuri terapeuti sulle tematiche gay e lesbiche significa, dunque, contrastare i processi di pensiero stereotipati e prevenire le pratiche discriminatorie. La svalutazione dell’omosessualità è un fenomeno diffuso e pervasivo. Nessuno può considerarsi affrancato dal pregiudizio. Da qui deriva il termine “omofobia istituzionalizzata” coniato da Haldeman [58]. Mentre scrivo, è andata in onda l’ennesima puntata di un quiz televisivo. Il bravo presentatore recita puntuale il copione e chiede ai concorrenti se siano single, fidanzati o sposati. È il turno di un ragazzo. Alla risposta “single”, il presentatore/replicante lo interroga sulla sua donna ideale. Il ragazzo dice che non c’è una donna ideale, ma l’opzione non è presente nel software del presentatore. “Io, in realtà, cercherei un ragazzo, mi piacciono i ragazzi” – il ragazzo sorride. Giorno dopo giorno, il rituale si ripete, e inciampa in una donna: “Il Principe Azzurro può restare a casa sua. Io ho una compagna, è qui in studio…”.
D’altra parte, anche il mio collega-amico, quando gli avevo confidato che la storia d’amore di Daniela e Olivia mostrava punti di contatto con la mia, aveva chiosato: “Quella storia non c’entra un tubo con la tua. Quelle sono due lesbiche, cosa c’entrano con te?”. E si sbagliava. Chissà se l’ottimo collega ha letto il Simposio di Platone… O se la sola mela che conosce è quella di Adamo ed Eva. E poi, gli piacciono le mele? Io ero un ragazzino quando ho conosciuto la prima coppia gay. Antonio era un amico dei miei genitori, aveva vissuto per anni in Francia e lì si era innamorato di Claude, e ora aveva deciso di tornare a vivere a Parma con lui. Ricordo ancora le parole di mia madre, semplici, chiare e vere. Da allora, l’omosessualità ha sempre fatto parte della mia vita. Prima come individuo, poi come terapeuta. E quella con Daniela e Olivia non è (stata) la mia prima terapia con pazienti omosessuali.
“Quali terapeuti per pazienti gay e lesbiche? I pazienti omosessuali è meglio inviarli a terapeuti omosessuali?”. L’orientamento sessuale del terapeuta è stata una variabile spesso negletta, dato il preconcetto che un terapeuta sia a priori eterosessuale. Inoltre, anche se la sua potenzialità terapeutica è riconosciuta, quello della self-disclosure rimane un tema controverso. Lavorare con un terapeuta dichiaratamente omosessuale può presentare vantaggi e svantaggi. Anche se in certi casi può essere d’aiuto, l’orientamento sessuale del terapeuta non rappresenta un fattore significativo quanto, invece, il suo rispetto per l’orientamento sessuale del paziente, considerato naturale come quello eterosessuale, e il rispetto per gli stili di vita e per la cultura gay e lesbica [59,60].
Non credo sia necessario “inventare” un tipo particolare di terapia per le persone omosessuali, né credo che l’omosessualità del terapeuta sia una sufficiente garanzia di un “ascolto rispettoso” e libero da pregiudizi [61]. Mitchell afferma, infatti, che «se l’omosessualità fosse considerata come qualunque altro materiale analitico, ci renderemmo conto che le fantasie e i comportamenti omosessuali riflettono una molteplicità di temi e di significati, l’analisi dei quali permette al paziente di operare le proprie scelte, in modo libero rispetto a fattori d’influenza espliciti o impliciti» [62]. Il terapeuta per “mettersi nei panni dell’altro” deve funzionare, dunque, come una “radio ricevente” – sembra fargli eco Rosenfeld.
GRAZIE A…
«[…] e avrei potuto dirti di quell’esatto attimo in cui ci si rende conto che tutto può andarsene a fare in culo, esattamente in un attimo, ma non l’ho fatto. Ed era molto notte, sicuramente buio, ero vivo ed i nostri occhi non vanno nascosti dietro lenti nere poiché sono belli i nostri occhi, a costo – ascoltami bene – a costo di bruciarli come quando si guarda pieni di meraviglia e stupore l’impossibile eclissi». Il Grande Fresco

Alla mia famiglia, per avermi insegnato a non aver paura quando sono in volo perché non è solo da terra che si capisce il mondo.
Al prof. Luigi Cancrini, per avermi indicato il sentiero in mezzo al fango delle mie incertezze: “Il buon terapeuta è quello capace di confondersi con la tappezzeria della stanza in cui lavora”.
Ai miei gatti: Nove, Pero e Elle – e Michel e Lapo, che sono sepolti in un giardino pieno di aranci –, per aver disegnato nuove imprevedibili traiettorie per i giorni senza colore.
Ai miei allievi del Liceo “M. Immacolata” di Roma e dell’Istituto Superiore “C. Battisti” di Velletri, per avermi ricordato che la curiosità è uno degli ingredienti di questo mestiere e della vita.
A Massimiliano, per le lunghe discussioni (non solo) sull’idea di questo lavoro e per avere continuato a credere in me (lanciandomi certe occhiatacce).
Alle mie “vecchie” amiche Germana e Giusi, che sanno d’esserci state e d’esserci ancora.
Alla mia amica Manuela, che ha il coraggio della sensibilità, e per avere (s)colpito le emozioni di Daniela e Olivia, e avere messo in scena un (dis)amore bello e feroce.
A tutti quelli che ho incontrato e che mi hanno fatto capire come non voglio diventare.
…e a Daniela e Olivia, verso le quali ho un particolare debito di riconoscenza.
Non penso più che la mia vita riguardi ciò che mi è accaduto. Riguarda ciò in cui ho scelto di credere. Non è quello che vedo, ma quello che penso sia lì fuori.


Ecco, è finita. Neanche una stagione, neppure stavolta ho avuto il tempo di portare qualcosa a compimento… il mio sogno del circo… dieci anni, un bel ricordo. Questa sera è l’ultima con il mio buon vecchio numero e poi è anche luna piena… la trapezista si rompe l’osso del collo. Sta zitta, zitta! […] Spesso parlo da sola, solo per imbarazzo… in momenti come questi, come adesso.
Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia? Come se qualche volta ci si dovesse chinare per vivere ancora. Vivere. Basta uno sguardo. Il circo mi mancherà. È buffo, non sento niente. È la fine e non sento niente. Devo disabituarmi ad avere cattiva coscienza quando non sento niente… Come se il dolore non avesse un passato. Tutta la gente che ho conosciuto, che resta e resterà nella mia memoria… Finisce sempre proprio quando sta per cominciare. Era troppo bello per essere vero, finalmente fuori in città.
Chi sono io? Chi sono diventata? La maggior parte del tempo sono troppo cosciente per essere triste. Ho aspettato un’eternità che qualcuno mi dicesse una parola affettuosa, poi sono andata all’estero… Qualcuno che dicesse “oggi ti amo tanto”… come sarebbe bello. Devo solo alzare la testa e il mondo s’apre davanti ai miei occhi, mi sale nel cuore. Quand’ero bambina volevo vivere su un’isola. Una donna sola, potentemente sola… si è così. È tutto così vuoto, slegato… Il vuoto, l’angoscia… angoscia, angoscia, angoscia! Come un animaletto che si è perso nel bosco. Chi sei tu? Non lo so più. So solo che non farò più la trapezista, basta col trapezio… le decisioni improvvise alle quali si crede… Ma non piangere! Veramente, l’ultima cosa da fare è mettersi a piangere. Succede così, dipende… non va mica sempre come si vuole. Così vuoto, è tutto così vuoto.
Che devo fare? Non pensare più a nulla. Semplicemente esserci. Berlino: qui sono straniera e tuttavia tutto è così familiare… in ogni caso non ci si può perdere, si arriva sempre al muro. Aspetterò davanti a un automatico e poi verrà fuori una foto con un altro viso… così potrebbe cominciare una storia! Le facce. Ho voglia di vedere facce. Forse trovo un posto come cameriera. Ho paura di questa sera. È idiota! L’angoscia mi fa male, perché solo una parte di me ha l’angoscia e l’altra non ci crede.
Come devo vivere? Forse non è per niente questo il problema. Come devo pensare! So così poco. Forse perché sono sempre curiosa. Talvolta penso in modo così sbagliato, perché penso come se parlassi contemporaneamente a qualcun’altro. All’interno degli occhi chiusi, chiudere un’altra volta gli occhi. Allora anche le pietre sono vive. Stare in mezzo ai colori. I colori. Le luci al neon, il cielo della sera…il metrò rosso e giallo. Devo solo essere pronta e tutti gli uomini del mondo mi guarderanno.
Nostalgia… nostalgia di un’onda d’amore che salga dentro di me. È questo che mi rende sempre così incapace? L’assenza di piacere? Il piacere d’amare… il piacere d’amare…
Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino.
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