Strumenti terapeutici per l’approccio sistemico

Piergiuseppe Defilippi1



Particolarmente dedicato agli psicoterapeuti, l’articolo collocato in questa rubrica risponde all’esigenza di una sottolineatura: caratterizzando in modo diverso forme diverse di psicoterapia, non stiamo perdendo il senso dell’unità possi­bile intorno al concetto di psicoterapia?


Particulary addressed to psychotherapists, the article in this section answers to the need of focusing on the following consideration: by characterizing psychotherapy in different ways aren’t we loosing the sense of unity involved in the concept of psychotherapy?


Este artículo está dedicado a los psicoterapeutas, en él se trata de responder a la cuestión: definiendo de distintas maneras la psicoterapia, non se corre el riesgo de perder la unidad del concepto de psicoterapia?



Riassunto. L’autore prende in esame le modalità di formazione dei terapeuti, ponendo l’attenzione sul fatto che il primo strumento che il terapeuta ha a disposizione è se stesso e l’ascolto dei propri vissuti personali. Insiste anche sull’importanza dello stile di intervento nella costruzione della relazione terapeutica e conclude con la necessità di includere la valutazione nel decorso terapeutico.

Parole chiave. Psicoterapia sistemica, terapeuta come strumento, stile, valutazione.
Summary. Therapeutic tools for the systemic approach.
The author approaches the way of training therapists by insisting on the fact that first tool of a therapist is his own person and the listening of its experiences. He also insists on the importance of his/her style in the esstablishment of the therapeutic relation and he ends by focusing on the necessity of including the evaluation in the therapeutic journey.

Key words. Systemic psychotherapy, therapist as instrument, style, evaluation.


Resumen. Instrumento terapéuticos para el acercamiento sistémico.
El autor examina el modo de formación de los terapeutas, se centra en el hecho de que el primero instrumento que está disponible para el mismo y escuchar sus experiencias personales terapeuta. Destaca también la importancia del estilo de intervención en la construcción de la relación terapéutica y concluye con la necesidad de incluir la evaluación en el curso de la terapia.

Palabras clave. Psicoterapia sistémica, terapeuta como instrumento, estilo, evaluación.
il terapeuta come strumento
È ancora il caso di stupirsi che Carl Rogers, classificato tra i primi dieci migliori psicoterapeuti secondo il Psychotherapy Networker, presenti la relazione empatica come la principale condizione di un possibile lavoro tra il terapeuta e il suo cliente [1]? In effetti, recenti ricerche sulla validità della psicoterapia sottolineano che, oltre alla motivazione e alla resilienza che portano i clienti a cambiamenti spontanei (40%), il secondo fattore d’efficacia è legato alla relazione terapeuta/paziente (30%), con una stretta dipendenza dalla persona stessa del terapeuta [2].
Lo strumento per eccellenza dello psicoterapeuta è se stesso. Mi rendo conto di quanto questa dichiarazione si discosti dagli obiettivi del gruppo di Palo Alto [3], alla ricerca di strumenti e di tecniche utilizzabili da qualunque professionista e riproducibili in situazioni simili. Il punto focale della professionalità dello psicoterapeuta diventa, quindi, proprio la celebre scatola nera.
Nel corso degli ultimi 20 anni, lo scopo principale del mio lavoro professionale è stato la formazione di giovani colleghi, anche se sarebbe più corretto parlare di “giovani colleghe”, che si preparano all’esercizio della psicoterapia sistemico-relazionale.
Nel corso degli anni, l’accento posto sulla persona del terapeuta come “strumento terapeutico” è andato progressivamente amplificandosi, fino alla creazione di un sistema di formazione isomorfo alla terapia, ovvero la formazione individuale, la supervisione e la formazione del gruppo. Una buona formazione ha successo nella misura in cui queste quattro realtà (la famiglia, il terapeuta, il supervisore e il gruppo) interagiscono, modificandosi a vicenda in un circolo “virtuoso”. Nel nostro Istituto, nell’arco delle tre fasi della formazione (4 anni in totale), è durante la seconda fase, quella della supervisione diretta, che questa interazione tra le quattro realtà si intensifica: quando il terapeuta in formazione entra nel sistema della famiglia, destabilizzandolo e modificandolo e allo stresso tempo la famiglia risveglia nel terapeuta risonanze che possono a loro volta destabilizzare il racconto della sua storia familiare [4,5]. Il supervisore interagisce con l’allievo, dando origine a una sorta di danza, che non coinvolge soltanto la famiglia, ma anche il gruppo che vibra dietro lo specchio e risuona come uno spirito collettivo, una sorta di memoria extra-cerebrale, che rimanda a vissuti diversi legati a storie diverse. Questo sistema implica direttamente il supervisore, che è costantemente alle prese con la sua storia personale e con quella dei colleghi più giovani, impedendogli la cronicità del déjà vu e proteggendolo dal burn-out nelle situazioni di stallo o sollecitandolo alla narrazione di nuove storie come nel gioco melodico del Bolero di Ravel. Può succedere che il gruppo stesso raggiunga la famiglia e il supervisore in una farandole (danza popolare francese) in cui la terapia, la formazione e la supervisione si intrecciano con continuità in un processo generativo. Secondo me, la psicoterapia è verosimilmente un processo generativo, proprio com’è stato descritto da Maturana e Varela [6]. È così che amo lavorare per formare lo strumento, la “persona del terapeuta”.
In maniera più analitica, potrei dividere il processo in quattro tappe.
1. “Spettinare” e “scompigliare” gli apprendisti psicoterapeuti. Intendo, con questi termini, renderli più flessibili, pronti a confrontarsi con lo stress della sofferenza e capaci di accogliere nuove diverse realtà.
2. Esercitarsi nella pratica e nel perfezionamento per raggiungere una padronanza perfetta dei linguaggi e delle strategie della psicoterapia. Gli allievi stessi hanno la possibilità di scoprire che anche la loro storia può essere raccontata in maniera nuova e che ognuna di queste storie non è né vera né falsa né tantomeno suggellata per sempre, ma assume veridicità nel momento esatto in cui viene raccontata.
3. Prendere coscienza dei cambiamenti che il terapeuta induce grazie al suo stile personale nei sistemi (famiglie, coppie, singoli) che richiedono aiuto o sostegno.
4. Decollare, ovvero condurre la danza in prima persona.

Diventare uno strumento terapeutico valido, richiede alla persona del terapeuta di confrontarsi con le proprie caratteristiche peculiari.
Ma come può avvenire tutto ciò?

A. Inizialmente i didatti intraprendono un duplice lavoro con il gruppo degli allievi:
• In primo luogo, cercano di mettere in discussione le loro certezze, nell’ottica di creare nel terapeuta lo spazio necessario per accogliere le future domande di aiuto. Le convinzioni personali, infatti, tendono a rendere l’altro inaccessibile e irrigidiscono il terapeuta, mentre la possibilità di accogliere, prevede permeabilità e curiosità. Il didatta, quindi, va verso l’allievo con l’intento di ammorbidire la sua corazza difensiva che lo rende una monade, in modo da favorire un processo di scambio tra il mondo del terapeuta e quello delle persone che a lui si rivolgono. La metafora dello “scompigliare i capelli” assume, dunque, questo significato: scostarsi dal vecchio modello e avviare il processo di cambiamento o, meglio ancora, l’apertura al cambiamento. La formazione viene fatta, pertanto, all’interno del sistema didatti/allievi, implicando non solamente gli studenti in formazione, ma anche i loro formatori.
• In secondo luogo, i didatti aiutano gli allievi nella narrazione delle proprie storie personali. Poiché la storia personale non può essere che quella raccontata nel momento presente, la formazione dà la possibilità all’allievo di realizzare un nuovo racconto di se stesso o almeno di mettere le basi per un racconto che proseguirà durante tutta la sua vita professionale. Allo stesso tempo, i didatti stessi non possono essere troppo sicuri di sé o già “fossilizzati” e il contatto con i giovani professionisti offre loro l’opportunità di “rivitalizzarsi” grazie ai costanti feed-back che ricevono. La relazione tra i didatti e gli apprendisti psicoterapeuti durante la prima fase della formazione mette in movimento il “Bolero della formazione”, prima di andare in scena con le famiglie, le coppie e gli individui che vengono a chiedere aiuto. Il supervisore dà il ritmo con svariati strumenti musicali che riproducono la melodia nelle sue diverse sfumature, in armonia con i solisti e l’orchestra, per arrivare al crescendo con l’entrata delle voci del coro, come nei migliori arrangiamenti (le famiglie appunto). E così come ogni cambiamento è il risultato della co-evoluzione tra persone che interagiscono, ecco che l’interazione in seno al sistema terapeutico comincia proprio a partire dalla co-evoluzione tra i didatti e gli allievi.

In cosa consiste la preparazione dello strumento per eccellenza, ovvero la persona del terapeuta, durante il primo anno di formazione? Si basa principalmente sulla compartecipazione dei colleghi di formazione e dei formatori, che entrano nel racconto della famiglia di origine di ogni allievo (grazie all’uso del genogramma [7,8]) e contribuiscono attivamente a dare inizio a un’evoluzione di queste storie, attraverso l’apporto di nuovi punti di vista e personali risonanze. Il didatta stesso ha occasione di confrontarsi con continui rimandi alla sua storia e alle risonanze che ne risultano. Senza questo processo di risonanza, infatti, non può avere luogo la relazione dinamica che produce cambiamento. Un simile lavoro di formazione alla relazione può essere paragonato a ciò che avviene tra due ballerini di tango, in cui c’è un “conducador” che dà il ritmo e un partner che dà una risposta attiva. Questo si verifica sicuramente attraverso l’esercizio, che è indispensabile, ma nel medesimo tempo l’esercizio è il tango stesso ed è quindi generatore di cambiamento. Ogni incontro con un nuovo allievo o con un nuovo gruppo è diverso dal precedente ed esige che i didatti ascoltino le risonanze e incoraggino le vibrazioni positive. L’entrata nella storia e nel racconto dell’allievo è completata dall’uso di strumenti terapeutici, ovvero gli oggetti fluttuanti, dai “classici” di Caillé e Rey [9] ad altre tipologie, che, oltre alla comunicazione verbale, favoriscono lo sviluppo di quella analogica e metaforica e la creazione di una giusta distanza che blocca il processo fusionale, ponendo l’attenzione sugli aspetti emotivi. Il linguaggio del cambiamento non è solamente legato a un tipo di conoscenza verbale [3], ma ha anche un grande impatto emozionale, procedendo sempre nell’ambito della differenziazione, al fine di evitare la confusione indifferenziata. Stando all’evidenza, infatti, senza lo sviluppo di un processo empatico tra il supervisore e il terapeuta, non può esistere nessuna formazione psicoterapeutica, così come non può svilupparsi il processo terapeutico se non con l’empatia che si crea nell’interazione tra il terapeuta e la famiglia. Inoltre, la relazione tra il formatore e l’allievo è caratterizzata da un altro elemento chiave della relazione formativa: la richiesta di formazione. Proprio come non esiste alcun trattamento possibile senza una richiesta di terapia, allo stesso modo, senza una richiesta di formazione, non potrà nascere uno psicoterapeuta. In realtà, nella mia prospettiva, la terapia a volte può essere vissuta addirittura come una sorta di “maltrattamento psicologico e pedagogico”, che può anche avere ripercussioni negative sui pazienti del terapeuta appena formato! Senza dubbio può accadere che un forte processo di resilienza si sviluppi, ma quante persone non subiscono degli effetti post-traumatici dopo una violenza? La formazione, così come la terapia, non ha effetto se fatta sotto costrizione: entrambe non possono avere successo se non attraverso la creazione di una nuova prospettiva che trasformi una partecipazione obbligata in una partecipazione libera. Terapia e formazione in psicoterapia non sono sullo stesso piano, ma sono isomorfe e, seguendo l’insegnamento di Bateson [10], il fatto di formulare ipotesi a partire dall’analogia tra due realtà ci permette di lavorare all’interno di un movimento circolare.

B. La seconda fase della formazione prevede l’integrazione delle famiglie. Il sistema formativo si complica e integra quattro sotto-sistemi: la famiglia, l’apprendista terapeuta, il gruppo in formazione e il supervisore. È la fase della supervisione diretta. Il giovane terapeuta si impegna completamente mettendosi in gioco con la famiglia. Questo coinvolgimento con la famiglia dovrebbe portare in maniera naturale a sbloccare la situazione. Nella misura in cui il terapeuta diventa parte integrante del sistema, infatti, quest’ultimo comincia a cambiare; von Foester [11] ha descritto molto bene questo processo con una celebre allegoria: «Ti racconto una storia. Un mullah sta cavalcando sul suo cammello nel deserto, quando vede tre uomini e alcuni cammelli in lontananza. Li raggiunge e li saluta, domandando la ragione della loro grande tristezza: “Nostro padre è morto”. “Ciò è molto triste, ma Allah l’ha sicuramente ben accolto. Vostro padre deve avervi lasciato qualcosa”. “Ci ha lasciato ciò che possedeva, i suoi 17 cammelli, e ci ha chiesto di spartirli tra noi. Al fratello maggiore spetterebbe la metà dei cammelli, al secondo un terzo e all’ultimo un nono. Abbiamo cercato di dividerli tra noi, ma è impossibile con 17 cammelli!”. Il mullah capisce il problema, aggiunge il suo cammello e rifà la divisione: la metà di 18 è 9; un terzo equivale a 6 e un nono corrisponde a 2. Addizionando 9+6+2 si ottiene 17. Allora salta in groppa al suo cammello e s’allontana, dopo aver risolto così il problema».
Dal canto suo il supervisore interagisce sia con il terapeuta e la famiglia sia con il gruppo di training, secondo quattro modalità diverse.
1. Inizialmente il supervisore è il modello e interviene direttamente in stanza di terapia. L’allievo, alle prese con il suo “decollo professionale”, si identifica con il formatore e lo imita. Il contesto favorisce, infatti, l’attivazione dei “neuroni specchio” e l’apprendimento per imitazione. Mi ricordo dell’entusiasmo con cui noi, giovani terapeuti, preparavamo degli interventi copiando quelli di Minuchin, dopo aver assistito ad alcuni dei suoi durante gli stage di formazione con lui. Ciò valeva non solo per gli allievi che vedevano le famiglie direttamente con lui, ma anche per tutto il gruppo che si mostrava interessato a usare gli strumenti strutturali. Il desiderio di svilupparsi professionalmente, infatti, spinge i giovani professionisti ad apprendere per imitazione.
2. Successivamente, il supervisore diventa un “allenatore”. Per diventare un samurai, bisogna allenarsi, praticare le tecniche e acquisirne completa padronanza, prima di dimenticarle e agire in modo naturale come un “maestro” samurai! In questa fase si impara soprattutto ad utilizzare gli strumenti e gli oggetti che fanno parte del repertorio personale del terapeuta. Il supervisore, per parafrasare Erickson [12], è la voce che accompagna il professionista durante tutta la sua carriera. Ogni psicoterapeuta, infatti, integra le caratteristiche specifiche dei propri maestri: le indicazioni tramite il citofono, i commenti prima e dopo la seduta, le inflessioni verbali, le posture e le espressioni tipiche.
3. Il terzo effetto della supervisione diretta è legato a un ricordo risalente all’infanzia o all’adolescenza: avevo preso lezioni di piano senza avere la minima capacità di suonare questo strumento, ma mi era molto piaciuto provarci. Mi ricordo dell’eccitazione che sentivo quando l’insegnante metteva sul leggio del piano uno spartito da suonare a quattro mani. Si sedeva alla mia sinistra, teneva il tempo e faceva degli arrangiamenti che mi incantavano. Utilizzando la metafora che ho menzionato prima, la supervisione è come una danza in cui didatta e allievo ballano insieme, come in un tango. C’è un conduttore, ma l’allievo ha un ruolo attivo e creativo. La terapia comincia con questa danza e si estende alla famiglia in maniera contagiosa. La terapia è un processo contagioso che si sviluppa tra il formatore, l’allievo, la famiglia e il gruppo.
4. Infine un ruolo fondamentale lo giocano i membri del gruppo dietro lo specchio, che come un coro greco, riprendono il motivo della terapia, con drammatizzazioni e contributi personali. Per restare nella metafora dell’orchestra, il supervisore è come il tamburello che tiene il ritmo, il terapeuta è lo strumento solista, la famiglia rappresenta la successione dei diversi strumenti, per arrivare infine agli ottoni e all’arrangiamento più complesso dato dal gruppo in formazione.
Esempio clinico
Metafore a parte, un esempio clinico permetterà di classificare meglio questi concetti: concentreremo, pertanto, la nostra attenzione principalmente sul modo in cui il terapeuta può utilizzare se stesso come strumento. Prima di cominciare, mi sembra utile porre una domanda a cui non siete necessariamente obbligati a rispondere ora: la psicoterapia è una tecnica, un’arte o un atto etico?
Ecco il caso: una giovane allieva psicologa, al secondo anno di formazione, alle prese con la sua prima volta in stanza di terapia. Lei stessa ha descritto così la sua situazione e ciò che questa terapia ha rappresentato per lei:
«Era la mia prima seduta in supervisione diretta; la consideravo come un momento importante per me perché non era solo un’occasione di crescita in campo professionale, ma anche a livello personale. Prima dell’inizio di questa terapia, mi ricordo di aver seguito il lavoro terapeutico dei miei colleghi. Più volte mi ero chiesta come avrei potuto cavarmela al loro posto e si faceva strada in me il desiderio di cominciare, di osare ed espormi come terapeuta, seppur temendo di non essere ancora pronta. In particolare, si trattava di una nuova richiesta di terapia. Era arrivato il mio momento e a metà del secondo anno di formazione, mi sono lanciata. Ho cominciato, così, una terapia con la famiglia Rosa, la mia prima presa in carico sotto supervisione diretta.».
Si trattava di un invio per metà coatto: la figlia adolescente aveva preso parte a degli atti intimidatori a scuola a discapito di un ragazzo handicappato. I fatti salienti erano stati filmati e lei aveva messo il film su You tube. La notizia era poi diventata di dominio pubblico attraverso la stampa e la televisione. Le giovani interessate erano state sospese da scuola e costrette a seguire un programma di riabilitazione prima di essere ammesse in un altro istituto. Alla fine di questo programma, erano state messe alla prova durante un certo periodo di tempo e fortemente sollecitate a farsi aiutare. È a questo punto che la famiglia, composta da padre, madre, e figlia di ormai quasi 18 anni, venne in terapia. Ecco come la giovane terapeuta ha descritto in che modo la terapia l’ha aiutata: «Lavorando con la famiglia, ho spesso riscontrato delle similitudini con la mia; in particolare, lo svincolo dalla famiglia d’origine e la difficoltà a esprimere le proprie emozioni, erano elementi che suscitavano in me risonanze con la mia storia personale.». La coppia parentale appariva più anziana rispetto alla realtà effettiva. Il marito era in cura con antidepressivi ed era ossessionato dall’idea di portare iella: credeva fermamente che chiunque si avvicinasse troppo a lui o lo toccasse, rischiasse di essere vittima di un malore o di morire all’improvviso. Sua moglie, volontaria in un’associazione che si occupava di pazienti psichiatrici, aveva incontrato il marito in questo contesto. Aveva un aspetto modesto, la testa coperta da un berretto ed era vestita con una giacca pesante nonostante la calda primavera avanzata. Durante le numerose sedute, non si toglieva mai il cappotto né si scopriva la testa, fino a che il gruppo dietro lo specchio unidirezionale suggerì di fare un intervento che le permettesse di sentirsi più a suo agio. La ragazza, al contrario, sembrava più adeguata, anche se manifestava un certo disagio e restava “abbottonata”. Il padre tendeva a mantenersi in disparte, mostrando scarsa stima per se stesso; passava il tempo nella casa di campagna dei suoi genitori. Sua madre era designata all’unanimità come la causa di tutti i mali ed era definita come il vero problema della famiglia. I genitori sembravano minimizzare l’infrazione commessa dalla figlia e la sua responsabilità e consideravano esagerati i provvedimenti presi. Ben presto si delineò una situazione di stallo in stanza di terapia e la giovane terapeuta si sentiva impossibilitata a cambiarne il clima. Il supervisore entrò nella stanza e si sedette di fianco al padre prendendogli il braccio e ostentando una sorta di solidarietà maschile: fece notare l’importanza per quella famiglia di avere un padre che fosse il capofamiglia. Ne derivò allora una scena tragicomica: il signore dichiarò che era preoccupato per il supervisore che l’aveva toccato e si domandava che disgrazia l’avrebbe colpito. Poiché a quel punto “la frittata era fatta” - come si dice dalla mie parti – la strada era aperta per continuare a dare prova di affabilità. Il didatta, con la complicità della giovane terapeuta, cominciò ad utilizzare un’ironia benevola. A questo stadio, il didatta diventa il modello che mostra come fare per modificare il clima in stanza di terapia. È anche l’esempio che gli allievi e le famiglie conserveranno più a lungo. Da alcuni follow-up fatti dopo numerosi anni, infatti, emerge che le famiglie, come gli allievi, si ricordano degli interventi del supervisore nei momenti chiave della terapia. In questo caso, il ruolo di conduttore svolto dal supervisore si è delineato nel momento in cui l’allieva ha iniziato a mostrare indecisione nei suoi interventi, avanzando premesse per spiegare ciò che avrebbe fatto o detto dopo, cosa che ovviamente privava l’intervento del suo potere di cambiamento. In questo caso, il citofono può aiutare il terapeuta a usare un linguaggio più diretto e contribuisce a dargli più sicurezza nel gestire il contesto terapeutico e nel muoversi in studio. Ecco come la terapeuta ha descritto questa fase del lavoro del supervisore: «Tornando con la memoria alla mia entrata in stanza di terapia, mi ricordo di un sentimento di disagio che pensavo di poter mascherare, ma che traspariva chiaramente dalle prime registrazioni delle sedute, attraverso il mio comportamento non-verbale (cambiamenti di posizione frequenti nella poltrona, un gesticolare eccessivo). Il fastidio era legato soprattutto al pensiero di non “essere all’altezza” e alla paura del giudizio da parte della famiglia. Questi sentimenti erano indipendenti dalle persone che avevo di fronte e avevano origine in me, sia come persona sia come terapeuta, rispetto al ruolo che mi spettava. Il supervisore mi ha aiutato a superare questi ostacoli, trasmettendomi fiducia nelle mie capacità, anche grazie agli interventi che migliorarono la mia posizione agli occhi della famiglia. Ho cominciato, così, a essere più libera di “vedere” realmente la famiglia Rosa e a partire da questo momento i membri della famiglia mi sono apparsi come semplici persone con cui mi sono sentita a mio agio e in armonia. Durante quella seduta, poi, le incertezze e i timori iniziali, che mi avevano impedito di “immergermi” completamente, hanno lasciato il posto al desiderio di “incontrare” persone vere di fronte a me».
Questo lavoro si svolge sia prima che dopo le sedute, o in tempi “supplementari”, come durante i seminari residenziali, ma anche durante la seduta stessa attraverso l’uso mirato del citofono.
A questo punto il tango tra il supervisore e l’allievo può incominciare. Il rapporto tra i due non si limita a istruzioni e suggerimenti dati da uno all’altro, ma l’intervento terapeutico è giocato in un duo; il tema e il ritmo sono proposti dal didatta, ma il terapeuta li adatta in modo creativo. Facendo riferimento ad un’altra metafora musicale utilizzata spesso in terapia familiare, si potrebbe dire che il giovane terapeuta comincia a riprendere i temi proposti come in un’improvvisazione jazz. Nel caso in questione, il supervisore tendeva a mostrarsi pessimista e poco fiducioso nel cambiamento davanti ai membri della famiglia Rosa, sottolineando la loro difficoltà a percepire la gravità dei fatti. La giovane terapeuta, invece, esprimeva maggior fiducia nei confronti della famiglia e della sua capacità di cambiare, cercando di coinvolgere il supervisore in questa visione ottimista. Il dialogo terapeutico si era esteso, quindi, a tre elementi: il terapeuta, il supervisore dietro lo specchio unidirezionale e la famiglia. Era la terapeuta stessa che riferiva le opinioni del supervisore alla famiglia, con la speranza che quest’ultima contraddicesse il suo collega più anziano. Lanciò, così, una sfida al padre: organizzare un barbecue nella sua casa di campagna dove aveva l’abitudine di passare molto tempo, in presenza della moglie e invitando gli amici della figlia. Lo scopo era quello di smascherare la sua pretesa di essere un portatore di iella che attira la sfortuna, soprattutto in quella casa che apparteneva a sua madre, che era considerata dai membri della famiglia come l’origine di tutti i loro mali. Al contrario, la posizione del supervisore si basava sul fatto che facendo una cosa simile, non si era in grado di prevedere le sventure che si sarebbero potute provocare: avrebbe potuto accadere un massacro come quelli del sabato sera oppure la madre del signore avrebbe potuto prendere coscienza di ciò che aveva fatto la nipote, ecc. La terapeuta propose al padre di riprendere in quell’occasione la sua abitudine di raccontare cose scherzose, come prima era solito fare con gli amici. La moglie avrebbe dovuto accogliere gli ospiti, vestita con un abito tradizionale locale molto colorato, all’opposto dei suoi vestiti grigi. Qui ancora, il supervisore fece notare che la signora non avrebbe mai accettato di portare un abito così frivolo. La terapeuta insistette anche sul fatto che la moglie si sentisse a suo agio e soprattutto che non andasse fino alla fermata del pullman per verificare che il marito fosse rientrato bene, senza incidenti o che il bus non avesse avuto ritardi, cosa che generalmente suscitava delle vere e proprie crisi d’ansia. Questa “figura di tango” ha avuto degli effetti significativi: la relazione tra la suocera e la moglie è migliorata, il marito è arrivato alla seduta successiva con un repertorio di barzellette che non raccontava da anni, la moglie sembrava ringiovanita almeno di 10 anni ed appariva anche più carina e con un aspetto più curato.
Una volta usciti da questo impasse, ci siamo dedicati al problema che costituiva il motivo principale della richiesta di aiuto: la ricostruzione dell’episodio dell’intimidazione. Ciò che colpiva era che la famiglia, e in particolar modo la figlia, non avessero manifestato né solidarietà né empatia nei confronti della vittima. Infatti, la ragazza fece presente che la vittima dell’intimidazione aveva beneficiato di un insieme di privilegi, mentre gli altri ragazzi erano stati puniti e trattati come dei reietti quando avrebbero avuto bisogno anche loro di più attenzione e rispetto. L’allievo handicappato aveva, a suo dire, ricevuto l’attenzione di tutti, ancora di più dopo che la stampa e la televisione avevano diffuso la notizia di ciò che era accaduto.
Il didatta decise, allora, di fare una drammatizzazione della scena, coinvolgendo il gruppo in formazione. Elena, la ragazza adolescente, fece inizialmente la parte della direttrice e successivamente quella della spettatrice. Dopo aver distribuito agli attori diversi ruoli di animali, fu lei ad organizzare la scena dell’intimidazione. In questa fase del lavoro terapeutico, Elena mostrò i primi segni di una certa capacità di rielaborazione. Si definì come un leone durante l’episodio dell’intimidazione, in cui si sentiva forte perché era stimolata dai suoi compagni che normalmente non la percepivano come tale. Successivamente, invece, si vedeva come un leoncino, “sempre più cosciente e meno presuntuoso”, che stava crescendo a piccoli passi. La scena era messa in atto dal leone: il toro dava uno schiaffo al passerotto e diceva “Carogna!”. Il serpente lo incoraggiava: “Dai, continua così!”, mentre l’avvoltoio diceva: “Fai quello che ti dico!”. Il leone, allora, cercava un rifugio: “È affar loro!”. Il passerotto li supplicava: “Lasciatemi tranquillo!”. La scena a cui assistemmo fu molto emozionante e la ripetizione ne intensificò l’impatto. All’inizio Elena non sembrava toccata dalla scena, ma progressivamente il suo atteggiamento cambiò.
Proseguendo nella seduta, infatti, Elena cominciò ad esprimere empatia per la vittima. Il cambiamento era scattato. Anche la terapeuta si sentì partecipe di questo mutamento: «Per quanto riguarda il mio cammino di crescita personale e professionale, durante questa presa in carico, mi sono confrontata in alcune similitudini con la mia storia personale, soprattutto per quanto riguarda la questione dell’autonomia. Quando ho incontrato la famiglia Rosa, stavo vivendo una fase della mia vita in cui sentivo che dovevo trovare “la giusta distanza” rispetto alla mia famiglia d’origine, in particolare da mia madre, ma a causa di alcuni problemi contingenti, stavo ritardando continuamente quel momento. Mi sono ritrovata nelle parole di Carlo (il padre): sua madre, come la mia, “non era buona” che a farlo/mi sentire in colpa. Il mio processo di liberazione è iniziato durante questa terapia, grazie alle riflessioni che, seduta per seduta, mi hanno permesso di differenziarmi e ora sono fisicamente pronta per rientrare a casa e rinegoziare la relazione con mia madre».
LO STILE È IL TERAPEUTA
Per parafrasare Buffon, in questo paragrafo, ci tengo a sottolineare l’importanza dello stile del terapeuta in presenza dei suoi pazienti. Questo stile necessita di un aggiustamento personalizzato con ciascun paziente, che sia un singolo, una coppia o una famiglia. Ho insistito sull’importanza del terapeuta come elemento chiave del trattamento terapeutico, poiché in quanto strumento vero e proprio, porterà risultati diversi a seconda della persona che se ne servirà e del modo in cui questa lo farà.
Ciò vale anche per la richiesta di aiuto. Tempo fa, ho seguito una signora presso un servizio di Planning Familiare, la Signorina Nuccia (“mannaggia a noi”, se osavamo chiamarla Signora!), dell’età di 52 anni, alcolista. Il suo problema si era recentemente acutizzato in seguito al decesso della sua unica sorella, che aveva sofferto di problemi mentali gravi ed aveva vissuto in una comunità. In passato Nuccia era stata la segretaria personale di un dirigente di una grande società informatica, diventato famoso a livello internazionale. Siccome, però, non era in possesso di un diploma appropriato, dal momento in cui il suo superiore salì di grado nella scala gerarchica, lei fu gradualmente retrocessa a responsabilità secondarie e in seguito ad un episodio depressivo, la direzione della società la spostò in un altro servizio. Iniziò, così, una terapia individuale con uno psichiatra di origine sarda, che però morì improvvisamente per una crisi cardiaca. Nuccia si ritrovò sola, con una modesta pensione di invalidità. La solitudine e le relazioni conflittuali con la madre la portarono all’alcolismo. La sua esistenza si degradò, al punto che i vicini informarono i Servizi Sociali dopo una lite che aveva avuto luogo in casa e che li aveva preoccupati molto. Tenendo conto dell’aspetto miserabile dell’abitazione, i Servizi Sociali organizzarono un servizio di presa in carico a domicilio con una cadenza di tre volte a settimana. Sebbene la sua casa apparisse disordinata e sporca in maniera indescrivibile, Nuccia permise agli operatori, seppur con molta reticenza, di entrare e di procedere con i lavori domestici. Era molto scettica rispetto al modo in cui questo aiuto avrebbe dovuto andare incontro ai suoi bisogni, al punto di rilavare i bicchieri perché non erano stati trattati con delicatezza e ad asciugarli con uno strofinaccio morbido. Nuccia fu anche invitata a contattare il Servizio psichiatrico locale, ma la “signorina” declinò rabbiosamente l’offerta, perché, a suo dire, una persona raffinata ed elegante come lei non avrebbe potuto accettare una tale proposta. Grazie ad una sua conoscenza, la vedova di un medico di famiglia “rinomato”, Nuccia arrivò alla clinica per coppie dove, all’epoca, lavoravo come consulente. La moglie del medico mi conosceva e mi presentò Nuccia, come una persona che aveva vissuto a Parigi e in Belgio, colta e illustre, ecc. Alla prima seduta, mi trovai di fronte a una donna dai vestiti in disordine, con un foulard sulla testa e le gambe malandate. Per mettermi alla prova, cominciò a dire alcune frasi in francese. Siccome le rispondevo nella stessa lingua, capì che non poteva continuare la conversazione, ma io avevo guadagnato molta considerazione ai suoi occhi. Non ero come il suo vecchio psichiatra che, secondo lei, era totalmente privo di raffinatezza: la considerava semplicemente come una paziente alcolizzata, che viveva alle spalle della vecchia madre, senza neppure saper fare le faccende domestiche, mentre era lei ad aver riasciugato i bicchieri con lo straccio per evitare gli aloni, quando i “mercenari” dell’aiuto a domicilio li avevano semplicemente sciacquati e messi ad asciugare. Nuccia dormiva su un divano perché il letto era interamente occupato da fatture e ricette risalenti ad almeno due anni prima… che lei doveva riordinare con cura. Usciva di casa solo una o due volte al mese e quando lo faceva prendeva un taxi. Lasciava una mancia adeguata all’autista, come fanno abitualmente le donne della sua classe sociale. Non so come sia riuscita a scoprire che mia moglie aveva appena dato alla luce il nostro quarto figlio, ma fece arrivare delle orchidee all’ospedale! L’alleanza terapeutica si sviluppò in modo molto sottile. Il suo consumo di alcol rappresentava quasi un rituale liturgico, celebrato in ricordo dello psichiatra sardo che l’aveva seguita. Decidemmo, allora, che lei potesse bere solo del vino sardo, la Vernaccia (un vino caro e difficile da trovare, a fronte anche delle sue limitate risorse economiche), dopo aver disposto sul tavolino un bicchiere di cristallo. Ovviamente non poteva abbandonare “il liquore plebeo grigio”, ma se voleva veramente un whisky, doveva sceglierne uno della qualità del cognac Napoléon. Il trattamento fu perseguito con successo, giocando sull’eleganza e sulla classe, qualità che lei apprezzava molto e che desiderava le fossero riconosciute. Venne interrotto in seguito alla morte dell’anziana madre. Dopo avermi consultato, un operatore sociale che la seguiva le trovò un posto come “Dama di compagnia” di un generale in pensione che viveva in Costa Azzurra, lontano dalla città in cui lavoravo. Sono sicuro che colleghi con orientamenti terapeutici diversi avrebbero molte critiche da farmi, ma posso assicurarvi che dopo due anni di trattamento era diventata un’altra persona. In questa terapia credo di aver usato uno stile che amo molto, un misto di ironia sottile e di trasgressione ricercata, che ha permesso alla paziente di sentirsi valorizzata e motivata a ritrovare la soddisfazione che aveva conosciuto nel suo “periodo d’oro”, vicino a un personaggio in ascesa verso il successo. Milton Erickson ci ha insegnato che lo spostamento del sintomo è spesso il miglior risultato che possiamo ottenere. È quindi preferibile aver paura di qualcosa in cui ci si può imbattere raramente, piuttosto che di un qualsiasi animale che si può incontrare molto più frequentemente sul proprio cammino (la paura dei canguri se si vive in Europa crea meno disagio che quella dei topi o dei ragni… ovviamente, nel caso in cui sia utile coltivare una qualche paura!). Con Nuccia, lo strumento terapeutico vincente è stato lo stile della relazione, a cui la cliente riservava gran parte dell’attenzione. Tra i miei appunti ho intitolato questa terapia: “Un fiore unico, un’orchidea”. Direi, peraltro, che è il solo caso di alcolismo che ho trattato in questo modo: la terapia si è svolta attorno al problema depressivo legato al fallimento professionale e affettivo.
INTRODUZIONE DI UNA FORMA DI VALUTAZIONE TERAPEUTICA
NELLA TERAPIA SISTEMICA
In conclusione, vorrei presentare un altro strumento di cui comincio a servirmi in terapia. Per farlo, mi servirò di alcuni appunti rubati a Stephen Finn [13] a proposito di ciò che lui chiama la valutazione riguardante l’utilizzo terapeutico “non scientifico” dei test in psicoterapia. Finn scrive: “Questo approccio contrasta con l’accento posto sulla ricerca valutativa tradizionale. Colui che utilizza gli strumenti terapeutici è ugualmente in possesso degli studi di validazione e in generale, fornisce i criteri e le consegne per la loro applicazione. Al contrario, l’accento qui è posto sulla relazione con il paziente/ le famiglie/ le coppie e sulle domande che fanno. Cosa fa il clinico che usa in maniera “non scientifica” gli strumenti psicodiagnostici? All’interno del Centro Studi di Terapia Familiare e relazionale, nel corso di una ricerca condotta sotto la direzione della professoressa Marisa Malagoli Togliatti (20 anni fa) dal titolo evocativo: “Una coppia con più di cento anni…”, la presentazione del test di Rorschach è così descritta: “Spieghiamo loro che li sottoporremo al test per vedere se sono adatti a intraprendere una terapia di coppia; metteremo l’accento su tre elementi: questo tipo di terapia ha un ampio margine di riuscita. Pratichiamo questi interventi con successo da molti anni e vogliamo vedere se ci “lavoreranno” liberamente poiché la ricerca scientifica ha dimostrato che un trattamento psicoterapeutico deve essere pagato da coloro che lo utilizzano per essere efficace. Creando un contesto di collaborazione, abbiamo la tendenza a trasmettere fiducia e a proporre una sorta di alleanza tra loro e noi contro gli increduli” [14, p. 64]. Da parte nostra, “abbiamo la tendenza a offrire una visione nuova della loro situazione personale e relazionale a partire dagli elementi ottenuti dalla ricerca realizzata, ma con una lettura molto particolare per quanto riguarda la creazione di un contesto terapeutico” [14, p. 64]. Anche Mara Selvini Palazzoli, prima di diventare una pioniera dell’approccio sistemico in Italia, aveva tradotto e utilizzato lo Sceno test, che sarà usato in seguito come strumento terapeutico, quasi un oggetto fluttuante ante litteram [15]. Sono andato ad attingere tra le prime testimonianze della terapia sistemica per verificare se i pionieri avessero mostrato un qualche interesse anche passeggero per la valutazione testistica e i suoi effetti sul processo terapeutico: oggi, pensiamo che, in virtù di una maggior chiarezza e trasparenza dei contratti terapeutici, debba essere integrata la comunicazione dei risultati delle valutazioni, in quanto parte integrante del protocollo di trattamento. Il nostro compito potrebbe essere quello di introdurre una valutazione delle terapie che si ispira al lavoro di Lorna Smith Benjamin sulla diagnosi interpersonale e il trattamento dei disturbi di personalità [16]. Il modello SASB, permette di riflettere sulla patogenesi sociale dei disturbi di personalità e suscita interessanti ipotesi terapeutiche. Un lavoro di questo genere permette di approcciarsi alla diagnosi in un’ottica sistemica, scavalcando rigide etichette e favorendo un dialogo empatico all’interno dello stesso processo terapeutico. L’introduzione della valutazione permette di restare vicini e attenti alla domanda o alle domande portate in terapia. Tuttavia questo sforzo esige che il terapeuta sia molto prudente rispetto al modo in cui verrà data una restituzione: si conformerà alla posizione della psicologia umanistica, che sottolinea come la risposta debba essere rispettosa e tendere a favorire l’autodeterminazione. Sovente, le persone che chiedono aiuto, o meglio una psicoterapia, pongono domande e avanzano dubbi che i terapeuti aggirano. Questi ultimi vanno dritti verso una riformulazione di queste domande, lasciando i pazienti perplessi, spaventati e con la convinzione di non essere stati compresi o di aver ottenuto delle risposte a questioni che non avevano sollevato. Perché una terapia possa riuscire, è indispensabile poter accostarsi a una domanda con la sensazione di sentirsi accettati, con la garanzia del mantenimento dell’autodeterminazione, sulla base di una possibilità di resilienza.
In un gruppo in formazione, la valutazione terapeutica è realizzata come segue: due professionisti accolgono la famiglia (uno solo se si tratta di una terapia individuale). Una seduta preliminare ha luogo con lo scopo di valutare la situazione e di programmare la valutazione. Dopo questa valutazione, si può inviare la famiglia o la coppia in terapia con un contratto scritto, che specifichi gli onorari, il numero di sedute e gli obiettivi proposti. La terapia sarà condotta da un altro membro dell’équipe degli allievi. I professionisti che hanno effettuato la valutazione preliminare saranno coloro che valuteranno ulteriormente se gli obiettivi sono stati raggiunti. A questo proposito, abbiamo messo a punto un metodo di valutazione dei risultati a partire dalle scale di Beavers [17,18].
La valutazione, ma soprattutto il dialogo che segue con i pazienti, deve avere un valore terapeutico: così il terapeuta e la famiglia convergeranno sulla domanda e potranno impegnarsi in un contratto terapeutico chiaro e ben definito, sia per quanto riguarda gli obiettivi che la durata del trattamento [13]. Il terapeuta sistemico inserirà all’interno del processo terapeutico la ridefinizione dei risultati ottenuti dalla sua valutazione, evitando così il rischio di etichette e designazioni.
BIBLIOGRAFIA
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2. Lévesque M. À partir de combien de séances ressent-on un soulagement? Clinique Altermed, 2011. bolg.altermedclinique.com
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6. Maturana H, Varela F. The tree of knowledge. Boston and London: Shambhala, 1988.
7. Montagano S, Pazzagli A. Il genogramma: teatro di alchimie famigliari. Milano: Franco Angeli editore, 1989.
8. McGoldrick M, Schellenberger S, Gerson R. Genograms: assessment and intervention. 3rd edition. New York, W.W. Norton & Company, 2008.
9. Caillé PH, Rey Y. Gli oggetti fluttuanti. Roma: Armando Editore, 2005.
10. Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi, 1976.
11. Von Foester H. Sistemi che osservano. Roma: Astrolabio, 1987.
12. Erickson Milton H. La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici (Psiche e coscienza). Roma: Astrolabio Ubaldini, 1981.
13. Finn SE. Nei panni dei nostri clienti. Teorie e tecniche dell’assessement terapeutico. Firenze: Giunti Editore, 2009.
14. Malagoli Togliatti M, Harrison L, Cancrini MG, et al. Una coppia con più di cento anni: una ipotesi di lavoro sistemico-relazionale. Attraverso lo specchio 1992; 32-33-34: 61-87.
15. Selvini Palazzoli M. Prefazione a G von Staabs:  Lo Sceno-test. Firenze: Edizioni O.S., 1971. 
16. Smith Benjamin L. Diagnosi interpersonale e trattamento dei disturbi di personalità. Roma: LAS, 1999.
17. Beavers WR, Hampson RB. La famiglia riuscita: valutazione e intervento. Roma: Astrolabio, 1992.
18. Bruni F, Defilippi PG. Memoria e valutazione dell’esperienza clinica. Ecologia della mente 2005; 2: 235-69.