Il contributo teorico, clinico e nella formazione
di Maria Grazia Cancrini e Lieta Harrison

di Luigi Cancrini1


Penso di proporre più che una riflessione sui temi del lavoro di Lieta e Grazia, qualcosa di più personale, più… da fratello se volete, da fratello maggiore, e poi da grande amico, credo, di Lieta. Grazia è sempre stata un’immagine estremamente luminosa perché quando stava per nascere, il ricordo che ho è quello di un momento particolarmente felice della mia famiglia, della mia vita. Andavamo con mio padre e mia madre che l’aspettava, giù per via Panama, che molti di voi conoscono… quella strada meravigliosa che costeggia villa Ada, con tutti i mandorli e i ciliegi che fioriscono già a febbraio. Grazia è nata il 17 marzo e già c’erano questi fiori. Dove adesso c’è il Panamino, che oggi è un luogo di ritrovo per i ragazzi bene, c’erano allora dei campi di bocce dove giocavamo, io, mia sorella Tonia e papà, mentre mamma stava seduta a guardarci con il suo pancione. Questo è un ricordo estremamente luminoso per me. Grazia è nata nel ’48, avevamo vissuto in modo molto drammatico e difficile tutta la vicenda della guerra, dopo la guerra c’era stato un periodo in cui mio padre aveva avuto difficoltà a ritrovare il lavoro… Il ’48 è il momento bello. Mia madre aveva fatto un voto durante i bombardamenti: se fossimo sopravvissuti tutti e se lei avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata Maria. Man mano che si avvicinava questa data della nascita, però, sempre di più diceva che questo nome non le piaceva per niente, e così alla fine, fu Maria e Grazia: Maria all’anagrafe e Grazia poi nel parlare di tutti, nel suo modo di presentarsi… Ecco, quindi, ho un po’ l’idea che Grazia fosse la figlia di un grande desiderio di vita, di cose belle, di allegria, in cui mia madre, che era abbastanza devota, in qualche modo faceva la sua piccola trasgressione giocando sul nome. E poi quando è nata… la notte tra il 16 e il 17, mio padre, che era molto superstizioso, tentò di convincere il medico a scrivere 16 però… [risate] non ci riuscì… e poi sui documenti chissà… Ora giustamente, non si crede a queste cose, però, la sua vita non è stata poi semplicissima… E poi, se n’è andata così presto…
A quel tempo non si sapeva prima se chi nasceva fosse maschio o femmina, quindi c’era una polemica fra me e mia sorella se chi stava per nascere fosse un “fantolino” o una “fantolina”, quindi per me fu una sconfitta il fatto che fosse femmina. Invece poi è stato bello, perché Grazia è stata per me, se volete, una prima figlia; papà era un uomo abbastanza impegnato, stava sempre fuori… doveva lavorare molto perché la vita era dura. Grazia è stata tanto con me e io me ne sono occupato tanto. Al tempo in cui cominciavo ad avere delle fidanzate, diciamo dai 16-17 anni in poi, io la portavo sempre con me e alcune delle fidanzate reagivano male, dicevano “Ma che c’entra questa?”. Ricordo un episodio in cui una di queste ragazze si arrabbiò e sbattè la porta della macchina con grande violenza. Io e Grazia ci mettemmo a ridere... e lei disse: “Ma che è arrabbiata con me?”, ed io: “Sì vabbè però peggio per lei…”. Grazia era parte di me, della mia vita.
Anni dopo Grazia ha deciso di fare medicina, cosa abbastanza strana perché lei era una che non studiava molto. Per tutto il liceo c’erano sempre discussioni con mio padre e mia madre. La sua teoria era che a scuola bisogna prendere sei perché non vale neanche la pena prendere sei e mezzo, una fatica… [risate] sprecata! E infatti lei uscì dalla maturità del Giulio Cesare con tutti sei e nove in condotta… E non c’era neanche un voto in più perché lei diceva “Ma a che serve?”. Per cui quando si iscrisse a medicina…, sembrava una facoltà difficile, molto impegnativa, che però lei fece molto bene. C’è stata per Grazia la voglia di fare politica e questo nella mia vita è stato molto importante. Lei faceva allora il primo o secondo liceo credo, e insieme a una sua amica, Rossella, scrissero una lettera al Corriere dello sport, in cui lamentavano il fatto che agli studenti non fosse data occasione di usare la palestra del Giulio Cesare. Questa lettera fece uno scalpore enorme, come succede a volte con delle cose piccole. Finì su tutti i giornali in prima pagina, ne parlavano la radio, la televisione, una cosa… enorme. Venne perfino un cronista de l’Unità a casa con la macchina fotografica nascosta in un accendino e fece una foto a mia madre che comparve sulla prima pagina de l’Unità, che a quel tempo non entrava a casa mia. E fu un momento in cui lei e Rossella diventarono un po’ protagoniste ante litteram di quella che ci sarebbe stata poi, questa grande ribellione dei giovani di uscire fuori dagli schemi. Può un ragazzo di 15 anni ribellarsi scrivendo a un giornale, mettendo in crisi l’istituzione scolastica? Adesso sembra una banalità assurda, però allora era una cosa nuova, forte. Rossella, l’amica con cui lei fece questa cosa, passò poi nel movimento studentesco e finì nelle Brigate Rosse, è stata in carcere per molti anni perché era una irriducibile. Grazia, invece, innamorata di Maurizio, tutto quello che tanti di voi che la conoscevano un pochino sanno, i più giovani forse no… Lei partecipò al movimento studentesco; mentre faceva medicina era trotskista, ma quello che era impossibile per lei come lo è sempre stato per me, era di collegare la violenza alla lotta politica. Io ho sempre avuto una particolare fobia per la violenza. Quando ho fatto il militare, facevo l’allievo ufficiale medico, mi misero in mano una pistola perché dovevo fare una prova di tiro; mi feci male con la mano, non è partito il colpo e l’istruttore ha capito, ha detto: “Vabbè lascia perdere non fa niente” perché… le armi… Può darsi che questo sia sintomo di un’aggressività molto nascosta, comunque [sorride] per noi è stato sempre così. Però insisto su questo punto perché la sua partecipazione al movimento studentesco in quegli anni ha rappresentato per me uno stimolo molto forte ad interessarmi alla vicenda politica; chiaramente non era solo quello, però questo movimento degli studenti che sfidava in avanti il partito comunista mi sembrava un elemento, come dire, di propulsione, un qualche cosa di positivo e di forte nella storia. C’era bisogno del Partito Comunista, a cui io mi iscrissi proprio in quel periodo… Però c’era bisogno anche di un Partito Comunista che avesse le orecchie aperte, che fosse capace di raccogliere gli stimoli che venivano da fuori. Cioè un partito è…, come dire, una cinghia di trasmissione per qualche cosa che succede nella società, non è il depositario della verità che sta lì ferma una volta per tutte; non poteva più essere il partito dell’antifascismo, doveva essere il partito del progresso, dell’andare avanti, del nuovo. Ed è proprio in quel tempo che noi ci incontriamo con la terapia familiare. Io vi leggo un attimo una frase che Grazia e Lieta hanno messo in epigrafe a La trappola della follia, ed è importante perché è una frase di Marx. La frase dice questo: «L’essenza umana non è qualcosa di astratto, immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, l’essenza umana è l’insieme dei rapporti sociali». Eh, insomma, è qualcosa di forte, che ha delle ripercussioni proprio immediate nel lavoro nostro. Perché chiamare la trappola della follia il disturbo schizofrenico del DSM-IV è una bella rivoluzione culturale! Perché, che cosa si dice? Si dice che non c’è un’essenza di malattia, ma c’è un insieme di comportamenti che sono risposte difficilmente evitabili o del tutto inevitabili, a un insieme di pressioni sociali che sono quelle del mezzo sociale in cui si cresce, si vive.
Allora questo, secondo me, è il punto in cui noi insieme – io, Grazia e tanti altri allora, ma per me la vicinanza affettiva e spirituale con Grazia era particolarmente importante – abbiamo sentito il nesso tra politica e rivoluzione culturale nella psicoterapia, perché si passava dall’individuo come essenza, che tu descrivevi e ti mettivi alla ricerca del suo genoma (genoma non si diceva allora), insomma del suo carico ereditario, o della sua storia personale – la psicanalisi – arrivava a qualche cosa che stava lì astratto, che poi dopo si poteva sì reificare, però senza agire sul contesto vivo dei rapporti. Mentre la terapia familiare prometteva da questo punto di vista una rivoluzione. E questo è stato l’entusiasmo di allora, grande. Mi ricordo queste serate, nella prima sede di via val di Cogne in cui stendevamo un documento su quella che chiamavamo la “duplice determinazione dialettica dell’individuo”, riprendendo una frase di Lukács, in cui cioè la persona è condizionata dal divenire dei processi che la determinano, però è anche potenzialmente elemento di cambio dentro questo insieme di processi… E quindi, la terapia come leva del cambiamento nella situazione interpersonale stretta della famiglia, o la politica come leva del cambiamento nella situazione dell’equilibrio sociale. Questo documento su cui discutevamo ore e ore – con Gianni Fioravanti nascosto nella nuvola del fumo e Marisa, Patrizia, Rosalba, Maurizio, siamo stati tanto tempo lì a discutere a discutere – fu poi un pochino ampliato da me e da Marisa in un libro che si intitola Psichiatria e rapporti sociali tantissimi anni fa, in cui cosa si diceva? Si diceva che la terapia familiare, o meglio la rilettura familiare interpersonale del disturbo, era l’equivalente, nel microcosmo personale, della dialettica dei rapporti sociali proposta, nei grandi livelli, dalla politica di Marx.
Intermedi tra questi due grandi livelli c’erano i discorsi in quella fase sull’Istituzione di Franco Basaglia e c’era la rivoluzione psichiatrica. Questo è il tempo, il tempo di un sodalizio ideale, emozionalmente fortissimo in cui siamo stati presi che è il ricordo più bello che ho del lavoro con Grazia. La ricerca sui fattori familiari e sociali, delle tossicodipendenze nei giovani che fu concretamente la possibilità offerta dal nemico di classe, della Fondazione Agnelli, di far partire la struttura del Centro. E poi, tante altre cose… Ma la cosa che vorrei riproporre, proprio in linea con quello che vi dicevo all’inizio, è il modo in cui Grazia insegnava la terapia. Io ho in mente una frase che lei proponeva ai suoi allievi, credo che alcuni di loro se la ricordino, quando lei diceva che il compito del terapeuta, al di là di ciò che si dice, di quello che succede, al di là dei contenuti che emergono nella stanza, è quello di trasformare una situazione in modo tale che le persone dentro la stanza smettano di piangere, di urlare, di aggredirsi e possano sorridere insieme. Lei faceva proprio delle simulazioni – le farete ancora sicuramente –, ma lei dava come compito, a chi stava in seduta, di far sorridere. E questo per me, emozionalmente, si collega a Grazia che arriva con un sorriso nella mia famiglia e nella mia vita, però è qualche cosa che secondo me resta fondamentale nel lavoro terapeutico. Perché? Perché il sorriso è risorsa. Allora noi, quando facciamo terapia, quello che dobbiamo fare è attivare risorse. Noi non dobbiamo curare nel senso medico, non dobbiamo dare farmaci sintomatici, noi dobbiamo attivare risorse perché ci sia un altro modo di stare in quelle situazioni, modificandole. La seconda parte della “duplice determinazione dialettica”. Su questa strada c’è secondo me, e questa è una ricostruzione del tutto soggettiva ed emozionale, la mia grande amicizia con Lieta. Perché Lieta era una persona con un carattere infernale, complicatissimo… e forse è una delle persone con cui ho litigato di più nella vita! Però Lieta aveva un grande humour, aveva il senso del sorriso, della soluzione brillante, del gioco. Aveva un senso ludico anche della terapia e Potere in amore, da questo punto di vista, è un’idea straordinaria, non credete? In cui però quello che voi sentite leggendo è che in primo piano non c’è il dolore, la disperazione, ma l’interesse per quello che può venir fuori mettendoli da parte: il dolore, la disperazione, la frustrazione. Non si mette l’attenzione su ciò che non va, si mette l’attenzione su ciò che può andare. Questa amicizia tra Grazia e Lieta, e poi la vita che loro per tanti anni hanno vissuto insieme con Lulù che cresceva… e questa bella casa dove stavamo sempre a vedere le partite, a giocare, a cenare, queste cene meravigliose di Lieta a base di cucina siciliana… E beh lì continua questo sorriso, questo piacere della vita e Lieta diventa un elemento importante di questa vicenda. La trappola della follia e, particolarmente, Potere in amore sono il frutto di una collaborazione spirituale fra una vivacità di Lieta, e una predisposizione più teorica di Grazia, che si sposano nella situazione concreta della terapia e della scrittura. Dal punto di vista teorico, l’affascinamento di Grazia è soprattutto per Bateson, e Bateson come voi sapete, non è un terapeuta. Bateson è un antropologo, è antropologo, scienziato osservatore, difficile da definire… Il titolo della nostra rivista, Ecologia della Mente, è frutto di un affascinamento di tutti noi per Bateson, ma Grazia è stata quella che forse con più forza ci richiamava continuamente alla riflessione di Bateson. E c’è una frase che lei ha messo in epigrafe all’ultimo capitolo de La trappola della follia che volevo rileggere con voi, perché a me sembra interessante, nel senso che ci mette di fronte a che cos’è la clinica. Dice Bateson: «Non è possibile studiare in modo conveniente le leggi della gravità osservando edifici che rovinano durante un terremoto». Perché quando le persone stanno male e vengono da noi, sono edifici che stanno crollando con un terremoto. Il clinico deve intervenire lì, non deve fare teoria. La teoria si può fare mettendo insieme tante di queste situazioni nella memoria, analizzando a distanza di tempo, vedendo i decorsi, ma teorizzare sul caso, come si fa troppo in psicoterapia, è secondo me un grosso problema. Credo che quello che è importante è risolvere i problemi; l’altra citazione forte, continua, di Lieta e Grazia è Jay Haley: «il piacere del tentativo di risolvere i problemi».
Un’ultima osservazione… noi siamo in tanti qui, ed è una cosa bellissima; siamo in tanti anche come Centro Studi, siamo in tanti anche a pensare le cose su cui con Grazia e Lieta ci siamo impegnati. Però siamo in pochi. Perché il modo in cui i problemi umani vengono affrontati – il disturbo schizofrenico, le difficoltà sessuali nella coppia, per stare sui temi di cui si discuterà oggi, ma insomma nella grandissima parte dei casi – è disastroso… C’è veramente da avere paura di quel che succede intorno a noi. Allora io credo che noi abbiamo, oggi come allora, e anche sulla base del ricordo che portiamo con noi, una grande missione da compiere, che è quella di far crescere queste idee, perché è importante dire essenzialmente due cose: uno, che la sofferenza umana va rispettata, incontrata, ascoltata, raccolta, trasformata. Due, e questo va proposto di nuovo con forza alla politica, che questo è l’unico modo in cui si fanno anche dei risparmi in chiave economica. Perché purtroppo, il maltrattamento istituzionale dei bambini, la psichiatrizzazione dei pazienti, procura danni che poi ricadono sullo Stato Sociale. Cronicizzare un paziente invece di aiutarlo a ridiventare persona, attirando le sue risorse, significa condannare la società a spendere una quantità spaventosa di soldi, che potrebbero essere meglio impiegati nella formazione dei terapeuti, nella crescita delle occasioni di scambio. Allora io vi dico questo perché secondo me, anche se non è più il mio tempo per farlo, è importante che ci sia qualcuno che riprenda in mano questa bandiera politico-culturale, e la riporti nella società. Non possiamo essere governati solo dagli economisti! Non possiamo avere una sanità di cui si parla solo perché si fanno tagli, furti e imbrogli… e una psichiatria che non tiene conto di tutto quello che abbiamo visto e capito, distribuendo solo farmaci e quel tipo speciale di violenza che il paziente subisce quando chi dovrebbe ascoltarlo non lo ascolta. Basta! Io penso che noi abbiamo delle cose da dire, e sono importanti, e le dobbiamo anche a queste due donne straordinarie. Concludo… se volete con un ricordo ancora molto personale… perché… ho avuto in qualche modo, sì, anche una fortuna, dolorosa, ma fortuna, di accompagnare la morte di tutte e due. Lieta… ha detto il mio nome e mi è venuta incontro ed è morta poggiandosi sulla mia spalla. Grazia poco dopo avermi chiesto “Luigi, ma abbiamo davvero fatto tutto quello che si poteva per me?” e io le ho detto di sì e lei ha avuto la capacità straordinaria di salutare tutti noi, con una dignità, una dolcezza, un affetto, che sono rimasti nel mio cuore sempre. E credo che questa modalità leggera, dolce di andarsene, arrendendosi a un destino… stupido, che era comunque il suo destino, è stata la lezione più grande. Ci si può voler bene, si può avere lo sforzo del sorriso, del piacere della vita, la condivisione, anche nel momento in cui ce ne andiamo. Questo secondo me è il messaggio più forte che viene sulla maturità delle persone che ricordiamo oggi e che tanto ci hanno insegnato anche attraverso questo. Grazie.